Trucco, maschera del viso

di Maddalena Giovannelli

Tratto dal catalogo della mostra fotografica: Tra un manifesto e lo specchio. Aristi in camerino di Giuseppe Nicoloro.

L’attore tragico, nella Grecia antica, si presentava in scena completamente trasformato: indossava un lunghissimo e sfarzoso abito, ai piedi alte scarpe che gli conferivano una statura innaturale, sul viso, naturalmente, la maschera. Questa era, probabilmente, innanzi tutto una macchina fonica, che permetteva di recitare in spazi ampi davanti a 10.000 spettatori. Ma era anche il mezzo tramite il quale un semplice cittadino ateniese smetteva di essere tale per divenire un eroe del mito, Eracle, Medea o Agamennone; o la chiave per uscire dalla vita quotidiana ed entrare in una dimensione altra, quella del teatro. L’attore sul palco non aveva aspetto umano: diveniva funzione del racconto o, come ha scritto il regista Massimo Castri, un enorme e affascinante burattino; a nessuno interessava intravedere (seppure in controluce) l’essere umano che si nascondeva dietro la maschera.
Da Stanislavskij in poi, al contrario, si chiede all’attore di mostrare se stesso con autenticità e senza veli; di offrire i propri difetti e le proprie insicurezze senza pudore e di metterli al servizio del personaggio e del pubblico; di mettere in gioco il proprio vissuto per cercare un’identificazione emotiva totale con il personaggio interpretato e una ricostruzione dettagliata della sua interiorità.
Così ogni Amleto sarà diverso da un altro, ma sarà anche più autentico; così ogni Amleto sarà Amleto, ma sarà anche un po’ l’attore che gli presta generosamente corpo, viso, voce ed emozioni. Così sul palco vedremo il personaggio; ma saremo anche affascinati dall’essere umano che lo recita.
L’attore del ‘900 è nudo sul palco: mostra nervi cuore e corpo senza poterli nascondere dietro una maschera. L’ultimo rifugio, l’unico nascondiglio, ogni artista lo deve costruire con cura nel camerino prima di ogni rappresentazione, con pennelli e spugne. E’ così la cerimonia del trucco – ultimo frammento della vecchia maschera – è anche una sorta di accesso rituale alla realtà del teatro: in camerino resta la quotidianità, tra un ombretto e una matita per gli occhi, e l’attore entra in scena.

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