Europa

L’UE può sopravvivere solo come progetto di pace e non come sussidiaria della NATO

Foto di worldbeyondwar.org

di Florina Tufescu – 
Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi. Revisione di Maria Sartori.

Dirigenti dell’Unione Europea, basta con il bellicismo!

L’ultimo sondaggio commissionato dal Consiglio Europeo per gli Affari Esteri (ECFR, un influente think tank in cui lavorano numerosi politici di spicco, funzionari dell’UE ed ex segretari generali della NATO) mostra che il 41% dei cittadini europei preferirebbe che l’Europa esercitasse pressioni sull’Ucraina affinché si impegni in negoziati con la Russia, rispetto al 31% che è favorevole a un continuo sostegno militare. Tuttavia, la conclusione dell’analisi del sondaggio, di cui è coautore il direttore dell’ECFR, è che i leader europei non debbano prestare attenzione alle opinioni dei cittadini, ma semplicemente riformulare e perfezionare il loro messaggio, sottolineando la preferenza per la “pace duratura” raggiungibile attraverso il proseguimento del conflitto, invece di una pace reale che potrebbe essere raggiunta già adesso mediante i negoziati.

Sappiamo dal capo della delegazione ucraina e leader del Partito al Servizio del Popolo, David Arahamiya, che i negoziatori russi “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo adottato – come fece una volta la Finlandia – la neutralità”. La proposta è stata respinta per la mancanza di garanzie di sicurezza e per il fatto che l’intenzione di aderire alla NATO era scritta nella Costituzione ucraina. Un successivo round di colloqui di pace nell’aprile 2022 è stato presumibilmente sabotato dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, secondo quanto riferito da più fonti, che includono ancora una volta il portavoce ucraino.

Da allora non è stato tentato alcun negoziato di pace, probabilmente perché il rischio di successo era troppo alto. La guerra deve continuare per giustificare l’espansione delle industrie militari degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. La spesa militare totale della NATO, che dovrebbe essere un’alleanza “difensiva”, ha raggiunto il massimo storico di 1.100 miliardi di dollari nel 2023. Secondo i dati forniti dal SIPRI, la spesa militare dei Paesi dell’Europa centrale e occidentale, che si sono auto dichiarati campioni della democrazia e della pace, è arrivata anch’essa al massimo storico, ovvero a 345 miliardi di dollari già nel 2022, in confronto alla Russia, una dittatura direttamente coinvolta nella guerra, che ha speso solo 86,4 miliardi di dollari per la difesa militare nel 2022, sempre secondo il SIPRI.

La guerra in Ucraina ha già causato centinaia di migliaia di vittime dal febbraio 2022, oltre ai milioni di rifugiati e il 30% del territorio ucraino contaminato dalle mine. Non si può permettere che questa tragedia continui solo per giustificare la crescita dell’industria delle armi, di cui i leader dell’UE sembrano ora decisi a fare uno dei punti chiave, con il commissario per il Mercato interno Thierry Breton che chiede altri 100 miliardi di euro di finanziamenti militari, in aggiunta a tutti gli impegni esistenti a livello UE e a livello nazionale da parte dei Paesi europei in quanto membri della NATO. Come il tricheco addolorato del poema di Lewis Carroll, i leader dell’UE e della NATO hanno mostrato la loro faccia più triste nel sottolineare l’inevitabilità dei preparativi per la guerra, pur non facendo nulla per ridurre il conflitto e mostrando la massima disinvoltura di fronte al rischio di escalation nucleare.

Le possibilità di porre fine alla guerra sono già note e sono state discusse negli accordi di Minsk e nei negoziati di pace di Istanbul. Gli accordi dovrebbero includere la neutralità dell’Ucraina e la garanzia dei diritti della minoranza russa in Ucraina, che sarebbe un modo molto più efficace di minare l’influenza di Putin invece di inviare altre armi.

Inoltre, l’UE dovrebbe sostenere gli obiettori di coscienza di Russia, Ucraina e Bielorussia. Il diritto all’obiezione di coscienza, sancito dall’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è attualmente riconosciuto dall’Ucraina e, sebbene sia legalmente riconosciuto in Russia per il personale non militare, secondo l’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza viene disatteso in circa il 50% dei casi.

Meno di 10.000 dei 250.000 russi che sono fuggiti dalla loro patria per evitare il servizio di leva, hanno ottenuto asilo nell’UE, nonostante l’appello lanciato da 60 organizzazioni già nel giugno 2022 (relazione annuale dell’EBCO, Agenzia Europea per l’Obiezione di Coscienza, pag. 3). Questa strada verso la pace non è stata dunque percorsa, presumibilmente perché i rifugiati pesano sull’economia senza alcun vantaggio per le cricche di potere, mentre l’industria militare è altamente redditizia per alcuni ed esercita un’influenza sempre più grandi sulle politiche dell’UE, come rivelano il rapporto Fanning the Flames pubblicato dal Transnational Institute e dall’European Network Against Arms Trade e il rapporto ENAAT (Rete Europea Contro il Commercio delle Armi“From war lobby to war economy” (Dalle lobby della guerra all’economia di guerra).

È giunto il momento per i leader dell’UE di recuperare un briciolo di credibilità dimostrando di essere disposti a fare almeno un modesto investimento nella pace e nei negoziati di pace, parallelamente all’investimento senza precedenti nei preparativi per la guerra. È ora che i leader dell’UE antepongano gli interessi dei cittadini europei e degli esseri umani in generale a quelli dell’industria bellica.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 9 aprile 2024 ed  è disponibile anche in: IngleseFranceseTedescoPortoghese

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Uno spettro si aggira per l’Europa: non è il comunismo, ma la guerra

di Giuseppe Manenti

Questo testo nasce da una mia proposta a Gianni Giovannelli che ha dato anche un notevole contributo di suggerimenti e di stesura. Stimolato dal suo “Tempesta e bonaccia”  dove la nostra “bonaccia” mentre corrisponde a eccidi e genocidi,  non ci lascia indenni, ma ci rende sempre più impotenti, impoveriti e disarmati di fronte all’avidità del potere e del capitale. Tuttavia mi ritengo insoddisfatto perché avrei voluto essere in grado di motivare ad insorgere contro la guerra, a trovare gli argomenti convincenti e cogenti, a trovare i punti,  i modi, le leve per rivoltare questa “bonaccia”. Allora mi rivolgo ai compagni e spero che arrivino da loro idee, propositi, tutto quello che serve per fare la guerra alla guerra. (G.M.)

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Tutti i partiti di governo e di opposizione si dichiarano contro la guerra. Intanto continuano a vendere armi e le industrie che le producono si arricchiscono esponenzialmente, anche grazie a un trattamento fiscale favorevole.

