Diritti umani

Pace e giustizia: diritti dei detenuti – diritti umani

Raccolta fondi

ADVANCING EQUAL JUSTICE AND HUMAN RIGHTS IS OUR GOAL – HELP THE MEMBERS OF THE ITALIAN COALITION KEEP UP THE GOOD WORK!
 
Human rights work depends on the voluntary efforts and goodwill of activists and concerned citizens.
 
When the Italian Coalition was founded in 1997, the founding members decided that all the members of the association – including themselves – should be unpaid volunteers, which means that nobody has ever received and won’t ever receive money for their work on the national territory (and abroad).
Until not long ago, we were able to self-finance our trips to the USA. But sadly today, as a consequence of the financial and economic crisis in our country, the war, the pandemic, the lack of work and the lack of regional, state, and private funding, we are forced to seek help, because unfortunately we are no longer able to finance this kind of projects by our own efforts and means only.
Hence the need for collecting funds in order to continue to effectively achieve the positive results that we have been achieving for so many years, which have undoubtedly helped raise awareness and educate the public on crime prevention and on what can and should be done to stay human even in a violent society.
The goal that we would like to achieve is a trip to Texas in the last two weeks of August 2023 to visit some prisoners detained in the Allan B. Polunsky Unit in Livingston.
 

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Dei delitti e delle pene

Foto di Jody Davis da Pixabay

Letture

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Global Carnival: una nuova mobilitazione mondiale per Assange

di Pressenza – Redazione Italia

L’articolo è disponibile anche in: SpagnoloGreco

Si stanno definendo i dettagli della nuova iniziativa mondiale per la libertà di Julian Assange: in appoggio alla manifestazione di Londra organizzata da Dont Extradite Assange  per l’11 febbraio si sono mobilitati da Buenos Aires fino all’Australia tutti i gruppi, comitati, formazioni politiche e sociali che chiedono la liberazione del giornalista australiano imprigionato in Gran Bretagna in attesa di una estradizione che sarebbe uguale a una condanna a morte.
Si possono vedere crescere ogni giorno le adesioni e le iniziative del “Global Carnival for Assange” sulla mappa che trovate sul sito www.24hassange.org ; l’11 Febbraio, dalle 11 a mezzanotte GMT ci sarà di nuovo una diretta trasmessa sul canale YouTube di Pressenza Italia e su quello di Terra Nuova Edizioni.

Per informazioni ed adesioni scrivere a 24hAssange@proton.me

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L’asse di una strategia migranticida

Foto tratta da Open Arms

di Annamaria Rivera

E’ iniziata da ben prima dell’insediamento dell’attuale governo fascistoide la delegittimazione istituzionale, se non criminalizzazione, non solo delle Ong che praticano ricerca e soccorso in mare, ma perfino di chiunque, sia pure individualmente, compia atti di solidarietà verso persone profughe.
Ricordo che la campagna contro le Ong fu inaugurata da Frontexl’Agenzia europea per le frontiere esterne, che già a dicembre del 2016 accusava le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo di colludere con i trafficanti di esseri umani e di costituire per i/le migranti un fattore di attrazione che li/le invoglierebbe a emigrare.
Essa è proseguita in Italia con campagne diffamatorie, denunce, processi: una strategia denigratoria legittimata, tra gli altri, da Luigi Di Maio, che, com’è noto, nel 2017, in un post su Facebook, definì “taxi del mare” le navi delle Ong. È indubbio che tali ignobili esempi dall’alto non facciano poi che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso” (per così dire).
Dunque c’era da aspettarsi che il governo più di destra della storia repubblicana desse un contributo rilevante alla guerra contro le Ong impegnate nel soccorso in mare. Infatti, è ciò che è accaduto con il decreto-legge del 2 gennaio 2023, “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”, detto Meloni-Piantedosi, in realtà firmato anche dai ministri Nordio, Salvini, Tajani e Crosetto, nonché dal Presidente della Repubblica Mattarella: un decreto finalizzato apertamente a ostacolare in ogni modo l’operatività delle navi delle Ong.
Com’è noto, il decreto impone alle navi delle Ong di far sbarcare immediatamente le persone soccorse e in tal modo impedisce loro di compiere ulteriori salvataggi o d’intervenire sollecitamente in caso di altre segnalazioni di pericolo.
Infatti, come i casi più recenti dimostrano, ormai, grazie al decreto, per lo sbarco non si sceglie «il posto sicuro più vicino» e raggiungibile nel minor tempo possibile, ma qualche approdo che richiede molti giorni di navigazione. Inoltre, il comandante della nave è obbligato ad appurare chi fra le persone naufraghe tratte in salvo abbia intenzione di chiedere la protezione internazionale: il che significa che la presentazione della domanda debba essere fatta direttamente sulla nave, così che l’obbligo di esaminarla spetti allo «Stato di bandiera» dell’unità di soccorso.
È una procedura più volte rigettata poiché, secondo l’Unione Europea e il regolamento Dublino III, «quando la nave si trova in acque internazionali non si possono presentare richieste di asilo perché esse vanno formalizzate dalle autorità nazionali preposte, alla frontiera e nel territorio dello Stato inteso in senso stretto comprese le acque territoriali».
Infine, secondo il decreto, se l’Ong impegnata nel soccorso in mare violasse tali regole infami, i responsabili della nave sarebbero sottoposti a una multa fino a 50mila euro.

