Luglio 2008

(Dis)umanita’

di Ghismunda

Le mie scorribande culturali mi hanno casualmente avvicinato, pressoché in contemporanea, a due capolavori, uno letterario, uno cinematografico, che pur diversi, direi opposti nel loro significato ultimo, si sono rivelati alfine, nel mio tornarci su, complementari, necessario, l’uno, a riaffermare con speranza quello che l’altro amaramente nega: che ci sia ancora “umanità” in un mondo sempre più indifferente, standardizzato, appunto disumanizzato.
“Ai miei tempi questo non succedeva” è un’espressione ricorrente dei vecchi, di coloro che non si raccapezzano più in un mondo che corre troppo veloce e senza regole verso mete fittizie affacciate sul nulla. E’ quanto, più o meno, dice e soprattutto vive, lo sceriffo Ed Toni Bell (un grande Tommy Lee Jones) nel pluripremiato “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen, tratto dall’omonimo romanzo di McCarthy. Una volta si andava in giro persino senza pistole nel Texas meridionale, al confine con il New Mexico e la violenza, pur presente, era in qualche modo controllabile, perseguibile, “razionale” e come regolata negli atti e negli scopi. Oggi, in una terra di nessuno, aspra e desolata, metafora di tutti i non-luoghi di passaggio del mondo globalizzato, attraversati con facilità e priorità da droga e armi e persone tese al profitto enorme che ne deriva, la violenza ha le sembianze paranoiche di uno spietato killer indistruttibile, casuale e spietato come la Morte che rappresenta, lanciato all’inseguimento di un ingenuo cow-boy ritrovatosi per caso possessore di una valigetta contenente due milioni di dollari. Credo che il personaggio di Anton Chigurh, interpretato da un superlativo Javer Bardem, sia destinato a restare nella storia del cinema come figura esemplare e indimenticabile di “cattivo”. Una figura tutta post-moderna, che uccide glacialmente senza essere obbligato a farlo, come gli dicono tutte le sue malcapitate vittime, affidando spesso ad una monetina la decisione, essendo, lui e la sorte, lui e la casualità più gratuita, diventati la stessa cosa, la stessa sostanza, imprevedibile e inarginabile, della violenza di oggi, nelle sue esplosioni tanto collettive che private. E’ un film cupo, quello dei fratelli Coen, raffinatissimo in mezzo a tanto sangue; un film senza respiro, angosciante, pessimista: il mondo è un congegno impazzito, che si può osservare (senza speranza di trasformarlo) solo con malinconia o al più, per sopravvivere, con ironia e amaro sarcasmo. Ci scappa pure qualche sorriso tra i tesi spettatori del pubblico in sala.

Ennesimo attentato a Gerusalemme. Non fa più nemmeno notizia. Un kamikaze si fa esplodere al mercato ortofrutticolo. Chi c’è, c’è. Tra i cadaveri, quello di una donna senza documenti. Passano i giorni e nessuno si fa vivo, con lei morta, a reclamare un’assenza, un corpo; a dare un nome, un’identità. Solo un giornalista, più curioso o più attento di altri, scopre tra gli effetti della vittima il cedolino, lacero e bruciacchiato, dell’ultimo stipendio, venendo così a scoprire la ditta per la quale la donna lavorava. Una ditta grande e fiorente che nemmeno si era accorta dell’assenza dal lavoro di uno dei suoi numerosi dipendenti. Il proprietario dell’azienda vuole rimediare al danno d’immagine (e a un fastidioso senso di colpa) che gli ha procurato la maligna accusa di “disumanità” da parte del giornalista, incaricando il capo del personale di indagare sull’origine della “disattenzione” aziendale e sull’identità della vittima e di provvedere alle spese funebri e ad eventuali indennizzi e risarcimenti. E’ così che inizia “Il responsabile delle risorse umane” di Abraham B. Yehoshua, uno splendido romanzo in cui non a caso nessun personaggio ha nome, fatta eccezione proprio per la donna uccisa, di cui il responsabile arriva rapidamente a scoprire l’identità. Si tratta di Julia Regajev, un’immigrata straniera che, sebbene in possesso di una laurea in ingegneria, è stata assunta come semplice addetta alle pulizie. Il responsabile, che pure ne aveva steso di proprio pugno il curriculum dietro sua dettatura, non ne ricorda nulla, nemmeno il bellissimo viso da “tartara” che tutti i suoi colleghi, invece, ricordano. Per lui, che pure aveva programmaticamente cambiato il nome del suo ufficio in quello di “responsabile delle risorse umane”, Julia era solo un numero, una pratica, un fascicolo, un insieme di dati inserito nel pc insieme ad una sbiadita foto scannerizzata. Fino a quel momento. Fino a quando, al seguito della sua dipendente sconosciuta per riportarne la salma al lontano villaggio natale, scoprirà, in un viaggio di espiazione/purificazione (vera e propria discesa agli inferi, magica e inquietante), che dietro quel numero c’è tutto un mondo, un’umanità concreta fatta di affetti, desideri, speranze, testimoniata da oggetti, ormai abbandonati, semplici, intimi, diventati segni tangibili di una vita vissuta e della sua insopprimibile, anche se ignorata o addirittura calpestata, dignità. Il responsabile delle risorse umane scoprirà la “risorsa umana” vera che ognuno di noi è, se solo imparassimo a guardarci negli occhi, a non farci passare accanto, inosservate, la bellezza e la bontà; se solo vincessimo l’indifferenza o il disprezzo preconcetto e riuscissimo con coraggio a “colmare le distanze”.