La sola Leonardo italiana ha triplicato il valore delle proprie azioni in tre anni. Il ministro della difesa, Crosetto, nel 2021, ha ricevuto 619.000 euro da questa società,  quale compenso per la funzione di advisor, svolta quale presidente dell’Aiad. Per gli azionisti continua la buona stagione.

L’impegno finanziario dell’Italia nei confronti dell’Ucraina è presumibilmente tre volte superiore a quel che ci dicono i dati ufficiali: i 2,2 miliardi di euro dichiarati come aiuti militari, stante la mancanza di trasparenza, si calcola possano essere almeno 5 miliardi complessivi reali, sottratti alla spesa sociale. E andrebbero aggiunti i danni, notevoli, provocati dal conflitto e dalle sanzioni che vanno a gravare sull’economia delle singole famiglie nel nostro paese.

In concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina si apre la guerra del gas, con cui l’America ha risolto il problema del suo gas liquido che secondo Einhorn (fu lui, con un anno di anticipo, a prevedere che Lehman Brothers sarebbe saltata) era una bolla che gravava per 100 miliardi di dollari di perdite su Wall Street. Le sanzioni contro il gas russo e l’offerta che non si poteva rifiutare del gas americano a 80dollari al mq, provocarono un meccanismo perverso, il prezzo di questo gas “made in USA” indicizzato alla Borsa Olandese fu usato nei contratti commerciali per rivendere il gas russo, mentre il gas russo, al prezzo stimato dai 2 ai 10 dollari, continuava a fluire nei gasdotti per i contratti in essere. Le Compagnie che ricevevano il gas russo fecero guadagni stellari alle spalle della popolazione europea, salutando questa guerra come un bengodi ed ovviamente erano poco interessate a fermarla. Anche questa guerra commerciale ha provocato sofferenze e disagi.

Il governo Meloni partecipa attivamente al conflitto ucraino , continuando a stanziare miliardi di euro in finanziamenti e ad inviare armi e istruttori assieme alla NATO.

Anche perché dopo le armi e le distruzioni, il business della guerra continua e le industrie e le banche italiane sono pronte a partecipare al grande affare della “ricostruzione dell’Ucraina”. che implica liberismo sfrenato, sfruttamento di masse ridotte alla fame.

Chi paga tutto ciò? L’85% degli Italiani che non vogliono la continuazione della guerra, ma la pace, ora e subito!

Gli USA dichiarano di volere la pace in Palestina, intanto riforniscono di armi il governo israeliano e pongono nelle sedi ONU il veto a tutte le proposte finalizzate ad interrompere la carneficina in atto: la pulizia etnica continua, a Gaza e in Cisgiordania.

I conflitti in corso non cessano, anzi aumentano, sono ormai innumerevoli: Ucraina – Russia, Palestina – Israele, Mar Rosso – Yemen,

Libano, Tigray, Sudan, Siria, Iraq, Rojava…

L’Italia, nell’area mediorientale e mediterranea, mantiene 35 Missioni Militari, con una spesa di oltre 1,4 miliardi nel 2023. Inoltre partecipa, con un contingente, in Bulgaria, Lettonia e Ungheria alle attività di addestramento del Multinational Battle Group Bulgaria,  operazioni che sono svolte congiuntamente ai gruppi tattici NATO già esistenti in Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania e Slovacchia e si estendono lungo il fianco orientale della NATO, dal Mar Baltico al Mar Nero.

L’Unione europea era nata in forma di Comunità solidale, per affermare un «mai più» la guerra sul proprio territorio. Ha continuato, silenziosamente, ad appoggiare  l’estensione a est della NATO, pur tenendo fermi gli affari in corso; ha chiuso gli occhi sul conflitto armato nel Donbass e sul mancato rispetto degli accordi di concessione dell’autonomia, fino all’annessione della Crimea. Quando la Federazione Russa ha invaso l’Ucraina avrebbe potuto, e anzi dovuto, far sentire tutto il peso  diplomatico per dirimere lo scontro, per fermare la guerra. Invece ha accettato di  svolgere una funzione ancillare, subendo le conseguenze di sanzioni dirette contro la Russia, senza danno per gli Stati Uniti e per il Regno Unito, con gravi perdite economiche per le popolazioni dell’Unione, soprattutto italiane e tedesche.

In questi mesi è emersa la miopia politica del Partito Democratico in Italia e dei Grunen in Germania, lesti entrambi a ricoprire il ruolo di falchi e di promotori di un costante invio di armi al fronte ucraino, sottraendo al tempo stesso risorse alla spesa sociale interna, in sostanza segando il ramo dell’albero su cui sedevano quali rappresentanti progressisti dei ceti più deboli. Così hanno consentito al partito neofascista di Giorgia Meloni e all’estrema destra tedesca di recuperare un ampio consenso popolare, di essere ammessi nel contenitore democratico complessivo, di prepararsi al sostegno di Ursula Von der Leyen dopo le ormai prossime elezioni europee, magari estromettendo dal governo dell’Unione questi sciocchi apprendisti stregoni di sinistra, o, comunque, partecipando alla divisione della torta.

Invece di cercare con pazienza e pervicacia una mediazione, magari con attente concessioni pur di chiudere le ostilità, l’esecutivo europeo, alla testa di una vasta maggioranza parlamentare, si è messo al servizio degli USA e della NATO, vaneggiando di “Resistenza” cui fornire di armi, proprio quando l’esodo di milioni di ucraini dimostrava una crescente tendenza popolare alla diserzione. Secondo le stime dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) sono più di 8 milioni i profughi ucraini che si trovano in Europa (e, aggiungiamo noi, che non sembrano avere alcuna intenzione di rientrare a casa). L’alto commissariato rileva inoltre quasi 22 milioni di attraversamenti in uscita dal paese dal 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione russa in Ucraina, al 16 maggio 2023, malgrado l’arruolamento forzoso e violento degli uomini dai 18 ai 60 anni decretato dal Presidente Zelensky. L’alto tasso di corruzione si è tradotto in un lucroso commercio di visti, lasciapassare, esenzioni, deroghe; improbabile che l’attuale governo di Kiev abbia davvero la possibilità di arginare questa fuga di massa. La “Resistenza” è, per definizione, l’opposizione armata nei territori occupati da un invasore, dopo la caduta del governo istituzionale prima in carica, sotto i colpi del nemico esterno; dunque, tecnicamente, potremmo parlare di “Resistenza” in Crimea o a Mariupol, ove però non se ne trova traccia. Infatti gli addetti militari la chiamavano non “Resistenza” ma “Controffensiva”; ma, con buona pace di chi straparla di invio di armi fino alla “vittoria certa”, non pare abbia avuto  successo. Non basta dirlo. Il Duce, che tanto piace a Giorgia Meloni, gridò VINCERE! dal balcone romano di Palazzo Venezia prima di invadere, a sua volta, l’Ucraina (all’epoca parte dell’URSS) ma il motto  non gli portò bene.

