Punto rosa

Due donne un giardino e infiniti muri

di Chiara Palmisani

Diverse nei costumi e gli stili di vita, una indossa il velo e trascorre il suo tempo occupandosi del suo frutteto di limoni, l’altra indossa abiti occidentali e passa le giornate ad arredare la sua nuova casa e a pianificare una festa d’inaugurazione. Proprio il posto dove sorge questa casa fa sì che le esistenze delle due donne si sfiorino e non solo. Infatti, la casa di Mira e del marito è proprio al confine con la Cisgiordania e precisamente con il giardino di limoni di Salma. I servizi segreti decidono che tutti gli alberi di limoni del giardino debbano essere abbattuti, per la sicurezza e l’incolumità del Ministro della Difesa israeliano. Basta un ordine per cancellare in un lampo l’unica fonte di sostentamento e la principale ragione di vita di una donna palestinese.

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Donne e tecnologie: superiamo gli stereotipi!

di Michela Balocchi

L’8 settembre si è tenuta a Milano la conferenza Women&Technologies: research and innovation realizzata nell’ambito dell’IFIP WCC World Computer Congress (www.wcc2008.org). La giornata aveva lo scopo di fare il punto sulla presenza delle donne nel mondo della scienza e delle nuove tecnologie, sui loro contributi all’innovazione, alla creazione e produzione di ICT, sui passi avanti fatti nel superamento degli stereotipi di genere in questo ambito, e sulle buone pratiche di avvicinamento delle giovani alle nuove tecnologie attraverso un confronto a livello internazionale.

I temi trattati sono stati “Donne e ICT in Europa”, “Art and affective computing”, “Interazione e dialogo nelle Comunità sul Web del futuro”, “Innovazione nelle imprese e nelle istituzioni” (www.womentech.info). L’approccio alle nuove tecnologie – insieme alla risoluzione dei problemi di genere connessi al loro uso, creazione e produzione – è stato generalmente un approccio olistico e multidiscipliare, attraverso cui si è sottolineata la necessità di considerare gli aspetti sociologici della scienza così come il fatto che essa stessa è un prodotto umano e non neutro al genere.

È stato tratteggiato un breve quadro sull’ancora scarsa presenza di giovani studentesse nelle discipline tecnico-scientifiche in Italia e sulla forte asimmetria di genere presente al loro interno tra i diversi corsi: per esempio ad ingegneria, una facoltà in cui la presenza di ragazze è molto bassa, si passa dal 40% di donne nell’area bio-medica ad appena il 4% in quella meccanica (dati relativi al 2005, Badaloni). Le relatrici, che non si sono soffermate sugli effetti (pur determinanti) della socializzazione primaria e secondaria sulle scelte educative, hanno posto l’attenzione sui processi di selezione delle donne una volta inserite nei luoghi di ricerca e di lavoro: coloro che controllano l’accesso alle carriere sono prevalentemente maschi, i meccanismi di omofilia, soprattutto ai livelli alti di carriera, rimangono molto forti. Si sente la necessità di portare un’ottica di genere nei contesti decisionali e di aprire spazi alle donne per porre fine allo spreco di risorse, talenti e intelligenze femminili in questo paese. Da più parti viene sottolineata l’esigenza di un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro, e per questo è necessario un maggior intervento mirato da parte dello Stato in collaborazione con il mondo del lavoro: si parla, per esempio, di “servizi universali” per l’infanzia (Badaloni e Locatelli), che siano presenti in ogni parte del mondo perché fare ricerca significa anche essere disponibili ad un’alta mobilità, ma la cura dei familiari ostacola la mobilità delle donne, data la persistente disparità di genere nella divisione del lavoro familiare anche tra le coppie più istruite.

