disarmo

La liberazione si chiama disarmo, la resistenza si chiama nonviolenza. Oggi più che mai

di Pasquale Pugliese

Sono passati dieci anni da quando, in un articolo per il 25 aprile, scrivevo che oggi la liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza – formula che il 25 aprile dell’anno successivo sarebbe diventata lo slogan della grande manifestazione pacifista nazionale all’Arena di Verona, dalla quale fu lanciata la campagna Un’altra difesa è possibile – eppure in un decennio c’è stata una tale precipitazione delle cose che quell’auspicio di allora diventa urgenza improrogabile di oggi.

Nel 2013 il rapporto annuale del SIPRI, l’autorevole istituto di ricerca internazionale di Stoccolma, segnalava una già preoccupante crescita delle spese militari globali ad oltre 1.700 miliardi di dollari; secondo il rapporto reso noto oggi, con un salto di oltre 500 miliardi in soli dieci anni e di 127 rispetto all’anno precedente (+ 3,7%), nel 2022 sono giunte alla nuova cifra record di 2240 miliardi di dollari. In Italia allora si spendevano in armamenti 24 miliardi di euro, oggi l’Osservatorio sulle spese militari italiane documenta che sfioriamo i 27 miliardi di euro, che nel giro di alcuni anni diventeranno quasi 40 con l’aumento al 2% del PIL, come voluto dalla Nato e votato un anno fa dal Parlamento italiano. Risorse nazionali e globali sottratte agli investimenti civili, sociali ed ambientali, necessari a fare fronte alla crisi sistemica globale che genera quei conflitti che, invece, proprio le armi trasformano in guerre.

Dieci anni dopo, una nuova guerra fratricida divampa in Europa, esplosa fin dal 2014 nel Donbass ucraino e internazionalizzata nel 2022, con l’invasione russa da un lato e il sostegno armato della Nato all’Ucraina dall’altro, in un processo di escalation che non prevede alcuna possibilità di “cessate il fuoco”, ma una irresponsabile retorica della impossibile “vittoria” da entrambe le parti. Anziché una ricerca della mediazione e della pace, giusta e sostenibile per tutti, che preservi il popolo ucraino, in primis, e il resto dell’Europa successivamente da un catastrofico esito nucleare. Pure, incredibilmente, più volte minacciato.

Inoltre, un governo di estrema destra ha preso il potere in Italia e – dopo alcuni mesi di martellante controriforma culturale del Paese – la seconda carica dello stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, in un’intervista rilasciata a Repubblica a pochi giorni della Festa della Liberazione, ha dichiarato che “nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo”. Senza comprendere – ma non è l’unico e non solo a destra – che al di là della XII Norma transitoria e finale, che vieta la ricostruzione del partito fascista, sono i “Principi fondamentali” che fondano (appunto) l’antifascismo della Costituzione. A cominciare proprio dall’Articolo 11 che, con il “ripudio della guerra” rigetta – con schifo e disonore – il bellicismo e il militarismo, ossia gli elementi identitari primari del fascismo. Operando così una rivoluzione culturale e politica che inaugura una antitetica weltanschauung, visione del mondo, rispetto a quella fascista e delle relative relazioni interne e internazionali. Cosa non ancora sufficientemente messa a fuoco nelle sue conseguenze, come del resto ricordava anche Aldo Capitini, il filosofo italiano della nonviolenza, nel 1968: “il rifiuto della guerra e della sua preparazione è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso”.

Infine, da quest’anno, grazie al Centro studi Sereno Regis di Torino e all’editore Sonda, è possibile leggere in italiano l’esito dell’importante ricerca della politologa statunitense Erica Chenoweth (Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile), condotta insieme a Maria Stephan, che dimostra come negli ultimi 120 anni di campagne di lotta – violente e nonviolente – in giro per il mondo, più del 50% delle resistenze civili e nonviolente abbiano avuto successo contro solo il 26% di quelle che hanno fatto ricorso violenza. Si tratta di una documentazione analitica del fatto che la resistenza civile e nonviolenta, spiega Chenoweth, “è un’alternativa realistica e più efficace alla resistenza violenta nella maggior parte dei contesti. La resistenza civile non ha nulla a che fare con l’essere gentili o educati, ma fa riferimento alla resistenza radicata nell’azione comunitaria. Significa ribellarsi e costruire alternative nuove attraverso l’utilizzo di metodi che siano più inclusivi ed efficaci della violenza”.

Per tutte queste ragioni è necessario ribadire ancora, più che mai, che oggi la liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza. Ne va ormai della sopravvivenza di tutti.

