Cultura

ORE DICIASSETTE

di Sergio Tardetti

Tratto dalla raccolta (ancora assolutamente inedita) “VENTIQUATTRO ORE”…

Ora infelice, le diciassette, pur nella sua felicità, perché è a quest’ora che quasi tutte le attività cessano, soprattutto per chi lavora in un ufficio come dipendente. L’ora che segna il distacco tra lavoro e riposo, tra l’essere e il non-essere. Difficile, a dire il vero, stabilire quale tra lavoro e riposo sia l’essere e quale invece il non-essere. C’è chi vorrà affermare che per lui – opinione del tutto soggettiva, questo tiene a precisare! – l’essere è il lavoro e il non-essere il riposo. C’è poi chi si affannerà a sostenere il contrario, con buona pace di chi vorrebbe che in questo mondo tutto sia chiaro, semplice, univoco e definitivo, vale a dire esattamente identico a quello che desidera lui. L’umanità, al crepuscolo, si presenta come un ammasso indifferenziato di anonimi, il cui unico desiderio sembrerebbe quello di poter tornare a casa e confondersi finalmente con gli umori, colori e silenzi delle proprie quattro stanze (anche due, e perfino un monolocale, potrebbero comunque andare bene allo scopo). Ma per ogni buona intenzione c’è sempre un ostacolo che si frappone, e, come sempre, l’ostacolo ha un nome preciso e una altrettanto precisa consistenza fisica, stavolta si chiama traffico. Che è poi, dopotutto, l’analogo, seppure inverso, della mattina, quando si è dovuto percorrere il tragitto casa-lavoro, incontrando altrettanto traffico, essendovi completamente immersi con timore e tremore. Timore per la fondata preoccupazione di non arrivare in orario a marcare il virtuale cartellino, che attesta, con la precisione al centesimo di secondo, l’ingresso nel luogo di lavoro. Tremore, perché quella sosta acuisce il dolore dell’abbandono del proprio tetto e la nostalgia di quelle quattro stanze – a volte anche due e perfino, in casi estremi, un monolocale – nelle quali si trascorre quella parte della giornata che si è sempre incerti a definire se migliore o peggiore.
Intanto, le diciassette bussano alla porta del giorno, chiedendo di entrare, e già in ogni stanza di ogni luogo di lavoro si procede con le manovre di chiusura. Si chiude la cartellina aperta sulla scrivania fin dalle prime ore della giornata, che racchiude pagine e pagine di un noioso verbale che attende da giorni di essere completato, e che anche oggi dovrà accontentarsi di vedersi aggiunte un paio di pagine, poche forse, ma essenziali per arrivare alla fine. Si chiude il computer che almeno un paio di volte ha deciso di fare di testa sua, impallandosi e poi resettandosi, facendo perdere tanto di quel tempo e tanto di quel lavoro non salvato da evocare l’intervento di un esorcista, per cercare almeno di domare gli spiriti ribelli che, sicuramente, devono essersi insediati all’interno di quella macchina infernale. Si dà, infine, un’ultima occhiata intorno, per verificare che tutto sia esattamente in ordine come è stato trovato all’arrivo in quella mattina, infine si spegne la luce. All’uscita, ecco i soliti capannelli di colleghi che si attardano per le solite quattro chiacchiere, per il consueto scambio di osservazioni e pettegolezzi, magari dirigendosi a passi lenti verso il primo locale nei dintorni disponibile a fornirli di aperitivi. Anche se si è attesi presso le proprie abitazioni, l’aperitivo non può e non deve mancare, del resto nessuno vorrebbe rinunciare a quel minimo di socializzazione, tanto per non dover venire escluso dal novero dei confidenti, quelli ai quali si raccontano le ultime novità – leggi pettegolezzi – raccolte nei corridoi e nei bagni dell’azienda, durante le brevi soste quotidiane per necessità fisiologiche più o meno impellenti.
Chi sta con chi, chi ha lasciato chi, chi ha intenzione di mettersi con chi, dunque, argomenti di scottante attualità che vanno subito distribuiti equamente tra i presenti che, naturalmente, non appartengono alla categoria degli spettegolati. Almeno non in quel capannello di gente, magari in un altro, magari in quello accanto, dove si sta ridendo di qualcuno, magari di qualcuno di loro. È così che sembra sia andato sempre il mondo, forse già dall’epoca in cui gli uomini vivevano nelle caverne, perché anche allora, una volta provveduto alle necessità primarie, di tempo a disposizione ce ne doveva essere più che a sufficienza. E, quasi certamente, anche lì, giù a spettegolare, magari senza aperitivo, ma con qualcosa da mettere sotto i denti, una costoletta di mammut, una noce di cocco dalla corteccia a prova di molare, insomma qualcosa con cui tenere la bocca impegnata tra una risata e un’altra, tra un fonema nuovo di zecca e un altro. Infine, anche il rituale dell’aperitivo ha termine, oppure, come capita a volte, può prolungarsi in un apericena, ma solo se non si è attesi presso la propria abitazione, o, quanto meno, si sono avvertiti i propri familiari a tempo debito per quel ritardo aggiuntivo o per quella mancata presenza intorno alla tavola apparecchiata. Intanto le diciassette sono scivolate via in silenzio, tra una risata e l’altra, fra un brindisi e l’altro, ma anche fra un insulto e l’altro, scambiato con chi all’improvviso ti si para davanti tagliandoti la strada, solo perché, ad un tratto, si è ricordato di dover svoltare per qualche commissione che gli era quasi passata di mente. Alla frenesia sul posto di lavoro adesso fa da controcanto la frenesia lungo la strada del ritorno, con in più una stanchezza sulle spalle che si vorrebbe tanto posare sul familiare divano di casa. Ancora qualche chilometro da percorrere e poi anche quest’ultimo desiderio verrà soddisfatto, si ritroveranno le comode pantofole domestiche per le quali verranno immediatamente rimosse le scarpe eleganti che hanno stretto come in una morsa i piedi per l’intera giornata. È la felicità delle piccole cose che prende il posto della malinconia che ci siamo trascinati dietro per tutta la mattina e per gran parte del pomeriggio, perché ad un tratto, senza neppure rendercene conto, torniamo a godere di quella libertà che si conquista solamente tra le mura della propria casa. Quella che potremmo chiamare la libertà di essere sé stessi.
 