Insomma, la gran parte del decreto Meloni-Piantedosi è in aperto contrasto con il diritto internazionale e con le Convenzioni a cui l’Italia ha aderito, a cominciare da quella di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati e da quella europea sui diritti umani.
Come ben sappiamo, il Mediterraneo è ormai divenuto un vasto cimitero acquatico e il Canale di Sicilia ha guadagnato il sinistro primato di confine più letale al mondo.
A un tale primato hanno contribuito non solo la guerra contro le Ong, ma anche la sostituzione della missione Mare Nostrum, destinata al salvataggio di vite umane, con quella denominata Triton, finalizzata al controllo e alla protezione delle frontiere.
Oggi siamo al tempo in cui neppure il cadavere di un bambino riverso su una spiaggia riesce a commuovere e a sollecitare la pietas collettiva, come invece accadde a settembre del 2015, allorché fu diffusa l’immagine del piccolo Ālān Kurdî, morto esattamente di tanatopolitica: era figlio di due esuli curdo-siriani, in fuga dall’Isis e dalla guerra civile, dunque più che meritevoli di asilo.
Per citare un caso esemplare, ricordo che l’11 ottobre del 2013 annegarono ben 268 profughi/e, dei quali almeno 60 bambini e un gran numero di donne in fuga da Aleppo e da altre città siriane. Dopo l’affondamento del loro barcone, mitragliato da una motovedetta libica, i 480 profughi siriani attesero vanamente per cinque ore, mentre Malta e l’Italia si rimpallavano la responsabilità dell’intervento per soccorrerli. Un tale reato, sebbene così grave, poi sarebbe stato prescritto.
Attualmente, con il governo guidato da Meloni, si è compiuto un salto di qualità foriero di svolte autoritarie, nonché assai pericoloso per la sorte e per la vita dei profughi e delle profughe, delle persone d’origine immigrata, ma anche dei rom…