L’articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2023 su Annotazioni

Foto di jacqueline macou da Pixabay

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Le voci della ragione: conversazione con Vittorio Agnoletto

di Laura Tussi

Tussi. Il tema della pace è ora più che mai urgente, sia per la guerra russo-ucraina, sia per le tensioni internazionali sempre più pericolose. Immagino che per un medico come lei, che si occupa di salute, cioè di vita, questa situazione deve costituire un grave allarme. Il pericolo riguarda anche il nostro ecosistema che le guerre e gli esperimenti nucleari aggravano. Un motivo in più perché gli ecopacifisti facciano sentire la loro voce di condanna.

Agnoletto. La guerra, oltre che morti, feriti e distruzione, porta anche inquinamento disastri ambientali e malattie. Si ragiona poco sul fatto che l’uso di armi esplosive, per esempio nelle aree urbane, crea grandi quantità di detriti e di macerie che possono causare un inquinamento dell’aria e del suolo. L’inquinamento provocato dalle guerre può provocare tanti e tanti problemi, per esempio, dal punto di vista ambientale, anche nelle falde acquifere: sono i cosiddetti danni collaterali della guerra, ma come impatto sono tutt’altro che collaterali. E poi non dimentichiamoci che le emissioni di CO2 di alcuni grandi eserciti possono addirittura essere maggiori di quelle emesse da intere nazioni. Esiste una ricerca della Lancaster University che dimostra quanto l’esercito degli Stati Uniti sia uno dei maggiori inquinatori. È l’istituzione che consuma più petrolio ed è uno dei principali emettitori di gas serra. L’esercito statunitense se fosse una nazione si collocherebbe tra il Perù e il Portogallo nella classifica globale degli acquisti di carburante. Si può fare anche un esempio purtroppo molto attuale: un F35 per percorrere 100 km consuma circa 400 litri di carburante che corrispondono all’emissione di 27.800 kg di Co2. L’aviazione tra le varie armi è quella che detiene la percentuale più alta di emissione all’interno del sistema di difesa USA. È necessario non dimenticare le malattie, le ricadute sull’ambiente e l’inquinamento ambientale che possono derivare da un conflitto. Rifacciamoci a un’esperienza storica che purtroppo conosciamo e della quale abbiamo parlato tante volte: le conseguenze della guerra in Iraq sono state, dal punto di vista sanitario, tremende. Pensiamo ai tumori, ai bambini nati deformi e a tante altre gravi condizioni di salute degli abitanti di quella regione, tutto questo non viene considerato. Va inoltre valutato anche un altro aspetto. I danni provocati dalla guerra sono anche collegati ad altri disastri sociali: pensiamo per esempio al fatto che intere popolazioni, migliaia, talvolta decine o centinaia di migliaia di persone sono obbligate ad abbandonare le loro case e finiscono nei campi per rifugiati, nei quali vivono una condizione molte volte ai limiti della dignità umana: mancano i servizi essenziali, sussiste una scarsità d’acqua e non ci sono, oppure sono assolutamente insufficienti, i servizi igienici. Senza contare la gestione dei rifiuti di simili aggregati umani e l’impatto ambientale che ne deriva. E quindi il risultato di una guerra – anche limitandosi ad osservare quello che accade nei territori coinvolti, senza analizzarne le conseguenze ad ampio raggio sull’economia globale – non si ferma “solo” ai morti e ai feriti ma è molto più ampio e devastante.

Tussi. Gli scienziati continuano a mettere in guardia i governi e gli Stati e parlano di baratro nucleare. Secondo molte autorevoli personalità ci stiamo incamminando su una via di non ritorno. Che cosa possiamo fare?