Occorre dire qualcosa su questo onnipresente attore, sempre in tenuta militare, quasi sempre in maglietta verde, per mostrare i muscoli: Zelensky diventò presidente nel 2019, dopo essere stato inventore e protagonista di una serie televisiva, in onda con enorme successo su un canale di proprietà dell’oligarca ucraino Igor Kolomoisky. Recitava la parte di un presidente integerrimo, un po’ ingenuo; ciò lo rese molto popolare, soprattutto molto ricco, tanto che in soli due anni di presidenza Zelensky si era già ”guadagnato” due ville milionarie: una a Forte dei Marmi e una a Miami, più vari conti esteri e offshore. Fu il trampolino che lo portò alla presidenza. Niente ci impedisce di pensare che la sceneggiatura di questa serie sia stata fin da subito concepita come una campagna elettorale anticipata e che ci sia stata la guida oculata della CIA, per giungere al controllo del territorio. O forse hanno solo colto l’occasione al volo. Poco cambia.

Cinque giorni prima dell’invasione sovietica il cancelliere tedesco Scholz propose a Zelensky aderire a un accordo di pace tra Russia e Ucraina, preparato nella primavera del 2022, a seguito degli incontri di Istanbul che prevedeva che l’Ucraina avrebbe avuto uno status di neutralità non allineata e non nucleare e Zelensky avrebbe rinunciato alla richiesta di aderire alla NATO.

Il documento fu rifiutato da Joe Biden e dall’allora primo ministro britannico Boris Johnson  i quali misero alle strette Zelensky che, dopo qualche titubanza, rifiutò il compromesso proposto da Erdogan, avendo avuto ampie promesse di sostegno militare e mediatico, oltre che un ampio riconoscimento economico.

Varò allora una legge che vietava ogni trattativa, in qualità di interprete del popolo ucraino, a suo dire irremovibile nel pretendere l’ingresso del Paese nella NATO. La guerra divenne la ribalta a cui Zelensky non può più rinunciare.

L’attentato in cui fu distrutto il gasdotto che portava il gas russo in Germania, convinse Scholz a ad adeguarsi alle decisioni americane e inglesi.

La guerra “per procura” sul suolo europeo, presente nella strategia americana di destabilizzazione della Russia, poteva iniziare.

Inizialmente gli Americani cercarono di sbarazzarsene, tanto da proporgli la fuga come alternativa. Per poi sostituirlo con altro soggetto più affidabile. Lui preferì rimanere, cercando, da avventuriero, un posto nella storia, vestendo da attore consumato i panni dell’irriducibile combattente, pronto a scambiare il permanere a oltranza della guerra e la carneficina degli Ucraini con il potere e il bottino.

Attualmente si contende la scena di guerra con Netanyahu; pure lui è impegnato a dare continui ordini di uccidere, a provocare una carneficina. E ha il controllo del fronte, colpisce una folla inerme, tanto che si discute se ormai si tratti di strage o di genocidio.

Sia quel che sia, questo è il suo salvacondotto per rimanere Presidente di Israele.

I nazisti perseguitavano gli ebrei in tutto il mondo (non in un solo paese). Ne uccisero circa sei milioni; un po’ meno di quanti sono oggi gli ebrei di Israele (6.600.000), un po’ di più di quanti sono oggi gli ebrei nordamericani (5.700.000). Come gli ebrei anche i palestinesi sono oggi in tutto circa 15 milioni; metà degli ebrei e metà dei palestinesi non vivono nell’area di guerra, ma all’estero, altrove.  Gli ebrei di Israele sono una minoranza (45% del totale nel mondo); i palestinesi di Israele sono il 20% della popolazione, nell’area del conflitto sono pure loro il 45% del totale nel mondo. Gli arabi sono invece ben 450 milioni, abitano un territorio vastissimo, tutto intorno alla Palestina, un puntino nel mezzo! Basterebbe analizzare l’oggettività i numeri per comprendere che ci troviamo di fronte ad una follia cui bisogna porre termine al più presto.

Non è affatto impossibile, ma bisogna volerlo, e imporlo. Il 22 luglio 1946 un gruppo armato sionista fece esplodere l’hotel King David a Gerusalemme, attaccando la sede diplomatica inglese e provocando 91 morti. Eppure i fili furono riannodati, si giunse infine ad un accordo. Il primo governo di Israele  era presieduto da Ben Gurion, un polacco. Il suo partito di origine, Akhadut, era sionista, ma anche marxista; divenne il Mapai, una specie di Labour Party. Il sionismo delle origini aveva due (o più) anime. La migliore somigliava più alle comunità utopiche del socialismo ottocentesco che ai nazionalisti autoritari; la peggiore ci ricorda invece da vicino la linea boera dell’apartheid sudafricana. “Razzista” è solo chi appiattisce sionisti ed ebrei dentro una scelta di strage che il governo israeliano sta attuando; non sono entità in alcun modo sovrapponibili, umanamente e storicamente.

Il pericolo europeo sta in personaggi come Emanuel Macron o Ursula von der Leyen; entrambi, invece di organizzare negoziati di pace, pensano di trovare un ruolo nell’Europa belligerante. Vanno fermati. La “pace”, qui e oggi, non è solo legittima  autodifesa, o ragionevole desiderio. E piuttosto un programma politico, il primo punto all’ordine del giorno. L’alternativa è il baratro. Socialisme ou Barbarie si traduce qui, ora, in Pace o Morte.

I deliri dei dementi

I tiranni lottano per impedire la pace. Hanno bisogno della guerra. Si trastullano con dichiarazioni improvvide, prospettano la possibilità di mandare in Ucraina soldati degli eserciti nazionali europei, visto che la carne da cannone locale non è per loro sufficiente.

Abbiamo visto Macron, Scholz e Tusk, uniti da un intreccio di mani e sorridenti come tre compagnoni usciti un po’ brilli dall’osteria, dichiarare la loro indissolubile volontà di “difendere” l’Ucraina. Governa l’Europa chi la vuole distruggere.

Abbiamo sentito Ursula von der Leyen invocare il motto latino “Si vis pacem, para bellum” con il quale pretende di aver trovato la chiave di volta del suo pensiero, l’ignoranza si appaga sempre dell’idea più scontata, eppure c’è un altro motto latino su cui dovrebbe riflettere e su cui noi riflettiamo “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”

Che si allarghi l’area del conflitto non pare preoccupare il presidente francese e gli altri leader, infatti il potere ha preparato da tempo cittadelle di rifugio e di comando, accentrando in modo spasmodico risorse economiche e finanziarie, promuovendo guerre distruttive alle periferie.

Gli USA hanno finora ottenuto di tenere la guerra, ancora una volta, sul palcoscenico della vecchia Europa: solo il popolo, quindi, è carne da macello.