Una recente ricerca di Bencivenga sulle donne adulte che non usano o usano poco il computer solleva il problema dell’auto-svalutazione da parte delle donne e dell’immagine che spesso hanno e danno di sé, che riflette gli stereotipi antifemminili correnti secondo cui le donne sarebbero, tra le altre cose, “naturalmente” lontane dalla tecnologia e dalla scienza. Emerge fortemente la necessità di rendere scienza e tecnologia interessanti soprattutto per le giovani e giovanissime (Pollitzer). Un modo è anche quello di trovare modelli di ruolo potenti cui poter fare riferimento in campo scientifico, innanzitutto togliendo dall’invisibilità le donne che hanno contribuito e contribuiscono ai progressi della scienza. Dal lato delle adulte, invece, è importante anche il ruolo svolto dalle figlie nell’insegnare l’uso delle nuove tecnologie alle proprie madri (Bencivenga).

Nella sezione pomeridiana “Art and Affective Computing: Interaction and Dialogues in Communities on the Future Web” (concomitante alla sezione “Innovation in Enterprises and Institutions”), si è parlato della rete come del più grande spazio pubblico che si sia mai conosciuto fino ad oggi, con le potenzialità e i rischi a ciò connessi (Cortiana): la rete fornisce enormi possibilità di estensione delle relazioni sociali, di allargamento, arricchimento e condivisone della conoscenza, ma a questo si collegano anche problemi di inclusione e di ineguaglianze nel suo uso e nell’accesso così come la necessità di stabilire regole chiare, una sorta di Bill of Rights di Internet.

A proposito di inclusione, De Cindio si è soffermata sul diritto di cittadinanza in rete, (e)-citizenship, per le donne, e sulla necessità di creare strumenti adeguati per l’allargamento della e-participation e anche della e-deliberation, cui guarda con generale ottimismo nonostante i risultati non così lusinghieri di molte delle sperimentazioni italiane di questo tipo. I dati da lei riportati sulla partecipazione dei cittadini ad alcuni siti civici della Lombardia mostrano una ancora bassa partecipazione, soprattutto laddove la pubblica amministrazione ha meno concretamente investito nei progetti, e una ancor più scarsa partecipazione delle donne: il 20% sul totale nella sperimentazione della rete civica di Mantova, il 30% a Vigevano e a Milano, il 16% a Brescia (su un totale rispettivamente di 78, 120, 2130 e 137 partecipanti). Dalle prospettive top-down alle potenzialità delle net community e del web 2.0. Bonomo si interroga sulle caratteristiche delle communities on line, sul loro funzionamento, sugli incentivi (per lo più non monetari) su cui si basano (sentirsi efficaci, ottenere riconoscimento e reciprocità), e sulle caratteristiche dei leaders delle comunità. Si domanda perché tra i leaders prevalgano ancora gli uomini anche in una comunità spazio dell’auto-imprenditorialità come quella di e-bay, in cui le barriere all’accesso (a parte quelle strutturali) sono molto basse, e in cui tra i primi contributors più della metà sono donne (il 56%), e dove, però, i primi 10 venditori rimangono uomini. Si ricorda qui l’importanza della socializzazione all’uso della rete come strumento ludico fin dalla giovane età, ma anche dell’importanza ricoperta dai “giochi di ruolo” che funzionano da laboratorio per sviluppare capacità di leadership e che sono giochi ancora svolti per lo più da giovani maschi (l’85% sul totale) intorno ai 27 anni, che vi dedicano una media di ben 22 ore alla settimana.

Interessante anche l’intervento di Lisetti che presenta alcuni suoi studi sull’affecting computing (filone che ha avuto molte donne pioniere dagli anni ’90 in poi) e le diverse possibilità di applicazione pratica: non solo le espressioni negli avatar, ma anche l’emotion recognition per riconoscere le emozioni nei volti di piloti d’aereo, astronauti, sommozzatori, così come le attrezzature tecnologiche per monitorare i pazienti reduci di guerra che si trovano lontani dai centri medici e per stabilire una efficace comunicazione paziente-medico in contesti difficili.

