Settembre 2008

Lettera aperta al Ministro Gelmini

Lettera aperta alla Ministra Gelmini dalla dirigente della scuola primaria I. Masih di Roma

Simonetta Salacone

Gentile Ministro, sono la Dirigente scolastica di una Scuola Primaria di Roma, la «Iqbal Masih», ormai vicina all’età della pensione. Assisto con vera angoscia alla morte annunciata della scuola del Modulo e del Tempo Pieno.
Questa scuola Elementare riformata noi «anziani» maestri l’abbiamo costruita giorno per giorno.
Partivamo, è vero, da una scuola che già funzionava con buoni risultati, ma che si trovava a far fronte, per prima fra tutti gli ordini, a nuove sfide e problemi: l’inserimento dei disabili, l’integrazione in tempi brevi di massicce quote di alunni immigrati, la progressiva crisi delle famiglie e dei contesti sociali, l’emergere di nuove forme di povertà e marginalità.
Contemporaneamente eravamo chiamati a sostenere l’impatto con la società multimediale, dove, intorno agli alunni, un grande e vorticoso rumore mediatico proveniente da un orizzonte globalizzato sostituiva la calma lenta del fluire del tempo e il ricorso rassicurante degli eventi familiari.
Sono entrati, fra gli alfabeti in cui istruire gli alunni, quelli delle immagini, dei suoni, del movimento.
Si sono dilatati gli spazi geografici e gli orizzonti storici, mitologie di popoli lontani si sono aggiunte a quelli a noi consuete; abitudini e culture diverse sono improvvisamente diventate contigue, prima attraverso il telecomando TV, poi con la presenza fra noi di nuovi cittadini, di colore diverso e che parlavano tante lingue e portavano fra noi storie di viaggi, gioie e fatiche, speranze e sogni da realizzare insieme a noi e ai piccoli compagni italiani.
La scuola è diventata fucina di nuova cittadinanza e presidio prioritario per prevenire razzismi, egoismi, separazioni, emarginazioni.
Per fare tutto questo occorreva tempo, tempo, tempo….
Tempo per ascoltare tutti i bambini, accogliere le loro ansie e le loro curiosità, aiutarli a «raffreddare» le esperienze e a mettere ordine e dare senso all’enorme quantità di nuove conoscenze ed esperienze che quotidianamente andavano facendo.
Tempo di ascolto dei genitori.
Tempo per lo scambio comunicativo fra gli alunni, perché potessero apprezzare le diversità di pensiero e di atteggiamenti presenti nelle classi e crescere attraverso il confronto.
Per fare tutto questo occorrevano anche tante competenze diverse, che non potevano essere patrimonio di un unico maestro, per quanto colto e dotato di buon afflato pedagogico.
Ma questi maestri, a cui si chiedeva di intervenire per educare ed istruire bambini diversi e più curiosi, dovevano essere capaci di lavorare insieme e di affinare le loro capacità di riflessione adulta, per non disorientare gli alunni con interventi divergenti.
A questi maestri del «team» veniva affidato il compito di far affiorare lentamente e sempre più consapevolmente i diversi quadri disciplinari, come punti di vista molteplici attraverso i quali i bambini avrebbero potuto osservare e riorganizzare la realtà.
Tutto questo abbiamo sperimentato e realizzato in questi ultimi trent’anni, quasi sempre con risultati eccellenti.
Non abbiamo ampliato il tempo scuola per venire incontro alla crisi occupazionale..
Non abbiamo sperimentato la pluralità docente per lavorare di meno e in più persone.
Fa molto male sentir dire dal nostro Ministro, come ieri è avvenuto nella trasmissione «Porta a Porta» che «…se un docente sta in classe, altri due stanno fuori a non fare niente» .

Non possiamo permetterci una scuola di eccellenza, ma costosa?
Diciamolo: non inventiamo altri motivi.