«Non c’è più spazio per le illusioni, Putin ha usato il dividendo della pace per prepararsi alla guerra. L’Europa deve svegliarsi», ha scandito la scorsa settimana al Parlamento europeo Ursula von der Leyen.

La maggioranza si è abbandonata ad una scandalosa ovazione. Ursula propone la giunta dei tiranni: la via maestra per farlo si chiama Strategia europea per l’industria della difesa (Edis), il Programma che ne dovrebbe derivare prevede lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro di qui alla fine del 2025 per costruire, appunto, la «prontezza della difesa europea» (cioè la guerra).

Si profila la possibilità di acquisti congiunti europei – operati dunque direttamente dalla Commissione per conto degli Stati membri – di materiale bellico. «Proprio come abbiamo fatto con grande successo coi vaccini o col gas naturale» nell’ultimo triennio, aveva anticipato Ursula von der Leyen al Parlamento. Dopo il colpo grosso dei vaccini con i contratti segretati, la von der Leyen si prepara a farne un altro con le armi.

Queste spese saranno finanziate tagliando ulteriormente welfare, energie alternative, ecologia.

La componente verde, in versione tedesca e francese soprattutto, non comprende che ecologia e guerra non possono convivere.

I Verdi hanno tradito il loro stesso programma, hanno perduto le loro origini. Non lo capiscono, ma stanno diventando le mosche cocchiere del  nuovo dispotismo, dell’inquinamento, delle armi; preparano l’arrivo di un ceto politico che non avrà certo pietà per i comunisti, ma neppure risparmierà loro.

Non ci sono alternative alla pace!

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 25 marzo 2024

L’immagine di apertura è ”Carica dei lancieri” di Umberto Boccioni. Fonte/Fotografo: Opera propria, RiottosoWikimedia

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L’Europa va alla guerra mondiale.

Svolta bellicista e pensiero magico ai vertici delle Istituzioni europee

di Paquale Pugliese

“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. (…) Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. (…) Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”. Mi sono tornate in mente le parole che Simone Weil scriveva in un testo nel 1937 dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia, leggendo il documento che alla vigilia del Consiglio d’Europa del 21 e 22 marzo – ribattezzato “consiglio di guerra” – Charles Michel ha recapitato a molti quotidiani europei (in italiano su La Stampa). Una lettera piena di “maiuscole”, non di un qualsiasi articolista con l’elmetto ma del Presidente dell’organismo di indirizzo delle politiche europee, che conferma e rilancia la svolta bellicista già espressa dalla Commissione e dal Parlamento.

Rileggiamo, dunque – con il compito di chiarificazione indicatoci da Simone Weil – alcuni passaggi di questo testo che vuole segnare un cambio di paradigma, preparando scenari di guerra per il continente che si era dato istituzioni politiche per costruire, invece, un progetto di pace. “La Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se la risposta della Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno necessario per fermare la Russia, saremo i prossimi.” Scrive Michel, attribuendo al regime di Putin – come da manuale di propaganda bellica – l’intenzionalità autodistruttiva di attaccare paesi Nato, dai quali ormai è circondato. Ma spiegando subito dopo il vero significato di quelle parole: “Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare ad una <<economia di guerra>>”, come se le spese militari dei Paesi UE aderenti alla NATO non arrivassero già complessivamente a 346 miliardi di euro (dato ENAAT aggiornato al 2022), aumentata del 30% in otto anni e già quattro volte maggiore della spesa militare della Russia.

Ciò perché “dobbiamo essere in grado di parlare non solo la lingua della diplomazia, ma anche quella del potere”, aggiunge Michel, senza spiegare quando l’Unione europea abbia messo in campo una proposta diplomatica: quando ha convocato, in quanto organizzazione terza, un tavolo di negoziati? Quando ha avviato una Conferenza internazionale di pace, come chiede inascoltata da due anni la rete Europe for Peace? L’unica lingua praticata fin dall’inizio è stata quella dell’invio al governo ucraino di armi sempre più distruttive, partecipando attivamente alla dinamica dell’escalation, fino alla “vittoria” – come ribadito dal Consiglio europeo – anziché a quella della de-esclalation. Mentre la lingua del “potere” militare, ovvero dell’industria bellica europea e mondiale, ha già visto schizzare in alto i suoi profitti, come certificato dal SIPRI: quella italiana, per esempio, ha raggiunto +86% dall’inizio della guerra.

Per rendere definitivo questo passaggio da un’Europa di pace ad una di guerra è necessario, esplicita Michel, mettere in campo una torsione culturale e valoriale: “Sarà necessario che il nostro pensiero compia una transizione radicale e irreversibile verso una forma mentis incentrata sulla sicurezza strategica”. In che cosa si concretizzi questa dichiarazione di ideologia bellicista è ribadito poche righe più avanti: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti dall’industria [bellica] europea”. Che, tradotto, significa tagliare drasticamente gli investimenti per la “sicurezza” sociale dei cittadini europei, trasferirli all’industria di guerra e – contemporaneamente – convincere tutti che la “sicurezza” non la forniscano più sanità, welfare, scuola e università, ma cannoni, carrarmati, navi da guerra e testate nucleari.

Nelle conclusioni di questo manifesto infarcito di “maiuscole”, Charles Michel fornisce la chiave interpretativa dell’intero messaggio: “Questa battaglia richiede una leadership forte per mobilitare i nostri cittadini, le nostre imprese e i nostri governi a favore di un nuovo spirito di sicurezza e di difesa in tutto il continente europeo”. E’ una chiamata alla mobilitazione generale, che si fonda sul principio con il quale chiude: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”. Ancora l’obsoleta formula che dimostra come ai vertici delle Istituzioni europee sia insediata una sacca di “pensiero” irrazionale e magico, che abusa della credulità popolare a beneficio dell’esplosione dei profitti del complesso militare-industriale: i governi nel loro insieme non hanno mai speso così tanto per “preparare la guerra” e infatti, inevitabilmente, la guerra dilaga ovunque. Perfino, di nuovo, in Europa.

Il proclama di guerra, sul quale hanno lavorato i capi di governo e di stato nella riunione del Consiglio europeo, prepara davvero una “transizione radicale e irreversibile”: il passaggio alla guerra nucleare. Mentre è necessario andare esattamente nella direzione opposta, passare dal pensiero magico a quello razionale e responsabile, indicato da tempo dai movimenti nonviolenti: se vuoi la pace, prepara la pace. Intanto, alla sera del secondo giorno di Consiglio europeo “di guerra”, un attentato terroristico in un teatro di Mosca, rivendicato dall’ISIS, ha provocato 137 morti innocenti: i pezzi della terza guerra mondiale in corso si saldano sempre più pericolosamente.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 26 marzo 2024 e sul Blog del Fatto quotidiano

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Il futuro della guerra

di Guido Viale

Le guerre non bisognerebbe mai iniziarle. Una volta “scoppiate”, bisognerebbe adoperarsi per farle cessare il più presto possibile. Ma soprattutto bisognerebbe evitare tutte le iniziative che possono portare al loro “scoppio”. Non per una astratta pretesa di armonia tra i popoli, ma per evitare il costo che le guerre comportano sia per chi le “vince” che per chi le “perde” – se parliamo di popoli e non di governi – sia in termini di distruzione degli habitat che di danni agli uomini e alle donne che ci vivono.