La voce di Ghismunda, 31 luglio 2008

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Riflessioni sul rapporto 2008 di NtC

31 luglio 2008
31 luglio 1944
Ultimo volo del Piccolo Principe

I
Il problema fondamentale per noi abolizionisti è che, al contrario della tortura, la pena di morte non è vietata dalle norme internazionali. Nonostante gli sforzi decennali delle Nazioni Unite la pena capitale è ancora una sanzione legale ed è per questo che andrebbe maneggiata con cautela. Questo è il motivo per cui, al di fuori dell’Italia, la recente Risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni non è stata presa in considerazione. Perché le norme internazionali ne restringono l’uso ai “most serious crimes”, la proibiscono per i minorenni, i pazzi e le donne incinta, ne chiedono la futura abolizione, ma non la vietano e quindi la pena capitale è, fuori dall’Europa, perfettamente legittima.
Per di più, nella Risoluzione del 18 dicembre, non ci sono riferimenti a quelle precedenti (la 2857 del 1971, la 32/61del 1977, ecc.) né al Secondo Protocollo. Non si parla dell’Articolo 6 dell’ICCPR e del suo commento. Si tace sulle norme abolizioniste europee e sul fatto che la pena capitale non è prevista dai tribunali internazionali. Infine era il caso di far notare che il 18 dicembre del 1865 gli Stati Uniti hanno abolito la schiavitù e che, lo stesso giorno del 1969, il Regno Unito la pena di morte.
[La pena di morte e le Nazioni Unite]

II
Secondo NtC la moratoria sarebbe un prerequisito indispensabile per l’abolizione, ma l’esempio del Sud Africa non funziona perché l’abolizione in paesi normali come Canada, Francia, Regno Unito, ecc non è stata preceduta da una formale moratoria delle esecuzioni. Al contrario è stata la spinta verso l’abolizione che le ha fermate nel periodo in cui i Parlamenti votavano le leggi abolizioniste. D’altra parte l’interruzione delle esecuzioni non è necessariamente seguita dalla fine del patibolo e non sono pochi gli stati americani che hanno ripreso le esecuzioni dopo decenni di sospensione. Il Tennessee dopo quarant’anni, il Sud Dakota dopo sessanta e ora è il New Hampshire (che nel 2000 era a un passo dall’abolizione) che tenta di ottenere la sua prima condanna a morte dal 1939.

III
Questa faccenda della Moratoria si basa su di un non dimostrato assunto pannelliano secondo cui i paesi mantenitori non stavano nella pelle all’idea di sospendere le esecuzioni. Secondo Pannella la Moratoria era:

un compromesso creativo con la pena di morte, un luogo di incontro, il minimo comune denominatore tra abolizionisti e mantenitori: i paesi che la hanno abolita fanno un passo verso coloro che ancora la prevedono nelle leggi e la praticano, i paesi che la mantengono e la praticano fanno un passo verso gli abolizionisti e, pur mantenendola nei codici, decidono di non eseguirla.