Agnoletto. Va precisato innanzitutto che non esiste un nucleare buono e un nucleare cattivo. È una tecnologia che prevede sempre un rischio. Un rischio che esiste, non eliminabile e che può avere delle conseguenze veramente pesantissime. Noto in questi giorni una contraddizione pazzesca da parte dell’establishment, sui giornali principali, sui grandi media, nelle parole dei portatori del pensiero unico in Italia come in tutta Europa. Viene lanciato un grande allarme per quello che può avvenire nella centrale nucleare di Zaporizhia – teniamo conto che 6 dei 15 reattori presenti in Ucraina sono collocati all’interno di questa centrale – ma contemporaneamente, per rispondere alla crisi energetica, quegli stessi paesi, quegli stessi protagonisti del pensiero unico spingono, attraverso i media mainstream, per un ritorno al nucleare. Questa è una contraddizione incredibile. Il ritornello di questi governi è: “Se il nucleare lo controlliamo noi, allora siamo sicuri. Incidenti non ci possono essere”. Proviamo, invece, a ipotizzare la possibilità che ci sia un incidente. Ci ritroveremmo in una situazione di stress collettivo ben superiore a quella che stiamo vivendo ora in relazione a quello che può accadere nelle centrali nucleari dell’Ucraina. Che cosa si può fare? Innanzitutto, dobbiamo valorizzare ulteriormente il grande impatto che ha avuto la campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari Ican che ha vinto anche il premio Nobel per la Pace nel 2017. Uno dei primi obiettivi è far sì che l’Italia firmi il Trattato voluto da Ican, il TPAN, Trattato Proibizione armi nucleari. Di questo il mondo politico non parla, ma è un obiettivo assolutamente fondamentale. Credo che i ragionamenti intorno alla guerra, in epoca nucleare, debbano modificarsi completamente. E non è un caso che la stessa chiesa cattolica abbia modificato totalmente la propria dottrina sulla guerra rispetto alla “guerra giusta”; ritengo che dovrebbe diventare senso comune la famosa affermazione di Einstein: “Non so con quali armi sarà combattuta la terza guerra mondiale. Ma la quarta sarà combattuta con pietre e bastoni”.

Tussi. In questi giorni ho letto il pamphlet dello scrittore disarmista Angelo Gaccione Scritti contro la guerra. Un discorso molto radicale e che considera tutti gli Stati armati – per la loro ricerca bellica, per gli ordigni di sterminio sempre più terribili di cui si dotano, e per la gigantesca spesa militare – responsabili di un sistema criminale ai danni degli esseri umani e della natura. Sostiene che in era nucleare è divenuta obsoleta qualsiasi tipo di difesa armata e che bisogna rinunciarvi. Se per difesa intendiamo la salvaguardia della vita e dei beni di una Nazione. Lei che ne pensa? Gaccione sostiene che bisogna avviare il disarmo unilaterale senza contropartita, come ha fatto lo Stato del Costa Rica che nel libro è citato come esempio. Procedere allo scioglimento dell’esercito e riconvertire a scopi sociali la spesa militare. Per esempio, investendo nella sanità pubblica, nella strumentazione e nella ricerca. Suggerisce di spostare i militari delle tre armi nei settori della tutela del territorio, e molte altre idee preziose.

Agnoletto. La riflessione dello scrittore Angelo Gaccione mi sembra estremamente importante e profonda. Il punto è che in questo momento siamo molto lontani dalla situazione auspicata. Nel 2020 sono stati spesi oltre 2000 miliardi di dollari per investimenti militari e vi ricorderete che alla COP26 è stato molto complicato lavorare attorno a un accordo per assicurare solo 100 miliardi per una transizione ecologica dei paesi del Sud del mondo. Si è in tal modo, resa evidente un’assenza di consapevolezza totale attorno a questo tema. Consideriamo che nel pianeta, in questo momento, ci sono circa 13.000 armi nucleari e consideriamo che noi siamo tra quei paesi che ospitano alcune decine di testate nucleari degli Usa. Credo che la garanzia di non utilizzare le bombe nucleari sia una garanzia che non ci può lasciare tranquilli. Perché quando due paesi sono in guerra, iniziano il conflitto con le armi convenzionali, ma se uno dei contendenti rischia di soccombere e ha a disposizione l’arma nucleare, è possibile e probabile che decida di farvi ricorso. D’altra parte, abbiamo già visto come, nonostante tutte le convenzioni internazionali, le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, non hanno mai avuto problemi a usare armi chimiche e gas tossici, che sono assolutamente vietati dalle convenzioni internazionali. Mi ha molto colpito in questi giorni come l’appello chiaro e durissimo di Papa Francesco sia stato totalmente ignorato dai grandi media. Le prime pagine sono andate tutte al discorso di Draghi al meeting di Comunione e Liberazione. Delle parole di Francesco non c’era praticamente traccia, al massimo qualche trafiletto nelle pagine interne. È una cosa inedita. Prima di Francesco, qualunque cosa diceva un papa diventava l’apertura dei telegiornali, addirittura esagerando, ignorando la laicità prevista dalla nostra Costituzione. Ora siamo invece di fronte a una cancellazione e a una vera e propria rimozione e censura. Sono rimasto anche colpito da come i giovani di CL, che in un’altra epoca e con altri Papi erano definiti i papaboys, hanno pressoché ignorato le parole di Francesco, anche se all’inizio della guerra, Comunione e Liberazione aveva fatto dichiarazioni orientate alla ricerca della pace. Ma questo è un papa scomodo perché non è disponibile a giustificare in nessun modo alcuna guerra e ha puntato il dito contro coloro che dalla guerra ricavano profitti. Francesco ha reso evidente come la guerra sia il risultato di grandi interessi economici interessati al controllo delle fonti energetiche e della logistica e non siano invece causate, come viene sostenuto, dalla difesa di grandi valori e ideali. Inoltre, ci dovrebbe preoccupare molto che lo schema della guerra, la logica amico/nemico, sia ormai applicata a qualunque settore della società. È quanto è avvenuto, ad esempio, in occasione della pandemia. In guerra si deve, tacere, obbedire e combattere. Non si può discutere, non si possono sollevare interrogativi. Questo rischia di essere il modello attorno al quale, oggi, viene costruita la nostra società. In questa condizione, credo che sia importante riprendere quelle tematiche che, per parlare della mia esperienza personale, stavano, ad esempio, alla base del movimento pacifista dei primi anni ’80. Penso alle grandi manifestazioni a Comiso alle quali ho partecipato nel 1983 contro l’installazione dei missili; un movimento pacifista in grado di praticare forme di disobbedienza civile. È necessario riprendere queste pratiche. In prospettiva, guardando ad un futuro purtroppo oggi lontano, dovremmo lavorare per una difesa civile nonviolenta – su questo mi sembra che ci sia un contributo interessante di Gaccione – che si fondi sull’attivismo e la difesa delle reti sociali presenti sul territorio. Alcune esperienze storiche possono esserci di riferimento, ma certamente è un percorso lungo, complesso che va attualizzato nella condizione odierna.