Questo non vuol dire rinunciare a difendersi, anche con le armi, ma convenire sul fatto che tra le opzioni possibili non c’è solo la guerra e nient’altro che la guerra. Prima, durante e oltre la guerra ci sono tregua, diplomazia, mediazione, costruzione di alternative politiche e sociali, difesa delle vite e delle condizioni di esistenza delle popolazioni, convivenza tra etnie, lingue e “culture” diverse. L’autodifesa armata del Rojava ha il suo presupposto nel confederalismo democratico promosso da Ocalan. Nessuna di quelle esigenze è stata invece rispettata dalle parti coinvolte nella guerra in Ucraina.

Putin non pensava a una guerra quando ha invaso l’Ucraina. Pensava a una soluzione come quella che oltre cinquant’anni prima era riuscita a Breznev in Cecoslovacchia: molti carri armati, poco sangue e un cambio di regime imposto con la forza per arrestare e riequilibrare la marcia verso est della Nato. La resistenza dell’Ucraina, del suo esercito e delle sue milizie lo ha costretto a cambiare i piani: non a ritirarsi e chiedere scusa, ma a ripiegare su una vera guerra, a cui con tutta evidenza non era preparato. La sua devastante vittoria in Cecenia gli aveva fatto credere di poter risolvere la questione con un altro massacro.

Dall’altro lato del fronte si è puntato fin dall’inizio sulla temporanea superiorità ucraina, supportata dal sostegno politico, ma soprattutto militare, della Nato, degli Usa e dell’Unione Europea, per sferrare un colpo decisivo. Ben sapendo che questo avrebbe innescato un confitto molto lungo, che nelle dichiarazioni iniziali di Biden (poi corrette) avrebbe dovuto portare alla destituzione di Putin o addirittura alla dissoluzione della Federazione Russa.

Non si è messo in conto quanto una guerra prolungata e combattuta con sempre più uomini e armi (fino al limite della minaccia e del sempre possibile ricorso a quelle nucleari) sarebbe costata alle popolazioni dell’Ucraina e alla gioventù della Federazione Russa mobilitata a partire dalle sue periferie. La mobilitazione di entrambe le parti (e dei loro fan, soprattutto in Occidente) ha offuscato finora lo sguardo sulla devastazione del territorio, a est e a ovest del fronte e sul futuro di quel Paese. Ancora oggi si pensa – qualcuno pensa, e si mette in viaggio per prenotarne una quota – al business della ricostruzione, mentre la distruzione dell’Ucraina è ancora in pieno corso. E questo senza mettere in conto il suo indebitamento presente e futuro, pagabile solo in parte con la svendita delle sue risorse. E immemori del passato, si progetta di farne pagare i danni alla Russia, come a Versailles, dopo la Prima Guerra Mondiale, si era pensato di farli pagare alla Germania…

L’ostinazione della Russia non ha provocato, come forse sperava Putin, una crisi dell’Unione Europea e meno che mai la sua “nazificazione”, come ritiene il generale Mini, ma i regimi dispotici di molti suoi membri ne sono stati rafforzati, grazie soprattutto alla militarizzazione imposta dalla Nato. Un dominio in cui è facile entrare, ma da cui molto difficile uscire, o anche solo disobbedirgli, come insegna la sorte toccata ad Aldo Moro. Ma che il più democratico regime europeo abbia scambiato la sua adesione alla Nato con la consegna dei dissidenti curdi al tiranno Erdogan è cosa da non sottovalutare.

La guerra in Ucraina è un esito scontato dell’allargamento passato, in corso e futuro della Nato, un processo di cui l’Ucraina è una componente essenziale: il come e il quando erano (in parte) ignoti. Ma l’Ucraina era già membro di fatto della Nato, con le esercitazioni congiunte (“L’abbaiare ai confini della Russia”), il suo potenziamento bellico e il ruolo affidato, dopo Maidan, alle sue milizie (naziste? Sì) nel fare una vera e propria guerra alle aspirazioni autonomistiche delle sue province orientali.

È vero che nel confronto tra Ucraina e Federazione Russa non contano solo le armi, la loro potenza, la loro precisione, la loro quantità. Conta anche il “fattore umano”: il fatto che molti dei combattenti ucraini considerino ora una questione vitale la riconquista dei territori sottratti – anche se avevano fatto ben poco per fermare il bombardamento di otto anni del Donbass e la discriminazione dei loro concittadini russofoni – mentre uno spirito analogo non anima certo i coscritti a forza delle forze armate russe. Ma fino a che punto si potrà evitare di mettere in conto anche il “fattore disumano”: le centinaia di migliaia (ormai) di morti da entrambe le parti, la distruzione, in gran parte irreversibile, dei territori contesi, a qualsiasi delle due parti rimangano poi in mano. E un futuro non di prosperità (che l’Unione Europea non fornisce più nemmeno ai suoi membri), ma di miseria, di debiti, di rancore e di soggezione.

L’Ucraina non uscirà da questa guerra, se mai ne uscirà, più democratica e “denazificata”, ma più autoritaria e militarizzata, come già è ora e con partiti di opposizione e sindacati fuorilegge, scioperi proibiti, informazione controllata, giornalisti indipendenti perseguitati, servizi segreti e ambasciate straniere onnipotenti.

Quanto alla Russia, l’esito perseguito, se è la caduta di Putin, non consegnerà il potere a un’élite più conciliante e aperta, bensì a figure ancora più feroci e guerrafondaie. Se è la dissoluzione della Federazione, essa lascerà il campo a una “grande Libia”, con le nazioni del dissolto impero contese tra le potenze vicine e lontane, e anche ubique, come il mai dissolto Isis. Qualcuno ha forse pensato di poter parare il colpo senza adoperarsi da subito per la pace? E non sarebbe forse l’Unione Europea l’attore più adatto a proporre una mediazione, se non fosse anch’essa parte del conflitto? Ma non si può mediare partecipando alla guerra: questo, almeno, bisognerebbe saperlo.