Il «pedagogista» di riferimento per il nostro Ministro è il Ministro delle Finanze.
Stupisce la leggerezza, il pressappochismo, l’ignoranza di quanti, senza la minima competenza professionale, si esprimono sull’educazione delle nuove generazioni e sulla scuola.
Tornare indietro significherà umiliare la cultura dei docenti della scuola primaria, ma, soprattutto, far regredire il Paese.
Tagliare sulla Scuola di tutti è grave per la coesione sociale del nostro Paese, per la sua cultura e per il futuro dei nostri figli.
Nella nostra scuola è iniziato un movimento di protesta e mobilitazione fra docenti e genitori. Mi auguro che esso cresca e apra la riflessione nella società.
Mi auguro che lei voglia ascoltare chi la scuola la fa tutti i giorni, con passione e serietà.
Le chiedo, a nome di tanti docenti di ritirare il decreto e di presentare un disegno di legge che permetta, senza l’ansia dei tempi brevi e il ricatto del voto di fiducia, di aprire un ampio dibattito in Parlamento e nel Paese tutto Con tanta amarezza, ma anche con la speranza che voglia accogliere il mio appello, la saluto Simonetta Salacone

roma 23 settembre 2008

Coordinamento genitori-insegnanti «Non Rubateci il Futuro», 126° Circolo didattico, Iqbal Masih, Municipio VI (via Ferraironi, 38) , Roma

Contro la Riforma della scuola del Ministro Mariastella Gelmini:

http://scuolaschool.spaces.live.com

http://maestrounico.blogspot.com

Il Paese delle donne, 24 settembre 2008

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La Patria che non c’e’

di Ghismunda

“La Patria vera è una comunione di liberi ed eguali, affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. Voi dovete farla e mantenerla tale.  La Patria non è un aggregato, è una associazione.  Non v’è dunque veramente Patria senza un Diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel Diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze, dove l’attività di una porzione delle forze e facoltà individuali è cancellata o assopita, dove non è principio comune accettato, riconosciuto, sviluppato da tutti: v’è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita d’uomini che le circostanze riunirono, che circostanze diverse separeranno… La Patria non è un territorio; il territorio non è che la base. La Patria vera è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati, finché un solo, capace e voglioso di lavoro, langue, per mancanza di lavoro, nella miseria, voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la patria per tutti“. (G. Mazzini, Scritti politici)

E infatti, caro, inattuale Mazzini (chi lo legge più?), l’Italia non è una Patria. Non può esserlo il paese del lodo Alfano, delle ampolline del dio Po, delle miss a tutte l’ore, dei maestri “tagliati” e vilipesi, degli “sporchi negri” ammazzati, dei caduti nel lavoro, dei senza-lavoro, dei tanti e tanti privi di rappresentanza in Parlamento. No, la Patria non c’è: al suo posto, anguste patrie di egoismo, minuscole roccaforti di sicurezza, gretti municipalismi esasperati. Divisi da un muro, una strada. Dall’ignoranza. Dall’orto di casa, dal pianerottolo. Gelosi e diffidenti. Impauriti. E soli. Bacchettoni e ipocriti. Insicuri, nelle braccia di Uno. No, questa non è la “mia” Patria. Questa è solo l’Italia.

La voce di Ghismunda, 18 settembre 2008

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E il Novecento finisce su una nave dei clandestini

di Ines Valanzuolo

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli: il 900 in sette storie di donne.

L’ultimo libro di Maria Rosa Cutrufelli “livre de chevet” non da “ombrellone”, in quattrocentosessanta pagine ricostruisce momenti particolari della storia del Novecento. D’amore e d’odio – come dice il titolo del libro – ma anche di speranze e tenerezza è fatta la storia d’Italia che sette donne ci consentono di conoscere e in parte rivivere.