La giornata di convegno è stata anche l’occasione per assegnare il premio Le Tecnovisionarie® 2008, che ha visto vincitrice Fiorella Operto per il suo impegno volto a combattere le disuguaglianze di genere coinvolgendo giovani donne nella scienza e nella tecnologia, in particolare nel campo della robotica, per esempio rafforzando l’autostima delle ragazze nelle loro capacità tecniche, e creando robot con programmi capaci di catturare l’interesse femminile che è raramente orientato all’offerta tipica del mercato di robotica quasi esclusivamente focalizzato su macchinari da guerra e giochi da combattimento. E l’esperienza insegna che corsi che tengano conto di interessi “altri” e differenti da quelli tradizionalmente dominanti hanno un valore aggiunto non solo in termini di inclusione di chi si ritrova solitamente escluso, ma anche in termini di mantenimento dell’interesse di chi è già ben inserito. La robotica è una tra le discipline maggiormente dominate dalla presenza (azione e impostazione) maschile tradizionale.

Le menti creative di donne e uomini, però, se libere di esprimersi, possono superare certi condizionamenti e barriere ideologiche: diventa allora fondamentale trovare più spazi di accesso per le giovani e combattere vecchi stereotipi dicotomici sulle presunte diverse capacità e preferenze di donne e uomini che relegano gli uni e le altre in una rigida divisione di compiti, mansioni e conoscenze, soffocando le potenzialità delle singole persone.

Server Donne, 28 ottobre 2008

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Che prezzo ha il (dis)onore?