Quanto al contributo delle istituzioni italiane alla strage di persone profughe e migranti, va rimarcato che uno dei pilastri è costituito dal Memorandum d’intesa fra la Libia e l’Italia, che in tal modo legittima non solo le stragi nel Mediterraneo, ma anche gli orrori compiuti dalla cosiddetta Guardia costiera libica e quelli che si consumano nei “centri di accoglienza per migranti”, in realtà degli autentici lager.
Potremmo definirla migranticida, l’attuale strategia adottata dal governo italiano e incoraggiata e/o approvata da talune istituzioni dell’UE. È una strategia che dà la priorità all’esternalizzazione delle frontiere, al blocco delle partenze dalla Libia, alla pretesa di sigillare anche il sud libico stringendo accordi con le peggiori milizie e bande di trafficanti.
Tale è l’ecatombe nel Mediterraneo e talmente palesi le responsabilità dell’Unione europea che forse potremmo azzardarci a definirla genocidio, intendendo quest’ultimo come una forma di eccidio di massa unilaterale, in ragione dell’appartenenza a una certa collettività o categoria umana; o perlomeno considerarla al pari di un crimine contro l’umanità.
Inoltre, sappiamo bene e da lungo tempo che il razzismo ha quasi sempre anche una dimensione istituzionale (Carmichael e Hamilton, 1967). La discriminazione routinaria e la conseguente ineguaglianza strutturale di taluni gruppi e minoranze non sono solo il frutto di pregiudizi e comportamenti intolleranti “spontanei” da parte del gruppo maggioritario, ma sono anche – forse soprattutto – l’esito di leggi, norme, procedure e pratiche messe in atto da istituzioni.
Va precisato che la tendenza esemplificata da provvedimenti quale il decreto Meloni-Piantedosi non è una peculiarità italiana. Quasi ovunque in Europa si legifera in tal senso. In più, l’Unione europea pratica una sorta di sovra-nazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere. E questo non solo è causa principale di una strage di profughi/e di proporzioni mostruose, ma contribuisce anche a legittimare il razzismo “spontaneo”, a incoraggiare i nazionalismi, quindi a favorire il successo delle destre, anche estreme, com’è palese nel caso italiano.
Basta dire che solo nei primi dieci mesi del 2022, tra morti e scomparse, si sono registrate ben 1.800 vittime: un esempio lampante di quella che ho definito strategia migranticida.
La cifra che ho citato dovrebbe essere integrata con quelle relative ai decessi per fame, sete, disidratazione, nonché conseguenti a rapine, aggressioni, sequestri, stupri e torture fino alla morte, inflitti a migranti e rifugiati/e in paesi quali la Libia. Questo accade abitualmente soprattutto nei centri di detenzione libici, veri e propri lager, molti dei quali gestiti dalle milizie, con cui stringe accordi: sono le stesse che gestiscono il traffico dei profughi. Per non dire delle brutalità, anche letali, compiute dalle bande che si aggirano nel deserto tra il Niger, il Mali, il Sudan e la stessa Libia: anche con questi Paesi l’Unione europea e l’Italia sottoscrivono accordi finalizzati all’esternalizzazione delle proprie frontiere, con la pretesa di sigillare anche i cinquemila chilometri di Sahara.
Per concludere: specialmente oggi, al tempo del governo Meloni, occorrerebbe considerare la centralità della lotta contro il razzismo e la strategia migranticida che ne consegue. E aver chiaro che per sconfiggere la destra questo è un tema decisivo.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 18 gennaio 2023

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Non un filo d’erba. La lotta di Alfredo Cospito per la dignità prosegue da oltre 90 giorni

di Viola Hajagos

L’avvocato Flavio Rossi Albertini ad Adnkronos racconta:  “C’è una finestra nella cella di due metri e mezzo per tre metri e mezzo, una finestra schermata dal plexiglass che non si apre quasi mai e che si affaccia, al di là delle sbarre, su un cubicolo interno circondato da muri di cemento alti metri e metri, schiacciati da una rete metallica a chiudere il quadrato di cielo. Cospito vive in quella cella da solo, come impone il regime carcerario al quale è sottoposto, ci passa 21 ore della sua vita. Le restanti tre le divide tra socialità, un colloquio di un’ora con gli altri 3 detenuti del suo gruppo di socialità, e due ore d’aria in quella sorta di cubicolo di cemento dal quale non può vedere un albero, una siepe, un fiore o un filo d’erba, un colore, solo sbarre e cemento”.  

Le condizioni di salute di Alfredo possono precipitare da un momento all’altro. La dottoressa Angelica Milia che lo ha visitato in carcere ha dichiaratoDopo 90 giorni di sciopero della fame Alfredo ha perso 40 kg, le condizioni sono stabili rispetto alla settimana scorsa, ma le riserve di grasso e zuccheri sono ormai esaurite e quindi è possibile che le condizioni di salute generale possano peggiorare da un momento all’altro”. 

Le iniziative di solidarietà alla lotta di Alfredo Cospito sono numerose in Italia e all’estero: in diverse città si sono tenuti presidi e cortei; domani, domenica 22 gennaio, ci sarà un nuovo presidio al carcere di Bancali a Sassari dove è detenuto.

Con Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino abbiamo parlato della repressione del dissenso e del processo di una progressiva deriva della democrazia.