© Sergio Tardetti 2024

La foto è tratta da pixabay

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FIABE DI ROMAGNA

FIABE DI ROMAGNA – raccolte da Ermanno Silvestroni, a cura di Eraldo Baldini e Andrea Foschi, Longo Editore Ravenna, 2024.

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NOTTETEMPO

NOTTETEMPO di Carlo Alessio Cozzolino – Editore Bertoni Collana Aurora a cura di Bruno Mohorovich

recensione di Sergio TARDETTI

Carlo Alessio Cozzolino è uno di quegli scrittori le cui opere appartengono a buon diritto al genere “da meditazione”, testi poetici i cui versi vanno assaporati, concedendosi tutto il tempo e la calma necessari a degustarli a fondo. Occorre, infatti, riuscire ad introiettarli, ad accoglierli in sé e a farli propri fino all’ultima sillaba per poterli gustare a pieno, come avviene per un raffinato liquore o per un ottimo vino di annata. Ed è tale la capacità di far rilassare il lettore, estraniandolo dal mondo che lo circonda, che se ne consiglia la lettura a tutti quelli che sono afferrati, trascinati e consumati dalla frenesia del vivere quotidiano e corrono continuamente il rischio di smarrirsi dentro un turbine di eventi. Dei versi di Carlo Alessio si fa apprezzare particolarmente la “levigatezza”, una caratteristica che rinvia alla poesia della classicità greca, quando le parole di Alcmane e Saffo sembravano scolpite nel candore del marmo pario. Amanti anche loro della serenità delle ore notturne, da contrapporre alla frenesia delle ore diurne, in cui ognuno sembra vagare senza meta in cerca di qualcosa di indefinito e indefinibile. In questa raccolta, dall’emblematico titolo “Nottetempo”, si avverte spesso la sensazione che il poeta tenda a voler scomparire, a nascondersi dietro ai propri versi, per lasciare al lettore campo completamente libero nell’assaporare sensazioni trasmesse attraverso componimenti tanto brevi quanto efficaci. “Giudica tu”, sembra volergli dire, perché il poeta è quasi sempre un essere schivo, al punto da voler mascherare la propria fisicità dietro le parole. Ed è attraverso l’accorta e calibrata scelta delle parole che avviene il passaggio dal mondo materico all’immateriale, dalla realtà alla poesia, che sempre più spesso non è altro che la propria realtà trasfigurata. Si avverte, nel corso della lettura, anche un riflesso sonoro di altri generi di componimenti brevi, come gli haiku giapponesi, con il loro minimalismo, talmente denso che, a volte, sembrano voler concentrare in sé un intero universo. Come in una implosione dell’essere che raggrumi l’energia vitale, per poi poterla sprigionare durante la lettura.