Tussi. Sarebbe favorevole allo scioglimento della Nato? Gaccione scrive che dopo la fine del Patto di Varsavia, della Cortina di Ferro e con la caduta del Muro di Berlino, la Nato non ha più senso ed è divenuta un grave pericolo per la pace. Va eliminata, secondo lui. L’Italia dovrebbe uscire unilateralmente dalla Nato e chiudere le basi dove sono ospitate testate nucleari.

Agnoletto. Posso solo dire che sono totalmente d’accordo sullo scioglimento della Nato. L’azione che la Nato sta portando avanti in questi anni è addirittura in contrasto con il motivo stesso che ne giustificò la nascita. La Nato, infatti, era stata presentata come uno strumento di difesa dei territori europei all’epoca della guerra fredda. La situazione è totalmente cambiata: credo che si sia persa una grande opportunità, cioè la Nato andava sciolta contestualmente alla fine del Patto di Varsavia. Il non aver fatto questo, ne ha permesso la trasformazione in uno strumento militare in mano agli USA per intervenire in qualunque parte del mondo, tanto è vero che, proprio in questi ultimi mesi, sta potenziando la sua presenza nel Pacifico, seppure sotto una diversa sigla. Inoltre, il mancato scioglimento della Nato rende impossibile la formazione di un protagonismo autonomo sulla scena mondiale da parte dell’Unione Europea. Ha bloccato un’emancipazione dell’Unione Europea da una condizione di dipendenza dagli Stati Uniti, ad un soggetto capace di svolgere una propria azione autonoma e indipendente, che sappia pesare nel mondo a cominciare per esempio del Medioriente, dove l’Unione Europea, nonostante la vicinanza geografica, è totalmente priva di una propria strategia. Sono d’accordo che dobbiamo uscire dalla Nato – meglio sarebbe scioglierla – e che vanno chiuse tutte le sue basi militari presenti sul nostro territorio a cominciare da quelle che ospitano le testate nucleari…
Segue su ODISSEA

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 23 settembre 2022

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Diamoci una tregua: sospendiamo l’acquisto di armamenti

di Giorgio Berretta

Un anno durissimo. Segnato dalla pandemia da Covid-19. Oltre 1,8 milioni di decessi nel mondo, di cui più di 70mila in Italia. Quasi 80 milioni di persone contagiate tra cui migliaia di medici che si sono ammalati e sono morti. La pandemia da Covid-19 che, a partire dal gennaio dell’anno scorso si è diffusa nel mondo, non ha risparmiato nessuno. Ognuno di noi ha un parente, un amico, un conoscente che si è ammalato e molti sono morti. I morti per Covid-19 in Italia assommano ad oggi a 70.900: più persone di quante potrebbe contenerne lo stadio Olimpico di Roma (70.634 posti).