Per le donne palestinesi in Israele il prezzo dell’onore è ancora troppo alto

scritto per peacereporter da Margherita Drago

L’11 marzo 2008 una ragazza di 19 anni veniva quasi uccisa da suo fratello, nel suo villaggio di Na’ura, vicino ad Afula in Galilea. L’omicidio era stato pianificato da tempo ma, per fortuna, la ragazza si è salvata la vita fingendosi morta dopo essere stata ferita alla testa da una pallottola. Il fratello, preso in consegna dalla polizia, è stato applaudito e lodato per la sua coraggiosa azione dalla famiglia e dalle persone presenti alla scena. Il 16 marzo 2008 Sara Abu Ghanem 40 anni, è stata ferita in un altro tentato omicidio a Jawarish, quartiere di Ramla vicino a Tel Aviv. Aveva divorziato dal marito e voleva rendere ufficiale la sua relazione con un altro uomo, di religione ebraica. In sei anni Sara è la nona vittima d’onore nella famiglia Abu Ghanem. 8 donne prima di lei sono state uccise. Entrambe le storie testimoniano gli ultimi crimini d’onore registrati nel 2008 tra la comunità palestinese in Israele.
In Israele le donne palestinesi sono sottoposte a tre diversi tipi di discriminazione, che si sovrappongono come degli strati sotto la quale la vittima viene seppellita. La prima discriminazione avviene in tutto il mondo per lo stesso motivo: sono donne. In secondo luogo sono donne palestinesi in Israele, e per questo cittadine di serie B, in un paese dove la loro cultura e storia collettiva non viene riconosciuta: i palestinesi in Israele vengono indicati come arabi israeliani, denominazione che generalizza appositamente la presenza palestinese in Israele. In terzo luogo sono donne palestinesi e come tali discriminate nella stessa comunità araba di appartenenza.
La minoranza palestinese in Israele conta il 20 percento della popolazione e vive soprattutto in centri rurali e villaggi. A partire dalla Nakba del 1948, la nascita dello Stato di Israele, la società palestinese è passata da una leadership tradizionale a una forma politica più organizzata, che ha  cercato di lottare per l’uguaglianza dei diritti civili dei palestinesi in Israele, e di sviluppare un’agenda per unire la comunità palestinese in Israele. Cercare l’unità ha fatto sì che i problemi che le donne palestinesi affrontavano quotidianamente, inclusi i crimini d’onore, passassero in secondo piano in nome di una causa più “nobile” e importante. Parlare di crimini d’onore veniva percepito come un tentativo di rompere i delicati equilibri creatisi tra diversi gruppi politici e sociali all’interno della società palestinese, già sotto pressione del governo israeliano.
Nel 1991 al-Fanar è stata la prima organizzazione femminista palestinese a protestare contro l’uccisione du una ragazza da parte del padre. Il motivo era la gravidanza della figlia al di fuori del matrimonio. Il processo mise in luce che la ragazza era stata vittima di una violenza commessa da un parente, e che il padre ne era direttamente a conoscenza. Il tabù del crimine d’onore veniva sfidato pubblicamente per la prima volta all’interno della società palestinese in Israele. Prendere coscienza dell’esistenza del problema fu un grande progresso: durante gli anni ’90 sono stati fatti molti passi avanti, attraverso la formazione di coalizioni di attiviste e intellettuali palestinesi, che si inseriscono nella comunità locale. Grazie a centri anti-violenza, centri di emergenza, assistenza sociale, psicologi e avvocati, le vittime di violenza trovano supporto, aiuto e spesso un luogo sicuro dove rifugiarsi.
I crimini d’onore non sono scomparsi in Israele. Da una ricerca condotta da Women Against Violence, associazione palestinese di Nazareth, risulta che un “buon” motivo per uccidere può essere il “modo di vestire e comportarsi”, “fumare”, “lasciare la casa senza permesso”, “la richiesta di divorzio” o il “rifiuto di relazioni sessuali in matrimoni forzati”, “relazioni extraconiugali” o “voci di relazioni extraconiugali”. Eliminando l’elemento disturbatore, l’onore è ristabilito e la famiglia può continuare a essere rispettabile agli occhi della società. In una cultura dove la donna è vista come il ricettacolo dell’onore familiare, ogni suo gesto, il suo modo di parlare, di comportarsi, di vestirsi, si carica di significati e conseguenze sociali. Le bambine, le ragazze, le donne sono coscienti della loro responsabilità fin dall’infanzia. É questo il principale motivo per cui un’altissima percentuale dei crimini e delle violenze non viene denunciata. Il 55 percento delle donne non denuncia le violenze subite e il rapporto aumenta se si prende in considerazione anche la violenza sessuale all’interno del matrimonio.
La voce della donna rimane silenziosa anche in tribunale. La vittima spesso non è fisicamente presente all’udienza o le sue parole vengono usate a suo discapito: il suo comportamento ha provocato l’aggressore e lo ha forzato ad usare la violenza. I tribunali israeliani non danno molto peso ai reati d’onore in quanto visti come “una tradizione araba”. Il carnefice solitamente non viene punito con una pena adeguata, spesso solo 2-3 anni di carcere. “Queste sono le loro usanze, questa è la loro tradizione”  è la frase spesso registrata in tribunale, per giustificare i crimini d’onore come una questione interna alla famiglia. La negligenza della polizia e dei servizi sociali fanno il resto.
Grazie alla testimonianza della madre e di un’altra sorella, in marzo, il tribunale ha condannato a 16 anni Kamil Abu Ghanem per aver ucciso sua sorella Hamda nel 2007. Il corpo è stato ritrovato solo lo scorso gennaio. Queste due coraggiose donne hanno rotto il muro del silenzio che le circondava da troppi anni, a rischio della loro stessa vita, per interrompere la catena di omicidi nella loro famiglia. Il caso di Sara Abu-Ghanem è l’ultimo esempio, per le donne palestinesi in Israele l’onore ha ancora un prezzo troppo alto.

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Un elfo in famiglia

Non mi convince quello che ho letto in rete. L’essenza del testo non sta tanto, secondo me, nella difficoltà di convivenza con il diverso, con l’unknow fuori di noi riflesso pauroso dell’unknow che ciascuno di noi si porta dentro, quanto in un problema, o in una serie di problemi che, a distanza di molti anni dall’ambientazione del romanzo, sono più che mai attuali: la famiglia, i figli soprattutto, sono necessariamente garanzia di felicità? Può la maternità, possibilmente ripetuta e spontanea, essere ancora considerata la scelta più naturale per una donna? E chi è più condizionato, più vittima degli stereotipi e della retorica: colui che nella vita opta a freddo per la famiglia tradizionale o colui che la rifiuta?