Nora, Elvira , Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina contemporaneamente sono generanti, generate e maieutiche di una data indimenticabile della storia italiana del Novecento: dal 1917, anno della sconfitta di Caporetto, via via al 1922 dello squadrismo fascista a Torino nella cosiddetta “ notte di San Bartolomeo” contro le organizzazioni operaie, al 1943/46 dell’Italia del Sud tra l’armistizio e la fine della guerra, al 1972 di Bologna di operaie, studentesse e probabili connivenze tra il movimento studentesco e le Olimpiadi del “massacro” di Monaco, al 1989 della caduta del muro di Berlino, al 1994 del litorale ionico a nord di Siracusa, tra il disastro dell’inquinamento industriale e del terremoto, fino al 31dicembre del 1999 e la tragedia dei clandestini.
In un lingua italiana fluida, in cui il lessico dello storico, della passione politica, accetta di ammorbidirsi nella semplicità del quotidiano, nella tenerezza dell’amore, di registrare rapidi spostamenti nel tempo e nello spazio con semplici intercalari dialettali, é un romanzo storico complesso.
Il vero storico è rappresentato dalla complessa e circostanziata ricostruzione di un avvenimento particolare del Novecento, nel quale si delinea di volta in volta il vero poetico di una figura femminile che accelera il processo storico in atto, non tanto partecipando, quanto portandovi un di più di intelligenza, ricerca, coraggio, rompendo schemi, ordine sociale, convenzioni.

E così Nora, di famiglia atea, militante pacifista, dopo la morte del marito da cui si era separata perché interventista, nel 1917 va come infermiera volontaria al fronte con la Croce Rossa. Guardata con sospetto come disfattista, denunciata dal Cappellano militare ad una ispettrice, nel dolore della morte e delle ferite che cura coscienziosamente non cerca l’espiazione per il suo comportamento nei riguardi del marito ma, nel culmine del disastro bellico, in corsia, osando dire ”bisogna avere il coraggio di chiamarli per quello che sono: morti, non caduti. Morti ammazzati…….Nora ha trovato la conferma delle sue ragioni e del torto del marito Matteo Fenoglio che era socialista ma aveva accettato la guerra..” e la forza di continuare la sua attività politica.
La stessa tecnica narrativa è intrigante e complessa “suggerita”, dichiara l’autrice, da Abraham B. Yehoshua: le vicende sono ricostruite da un personaggio che narra e risponde a domande e ragioni di un interlocutore le cui parole non sono scritte ma solo ascoltate, intuite e spesso mentalmente formulate anche da chi legge emotivamente coinvolto.
Queste donne quindi sono tutte raccontate da altri, spesso uomini, solo l’ultima, Delina, rispondendo per posta elettronica “diventa testimone di se stessa”.
Alla fine del secolo, dicembre 1999, fotografa inviata a Crotone per seguire le vicende di 300 curdi raccolti nel Mediterraneo in attesa di permesso di sbarco, riesce ad accettare la sua storia di figlia di un italiano e di una albanese, abbandonata alla fine della seconda guerra mondiale. Il percorso ormai è segnato dalle donne che l’hanno preceduta e finalmente può raccontarsi. Ricorda: sulla nave dei clandestini in attesa “Fu come infilarsi in uno strappo della realtà…..m’infilai là dentro e navigai all’indietro..” e nel presente, perché tra quei clandestini ritrova lo stesso “odore caldo e fradicio della treccia di sua madre”, odore che” adesso arriva a folate da ogni angolo del Mediterraneo.”
E il Novecento su quella nave nel Mediterraneo è veramente finito.

Maria Rosa Cutrufelli – D’amore e d’odio. Editore Frassinelli

Il Paese delle donne on line, 8 settembre 2008

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Ong chiedono alla Commissione europea di chiarire la propria posizione sulle politiche italiane relative ai rom