Il martirologio di NtC secondo cui per anni “è stato impedito alle Nazioni Unite di proclamare la moratoria” si basa sulla totale rimozione dell’Emendamento Singapore.
In effetti, nel 1994 e nel 1999, la strategia pannelliana parve funzionare. Alle Nazioni Unite i paesi forcaioli si mostrarono disposti ad approvare un documento in cui si proponeva una sospensione delle esecuzioni. Purtroppo lo avrebbero votato solo se questo avesse contenuto il famoso “Emendamento Singapore”. Ovvero: i forcaioli votavano una Risoluzione che non valeva nulla e non li obbligava a nulla, ma intanto ci infilavano dentro la perentoria affermazione dell’assoluta sovranità statale in materia di pene e punizioni. Per fortuna i paesi abolizionisti mandarono tutto all’aria con grande furore dei Caini che, oggi, gioiscono del “superamento del principio ottocentesco della sovranità assoluta dello Stato-Nazione” e della sconfitta degli “emendamenti sulla sovranità interna”, cioè di quell’Emendamento Singapore che, un tempo, gli andava benissimo.

Nota
L’Emendamento Singapore avrebbe fatto fare un enorme passo indietro alla difesa dei diritti umani ed alla lotta alla pena di morte. In esso infatti si affermava che “ogni stato ha il pieno diritto di scegliere il suo sistema politico, sociale ed economico senza interferenze esterne” e che “l’articolo 7/2 dello statuto delle Nazioni Unite vieta esplicitamente l’interferenza di queste nelle matterie che sono di giurisdizione interna”  [Amnesty International ACT 53/005/1999 e ACT 53/004/1999; BBC News November 18, 1999; William Schabas The Abolition of the Death Penalty in International Law. Cambridge UP 1997 p 188]

IV
Per fortuna la fine della pena di morte marcia sulle gambe del Movimento Abolizionista e non su quelle di NtC. Gli abolizionisti, moratoria o non moratoria, portano avanti la loro lotta e la pena di morte continua a scomparire dai codici. Amnesty International tiene nota, dal 1976, del passaggio dei paesi all’abolizionismo e non si nota alcuna influenza delle “battaglie radicali” in questo progredire. Ne risulta che la recente vittoria alle NU è dovuto al lavoro di decine di organizzazioni e non alla affabulazione pannelliana.
[Amnesty International]

V
Infine, per NtC:

la soluzione definitiva del problema, più che la pena di morte, riguarda la Democrazia, lo Stato di Diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.

Questa sconcertante affermazione è il prodotto della mancanza di una seria riflessione sulla natura dei diritti umani: cioè dei diritti elencati agli articoli 2-21 della Dichiarazione Universale. Lo stato di diritto non necessariamente li tutela e, se è vero che una dittatura non può (per definizione) rispettarli, questo non significa che lo faccia una democrazia: basta guardare come agisce Israele con gli arabi.
Tutti dovrebbero meditare sul fatto che le democrazie classiche cui siamo soliti fare riferimento (Atene di Pericle, Inghilterra del 1688, Stati Uniti di fine ‘700) erano regimi schiavisti, imperialisti, aggressivi, non alieni dal genocidio, poco o nulla tolleranti nei confronti dei dissidenti e ben poco democratici, visto che la stragrande maggioranza degli uomini e tutte le donne non avevano diritto di voto. La storia è piena di democratiche violazioni dei diritti umani e gli estensori della Dichiarazione del 1948 ebbero l’accortezza di non citare mai la parola democrazia, come del resto non fecero parola della pena capitale.
Comunque l’abolizione della pena di morte è raramente un fatto democratico. Anche il recente abolizionista New Jersey non è tale per volere della maggioranza, se per maggioranza s’intende quella che scaturisce dai sondaggi d’opinione naturalmente, ma di una riflessione più profonda.
I forcaioli americani e sauditi accusano noi europei di non essere democratici proprio perché non diamo ascolto alla sete di sangue di una presunta opinione pubblica e seguitiamo a esigere che il rispetto dei diritti umani e della giustizia non dipenda dal volere di una maggioranza occasionale.
La legge sarà anche applicata in nome del popolo, ma deve essere soprattutto uguale per tutti e cosa c’è di più democratico di un bel linciaggio?