Sono questi alcuni degli interrogativi più coinvolgenti che pone “Il quinto figlio” di Doris Lessing, premio Nobel 2007. In tempi di liberazione sessuale e boom contraccettivo, una famiglia volutamente numerosa costituiva un’eccezione, proprio come oggi. Ma essa era il sogno di David ed Harriet, due giovani “antichi”, alla ricerca, rispettivamente, dell’anima gemella e della “prima volta” come dono e non come svendita. Si trovano, si attraggono naturalmente, si amano, l’uno lo specchio dell’altra. “Almeno sei” era il loro programma, sei figli con i quali vivere senza lacrime e senza fatica in una grande casa, sempre aperta, a Natale, a Pasqua, d’estate, ad amici e parenti, in spirito di collaborazione e semplicità, esempio vivente di felicità possibile. I figli arrivano come Dio li manda, in un clima idilliaco da cartolina illustrata, da pubblicità patinata. Sembra il sogno realizzato, lo schema astratto della felicità calato nel reale, ma la vita, quella vera, bussa alle porte. David, nonostante il super lavoro a cui si sottopone, non ce la fa a mantenere casa e figli e sempre più spesso è costretto a dipendere dalla generosità degli assegni paterni; Harriet, spossata dalle gravidanze problematiche e troppo ravvicinate, è costretta a dipendere in casa dall’abnegazione di sua madre, nonna infaticabile e generosa ma anche risentita per l’incoscienza “senza precauzioni” della figlia. Quando arriva il quinto figlio, di nuovo troppo presto e, così dicono, stavolta puro “incidente” di percorso, la situazione precipita. Harriet non può dirlo esplicitamente, nemmeno a se stessa, sarebbe come tradire i suoi ideali e il suo progetto di vita, ma lei, questo figlio, non lo vuole, non lo sopporta. L’insolita e devastante vivacità del feto, tutto calci e colpi, più che l’annuncio premonitore di una creatura “diversa”, sembra a me la somatizzazione del desiderio materno di espellere da sé quel corpo estraneo, alieno, nemico, che le succhia la vita da dentro. Quando il bimbo nasce, ciò che Harriet vede è un mostro, una sorta di elfo, di creatura tozza e deforme alla Victor Hugo, selvatica e appartata, non amata né amabile. Man mano che il “mostro” cresce, la casa si spopola, gli altri figli partono per nonni e collegi, mentre la coppia finirà per allontanarsi, in quanto Harriet, tormentata dal senso di colpa per non aver voluto e per non amare questo suo figlio diverso, dedicherà proprio a lui tutte le sue restanti energie, mentre David si immergerà sempre di più nel lavoro, diventando quello che mai avrebbe voluto essere. Molteplici significati si addensano nel personaggio di Ben, il quinto figlio. Come dicevo all’inizio, la sua storia non è emblematica tanto della difficoltà di accettare e vivere con un “diverso”, quanto di quello che sono o potrebbero essere i figli, comunque sempre “diversi” da noi: non bambolotti a nostra immagine e somiglianza, piuttosto alieni problematici, che non sai da quale verso prendere; esseri in proprio che richiedono tempo e fatica e causano, più spesso di quanto si sia disposti ad ammettere, ansie e sofferenze; esseri che è legittimo (e rispettoso) anche non desiderare, senza sensi di colpa, a dispetto di tanta retorica familista. Credo sia questo il messaggio della Lessing, una scrittrice impietosa nello scandaglio del cuore femminile e delle relazioni umane.