Comunicato stampa

La EU Roma Policy Coalition (Erpc), una coalizione informale di organizzazioni non governative che si occupano in ambito europeo di diritti umani, antidiscriminazione, antirazzismo, inclusione sociale e diritti dei rom e dei travellers, ha affermato oggi che la posizione della Commissione europea sulle recenti politiche italiane relative ai rom necessita di essere chiarita.
L’Erpc si e’ dichiarata preoccupata per i commenti resi dal portavoce del commissario Barrot, che ad oggi rappresentano l’unica risposta pubblica al rapporto inviato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni alla Commissione
europea.
Secondo l’Erpc, la Commissione europea pare aver assunto la piu’ limitata delle posizioni, accettando una versione ‘soft’ delle misure inizialmente attuate dal governo italiano, misure che sono state duramente criticate in quanto discriminatorie e contrarie ai diritti umani da parte del Consiglio d’Europa, della societa’ civile e della stessa Commissione europea.
L’Erpc teme che questo approccio mandi un segnale pericoloso, specialmente in Italia dove la retorica e gli atti ostili ai rom hanno gia’ raggiunto livelli inaccettabili, come gli incendi di campi da parte di gruppi di facinorosi. Questa realta’ pare assente dall’attuale interpretazione della Commissione europea, secondo la quale il censimento delle comunita’ rom e’ accettabile come soluzione estrema, sebbene un censimento effettuato su base etnica sia evidentemente una pratica discriminatoria.
In nome della trasparenza, e’ nell’interesse della Commissione europea fornire una spiegazione adeguata sulle proprie conclusioni e rendere pubblica tutta la documentazione pertinente.
Mentre la Commissione europea si prepara a ospitare un summit che dovrebbe affrontare il tema dell’esclusione dei rom in Europa, e’ indispensabile che non vi siano malintesi sulla sua posizione riguardante i diritti fondamentali dei rom che vivono in Europa.
Pertanto, l’Erpc chiede alla Commissione europea di: rendere interamente pubblico il rapporto del ministro Maroni e le note esplicative su cui ha basato il proprio giudizio; chiarire se la risposta a tale rapporto implica un ‘via libera’ alle azioni e alle misure in fase di attuazione, tra cui gli sgomberi forzati e le affermazioni degradanti o razziste di
autorita’ pubbliche; infine, affrontare le  questioni relative ai rom dal punto di vista delle politiche d’inclusione sociale e non da quello delle preoccupazioni per la sicurezza.

Brussels, 9 settembre 2008

Fanno parte dell’EU Roma Policy Coalition (Erpc): Amnesty International, European Roma Rights Centre, European Roma Information Office, European Network Against Racism, Open Society Institute, Spolu International Foundation, Minority Rights Group International, European Roma Grassroots Organisation, Roma Education Fund e Fundación Secretariado Gitano.

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Che prezzo ha il (dis)onore?