L’articolo è stato pubblicato su COMUNEinfo l’8 gennaio 2023

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Enrico Letta: il cavaliere dalla nobile coscienza

di Gianni Giovannelli

E se la Nato chiama
ditele che ripassi:
lo sanno pure i sassi:
non ci si crede più.                                                        

(Marcia della Pace Perugia-Assisi, 1961:
Franco Fortini e Fausto Amodei, camminando)      

Nel 1854, a New York, fu pubblicato un opuscolo di Marx (Il cavaliere dalla nobile coscienza), dedicato alla figura di Lord Palmerston, rimasto vent’anni Segretario per la Guerra nelle file dei conservatori e successivamente, per altri vent’anni, a capo della politica estera, ma ora quale esponente dei progressisti. Ogni volta trovava il modo di presentarsi come il rappresentante di una novità politica, come l’unica possibile soluzione per risolvere le crisi di governo. Un giudizio rimaneva sempre fermo nel suo agire, ovvero l’anonima nullità del Parlamento. Almeno così riteneva Marx in questa salace ma puntualissima invettiva.
Lo scritto mi è tornato alla memoria leggendo il recente intervento, concesso in esclusiva da Enrico Letta al quotidiano Il Foglio: per almeno due graffianti annotazioni. La prima: quando è incapace di tenere testa a un avversario forte ne improvvisa uno debole. La seconda: a forza di adulazioni e di seduzioni quell’Alcina riusciva a trasformare tutti i suoi nemici in giullari. D’accordo. Enrico Letta non è certo Palmerston (che non si sarebbe mai fatto fregare il posto di comando da un birbante toscano di provincia); ma attenzione a non sottovalutarlo, quando gli altri son tutti ciechi pure un orbo vede lontano.
Enrico Letta è assai abile nel sedurre, e non si sente per nulla in imbarazzo nell’adulare; questo non significa affatto che non sia pronto a colpire, occorrendo alle spalle. Giuseppe Conte, buon incassatore, è diventato assai più guardingo, dopo aver subito, insieme a complimenti eccessivi, uno sgambetto inatteso nel corso delle elezioni per la presidenza della Repubblica; il sempre sorridente Roberto Speranza farebbe bene, pure lui, ad evitare distrazioni, dopo il troppo caloroso abbraccio del segretario PD durante la caricatura di congresso organizzata a Roma da Articolo 1. Più che una fusione si profila la resa incondizionata del manipolo di ex dissidenti, con prevedibili risse per agguantare i pochi seggi disponibili alle prossime elezioni nazionali. Letta non esita a lodare, elogia perfino Giorgia Meloni, giusto per non trascurare nulla. Attenti: la maga Alcina (Palmerston/Letta) è assai lesta nel trasformare gli ammaliati in piante o animali, anche quando magari sembra accontentarsi di renderli vocianti giullari della Nato.
Enrico Letta evita gli avversari che potrebbero infastidirlo, ostacolando il corso da lui prefissato degli eventi; preferisce dunque sostituirli con altri più deboli, da lui appositamente scelti o, quando occorre, perfino creati dal nulla.  In genere sono personaggi grigi e inutili, resi famosi per 15 minuti e ricacciati in archivio a fine spettacolo. Quando la pandemia occupava le prime pagine Letta vestiva i panni del paladino della scienza, attaccando con foga qualche ingenuo malcapitato, chiamato a ricoprire il ruolo dell’oscurantista o del negazionista. Negli ultimi due mesi ha scoperto, come Palmerston, di poter utilizzare una nobile coscienza e si è fatto cavaliere della libertà, della resistenza popolare, della guerra di liberazione dal dispotismo russo; alla testa delle truppe governative mobilitate dal maresciallo Draghi va stanando i renitenti alla leva, ignobili pacifisti al soldo del tiranno Putin e dei suoi alleati.