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Corte giustizia internazionale ferma esecuzioni USA

di Rico Guillermo*

La settimana scorsa la Corte internazionale di giustizia ha aderito alla richiesta del Messico di emettere un ordine di sospensione dell’esecuzione di cinque cittadini messicani nel braccio della morte negli Stati Uniti.
Il Messico aveva chiesto alla piu’ alta corte delle Nazioni Unite di intervenire perché gli USA non hanno rispettato una precedente sentenza della Corte che ordinava un’audizione per esaminare le prove dei cittadini messicani.
La Corte mondiale ha stabilito nel 2004 che gli Stati Uniti avevano violato la Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, perché non avevano fornito ai Messicani detenuti l’accesso ai funzionari consolari del loro Paese d’origine del loro processo. La CIG ha dichiarato che le condanne penali e condanne a morte di 51 detenuti nel braccio della morte necessitava un’ulteriore revisione.
Il Presidente Bush ha riconosciuto la sentenza della CIG e ha ordinato ai giudici statali di riesaminare il caso. Il Texas, tuttavia, ha rifiutato, e la questione del potere del Presidente e’ arrivata alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Jose Medellin, uno dei detenuti nel braccio della morte in Texas ha fatto ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti per far rispettare la sentenza della CIG e la decisioine del presidente. La Suprema Corte ha respinto il ricorso il 25 marzo 2008, affermando che Bush aveva oltrepassato i suoi poteri. Il parere dichiarava che la Costituzione “consente al Presidente di eseguire le disposizioni legislative, non farle”.
L’attuale pregiudiziale, proposta dal CIG viene meno di tre settimane prima che il primo di questi detenuti, Medellin, sia giustiziato in Texas. Il Segretario di Stato Condoleezza Rice e il Procuratore generale Michael Mukasey hanno chiesto congiuntamente al governatore del Texas Rick Perry di riesaminare il caso di Medellin. Inoltre, e’ stato presentato al Congresso un progetto di legge che consentirebbe una via d’uscita per coloro i cui diritti stabiliti dalla Convenzione di Vienna sono stati violati.
* si ringrazia Claudio Giusti

in Osservatorio sulla legalita’, 20 luglio 2008

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Palestina: il giornalista Mohammed Omer viene premiato e poi pestato

Traduzione di Giuseppina Manfredi

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Mohammed Omer è un giornalista ventiquattrenne di Rafah, nella Striscia di Gaza. I suoi notevoli foto-reportage gli sono valsi il prestigioso premio Martha Gellhorn, ricevuto qualche settimana fa. Al suo rientro da Londra, però, Omer è stato arrestato dai servizi segreti israeliani (Shin Beit), per poi riapparire l’indomani a bordo di un’ambulanza. Gli agenti israeliani hanno ammesso di averlo trattenuto per “contrabbando”, riferendo altresì come le sue ferite non fossero altro che conseguenza di una “caduta accidentale”. Le foto che documentano il ricovero di Omer in ospedale hanno suscitato rabbia e preoccupazione tra i blogger.

Tra i primi a commentare la notizia DesertPeace, che si dice furioso per il mancato risalto dato dai media a quest’episodio di cronaca:

Una settimana fa, il mio caro amico e fratello Mohammed Omer è stato torturato e quasi pestato a MORTE dai funzionari dei servizi di sicurezza israeliani.
Questa settimana, due bambini palestinesi sono stati uccisi a sangue freddo dalle forze armate israeliane. Altri otto sono stati feriti.
Avete letto qualcosa al riguardo tra i lanci della Associated Press?
NO!

Il blogger rimanda anche al podcast con un’intervista a Omer.
Tra i successivi commenti, spicca quello di David Baldinger :

Il coraggio di Omer è encomiabile. Al posto suo, io non avrei retto ad un simile trattamento. Anche se la cosa è già di per sé grave, è altrettanto avvilente pensare come l’episodio sia seguito ai giorni felici che aveva appena trascorso all’estero. Non possiamo permettere che questa storia finisca qui: è una battaglia da portare avanti. Non c’è scusa o spiegazione che giustifichi il trattamento riservato a Omer. Magari da un evento tanto negativo si può cavare fuori qualcosa di buono. L’episodio rivela le bugie di un governo israeliano che non appare in grado di controllare le sue forze armate.

Infine, Munich – and a little bit of everything ha commentato così il podcast:

Qualcuno, dopo aver ascoltato questo documento audio, ha dichiarato che da tempo non sentiva niente di così toccante. Nel podcast infatti Mohammed Omer, dal suo letto d’ospedale, parla con Nora Barrows-Friedman di Flashpoints, trasmissione del network statunitense Pacifica Radio. Recentemente la donna gli ha fatto visita in Palestina.
Si tratta di disumanità dell’uomo verso l’uomo. C’è solo da piangere.

