Febbraio 2008

L’arma del dubbio

di Ghismunda

Il litigio, l’ennesimo, era stato violento. Il padre l’aveva ripetutamente colpito. Il ragazzo, fuori di sé, esce e va a comprare un coltello a serramanico. A mezzanotte e dieci, il vecchio dell’appartamento sottostante sente urlare: “T’ammazzo! T’ammazzo!”. Subito dopo un tonfo e qualcuno fuggire a precipizio per le scale. Il vecchio non ha dubbi: a gridare e a scappare è stato il ragazzo. Anche un’altra vicina non ha dubbi: lei ha visto tutto. Dalla sua finestra, che dà immediatamente nella casa della tragedia, lei ha visto il ragazzo infilare il coltello nel petto del padre e fuggire. Siamo a New York, nel 1950. Per i dodici giurati chiamati a decidere della condanna a morte, sembra un caso facile: movente e prove schiaccianti. Tutti sono convinti della colpevolezza del ragazzo. Tutti, tranne uno. E il verdetto dev’essere unanime.

E’ questo l’inizio di “La parola ai giurati“, dramma giudiziario di Reginald Rose, reso celebre nel 1957 dalla trasposizione cinematografica di Sidney Lumet e dall’interpretazione indimenticabile di Henry Fonda. Ora il dramma vive a teatro, grazie alla bella regia e all’intensa interpretazione di Alessandro Gassman. E’ lui il giurato n. 8, l’unico a non avere fretta (nonostante la partita che sta per iniziare e gli impegni familiari di ciascuno), se si tratta di decidere della vita di un altro uomo, nella fattispecie un portoricano di sedici anni accusato di parricidio, e l’unico che, pensando e ragionando, matura dei dubbi. Dubbi che finiranno con l’attecchire negli altri giurati, investendo più in generale le modalità e le circostanze che influiscono nella formazione di giudizi (e pre-giudizi) in persone con idee, vissuti e provenienze diverse; investendo più in generale il complesso rapporto tra realtà e apparenza, tra ciò che si vede o che si pensa di vedere, fino a capire che ogni certezza che si può avere non è altro che una convinzione solo più… convinta di altre. Una persuasione, un’opinione. Troppo poco, sinceramente, per decidere una volta per tutte chi ha ragione e chi ha torto; soprattutto, troppo poco per decidere chi deve vivere e chi deve morire. Eppure il mondo, e la società italiana, oggi sembrano andare in direzione opposta: “In un’ epoca in cui il mondo è afflitto da ideologie contrastanti che si nutrono di assolutismo e che spesso scadono a pregiudizi – dice Alessandro Gassman – il ragionevole dubbio è una preziosa arma di difesa … Ho scelto questo testo perché ho la sensazione che l’ anima del nostro paese stia cambiando. L’ Italia non è mai stata razzista, eppure sempre di più vedo in giro le reazioni barbare dell’ anticultura, della paura generalizzata di coloro che sono diversi da noi. Vorrei vivere in un paese con la memoria più lunga, visto che tra le minoranze etniche in America c’ erano gli italiani. E che imparasse ad accogliere civilmente gli stranieri”.

In clima di moratoria universale, il lavoro di Gassman, per altro concepito in tempi non sospetti, è diventato ancora più attuale di quanto già consentisse il testo di Rose. Gli abolizionisti della pena di morte adducono note motivazioni di carattere etico-filosofico che investono ideali e principi, ed altrettante note motivazioni di carattere pratico, legate all’inefficace ricaduta, in termini di deterrenza e criminalità, dell’applicazione della pena capitale. Ma poco, forse, insistono su un aspetto agghiacciante ed ineliminabile: la possibilità di mandare a morte persone innocenti. Amnesty International, patrocinatore dello spettacolo, mette a disposizione un’ampia documentazione, relativa a tutti i paesi mantenitori e in particolare agli Stati Uniti, su casi di condannati a morte prosciolti perché innocenti, ma dopo aver trascorso anni e anni nel braccio della morte ed essere giunti, più d’una volta, ad un passo dall’esecuzione. L’esempio più recente risale all’8 gennaio scorso, quando è stato liberato Kenneth Richey, condannato a morte nel 1986 (!) per aver appiccato un incendio in cui perse la vita una bambina di due anni. Più di vent’anni, più della metà della sua vita, ad aspettare l’esecuzione di fronte ad un’evidente mancanza di prove circa il carattere doloso dell’incendio; ma si può citare anche il caso di Aaron Patterson (anche lui in carcere dal 1986), liberato nel 2003, perché è stato scoperto (o semplicemente rivelato) che la sua confessione era stata estorta dalla polizia con la tortura. Ma non sempre si arriva in tempo. Si registrano casi di giustiziati per reati di cui solo ad esecuzione avvenuta salta fuori il vero colpevole; e di condannati, mandati a morte nonostante seri dubbi sulla loro colpevolezza. Le circostanze alla base di tali errori, certi o probabili che siano, comunque irreversibili ed irreparabili, sono sempre le stesse e tutte ben evidenziate nella trasposizione teatrale a cui ho assistito ieri: un’assistenza legale inadeguata, come quella che solo possono ottenere persone indigenti, affidate ad avvocati d’ufficio inesperti, demotivati e malpagati; la particolarità del crimine: quanto più è efferato e produce come vittime genitori, figli o comunque inermi incolpevoli, tanto più cresce la “fretta” di far giustizia, di trovare presto un “mostro” da guardare morbosamente (a costo di far la fila per il biglietto) e che, con una punizione esemplare, soffochi paure, insicurezze, identificazioni inconsce e magari, come succede spesso negli Stati Uniti, garantisca un successo elettorale; l’utilizzo spesso di testimoni inattendibili, solleticati da un’occasione di protagonismo o semplicemente suggestionati da visioni e sospetti; la presenza di pregiudizi razzisti o della fobia dello straniero, comunque del diverso, che attenta alla nostra incolumità. Tutto ciò può variamente influire su un verdetto di colpevolezza che, avendo come esito la pena capitale, assume le caratteristiche di una decisione “divina”, senza per questo essere però infallibile; una decisione che, soprattutto, non riporta in vita chi non c’è più.