Le sette unioni e il programma di restaurazione

Enrico Letta evoca, in apertura del suo saggio, nientemeno che un nuovo ordine europeo contro il dispotismo putiniano, un nuovo ordine che secondo lui dovrebbe sorgere dalla guerra e dalla pandemia, appoggiato a sette pilastri. Il primo pilastro viene individuato in una politica estera comune, fondata sul piano di sanzioni messo a punto da Mario Draghi e da Janet Yellen, entrambi membri del Gruppo dei TrentaMa si guarda bene dallo spiegare quali misure andrebbero in concreto adottate per evitare l’inflazione galoppante e la crisi economica connessa all’aumento dei costi energetici, alla strategia delle sanzioni. In realtà i 27 paesi dell’Unione sono profondamente divisi proprio sul come affrontare le conseguenze di guerre e ritorsioni, sia sul piano di un welfare adeguato sia sulla spinosa questione del deficit. Il secondo pilastro si presenta ancora più fragile e sconsiderato del primo. Si tratterebbe di confederare all’Unione Europea dei 27 (ormai orfani del Regno Unito, divenuto quasi ostile) Ucraina, Moldavia (con o senza i contrabbandieri della Transnistria ?), Georgia (con o senza Abkhazia e Ossezia ?), e a maggior ragione, sussurra il Letta, tutti i paesi balcanici (dunque Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia, Kossovo, Bosnia, ma a questo punto perché non la confinante Turchia con il suo pezzo di Cipro ?). Già esiste un diritto di veto che impone ai 27 l’unanimità; figuriamoci se una simile Confederazione, piena zeppa di litigi antichi, sarebbe in grado di organizzare il cambiamento climatico, oltre a garantire la pace! Questa è una consapevole esposizione fraudolenta, comunque è un disegno non realizzabile. Il terzo pilastro riguarda l’accoglienza. Sostiene Letta che la vecchia contrapposizione frontale in tema di rifugiati si sarebbe ribaltata per poter soccorrere chi fugge dalla guerra, sottolineando in particolare lo sforzo del governo polacco. Ma non è affatto così; il trattamento riservato dal governo polacco ai diversi che premevano alla frontiera bielorussa, respinti e bastonati, non lascia dubbi. Rimane viva nella vecchia Europa, a est come a ovest, la xenofobia razzista, l’aiuto umanitario non vale per tutti, l’accordo momentaneo connesso alla guerra non può diventare regola. Anche Visegrad possiede diritto di veto. Il quarto pilastro, la politica energetica, si concreta in una generica petizione di principio, senza indicazione puntuale di passaggi operativi, di investimenti (e di profitti). Propone di moltiplicare le fonti di energia rinnovabili, ma al tempo stesso tace, senza prendere posizione, sulle continue pressioni per introdurre il nucleare, a dispetto dell’esito referendario italiano e delle normative tedesche vicine all’entrata in vigore. Di fatto il governo italiano cerca rifornimenti fossili (gas e petrolio) in altri e diversi paesi (che peraltro neppure applicano sanzioni e commerciano con la Russia), senza alcun progetto energetico comprensibile e chiaro, lasciando di fatto ogni ricaduta sulle spalle dei meno abbienti. Chi ci guadagna? Per ora le banche, non certo i precari. Il quinto pilastro lascia pochi dubbi, posto che tratta esplicitamente della sicurezza militare. Il buon Letta riconosce che già nel lontano 1954 il tentativo di costruire la Comunità Europea della Difesa si era concluso con un naufragio, e da allora nessuno ne aveva più parlato, lasciando in sostanza ogni decisione alle strutture sovranazionali della Nato. Ora vorrebbe che Italia, Spagna, Francia e Germania promuovessero un esercito europeo, autonomo dai singoli Stati; ma al tempo stesso non può non essere consapevole che si tratta di una pura astrazione, senza gambe per camminare. È solo un alibi per giustificare il cedimento alle pretese delle grandi imprese che producono armi e le vogliono vendere! Peraltro questi quattro paesi sono profondamente divisi al loro interno, tutti con una evidente mancanza di consenso delle popolazioni verso i singoli esecutivi che le governano, reggendo a fatica solo grazie alla mancanza di alternative possibili. La navigazione a vista consente di sopravvivere, non di pianificare. Il sesto e il settimo pilastro (welfare e salute) indicati dal leader del PD lasciano il lettore sconcertato, per l’ovvietà delle premesse e per la totale carenza di reali prospettive.  Si afferma: una democrazia che funziona ha una forte dimensione sociale: è lo spazio della redistribuzione, della solidarietà e della tutela dei diritti. In astratto la proposizione si presenta sensata. Ma il governo Draghi non pare affatto intenzionato a percorrere questa via; si guarda anzi bene dal contrastare la speculazione in atto, mediante inflazione, o perfino in qualche caso stagflazione, accettando piuttosto l’allargamento costante della forbice fra ricchezza e povertà. L’erosione di salari reali e pensioni prosegue senza sosta, al tempo stesso incrementando la spesa militare, ritenuta inderogabile fino al punto di rischiare la caduta del governo. Con un ribaltamento dei ruoli che lascia esterrefatti, sia sul fronte del valore catastale revisionato (dire che non comporta aggravi fiscali è una presa in giro), sia sul fronte delle bollette, la sinistra sostiene a spada tratta i prelievi in danno delle masse popolari, mentre la destra chiede un incremento della spesa sociale, anche sforando i limiti del pareggio di bilancio; davvero il mondo va alla rovescia, con Ferrara e Sesto San Giovanni capisaldi elettorali di Salvini! Quanto alla sanità, a prescindere da vuote affermazioni di circostanza, il cavaliere dalla nobile coscienza farebbe bene a spiegare la ragione che spinge lui, e il suo amico Mario Draghi, a non mettere in cantiere poche rapide norme che consentano, in questa fase di crisi economica e sociale, un virtuoso prelievo fiscale sulla quota di profitti giganteschi realizzati dalle società farmaceutiche durante la pandemia, consentendo invece loro di costruire, con la connivenza dei vertici europei, percorsi monetari sostanzialmente fraudolenti, che si traducono in benefici fiscali scandalosi. Un muratore subisce il prelievo minimo del 23% sul suo magro salario e Pfizer paga (ma all’estero) il 7% su un profitto già ampiamente tagliato grazie ad astute detrazioni. Lasciando da parte ogni rilievo sull’opportunità o meno di inviare armi dirette (magari per sentieri traversi) verso territori nei quali si spara (Ucraina compresa, senza escludere gli altri luoghi), chi ci guadagna e quanto? I prodotti bellici esportati dall’Italia, spesso per dubbi motivi di sicurezza occultati nelle spedizioni, sono fiscalmente tracciati? Contanti o bonifici?
Di questo si dovrebbe discutere in un Parlamento che non sia l’anonima nullità cara a Lord Palmerston o il pilota automatico elaborato dal primo ministro Draghi, questa sarebbe democrazia trasparente. Invece va di moda l’aria fritta di cui scriveva, inascoltato, Ernesto Rossi, un galantuomo che si starà rivoltando nella tomba di fronte a quel che oggi sono diventati i radicali italiani. Come notava nel XVII secolo il nostro maggior scrittore di cose militari, Raimondo Montecuccoli: E’ il danaro quello spirito universale che per tutto infondendosi l’anima e  ‘l move; è virtualmente ogni cosa, lo stromento degli stromenti, che ha la forza d’incantar lo spirito de’ più savi e l’impeto de’ più feroci. Qual meraviglia dunque se producendo gli effetti mirabili di cui son piene le storie, richiesto tal’uno (n.d.r.: si trattava di Gian Giacomo Trivulzio) delle cose necessarie alla guerra egli rispondesse tre esser quelle: danaro, danaro, danaro.

Quale Europa?

Dopo aver indicato i sette punti programmatici Enrico Letta chiude il suo saggio politico-economico con inquietanti proposte di riforma della struttura comunitaria. Nel 2020 le sanzioni europee alla Bielorussia, dopo le contestate elezioni presidenziali, furono bloccate dal veto di Cipro, unico dei 27 paesi ad opporsi; il leader del PD si dichiara indignato per questo imprevisto incidente di percorso e coglie la palla al balzo chiedendo la rimozione del diritto di veto in capo ad ogni singolo stato, ravvisando in tale istituto l’elemento principe della debolezza europea.
Le cose naturalmente non stanno proprio così. La Turchia, come noto, occupa da anni una parte dell’isola, dopo averla invasa con le armi, senza provocare l’indignazione dell’occidente democratico. Ora intende mettere le mani sul petrolio dei giacimenti ciprioti, e ha più volte dato corso a veri e propri colpi di mano, a cannoni spianati per avvertimento. Cipro, paese piccolo e poco armato, chiese ripetutamente, ma invano, sanzioni economiche dissuasive nei confronti di Erdogan; l’Unione Europea ha sempre fatto (è il caso di dirlo) orecchie da mercante. Evidentemente non c’erano ragioni di irritare il governo turco, considerando l’adesione alla Nato e una certa cointeressenza occidentale negli affari petroliferi.
Cipro allora pose un’alternativa: non si opponeva alle sanzioni contro la Bielorussia a patto che l’Unione Europea sanzionasse pure la Turchia, sperando così di essere lasciati in pace (da Erdogan, non da Lukaschenko). Ma il cavaliere dalla nobile coscienza è disponibile a prendere provvedimenti contro russi e alleati dei russi, non certo nei confronti di un paese amico (dell’America) quale è la Turchia. Chi aderisce alla Nato ha diritto di invadere e bombardare (come fece D’Alema devastando Belgrado); anzi quello non fu neppure un bombardamento, forse al più una operazione di polizia internazionale (tra ex compagni si tende ad usare il medesimo vocabolario).
Per ironia del destino la Conferenza sul futuro dell’Europa si chiude il 9 maggio, la stessa data scelta da Putin per dichiarare liberato il Donbass; probabilmente sono tutti un po’ troppo ottimisti. Certamente la strada indicata da Enrico Letta, ovvero di procedere ad una revisione dell’assetto istituzionale europeo, favorendo l’alleanza dei più forti e cancellando l’autonomia dei più deboli, si presenta assai pericolosa per la pace futura. Il leader del PD vorrebbe in questo modo rafforzare l’Unione, ma non comprende che, ove mai fosse ascoltato, in questo modo la distruggerà. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra sentono che il loro dominio vacilla; per mantenerlo debbono modificare l’equilibrio del vecchio continente, completare il tragitto iniziato con la Brexit. L’Unione indebolita e divisa può diventare un alleato fedele; l’Europa rafforzata e capace di agire in modo autonomo può diventare invece un concorrente.
Enrico Letta riconosce che un mutamento è in atto, che secondo previsioni entro il 2050 la quota occidentale del PIL globale scenderà dal 60% al 26%; ma pretende di fermare il corso della storia, ripristinando l’egemonia bianca occidentale con uno scontro generale diretto ad impedire l’arrivo dei barbari. Si tratta di una strategia che non ha mai avuto molta fortuna nel corso dei secoli; soprattutto quando a condurre le operazioni sono governi che non possono contare sul consenso sociale dei loro governati, ma rimangono faticosamente in sella solo inventando continui artifizi e raggiri.