Qui si può firmare la petizione che chiede giustizia per Mohammed Omer.

GlobalVoice in Italiano, 20 luglio 2008

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LE ESCLUSE di Gemma Volli: fra genere e storia

Maria Corti, studiosa di letteratura, considera l’autobiografia di Sibilla Aleramo, “Una donna”, uscito nel 1906, ‘una dichiarazione di guerra’. Originale “ritratto di signora” che, scegliendo di vivere ‘solo per sé’, attraversa la cultura italiana di mezzo secolo.
Scelta ardua, anzi impossibile per le “Le escluse” di Gemma Volli, che pubblica la sua raccolta di novelle nel 1938, presso l’editore Cappelli di Bologna. Provvidamente ristampata nel 2006 da Ibiskos Editrice, offre l’opportunità al lettore e allo studioso di indagare la condizione femminile nell’Italia del Ventennio e di godere di una letteratura di genere di buona qualità.
Il libro mette in scena una serie di figure femminili, donne ritratte nel passaggio fra giovinezza e maturità, quando, nel tentativo di costruire la propria vita, lo scontro fra aspirazioni e vincoli psicologici e sociali, può farsi drammatico. Donne che per debolezza psicologica, economica o sociale non riescono a sostenere il conflitto, accomunate tutte dalla medesima condizione di vinte. E gli echi verghiani, nel tema di un destino inesorabile coi deboli, nello stile asciutto e nello sguardo oggettivo, certo non mancano.
Se l’urlo dell’Aleramo è il segnale di una rivolta, l’amaro disincanto della Volli costituisce una specie di tregua prima del riscatto. Solo dopo la seconda guerra mondiale le italiane saranno parificate sul piano delle leggi e passeranno ancora anni prima che termini come ‘emancipazione’ e ‘femminismo’ acquistino significato non solo per le élites.
Molte cose erano già cambiate, in realtà, nel periodo che intercorre fra l’uscita dei due libri. Le donne, soprattutto quelle urbanizzate, anche in seguito all’esperienza della prima guerra mondiale, si erano affacciate in maggior numero al mondo della cultura e del lavoro.
Il Fascismo, pur con atteggiamenti non univoci, impone una sorta di freno, esaltando il modello di una società ‘maschia’ che attribuisce al femminile il ruolo di custode e garante dei valori maschili. Certo esistono nella pratica delle eccezioni. Negli ambienti intellettuali alcune donne giocano un ruolo importante, come in tutte le epoche, del resto. Margherita Sarfatti, entusiasta biografa del Duce, ne è un esempio. Ma anche Grazia Deledda, Ada Negri, per citare solo le più famose. La stessa Aleramo, dopo un vago antifascismo, riesce ad ottenere, per interessamento della regina Elena, nel 1933, una pensione di 1000 lire al mese. Esisteva un’Associazione nazionale fascista delle donne artiste e laureate, ma si trattava di ‘corvi bianchi’ o ‘pecore nere’ a secondo di come la si voleva intendere
Ugo Volli nella bella prefazione a “Le escluse” individua nel testo un dualismo, più che sociale o di genere, (gli uomini sono pochi e generalmente ininfluenti rispetto al destino femminile), fra debolezza e forza. Osserva come ogni successo vi emerga quale frutto della “necessaria dose di insensibilità e disprezzo” (pag. 27) e che nella scelta dell’autrice di mettere in scena coloro su cui il sipario resta perennemente calato, sta la vocazione “provocatoria” e scandalosa del libro, in un contesto culturale che tende alla retorica e al trionfalismo.
La maestra Paola, protagonista del racconto “Ai margini della felicità” osserva “che si fa più strada a essere cattivi, e che a esser buoni non si è apprezzati nemmeno dai propri parenti” (pag. 52). Morale che ritorna spesso: il successo come eco lontana di chi ha saputo tacitare ogni scrupolo, di chi ha oltrepassato la barriera morale che si frappone fra sacrificio di sé o degli altri.
Quel salto che Sibilla Aleramo riesce a compiere rinunciando al figlio, spezzando quel ricatto sentimentale cui i personaggi di Gemma Volli non sanno tener testa.
Se l’Aleramo è un simbolo di successo, “le escluse” rappresentano tutte coloro che in qualche modo la vita ha deluso, cui è stato sottratto qualcosa, in termini di affetti, di ruolo sociale, di riconoscimento. Cui resta solo la cruda coscienza del proprio soccombere.