Chissà, forse anche un’opera teatrale può contribuire a porre fine definitivamente alla barbarie.

La voce di Ghismunda, 18 febbraio 2008

L’arma del dubbio Leggi tutto »

Protestantesimo e differenza sessuale: storia di un incontro

Maria Paola Fiorensoli
Luce Irigaray la definì “forse l’unica grande rivoluzione riuscita del Novecento”. Parlava del percorso di movimenti femministi che avevano introdotto il pensiero della differenza e allargato lo sguardo a tutte le componenti e le variabili dei vissuti, ripensando il mondo.

Che cosa succede quando il pensiero della differenza incontra un percorso di fede, si è chiesto un gruppo di donne diverse per età, lavoro, formazione professionale e inserimento nelle chiese, gravitante intorno alle Valle Valdesi? Dopo un lungo confronto e scavo, nel partire da sé, Sabina Baral, Ines Pontet, Giovanna Ribet, Toti Rochat, Francesca Spano, Federica Tourn e Graziella Tron, hanno pubblicato La parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi, aggiungendovi le riflessioni di Franca Long “sull’altra metà del cielo”, di Daniela Di Carlo sul pastorato femminile, di Bruna Peyrot sui linguaggi di confine (memoria e identità tra storia e letteratura) e altre. Nelle sue tre parti (Da dove veniamo; pensiero della differenza sessuale e ricerca teologica; storia e genealogia), e nella postfazione dedicata alla nascita del libro, le curatrici “esplorano il territorio dei padri per incontrare l’ombra delle madri”, recuperando “la complessità delle vite umane”, “le parole della riscossa del movimento delle donne” ed esperienze di un passato vicino e lontano.

Il rimando al Museo della donna del Serre (Val d’Angrogna, Torino), aperto, nel 1990, dall’Unione femminile valdese locale dopo una significativa ricerca sulla propria genealogia femminile valdese e protestante, fa emergere maestre, balie, diaconesse, istitutrici, emigrate, missionarie, operaie, contadine attraverso oggetti, diari, lettere, fotografie. Più lontano l’incontro con le valdesi medievali; più recente quello con le suffragiste.

L’ampio spazio dedicato “alle portatrici del femminismo dell’uguaglianza e del pensiero della differenza”, nel secondo dopoguerra, offre un percorso critico e autocritico, che nomina le contiguità e le divergenze con le donne della Libreria di Milano e della Comunità filosofica di Diotima, di Verona, cui è tributato “un debito di pensiero” per il forte senso di liberazione per le donne; la distinzione tra autorità e potere; il carattere politico fondamentale della relazione tra donne che permette di superare l’amicalità selettiva e appartenere al genere che annulla le differenze.

Forti della ricchezza ermeneutica del partire da sé, le curatrici analizzano, con “riconoscenza critica” le “resistenze interiori” all’origine delle divergenze con il pensiero della differenza, attraversando la tradizione protestante per rintracciarne le cause: diversità delle rispettive formazioni teologiche; diffidenza verso l’affidamento in generale per la fortissima valorizzazione della libertà di coscienza individuale; polemica antiritualistica; difficoltà, di chi è portatrice di una lunga tradizione, d’accettare le scoperte del discorso sull’ordine simbolico; timore di confondere la dimensione simbolica con quella dell’immaginario; esperienza storica di comunità perseguitata e poi tollerata che spinge a privilegiare il concetto di responsabilità e osteggiare l’estraniazione.

Ribet G., Rochat T., Spano F., Tourn F, Tron G.
La parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi.
Torino: Claudiana, 2007; Isbn 978-88-7016-705-4.