Carlo Alessio CozzolinoNottetempo. Bertonieditore, 2024 

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LA QUINTA DIMENSIONE

E’ in uscita presso l’editore Bertoni una pregevole raccolta poetica, autrice Simona Chiesi, dal titolo “Diorami notturni”. Ne ho curato la pubblicazione nella mia collana “Emergenze” e ne ho scritto la prefazione…

LA QUINTA DIMENSIONE – prefazione

Ogni volta che prendiamo in mano un libro, per aprirlo e iniziarne la lettura, avvertiamo in noi prepotente l’aspettativa di volerne essere sorpresi. Sorpresi dalle parole che ci avviamo a leggere, sorpresi dalla sapiente abilità con la quale l’autore/ autrice si impegna a combinare quelle parole per rappresentare situazioni, descrivere sensazioni, suscitare emozioni che non dimenticheremo facilmente, una volta giunti all’ultima pagina, perfino a distanza di tempo. La raccolta poetica di Simona Chiesi, “Diorami notturni”, riesce ad andare ben oltre queste attese, proiettandoci in una dimensione che si aggiunge alle quattro classiche dello spazio-tempo. È quella che definisco la “quinta dimensione”: la dimensione “poetica”. Libera e non dipendente dal qui e ora, al di là e al di fuori di questi parametri, è una dimensione costituita di sensazioni, di voli fantastici tesi ad inseguire i pensieri e ad inoltrarsi nelle profondità dell’infinito. Tutto quello che è dotato di una qualche fisicità scompare lentamente, si dissolve, svapora, fino a sublimarsi, disperdendosi oltre una muraglia fatta di parole che rimandano a suoni, i quali, a loro volta, rimandano a immagini, sogni e visioni. È l’insormontabile muraglia di montaliana memoria, “che in cima ha cocci aguzzi di bottiglia”, quella che noi seguiamo, costeggiando un territorio invisibile del quale proviamo a immaginare geografia e consistenza attraverso fonemi che appartengono ad un linguaggio comune.

Quello che viene percepito e appare ai nostri sensi, nella dimensione dello spazio-tempo, non è che una rappresentazione – una delle tante possibili – della quale ci serviamo per dare corpo e forma alla dimensione ideale che riusciamo a raggiungere attraverso l’Arte, in particolare attraverso la poesia. È in questo modo che avviene la “sublimazione” del significante, operazione questa che ne amplifica il significato e la potenza espressiva. Così avviene l’elevazione della parola, che consente di prendere le distanze dall’immanente, per riuscire ad aprirsi un varco nella siepe oltre la quale si immagina la presenza dell’infinito, con la mente rivolta verso il trascendente che a volte, tramite la potenza evocativa delle parole, riusciamo persino a percepire. Impossibile non sentirsene attratti, coinvolti e quasi ammaliati, con il costante desiderio di andare oltre una forma letteraria costruita con parole sceltissime e giungere al nucleo – o meglio, al cuore – della poesia passando, come Alice di Lewis Carroll, attraverso lo specchio.

È a questo punto che facciamo il nostro ingresso nel gioco della “fruizione” del testo poetico, del come e perché avvicinarsi a un testo che richiede la nostra attenta e continua partecipazione. Possiamo scoprire, leggendo, che una poesia parla di noi, avvertiamo la sua vicinanza nel sentircene rappresentati, talvolta perfino ritratti, ma più spesso ci limitiamo soltanto a vederci riflessi in lei, come se si trattasse di uno specchio per la nostra anima. L’invito che rivolgo al lettore è quello verso una “fruizione attiva”, l’incoraggiamento ad “attraversare lo specchio”, per ritrovarsi in un mondo del quale siamo parte da sempre, entrare nella dimensione poetica, per l’appunto. Tutto questo con l’obiettivo di “comprendere” la poesia, non certo di “capirla”, operazione quest’ultima priva di senso e di scopo, limitata spesse volte ad una mera parafrasi del testo. “Comprendere” la poesia equivale, in un certo qual modo, a stringerla in un abbraccio e a farsi abbracciare da lei, per lasciarsi emozionare dalle sensazioni che è capace di suscitare nell’anima, più che raccogliere gli stimoli che dovrebbero raggiungere la mente. Tutto questo, e molto altro, accade nel corso della lettura di “Diorami notturni”, raccolta poetica di rara fascinazione. Un lettore appassionato ed attento può sperimentarlo pagina dopo pagina, verso dopo verso, come ad esempio quelli che rivelano il senso del titolo della raccolta. Il misterioso e fascinoso titolo trova la sua esplicitazione nei versi di una poesia “Diorami”: Inutili costruzioni/ di una irrealtà latente/ che non avrà il sopravvento/ su quella prepotente e vera./ Vivono notturni,/ Vibratili, evanescenti.