Donne sole che già nel loro contesto familiare risultano marginali, orfane o figlie su cui, per carattere o altro, le madri non hanno investito. Che non avendo goduto dell’accoglienza materna non maturano fiducia in sé stesse e il cui tentativo di rivolta resta illusorio e velleitario. Grande intuizione dell’autrice di origine triestina, che certo non ignorava le moderne teorie psicoanalitiche. Donne che stentano a trovare una propria collocazione anche all’interno di ciò che la società destina loro: il matrimonio o comunque un lavoro di cura. La cui debolezza è innanzi tutto interiore, inermi di fronte a una condanna sociale sostanzialmente condivisa.
Sandra, protagonista de “Il peccato”, non a caso il racconto che chiude la raccolta, sconta con la morte della madre e un conseguente devastante senso di colpa, l’aver cercato in un amore gaio e leggero compensazione ad una vita tetra e sacrificata: “Mamma non morire, non lasciarmi sola col mio rimorso, perché io so di non meritare questa pena atroce. Io ti vorrò tanto bene, non cercherò altri affetti, non penserò ad altri che a te!” (pag. 215-216).
Dora de “La vinta che ritorna” è ormai rassegnata alla regola degli affetti per cui “è legge di natura amare di più chi pretende di più, dare più amore a chi pretende più sacrificio…Perché avrebbe dovuto volerle bene sua madre, proprio a lei che non le aveva mai chiesto niente…l’unica dei suoi figli che non aveva avuto bisogno…?”(pag. 139)
Quanto diversa la vicenda di Sibilla Aleramo, già da bambina indiscussa prediletta del padre, che giovanissima si muove nel mondo con “l’andatura rapida di persona affaccendata” (“Una donna” Feltrinelli 1997, pag19), sicura di sè tanto da suscitare soggezione, oltre che nei fratelli minori, alla stessa madre.
Anche Sibilla è una donna sola, ma la sua è una solitudine elettiva, che la pone ai margini per così dire ‘alti’ del suo ambiente e che la spingerà a cercare oltre i propri orizzonti anime a lei simili. L’isolamento de “Le escluse” è invece il segno della loro inconsistenza sociale e psicologica, il marchio di una colpa, la condanna di chi non riesce ad intravedere alcuna alternativa alla propria condizione.
Non riescono a costruire, tranne poche eccezioni, rapporti autentici, tantomeno un ambiente di riferimento, scontando spesso l’ostilità delle proprie compagne di sventura, perché, in una società che le marginalizza, la lotta è accanita. Solo la maestra Paola Sandri di “Ai margini della felicità” riesce ad intravedere per un po’ la possibilità di vivere in modo diverso, proprio attraverso la solidarietà, o almeno la simpatia di altre ragazze: “Aveva conosciuto ragazze che vivevano sole come lei, ma che lungi dall’avvilirsi, cercavano di approfittare della loro libertà…Come si divertì quell’anno! com’era soddisfatta di sé e degli altri! Soltanto quell’anno, il solo, in tutta la sua vita.” (pag. 52-54)
Torna in mente la vicenda della giovane maestra Ada Negri che proprio dalla condivisione della sua esperienza con altre compagne, trova impulso a una tenace autoaffermazione.
Anche la maestra Paola aveva sognato di “uscire dalla piccola vita, facendosi conoscere…in un modo o nell’altro” (pag. 46). Ma poi “ convinta dell’impossibilità di riuscire, si era rassegnata a vivere nell’ombra” (pag. 46).
Impossibilità e rassegnazione sono la vera cifra di tutte le storie, donne la cui unica forza si esplica nella capacità di servire e di sopportare, nella inesorabile fatica di un lavoro modesto, senza prospettive: “tutto ciò che aveva ottenuto nella sua vita lo aveva raggiunto con lenta e costante fatica” (pag.45).
Esse appartengono proprio a quella “gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione” (Una donna, op. cit. pag 114), che la coraggiosa Sibilla compiange.