Il paese delle donne, 13 febbraio 2008

Protestantesimo e differenza sessuale: storia di un incontro Leggi tutto »

Miracoli

grm.jpg

Come i romanzi e i racconti di Gian Ruggero Manzoni, insieme ad una carica ironica e provocatoria, presentano un sottofondo poetico e visionario e i suoi testi poetici evocano situazioni narrative, così le opere di pittura sono brani visivi che raccontano vicende e storie, senza mai risolversi nell’episodio aneddotico
Exibart.com

Spazionove, in collaborazione con ASCOM ARTE Lugo vi invita all’inaugurazione della mostra “Miracoli” di Gian Ruggero Manzoni.
L’inaugurazione si terrà domenica 24 febbraio 2008 alle ore 17 nella sede del Palazzo del Commercio – Sala Lino Longhi a Lugo, Via Acquacalda 29.
La mostra proseguirà fino al 16 marzo 2008, con orari:
martedì e giovedì 15.00 – 18.00
sabato e festivi 15.00 – 19.00

Miracoli Leggi tutto »

L’urlo ora s’è disperso

di Vincenzo Andraous

A 14 anni non si pensa al carcere, ti ci trovi “dentro” improvvisamente e ne sei respirato e concluso. Sì, ti ci trovi dentro ed é davvero troppo tardi. L’età più bella improvvisamente devastata nell’incontro affascinante e frontale con il mito della trasgressione.
Io me lo ricordo bene, ero impegnatissimo a fare vedere alle Autorià di essere un duro, e quando mi stavano portando nel “mio” primo carcere dei minorenni ho pensato ” ecco sto per iniziare finalmente”.
E’ tutto accaduto in una vita precedente? No, é stato ieri.
Quando vago con la mente tra questi fotogrammi impolverati e ingialliti dal tempo, rivedo la mia immagine scomposta e inquieta, mentre i pensieri mi cadono addosso e raccoglierne i cocci è un’ardua impresa.
Gli anni sono trascorsi, uno dopo l’altro, passo dopo passo, uno scarpone chiodato dopo l’altro, fino a giungere a ‘quell’urlo” che ha squarciato la notte.
Qull’urlo che ho tenuto compresso in me, sorvegliato a vista dalla mia incredulità, contenuto nei miei tormenti, divenuto un dono prezioso da custodire.
Svegliarmi nel buio, nel mezzo di una tempesta silenziosa, e due occhi bellissimi scrutarmi, scuotermi. Due occhi lucidi e profondi come l’anima che traspare al di là della coscienza, della ragione che indaga e accusa. Con le mani fredde ed il cuore in gola, il respiro che non esce, il dolore nei polmoni salire alla gola e fare fatica a respirare.
Affannosa ricerca di boccate d’aria mute, imprigionate, incatenate in attimi intensi di vuoto e di pieno, di vita sospesa.
Due occhi come lune inchiodate, un volto che non conosco, ma che sento tutt’intorno.
Due occhi che piangono, rimangono aperti e si distendono verso di me.
Nel silenzio di pietra della cella, I’urlo fuoriesce e taglia di netto il sentiero praticato a occhi bendati, sgretola le abitudini consolidate, i sussurri che impongono i piedistalli e le parole a paravento che non stanno scritte da nessuna parte.
L’urlo esce, assorda, mi discosta e cancella la mia cella, le altre celle, i muri e gli steccati.
L’urlo si espande, rimbalza, si piega, prosegue e non smette la sua corsa, neppure quando sono caduto in ginocchio, spossato, svuotato di me stesso.
Quegli occhi sono sempre lì, velati di pianto, addolciti da un sorriso leggero, come a voler ridurre la distanza siderale che mi separa da questo reale intorno.
Occhi grandi, lucenti, lacrime che parlano di una tristezza felice, di una gioia che non conosco e invece vorrei avvicinare, occhi che rimangono a osservare la mia sorpresa, la mia fragilità.
Occhi bellissimi vestiti di speranza, sguardi che consentono di ricostruire e ritrovare l’uomo, sebbene nella fallibilità umana.
Quella notte sono rimasto in ginocchio tanto tempo, in una sorta di terra di nessuno, sbattendo il viso contro una specie di cortina fatta di barriere materiali e psicologiche, costretto fors’anche dalla mia ostinazione a vivere del mio, in una tragedia che non ha fine, con un passato che assomiglia ad una sera senza luce dove non si può leggere, solo ricordare.
L’urlo ora s’é disperso, quegli occhi tanto amati sono svaniti.
I giorni, e gli anni si inseguono testardi, mi adagio sul futuro che per me é già oggi, in un presente contenuto nel passato, poiché ogni volta che si progetta qualcosa si modifica e si rilegge il proprio passato con occhi e sguardi  nuovi.

L’urlo ora s’è disperso Leggi tutto »