Nei versi di Simona Chiesi predomina la frequente e attenta riflessione sull’essere e sul divenire, il voler mettere alla prova la consistenza e la ricchezza di una lingua che si trova a dover esprimere profondi stati d’animo e originali punti di vista sulla realtà. Testi ricchissimi di un lessico prezioso, elegante e a tratti ricercato, per quanti cercano, attraverso un personale muto dialogo con la poesia, di scavare a fondo nella propria anima, per interrogarla e chiederle conforto sulla propria visione della realtà e del mondo. Il fare, l’agire, l’attualizzare quella affermazione di padre David Turoldo, secondo la quale “poesia è rifare il mondo” sembrano gli stimoli, gli spiriti guida che danno impulso e vitalità alla scrittura della autrice, che sollecita il lettore, affermando: “basta non restare nel limbo/ ad attendere indicazioni/ e indugiare arresi.” Si avverte costante la tensione di una ricerca della perfezione, dell’incastro ben connesso, che possa far ammettere che lì e soltanto lì poteva trovare collocazione quella parola o quella frase; è trasparente la ricerca di un lessico personale che mira a prendere le distanze da un frasario quotidiano, frammisto di ovvietà replicate all’infinito e di rinuncia a qualsiasi forma di dubbio. Istintivo corre, d’altra parte, anche il richiamo al verso montaliano “Non chiederci la parola…”. I limiti della poesia, i confini in cui opera e agisce, sembrano tracciati e definiti, anche se, passo dopo passo e metro dopo metro, il suo territorio, grazie all’azione dei poeti, è in continua espansione. Forse, fra le tante parole delle quali è intessuta la raccolta, ognuno potrà trovare quella che va cercando, magari l’unica e la sola che possa motivarlo a cercare una personale ragione di continuare a resistere ogni giorno agli attacchi dell’esistenza. Una poesia-approdo, una poesia che possa salvarci dagli inevitabili naufragi ai quali possiamo andare incontro nel corso della vita. Una poesia, insomma, alla quale poter fare continuo ricorso nelle proprie letture, per raccogliere preziose forme di alchemiche trasformazioni dei propri sentimenti in parole di velate verità.

Simona Chiesi – Diorami notturni. Bertoni editore, 2024

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Gianinetti o del saper far la differenza

di Alessandra Ruffino

Nel tempo distorto in cui coesistono in mostruosa simultaneità l’(in)civiltà dello scarto e le incognite digitali dell’intelligenza artificiale, l’arte di Roberto Gianinetti – e in particolare le opere radunate sotto il titolo «Raccolta indifferenziata» – offre a chi la guarda una lezione preziosa e una ri-creazione vera.
Ripescando dai rifiuti i materiali più vari (tappetini per auto, centrini ricamati, rete zincata, imballaggi ondulati, polistirolo…), l’incisore vercellese dà loro una nuova vita secondo una originale applicazione dei principî dell’economia circolare.
Conosco il lavoro di Roberto Gianinetti fin dagli esordi, negli anni ho apprezzato lo sviluppo inesauribile della sua curiosità sperimentale e il progressivo liberarsi della sua visione, una visione che sembra muovere dalle primordiali leve di una meraviglia giocosa (e quindi serissima) da primo giorno della Creazione.
Si osservino ad esempio due opere in mostra a Longiano: l’installazione Dispenser 2024, dove un vecchio distributore di sorprese per bambini, di quelli diffusi nel secolo scorso, racchiude nelle sue palline piccole carte incise (a Longiano sono versi di poesie di Tito Balestra, in altre occasioni contenevano gli oracoli de I Ching), e Delizie naturali. Bon-bons di platano (2016), dove le sezioni di un tronco d’albero morto, recuperate sia come matrice di stampa che come oggetti in sé, simulano, anzi diventano una scatola di praline. L’artista adotta qui un tipo di analogia sostitutiva che risponde ai meccanismi dello stupore infantile (il bimbo che usa una scopa come cavallo, la bimba che fa finta di scodellare pietanze immaginarie da un pentolino giocattolo), più che all’ironia cool di tanta arte del XX e XXI secolo. E del resto come potrebbe essere freddo il maestro di una tecnica basata sul rapporto matrice/materiale e su un sapere tattile, un’arte nata per la diffusione non elitaria, un’arte – soprattutto – che non può esistere senza il mestiere? A un incisore l’idea brillante non basta se non è poi illuminata da una vivida intelligenza artigianale e assistita dal continuo accordo tra mente e mano.
In «Raccolta indifferenziata», Gianinetti non sottrae solo gli scarti all’annientamento ma destinandoli a usi impropri, estranei da quelli originari, li reinventa ex novo, facendo – propriamente – la differenza. Etica e artistica.

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