Meglio uscire dalla Nato.

Proporre oggi di uscire dalla Nato è certamente più una petizione di principio, che una strada rivendicativa realmente percorribile. Non c’è dubbio che i rapporti di forza attuali non consentono di raggiungere davvero questo obiettivo. Ma è anche vero che non ci sono serie alternative a questa doverosa affermazione costituente, se non quella di una malinconica resa, accettando tutto quanto le circostanze ci vanno imponendo. E una testimonianza programmatica ribelle tutto è fuor che una resa. E’ invece la base su cui costruire nuove coalizioni.
Guardiamo le figure che oggi rappresentano il potere. Il democratico Joe Robinette Biden fu nominato senatore del Delaware nel 1972, a soli 29 anni; ha mantenuto il seggio fino al 2008, costruendo un potere dinastico proprio nello Stato che è il notorio paradiso fiscale degli USA. Suo figlio Beau (morto prematuramente per un tumore) di quello Stato fu il procuratore distrettuale, ovvero colui che dirigeva l’azione penale; l’altro figlio, Hunter, dal 2014 al 2019, rimase continuativamente membro della struttura direttiva di Burisma, compagnia importante nel settore del gas. Biden senior divenne vicepresidente con Obama, per essere poi eletto presidente dopo la parentesi Trump.
Burisma nacque nel 2002, per iniziativa di due imprenditori ucraini; uno morì in un incidente d’auto, l’altro, Mikola Lisin, fu l’artefice del successo di questa struttura imprenditoriale. Spostata già nel 2006 la sede legale originaria a Cipro, per ovvie ragioni fiscali, Burisma acquisì il controllo (69,47%) di Sunrise Energy Resources, impresa americana del settore energetico con sede (naturalmente!) in Delaware; e Sunrise, a sua volta, acquistò nel 2008 due società ucraine del gas, Esko Pivnic e Pari. L’operazione continuò con la cessione quasi contestuale dell’affare a un cartello composto da quattro società panamensi ed una americana, poi con il controllo di tre importanti imprese energetiche ucraine. Nell’apparato dirigente di Burisma ritroviamo pure Alexander Kwasniewski, per 10 anni presidente socialdemocratico della Polonia (ex POUP prima della caduta del muro), ora uomo d’affari buon amico degli americani. Burisma ha infine ottenuto ben 20 licenze per idrocarburi proprio nelle terre contese del Donbass; sono giacimenti in buona parte inesplorati ma ricchissimi, rappresentano secondo le stime oltre l’80% del potenziale gas/petrolio ucraino, nel centro del conflitto attualmente in corso. Dopo l’elezione (per nulla scontata) alla presidenza, Zelenskij ricevette le pressioni di Trump per colpire Biden e di Biden per colpire Trump; è un riflesso condizionato, gli USA non riescono mai ad evitare di intromettersi negli affari interni di altri paesi, quando intravedono potenza e denaro. Questa è una guerra per conquistare il controllo dei giacimenti, dunque il compromesso è possibile, trattandosi di soldi.
A questa guerra partecipa, interessato, il cavaliere dalla nobile coscienza, Enrico Letta, e con lui sta Mario Draghi. Se preferite è Enrico Letta a stare con Mario Draghi, poco cambia, questione di gerarchie fra sottufficiali. Il loro legame con gli americani è assai più solido di quello che hanno con l’Europa; più esattamente lavorano per costruire l’alleanza di un’America forte con un’Europa indebolita. Mario Draghi è un esponente di spicco del Gruppo dei Trenta, viene dalla finanza, agisce sul prelievo e sulla distribuzione; Enrico Letta è fin dal 2015 un membro della celebre Trilateral, viene dalla politica. Nel 1991, venticinquenne, fu eletto capo dei Giovani Democristiani Europei, poi divenne deputato europeo nel gruppo liberale di ALDE (con gli spagnoli di Ciudadanos, per capirci), a seguire fu nominato ministro in più governi, e ora è il leader del PD. La sua Trilateral, creatura di Rockfeller e di Chase Manhattan Bank, è un pensatoio operativo globale; al vertice europeo vi è l’inossidabile Trichet, scelto dopo i risultati ottenuti guidando la BCE nella stagione del contenimento della spesa pubblica. In Italia Trilateral può contare fra gli altri su Giampiero Massolo (prima ai servizi segreti ora in Fincantieri), su Tronchetti Provera, su Carlo Messina (Banca Intesa), su Monica Maggioni (RAI).  Trilateral condiziona, in quota americana, l’informazione, la comunicazione, la finanza, l’industria (civile e militare) di tutta Italia.
Quest’uomo si presenta sempre come una novità, lascia intendere che abbia appena iniziato la sua vera carriera; rappresenta invece il tramonto, vuole solo prolungare per un tempo indefinito il mondo in cui è nato e in cui si è formato. Vuole la Nato e vuole la supremazia americana; questo è il suo vero programma, ed è il programma di Draghi.
La Nato è il principale strumento di questa imposizione violenta, militare, e al tempo stesso insensata. Nacque nel 1949, fra i fondatori compare il colonialista fascista Antonio de Oliveira Salazar, dittatore del Portogallo; evidentemente la democrazia non costituiva requisito indispensabile per l’adesione all’apparato militare. È dunque un falso storico affermare che la caratteristica originaria e originale della Nato sia la difesa della libertà, dell’autonomia dei popoli, della democrazia. La Nato difendeva i territori delle colonie francesi, portoghesi, inglesi, belghe, olandesi e non certo i movimenti di liberazione nazionale nei territori occupati. La Nato stringeva alleanza con il fascismo di Salazar contro il blocco sovietico, nel tempo della guerra fredda. Ora è un patto militare che piega l’Unione Europea alle esigenze americane. Ma i popoli europei non hanno niente da guadagnare e molto da perdere in questa prospettiva. Meglio sarebbe starne fuori.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 2 maggio 2022

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