Lessing Doris – Il quinto figlio. Feltrinelli, 2000

Pubblicato in La voce di Ghismunda, 23 agosto 2008

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Donne nel dopoguerra

Un catalogo fotografico per la storia del Centro italiano femminile
di Gianna Proia

Un volume per dare una memoria storica visiva al Centro Italiano Femminile. A cura di Fiorenza Taricone è stato pubblicato di recente il catalogo fotografico dal titolo Donne nel dopoguerra. Il Centro Italiano Femminile 1945-2005: una storia per immagini.

Fiorenza Taricone, è studiosa da tempo dell’associazionismo in Italia tra l’Ottocento e Novecento e dell’evoluzione dei diritti civili e politici. Tra i tanti volumi di cui è stata autrice, Teresa Labriola: biografia politica di un’intellettuale fra Ottocento e Novecento, Ausonio Franchi: democrazia e libero pensiero nel XIX secolo, Isabella Grassi (diari 1920-21). Associazionismo e modernismo, Teoria e prassi dell’associazionismo italiano nel XIX e XX secolo; l’ultimo in ordine di tempo ha riguardato la figura di un appartenente al pensiero sansimoniano che svolse un ruolo cruciale nel movimento di liberazione femminile nella Francia del primo Ottocento: Il sansimoniano Michel Chevalier: industrialismo e liberalismo, pubblicato lo scorso anno.

In quest’ultimo volume, la curatrice ha ripercorso, come rivela il titolo, la storia, le tappe fondamentali del CIF attraverso le immagini, tanto da costruire un excursus storico per immagini dell’associazione dalle origini alla contemporaneità. “In primo luogo – ha precisato – si vuol far parlare le immagini. In secondo luogo, visualizzare l’intreccio teorico e operativo della sua azione. In terzo luogo, evidenziare i rapporti collaborativi con quegli uomini e quelle donne che tanta parte hanno avuto nella storia della Repubblica”.

F. Taricone con molta precisione ha illustrato le nove sezioni in cui è stato diviso il catalogo, dando la possibilità alle lettrici e ai lettori di rivivere avvenimenti, rivedere volti di persone che hanno segnato le tappe più significative del cammino: Angela Cingolati Guidi, Maria Unterrichter Jervolino, Tina Anselmi, Maria Federici solo per fare qualche nome, donne della Costituente quindi, della Repubblica, dell’associazionismo.

La prima sezione è dedicata alle linee direttive del Centro Italiano Femminile, esplicitate nello statuto elaborato nel settembre 1944, la seconda mette in evidenza l’impegno sociale e politico, come si configura attraverso l’elaborazione dei primi statuti e l’azione in merito alla condizione femminile.

I compiti a cui le donne erano chiamate a impegnarsi erano contenuti in un opuscolo “sorto dalla necessità di raggruppare e coordinare le forze femminili di attiva e franca professione cattolica, in vista dei grandi compiti morali, sociali e civili che la pace affiderà alla responsabilità della donna italiana”. La donna doveva, quindi, essere pronta a sostenere principi morali e sociali, a difendere la famiglia, e a contribuire alla ricostruzione del Paese.

Dedicata al lavoro è la terza sezione che illustra le tante attività lavorative che impegnavano quotidianamente le donne. “Il Cif ha avuto il merito di sapersi distaccare da una visione originaria cara agli ambienti cattolici non progressisti della donna lavoratrice che, in quanto tale, sarebbe stata di disgregazione dell’unità familiare. Pur dando la precedenza a quest’ultima, erano riconosciuti alle donne i meriti del doppio lavoro, svolto in casa e fuori, e il valore economico di uno stipendio aggiuntivo, anche se quello del capofamiglia restava la fonte di reddito primaria”. Il volume contiene foto che mostrano le diverse attività che impegnavano le donne: i lavori sartoriali, le donne al telaio, le tipografe, le donne che svolgevano lavori in muratura, le venditrici di agrumi e di vino, le impagliatrici, le donne che lavorano in miniera, fino ad illustrare le prime due donne commissari di polizia: Anna Maria Jannuzzi Coniglio e Francesca Milillo Taldone.