Riflessioni severe, ma carenti

“L’anno che va chiudendosi, profondamente e drammaticamente segnato dalla pandemia, impone a tutti noi severe riflessioni” – ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso al Corpo Diplomatico. “Dalla prova che stiamo dolorosamente vivendo scaturisce, con forza ancora più intensa, l’esigenza di una collaborazione internazionale senza riserve, conseguenza diretta di un mondo sempre più interconnesso. Sfide globali devono essere fronteggiate da una “governance” effettivamente ed efficacemente globale. Il tema della lotta per la salute dei popoli e dell’ambiente appartengono, a buon titolo, a questa categoria”.

Il discorso del Presidente della Repubblica elenca poi numerose crisi e ribadisce che “Accanto alle misure di contrasto servono azioni che vadano a incidere sulla crescita e lo sviluppo secondo modelli inclusivi e sostenibili, a partire da investimenti adeguati nell’istruzione, nella salute, nella cultura, per i giovani” .

Per questo – ha sottolineato il Capo dello Stato – è necessario “infondere maggior vigore al multilateralismo contro resistenze che, mascherate con il rilancio di polverose parole d’ordine nazionalistiche, sono inevitabilmente causa di tensioni, di crisi e di povertà”. Un discorso importante e condivisibile. Ma sembra dimenticare un tema improrogabile che dovrebbe essere messo subito sul tavolo dell’agenda internazionale e italiana: la spesa militare

La nuova corsa mondiale alle armi

L’anno che ha preceduto la pandemia ha segnato, infatti, un record della spesa militare: nel 2019 sono stati spesi nel mondo più di 1.917 miliardi di dollari, “una cifra mai così alta dalla fine della guerra fredda” – avvertiva lo scorso aprile una dettagliata analisi dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI). Una spesa di cui hanno beneficiato soprattutto le principali aziende del settore militare che, come ha riportato il SIPRI in un recente studio, nel 2019 hanno hanno fatto affari per oltre 361 miliardi di dollari con un incremento dell’’8,5% rispetto all’anno precedente: affari che si sono concentrati soprattutto nelle zone di maggior tensione del mondo a cominciare dal Medio Oriente.

La questione riguarda da vicino anche l’Europa, Italia compresa. Non solo perché tra le prime 25 aziende militari (qui l’elenco) sono presenti tre aziende europee (BAE Systems, Airbus e Leonardo ex-Finmeccanica), ma soprattutto perché le esportazioni di sistemi militari degli Stati membri dell’Unione Europea (Regno Unito incluso) nel 2019 ammontano al 26% del totale globale nel periodo 2015-19 con un incremento del 9,0% rispetto al quinquennio precedente. Tra i primi cinque esportatori di armamenti dell’Europa occidentale figurano, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia: nell’insieme questi cinque paesi rappresentano il 23% dell’esportazione mondiale di armamenti – evidenzia un ulteriore ricerca del SIPRII Paesi dell’Unione Europea hanno dunque un ruolo di primo piano nelle esportazioni di sistemi militari e, di conseguenza, hanno precise responsabilità anche nella nuova corsa agli armamenti.

L’Italia che si rilancia con gli armamenti

E’ ormai evidente che i recenti governi hanno cercato di rilanciare l’economia italiana puntando su due elementi: l’aumento delle esportazioni di armamenti e l’incremento della spesa militare. Lo ha dimostrato chiaramente la ricerca pubblicata dalla Rete italiana per il Disarmo in occasione del trentesimo anniversario della legge 185 del 1990. “Il trend evidenzia una forte risalita nell’ultimo decennio che fa seguito ad un primo rialzo avvenuto tra il 2006 e il 2010 poi attenuato dalla crisi finanziaria globale: dopo un paio di decenni negli anni novanta di applicazione abbastanza rigorosa, i Governi hanno iniziato ad avere come obiettivo il sostegno all’export militare e non più il suo controllo” – commentava Rete Disarmo.

Le ingenti autorizzazioni all’esportazione di armamenti destinati alle monarchie assolutiste islamiche, ai Paesi del Medio Oriente e alle autocrazie delle ex repubbliche socialiste sovietiche si spiegano col tentativo di dare impulso e creare nuovi mercati per le due principali aziende a controllo stataleLeonardo (ex Finmeccanica) e Fincantieri. Un’operazione per sostenere i piani, messi in atto da Leonardo a cominciare dagli anni duemila, di dismettere il settore civile per concentrarsi su quello militare e della sicurezza.

