Aprile 2009

Un Simenon d’annata

di Ghismunda

Copertina del libro: Le campane di Bicêtre - Georges Simenon

Quello che mi piace della grande narrativa del Novecento è che in essa non succede mai nulla. Né avventure né colpi di scena e nemmeno eroi e lieto fine, come in tanta narrativa ottocentesca, specchio di un mondo borghese fiducioso nell’esistenza di un ordine e di una concatenazione logica degli eventi che il romanzo può e deve riprodurre, a scopo di evasione, consolazione o di semplice conoscenza. A dominare, nel romanzo del Novecento, è l’interiorità e l’analisi, tortuosa e serrata, implacabile, di una coscienza; il punto di vista, molteplice e soggettivo, dell’autore/personaggio; la mancanza di certezze tanto scientifiche quanto religiose; il senso di precarietà dell’esistenza; la giornata di tanti Ulisse/Bloom, smarriti nella routine e nel caos delle metropoli moderne o di tanti Josef K., alle prese con l’angoscia e il non senso di un mondo estraneo e persecutorio. Non si esce dall’io e da come lui sente e ragiona e più spesso sragiona, chiamando in causa il nostro io e la nostra percezione del mondo, in un confronto e percorso di conoscenza sempre aperto, inesauribile. Affascinante. E poi c’è il tempo, quella cosa che, proustianamente, torna, a ricomporre nella memoria i frammenti  baluginanti di vite trascorse. Ma per questo occorre un’occasione speciale. Non è indispensabile, forse, arrivare a chiudersi in una stanza dalle pareti di sughero per recuperare in qualche modo il tempo perduto, ma una “sospensione”, un evento eccezionale, a volte traumatico, che rompe e stacca dall’ordinaria amministrazione, ci vuole. Per tornare a vedere. Per tornare a pensare. “Quando, in quale momento – si chiede René Maugras nel suo letto d’ospedale – si perde la percezione degli odori, dei suoni, delle gemme che si schiudono?” A volte, può essere proprio la malattia il momento privilegiato del recupero di se stessi. Passando attraverso gli altri, raschiandone via la superficie per “arrivare a vedere più chiaro in se stesso”.

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Note sul sistema giudiziario americano

11 aprile 2009

The common-law system is inherently messy

Lawrence M. Friedman

Il sistema giudiziario americano è diviso in tre parti
La prima divisione riguarda quella fra sistema giudiziario federale e statale.
Il primo si occupa, con molte duplicazioni e sovrapposizioni, di reati federali (droga, immigrazione illegale, frode postale, uccisione del presidente, ecc.), o commessi in territorio federale (riserve indiane, aeroporti internazionali, ecc.), delle bankruptcy court, delle cause che riguardano le agenzie federali e degli habeas corpus capitali.
Alla base ci sono le 94 US District Courts (almeno una per stato) e ogni stato è all’interno di uno degli 11 Circuiti federali, più due a Washington DC. I casi giudiziari trattati sono 250.000 all’anno.
Sopra le district courts ci sono le 13 US Circuit Courts of Appeals (che sono courts of law) (70.000 casi). Molto raramente accade che un caso, già deciso dal panel di tre giudici tipico delle corti d’appello, sia riascoltato En Banc: cioè da tutti i giudici.
Sopra tutti (anche alle corti supreme statali) si erge la Corte Suprema degli Stati Uniti, composta dal Chief Justice e da otto Associated Justice.
Riceve 7-8.000 richieste di certiorari l’anno, ma se la cava con 60-70 sentenze (il cosiddetto otto per mille della corte suprema). Occorre il voto di quattro giudici per consentire a un caso di essere ascoltato e quello di cinque per fermare un’esecuzione. (rule of four, rule of five).

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Kleiner Mann

di Ghismunda

“In un mondo nel quale si possono contare circa venti milioni di disoccupati e in un paese dove la gioventù che esce dalle scuole si vede sbarrata ogni via e ogni occupazione proficua, la storia di un disoccupato diventa quasi simbolica e ci interessa di per sé”. Se un lettore, oggi, trovasse tali parole, a mo’ di presentazione, nella seconda di copertina, troverebbe interessante e sicuramente attuale il libro. Forse lo comprerebbe. Poi, a casa, scoprirebbe che la storia narrata non è ambientata (e scritta) nei nostri tempi, ma nel periodo che va dalla primavera del 1930 all’inverno del 1932. Nell’ultimo periodo della Repubblica di Weimar, quando il numero dei disoccupati tedeschi raggiunse i sei milioni. E quando mezzo chilo di burro costava tremila marchi. Nel gennaio del 1933 Hitler è nominato cancelliere e assume la guida del governo. Il nesso è evidente.

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