La democrazia, come sosteneva Bobbio, non può esistere senza dissenso. La democrazia è conflitto. Oggi assistiamo ad una progressiva criminalizzazione del dissenso, come della solidarietà, e, in senso ampio, della conflittualità sociale. La repressione avviene attraverso l’introduzione di norme restrittive e punitive (penso al decreto sicurezza Salvini, come al precedente di Minniti, o al recente “decreto Piantedosi” sulle ONG), così come attraverso l’uso sproporzionato (alias abuso) di strumenti civili e penali (dalle richieste di risarcimento in sede civile al perseguimento di reati anche bagatellari[1] se compiuti da attivisti di un movimento sociale all’utilizzo dello strumento penale come diritto penale del nemico). Esemplare è il “trattamento” del movimento No TAV, nei cui confronti è stato fatto uso di richieste di risarcimenti in sede civile, un largo ricorso a misure di prevenzione e cautelari, qualificazioni penali “eccessive” (il terrorismo), …

La Costituzione nata in seguito alla sconfitta della dittatura fascista oggi sembra essere antagonista alle politiche dei governi.

La Costituzione oggi più che attuata dalle istituzioni, è praticata dai movimenti sociali; diviene una “alternativa antagonista” rispetto alle politiche di governi che ne hanno abbandonato il progetto di emancipazione sociale. Pensiamo al definanziamento della sanità rispetto alla garanzia del diritto alla salute, alla deregolamentazione del diritto del lavoro che non lo garantisce come strumento di dignità, ad un sistema fiscale sempre più lontano da un modello progressivo che assicuri redistribuzione e diritti sociali.

Seguendo questa traccia che ripercorre la relazione tra i governi e il dissenso proseguiamo la riflessione rispetto alla criminalizzazione delle lotte e i principi tutelati dalla Costituzione.

Il modello della Costituzione è una democrazia pluralista, conflittuale e sociale. L’art 3, c.  2, della Costituzione prevede un progetto di emancipazione sociale e di trasformazione della società nel senso di un pieno sviluppo della persona e della sua partecipazione alla vita del Paese. È un progetto controcorrente rispetto alle politiche neoliberiste che, dagli anni Ottanta, hanno veicolato una regressione nella tutela dei diritti sociali e processi di liberalizzazione e privatizzazione. A questo si aggiungono riforme costituzionali, come il principio del pareggio di bilancio, che inserisce una nota stonata rispetto al modello di democrazia sociale, nonché progetti di riforma della forma di governo, per fortuna bocciati nei referendum (ma stiamo di nuovo per affrontare una riforma in senso presidenziale), tesi a introdurre modelli di verticalizzazione del potere.

La democrazia, come sociale e politica è svuotata, e inclina verso una deriva autoritaria. Si inserisce qui il discorso, dal quale siamo partite, della repressione del dissenso, che si estende e si fa sempre più penetrante. Pensiamo alla disobbedienza civile di movimenti come Ultima Generazione, Extinction Rebellion, rispetto alla quale la reazione delle istituzioni è eccessiva, “violenta” a fronte di azioni non violente, di cui gli attivisti si assumono la responsabilità.

La voracità del neoliberismo lo porta ad accantonare ogni progetto di redistribuzione, di giustizia sociale, così come di giustizia ambientale (per non parlare del suo sfociare nella guerra), e, di fronte alla loro rivendicazione, a chiudersi in una cittadella sempre più autoritaria.

La deriva di criminalizzazione progressiva e generale del dissenso ha riguardato anche i fatti legati al processo Scripta Manent con la qualificazione di strage politica da parte della Cassazione.

Senza entrare nel merito del diritto penale approfondiamo la questione del 41 bis comminato ad Alfredo Cospito, primo anarchico cui è stato applicato questo regime carcerario.

L’articolo 41 bis nasce con un carattere temporaneo e ristretto a fattispecie specifiche, quindi, nel tempo, viene “normalizzata” la sua presenza ed estesa la sua applicabilità; in questo senso è un esempio di quella che viene definita la normalizzazione dell’emergenza.

È un trattamento, quello del 41-bis, che impatta pesantemente sulla dignità della persona, tutelata in ogni circostanza, sempre e ovunque. Mi limito a ricordare l’art. 13, “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” e l’art.27, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” della Costituzione. Ma, oltre la Costituzione, possiamo citare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e le pronunce della Corte europea proprio riguardo al 41-bis e alla sua (in)compatibilità con l’art. 3 della Convenzione che stabilisce il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti.

