La rendicontazione dei propri tagli

Vincenzo Andraous

Non sono un giudice, nè una vittima, ma non sono neppure un ipocrita: gli anni trascorsi in carcere, i nuovi gesti, gli atteggiamenti e i comportamenti di tutti i giorni, nel tentativo di svolgere prevenzione e contemporaneamente essere un uomo migliore, mi costringono a dire qualcosa sul detenuto che, condannato all’ergastolo, ha ingannato se stesso e quelli che hanno creduto in lui.
Non conosco la sua storia personale, non esprimerò giudizi, vorrei però dedicargli una riflessione.
Quando l’uomo del reato attraversa il confine che delimita lo spazio dell’uomo della pena, egli non può non fare i conti con una revisione critica del proprio passato-vissuto, non può non sostenere a sguardo in alto, il carico di un mutamento interiore, non può non scegliere l’unica via concessa dalla propria coscienza, una nuova condotta sociale.
Questo è il percorso su cui poggia, per intero, quel patto di lealtà che la collettività ti ha concesso e affidato.
Vorrei aggiungere che altri tre sono i passaggi che conducono a una consapevolezza che non piega di lato: la Solidarietà che hai ricevuto, non può essere quella “ridotta” ai soli buoni sentimenti, ai gesti buonisti, ma quella costruttiva, quella che scarta a priori le attenzioni prettamente accudenti, falsamente protettive, e invece privilegia l’attenzione sensibile, quella che attraverso sensibilità diverse approda a obiettivi comuni. In questo senso e solo in questo modo la solidarietà ricevuta spinge al cambiamento, all’emancipazione dai recinti di filo spinato che circondano un vissuto profondamente sbagliato.
Se questa è la via maestra, allora è qui che si incontra un’altra compagna di viaggio, la Giustizia, quella che traccia un nuovo punto di partenza per ognuno, e ci fa muovere e schierarci dalla parte del bene e del finalmente giusto.
In questo viaggio di ritorno lento e sottocarico, accompagnato da solidarietà e giustizia, nel tentativo di riparare al male fatto, trova prossimità il dovere di cittadinanza, per ritornare davvero a fare parte del consorzio civile, per appartenere a qualcosa, alla comunità, alla mia città, con le responsabilità che “insieme” cercano di assolvere ai bisogni dell’altro.
Per ben camminare è necessario sapere rispettare se stessi e convintamene gli altri, con quel rispetto che non è ossequioso, deferente, riverente, assai in uso in certi agglomerati umani del disvalore, quel rispetto che non è possibile insegnare, ma si apprende attraverso l’esempio di quanti, sebbene da posizioni differenti, non si tirano indietro per unire ciò che si è rotto, attraverso quanti con il proprio impegno sottolineano l’equilibrio necessario per una consapevole rendicontazione dei propri tagli.
Attraverso quanti innanzi a noi ci accompagnano a ritrovare e ricostruire noi stessi.

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