Per le donne palestinesi in Israele il prezzo dell’onore è ancora troppo alto

scritto per peacereporter da Margherita Drago

L’11 marzo 2008 una ragazza di 19 anni veniva quasi uccisa da suo fratello, nel suo villaggio di Na’ura, vicino ad Afula in Galilea. L’omicidio era stato pianificato da tempo ma, per fortuna, la ragazza si è salvata la vita fingendosi morta dopo essere stata ferita alla testa da una pallottola. Il fratello, preso in consegna dalla polizia, è stato applaudito e lodato per la sua coraggiosa azione dalla famiglia e dalle persone presenti alla scena. Il 16 marzo 2008 Sara Abu Ghanem 40 anni, è stata ferita in un altro tentato omicidio a Jawarish, quartiere di Ramla vicino a Tel Aviv. Aveva divorziato dal marito e voleva rendere ufficiale la sua relazione con un altro uomo, di religione ebraica. In sei anni Sara è la nona vittima d’onore nella famiglia Abu Ghanem. 8 donne prima di lei sono state uccise. Entrambe le storie testimoniano gli ultimi crimini d’onore registrati nel 2008 tra la comunità palestinese in Israele.
In Israele le donne palestinesi sono sottoposte a tre diversi tipi di discriminazione, che si sovrappongono come degli strati sotto la quale la vittima viene seppellita. La prima discriminazione avviene in tutto il mondo per lo stesso motivo: sono donne. In secondo luogo sono donne palestinesi in Israele, e per questo cittadine di serie B, in un paese dove la loro cultura e storia collettiva non viene riconosciuta: i palestinesi in Israele vengono indicati come arabi israeliani, denominazione che generalizza appositamente la presenza palestinese in Israele. In terzo luogo sono donne palestinesi e come tali discriminate nella stessa comunità araba di appartenenza.
La minoranza palestinese in Israele conta il 20 percento della popolazione e vive soprattutto in centri rurali e villaggi. A partire dalla Nakba del 1948, la nascita dello Stato di Israele, la società palestinese è passata da una leadership tradizionale a una forma politica più organizzata, che ha  cercato di lottare per l’uguaglianza dei diritti civili dei palestinesi in Israele, e di sviluppare un’agenda per unire la comunità palestinese in Israele. Cercare l’unità ha fatto sì che i problemi che le donne palestinesi affrontavano quotidianamente, inclusi i crimini d’onore, passassero in secondo piano in nome di una causa più “nobile” e importante. Parlare di crimini d’onore veniva percepito come un tentativo di rompere i delicati equilibri creatisi tra diversi gruppi politici e sociali all’interno della società palestinese, già sotto pressione del governo israeliano.
Nel 1991 al-Fanar è stata la prima organizzazione femminista palestinese a protestare contro l’uccisione du una ragazza da parte del padre. Il motivo era la gravidanza della figlia al di fuori del matrimonio. Il processo mise in luce che la ragazza era stata vittima di una violenza commessa da un parente, e che il padre ne era direttamente a conoscenza. Il tabù del crimine d’onore veniva sfidato pubblicamente per la prima volta all’interno della società palestinese in Israele. Prendere coscienza dell’esistenza del problema fu un grande progresso: durante gli anni ’90 sono stati fatti molti passi avanti, attraverso la formazione di coalizioni di attiviste e intellettuali palestinesi, che si inseriscono nella comunità locale. Grazie a centri anti-violenza, centri di emergenza, assistenza sociale, psicologi e avvocati, le vittime di violenza trovano supporto, aiuto e spesso un luogo sicuro dove rifugiarsi.
I crimini d’onore non sono scomparsi in Israele. Da una ricerca condotta da Women Against Violence, associazione palestinese di Nazareth, risulta che un “buon” motivo per uccidere può essere il “modo di vestire e comportarsi”, “fumare”, “lasciare la casa senza permesso”, “la richiesta di divorzio” o il “rifiuto di relazioni sessuali in matrimoni forzati”, “relazioni extraconiugali” o “voci di relazioni extraconiugali”. Eliminando l’elemento disturbatore, l’onore è ristabilito e la famiglia può continuare a essere rispettabile agli occhi della società. In una cultura dove la donna è vista come il ricettacolo dell’onore familiare, ogni suo gesto, il suo modo di parlare, di comportarsi, di vestirsi, si carica di significati e conseguenze sociali. Le bambine, le ragazze, le donne sono coscienti della loro responsabilità fin dall’infanzia. É questo il principale motivo per cui un’altissima percentuale dei crimini e delle violenze non viene denunciata. Il 55 percento delle donne non denuncia le violenze subite e il rapporto aumenta se si prende in considerazione anche la violenza sessuale all’interno del matrimonio.
La voce della donna rimane silenziosa anche in tribunale. La vittima spesso non è fisicamente presente all’udienza o le sue parole vengono usate a suo discapito: il suo comportamento ha provocato l’aggressore e lo ha forzato ad usare la violenza. I tribunali israeliani non danno molto peso ai reati d’onore in quanto visti come “una tradizione araba”. Il carnefice solitamente non viene punito con una pena adeguata, spesso solo 2-3 anni di carcere. “Queste sono le loro usanze, questa è la loro tradizione”  è la frase spesso registrata in tribunale, per giustificare i crimini d’onore come una questione interna alla famiglia. La negligenza della polizia e dei servizi sociali fanno il resto.
Grazie alla testimonianza della madre e di un’altra sorella, in marzo, il tribunale ha condannato a 16 anni Kamil Abu Ghanem per aver ucciso sua sorella Hamda nel 2007. Il corpo è stato ritrovato solo lo scorso gennaio. Queste due coraggiose donne hanno rotto il muro del silenzio che le circondava da troppi anni, a rischio della loro stessa vita, per interrompere la catena di omicidi nella loro famiglia. Il caso di Sara Abu-Ghanem è l’ultimo esempio, per le donne palestinesi in Israele l’onore ha ancora un prezzo troppo alto.

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