Non solo. Per favorire le aziende del settore militare, i recenti governi hanno aumentato anche la spesa militare: la Legge di Bilancio per il 2021, attualmente in discussione in Parlamento prevede una spesa militare di 24,5 miliardi di euro. Una cifra complessiva che è in forte aumento rispetto agli ultimi anni e che deriva dalla somma di fondi diretti del Ministero della Difesa e di quelli messi a disposizione per il Ministero per lo Sviluppo Economico. Continuare ad incentivare l’economia armata non solo è insensato, è folle. Come ho spiegato in un sintetico studio per la rivista “Il Mulino”, il sistema della difesa e il sistema sanitario italiano sono due sistemi da riformare ampiamente se vogliamo davvero che rispondano alle effettive esigenza di salute e di sicurezza del nostro Paese.

Una moratoria sull’acquisto di sistemi militari

Di quei 24,5 miliardi previsti per la spesa militare per il 2021, oltre 6 miliardi di euro sono destinati ad acquistare nuovi sistemi d’armamento tra cui cacciabombardieri, fregate e cacciatorpedinieri, carri armati e blindo, missili e sommergibili. Ma c’è di più: il principale aumento, di circa 1,6 miliardi di euro, consisterebbe nelle cosiddette “spese di investimento” che, tradotto, vuol dire proprio nell’acquisto di nuovi armamenti. Un ottimo affare per le nostre aziende militari a scapito dei contribuenti. A fronte della pandemia che sta ancora mietendo vittime (ieri 505 morti e 18mila nuovi casi), nelle scorse settimane Rete Italiana Pace e Disarmo e la Campagna Sbilanciamoci! hanno chiesto al governo una moratoria di un anno sull’acquisto di nuovi armamenti. Come ha scritto Giulio Marcon, “contro il Covid queste armi non servono”.

Non è una questione di poco conto. Con i soldi di un carro armato ariete (7 milioni di euro) – spiegano le due associazioni – potremmo riaprire 20 piccoli ospedali e con il costo di una fregata potremmo assumere 1200 infermieri per 10 anni. Con i soldi che spendiamo per un elicottero Nh-90 (44 milioni) potremmo acquistare 4.500 ventilatori polmonari. Al posto di spendere soldi per un pattugliatore d’altura (427 milioni) potremmo ammodernare 410 ospedali. Con la spesa di un sommergibile U-212 (670 milioni) – a proposito, si sta pensando di acquistarne quattro e per di più in aggiunta – potremmo pagare lo stipendio a mille medici per dieci anni…

Rivedere le priorità

La crisi economica a seguito della pandemia rende ancor più urgente rivedere le priorità che riguardano gli investimenti statali. Più in generale va ripensato e reso sostenibile il “modello di difesa” che deve includere a pieno titolo la difesa civile e nonviolenta (come propone la Proposta di Legge di iniziativa popolare), e va ridefinito il Piano Sanitario Nazionale e la gestione delle emergenze. Nel frattempo, però, potremmo farci per il nuovo anno un regalodiamoci una tregua e sospendiamo l’acquisto di nuovi armamenti.

Pubblicato il 25 dicembre 2020 in Unimondo

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L’export di armi e quel ”realismo politico” che tutto giustifica

di Anna Toro
Siamo in uno stato di guerra permanente e globale, una guerra necessaria nella quale ognuno deve fare la propria parte, Italia compresa. O almeno, è quello che intendono il governo e alcuni parlamentari quando invocano il “principio di realtà” in politica per giustificare tutte le scelte principali in questo senso, compreso l’acquisto e l’esportazione di armi. C’è però un altro principio, il vero bandolo della matassa di questo circolo vizioso che ci porta ad armarci sempre di più, per “difenderci” da coloro che probabilmente abbiamo contribuito ad armare: è il mercato, con le sue leggi e i suoi protagonisti che spesso agiscono nell’ombra influenzando le decisioni politiche, mentre i media preferiscono invocare le crisi e le emergenze (migranti, terrorismo) su cui spostare l’attenzione dell’opinione pubblica. Il seminario parlamentare dal titolo “Guerre, Scelte di pace e riconversione industriale” che si è tenuto il 5 luglio a Montecitorio e promosso dal Movimento politico per l’unità italiano, è l’ennesimo tentativo della società civile di intavolare un dibattito e cercare interlocutori fra le istituzioni affinché questi temi non passino come al solito sottobanco. …

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