Che Gemma Volli conoscesse il mondo di quelle donne sole, impiegate, maestre, sarte…che la vita rischia ogni momento di sommergere, lo si può rintracciare nella sua biografia. Pur nata in una famiglia benestante, la morte precoce del padre le fece probabilmente patire il venir meno della sicurezza, quel sentimento della vita come qualcosa di stabile, di cui benessere e felicità costituiscono il naturale coronamento. Il lavoro delle sorelle, le borse di studio per accedere all’Università, poi l’insegnamento in giro per l’Italia e infine l’esclusione dalle scuole superiori per una legge fascista che riteneva le donne inadeguate a formare ‘virilmente’ i giovani italiani, sono tutti elementi che possono averla spinta ad avvertire una sorta di malinconica vicinanza a quel mondo che pure non era il suo. Della sua stessa madre, costretta ad affittare alcune stanze della grande casa, si trova forse eco nel personaggio di scià Silvia del racconto “In riviera” che, incappata nella sventura del suicidio dei propri inquilini, così si difende: “Io sono di buona famiglia, non sono un’affittacamere: ma ora sono costretta, per far studiare mia figlia…capirà, sono una povera vedova” (pag. 90).
Tutte creature che Gemma ha sfiorato, donne come lei, sulla natura e sul destino delle quali si è certo interrogata. Rispetto alle quali ha probabilmente anche marcato la propria differenza, prima fra tutte il possesso di quel grande strumento di riscatto e autovalorizzazione che è la cultura. Segnata oltretutto dalla peculiarità di una storia e di un’appartenenza che, pur nell’illusione della comune italianità, andava a configurarsi come qualcosa di ‘altro’. Gemma, ebrea triestina, era nata Wohl. Come molti correligionari della città era stata un’irredentista e aveva applaudito all’assegnazione di Trieste all’Italia. Ma proprio per la sua appartenenza regionale aveva avvertito prima di altri come il nazionalismo fascista mirasse alla cancellazione di ogni diversità, macchia dell’identità nazionale, avviando una campagna d’intolleranza verso gli slavi di quelle terre. Italianizzò il suo cognome in Volli. Contemporaneamente affluivano a Trieste profughi ebrei cacciati dalla Germania, perlopiù diretti in Palestina. Gemma si dedicò con passione alla loro causa. Lei stessa nel 1935 compì un viaggio in quelle terre ancora ‘esotiche’.
Insomma la radicalità della sua condizione di ebrea in un’Europa che si riscopre antisemita, procede di pari passo con l’incongruenza dell’essere donna in una società che esalta la forza virile come valore primario.
La doppia empasse dell’autrice, donna e ebrea, culmina proprio nel 1938, data di pubblicazione del libro e di promulgazione delle leggi razziali.
Perdita della condizione di ‘cittadina’, caduta di ruolo, ma anche di status economico, tutti elementi che sembrano risospingerla verso il mondo umile e affaticato delle escluse, ma da cui ancora una volta trova riscatto nella presa di coscienza, orgogliosa e consapevolmente assunta, della propria radice ebraica. Le donne, escluse dai privilegi, che tutto devono conquistare con la propria tenacia, meno abituate dell’uomo a fare del riconoscimento sociale misura del proprio valore, sembrano sopportare meglio dei loro compagni le situazioni difficili e i ribaltamenti della fortuna.
Che Gemma Volli, dopo il 1938 si dedichi in modo esclusivo a quella vocazione di storica dell’ebraismo, che già precedentemente si era manifestata, avviene nel segno di una discontinuità solo apparente.
Così l’Aleramo, dopo aver ritentato infinite volte di realizzare il sogno d’amore, quale perfetta armonia fra i sessi, si rassegna a quell’unico che sembra meno legato al capriccio del contingente, cioè quello verso l’umanità tutta, dedicandosi alla lotta politica.
Insomma due intellettuali che, pur attraverso percorsi e vissuti molto diversi, partono entrambe da una riflessione sull’identità femminile, tema che ad un certo punto sembrano accantonare in nome di una appartenenza più vasta e di una lotta più urgente.
Oggi in cui i diritti della donna sono di nuovo messi in discussione e in cui è necessario tornare a riaffermare quelli più elementari quali il diritto alla vita, all’istruzione, alla libertà di scelta, all’autodeterminazione, esistono di nuovo questioni più urgenti?
Le vecchie ideologie predicavano che solo nell’emancipazione dell’umanità si sarebbe realizzata anche quella femminile. Dopo il crollo di tante illusioni io credo esattamente il contrario: che solo la piena libertà della donna garantisca una società libera e democratica per tutti.

Gemma Volli – Le escluse.    Ibiskos Editrice Risolo  2006

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