La dignità della persona deve sempre essere tutelata e garantita. Lo Stato non può essere “vendicativo” nei confronti di una persona detenuta, ma garantire in ogni caso la dignità e tendere, dice la Costituzione, alla rieducazione, ovvero a garantire la partecipazione alla società.

Come sottolineato da più parti e recentemente da Mario Palma, garante dei diritti dei detenuti, si tratta di un uso forzato del 41 bis che “si traduce nell’accentuazione dell’afflizione non motivata e non motivabile come volontà di interrompere i collegamenti (ndr con altri associati all’organizzazione criminale), ma semplicemente come regola di carcere duro, non ha più alcuna legittimità costituzionale.”

All’interno della campagna di mobilitazione per far uscire dal silenzio la lotta di Alfredo contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, il 7 gennaio è stato lanciato un appello firmato da diverse persone del mondo accademico, culturale, sociale e giuridico dal titolo “Alfredo Cospito non deve morire”.

Alessandra Algostino è tra le firmatarie e firmatari dell’appello che ha raccolto oltre 5.000 firme. Che cosa chiedete?

Vorremmo che le istituzioni, in primo luogo, intervenissero a proposito della situazione personale di Alfredo Cospito, a partire dalla revoca del regime del 41 bis, e, insieme, sollevare la questione del rispetto della dignità di tutte le persone detenute.

Lo sciopero di Alfredo Cospito riguarda anche l’ostatività: la cancellazione della possibilità di qualsiasi beneficio per i detenuti che hanno questa ulteriore restrizione.

La Corte Costituzionale si è pronunciata più volte a tal riguardo (ord. 97/2021 e 122/2022), rinviando per consentire un intervento del legislatore, sino all’ultima ordinanza, 227/2022, con la quale ha rinviato gli atti di Cassazione essendo nel frattempo intervenuto il decreto legge 162 del 2022.

Una riforma dell’ostatività (l’intervento legislativo intercorso non è sufficiente) è necessaria per evitare che la scelta di non collaborare con la giustizia si riveli punitiva, in termini di benefici (nel caso, la liberazione condizionale), per il detenuto; in gioco sono la dignità della persona, il senso della pena (e la sua proporzionalità).

 Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un aumento dell’utilizzo delle applicazioni di regimi carcerari speciali (As2 e 41 bis) e il ricorso a misure restrittive della libertà di movimento, obblighi di dimora, fogli di via, sorveglianze speciali.

 La legislazione d’emergenza è diventata normale. A partire dall’attentato alle Torri gemelle a New York si è assistito all’introduzione di nuovi reati (come, nel Regno Unito, l’incitamento indiretto al terrorismo, che, per intenderci, avrebbe portato ad incriminare Nelson Mandela per i suoi discorsi) e nuove misure limitative della libertà di manifestazione del pensiero (ad esempio maggiori possibilità di prevedere intercettazioni).

Assistiamo, con un ossimoro, alla normalizzazione dell’emergenza e questo porta ad una restrizione degli spazi politici, dei diritti.

Questo processo non riguarda esclusivamente la repressione delle lotte.

La tendenza a costruire un nemico per criminalizzare il dissenso propone uno schema binario: la dicotomia tra amico e nemico. Ad esempio, chi è contrario all’invio delle armi in Ucraina viene etichettato come putiniano e quindi nemico; lo stesso è avvenuto nei confronti di chiunque abbia espresso posizioni critiche durante la gestione della pandemia. Si compatta la società, l’opinione pubblica, contro un nemico e così si occulta il conflitto sociale, nella prospettiva del thatcheriano TINA[2] e del pensiero unico.

[1] il termine bagatella indica una cosa di nessun conto. I reati bagatellari sono quelli che, per la loro minima lesività, hanno minore rilevanza sociale e possono quindi essere repressi con sanzioni più lievi.

[2] There is no alternative, (T.I.N.A) era una delle formule più spesso usate da Margaret Thatcher per esprimere una linea di pensiero che considera il neoliberismo come la sola ideologia restante valida. Nell’economia, nella politica e nell’economia politica questa frase ha preso il significato della mancanza di alternative al sistema neoliberista: il libero mercato, il capitalismo e la globalizzazione sono l’unica strada percorribile per lo sviluppo di una società moderna.

Foto di gerardo da Pixabay

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 21 gennaio 2023 

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