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Fine pena mai

di Vincenzo Andraous
Si fanno sempre raffronti tra chi entra ed esce dal carcere,  si addita l’uno o l’altro a seconda del temporale politico in atto, discutendo se sia giusto aiutare il detenuto a ravvedersi, fin’anche mortificando il  perdono, sebbene convissuto con reciproca  consapevolezza.

Ergastolo, “fine pena mai”, il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività, che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste. Che non ti assolve.


Sbarre appese alla memoria per ricordare; 30 o 35  anni di carcere scontato, decenni di ferro sbattuto sui rimorsi che lasciano un segno, un’apnea che restringe i polmoni e costringe l’uomo a straripare in universi sconosciuti.
Un mondo fatto di domani che non ci sono, una negazione che rinvia alla morte di ogni umanità, creatività e fantasia, in carcere da tanti anni e la scena su questo palcoscenico sotterraneo di carne e sangue, é lo specchio di un qualcosa a cui nessuno intende guardare.
Nonostante il carcere e questa condanna che scorre circolarmente in un inseguimento a ritroso,  occorre ritrovare il senso di una capacità di partecipazione, di accoglienza, in un sentire autentico, e non perché si é disperati, per sfuggire gli attimi in cui ci si sente estranei tra tanti, alienati a tal punto da non capire più nulla.
L’uomo come ogni essere vivente è in continua evoluzione, eppure qualcuno si ostina a pensare che esista la persona deviante irrecuperabile, allora la società come deve adoperarsi affinché questa trasformazione possa avverarsi?
Espiazione non può essere mera sopportazione di un male imposto, ma riconciliazione con se stessi e gli altri, una trasformazione che coinvolge l’interezza dell’uomo.  A volte c’é questo sorprendente incontro con gli altri che ci attende, c’é lo stupore di ritrovarsi al cospetto dell’universo interiore in noi, che ci conduce sul sottile confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo alle proprie forze, alle proprie energie.
In questo carcere che stenta a recuperare alla società, finché esso stesso non sarà recuperato dalla società, c’è bisogno di accompagnare il dolore con le parole di una giustizia equa,  per imparare ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la scrittura, la mediazione, i rapporti umani finalmente sbocciati, mantenuti e cresciuti, nel tentativo di modificare questa dimensione disumanizzante in un luogo ancor aperto ad alternative di conoscenza e mutamento interiore.
Si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti, il carcere c’è, è là, ma si tende a ignorarlo, non è percepito come un problema  sociale, non riguarda la parte buona, che preferisce rimuovere: ma questo atteggiamento produce un distacco profondo tra carcere e società.
Ergastolo e carcere, spesso una sofferenza per lo più amministrata, imposta e sempre meno vicina a un dolore “vissuto in due”.
Ergastolo e nuovi impegni, nuove responsabilità,  al di là della gabbia che circonda, mostrando la differenza dell’uomo della condanna, dall’uomo della pena, e convincersi che occorre affidarsi a una pena che sia solo un tragitto di vita, che parta dalla dignità della persona, dalle sue capacità e risorse.

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