“Con il progredire della scolarità femminile – ha sottolineato F. Taricone – si riconoscono via via anche le ambizioni professionali e intellettuali delle giovani generazioni, che cercano di farsi spazio in un mondo lavorativo a totale dimensione maschile. Il Cif affianca le iniziative di numerose associazioni femminili e soprattutto azioni legislative tendenti a capovolgere le discriminazioni cui erano fatte oggetto anche donne provviste di curriculum e titolo di studio adeguato”. Il Cif cambiò anche la visione della famiglia “vista non solo come luogo di conservazione e riproduzione di valori, ma anche e soprattutto come luogo di solidarietà e di apertura alla società”, con una modificazione dei ruoli maschili e femminili, genitoriali e affettivi. L’idea di indissolubilità della famiglia portò comunque il Cif a schierarsi contro i progetti di legge divorzisti a partire dagli anni Sessanta.

“Dell’attenzione all’istituzione familiare è testimonianza sia il lavoro assiduo di studio che il Cif dedica alla riforma del diritto di famiglia, sia l’interesse per i consultori come strutture di sostegno; infine, il Centro incontra nelle sue riflessioni sulla famiglia anche quelle legate alle politiche sulle pari opportunità, attinenti alla conciliazione dei ruoli e dei tempi all’interno delle famiglie, con il coinvolgimento inevitabile della partnership maschile, operando negli organismi preposti quali la Commissione Nazionale per le Pari Opportunità fin dal suo nascere con la presenza di Alba Dini, presidente del Cif dal 1997 al 2003, e di Maria Chiaia, presidente dal 1988 al 1997. (15) A chiudere la sezione sono due foto che ritraggono rispettivamente una manifestazione di uomini e donne medico e un corteo di lavoratori e lavoratrici a Roma negli anni Settanta.

La quarta sezione è dedicata al settore dell’educazione, la quinta illustra l’impegno profuso nella società civile e politica, la sesta pone l’attenzione alle generazioni del futuro e il cammino dell’idea d’Europa, la settima delinea i momenti più significativi delle udienze papali, l’ottava è dedicata alla cura della memoria storica e la nona al materiale tratto dal periodico del Centro Italiano Femminile.

L’attenzione del Cif andava, quindi, dall’educazione, al lavoro, dai giovani alla famiglia fino all’idea di Europa. Nel V Congresso nazionale dedicato all’Educazione della donna, alla conoscenza dei suoi doveri e diritti del 1953 il catalogo mostra l’on Maria Federici. In una foto compare lo stendardo del Cif con il motto che era stato di Santa caterina da Siena, patrona del dell’associazione: “Non si dorma più che noi siamo chiamati e invitati a levarci dal sonno. Dormiremo noi nel tempo che i nemici nostri vegliano?”.

Il Cif promuoveva incontri, dibattiti, cicli di conferenze per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni rilevanti e il catalogo ha ripercorso attraverso le immagini le tappe dell’evoluzione di un pensiero e di un impegno che ha sviluppato il Centro in modo originale, ispirandosi con lungimiranza all’idea di una democrazia solidale e paritaria.

“Le immagini – ha sottolineato F. Taricone – riflettono ciò che era realmente nelle intenzioni del Centro: l’agire come un segnalatore delle conquiste, ma anche dei nodi della modernità e della contemporaneità, dell’importanza del quotidiano in cui erano tollerate eccessive disparità sociali a danno dei deboli e dei non protetti; ciò restituisce a noi oggi, attraverso una testimonianza tangibile come la fotografia, una ulteriore possibilità di conoscenza e di riflessione su un passato che in termini di realtà è prossimo, ma appare più remoto e meno afferrabile di quanto la vicinanza del tempo faccia credere” .

Taricone Fiorenza (a cura di), Donne nel dopoguerra. Il Centro Italiano Femminile 1945-2005: una storia per immagini. – Roma: Edizioni Studium, 2005.

il paese delle donne, 23 marzo 2008

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