2009

Non ci sono innocenti nel braccio della morte

30 gennaio 2008
30 gennaio 1972 Bloody Sunday

Non ci sono innocenti nel braccio della morte.
La nostra lotta contro la pena capitale è una lotta morale ed etica. Una lotta per il rispetto dei diritti umani, per la vita, il diritto e la giustizia. Una lotta  che non ha bisogno di giustificazioni, perché la pena di morte è un sacrificio umano futile e feroce. Che sia la “giustizia del re” giapponese o il democratico “linciaggio legale” americano il risultato non cambia: la pena di morte è l’uccisione rituale di alcuni disgraziati allo scopo di placare le paure della società. Questa constatazione spiega da sola il nostro impegno. Questa è la ragione per cui non ci battiamo contro la pena capitale perché uccide gli innocenti, ma perché uccide i colpevoli.

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Aspiranti professionisti dell’ultima meta

di Vincenzo Andraous

Quando la trasgressione diventa così feroce e sorda da divenire violenza e quindi devianza, si corre il rischio di banalizzare ogni cosa, anche le persone, le vittime, gli stessi aggressori, affermando che le ragioni sono evidenti e riconducibili a fattori noti.

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Gli aquiloni di Gaza

di Ettore Masina

Vi sono momenti in cui la storia e il vangelo si incrociano e pare si confermino a vicenda. Il 28 dicembre di ogni anno la Chiesa rilegge la pagina del Nuovo Testamento in  cui si racconta della strage di bambini di Betlemme ordinata da Erode. La Chiesa definisce quei piccoli con il nome di Santi Martiri Innocenti. In realtà si tratta di un racconto midrashico, cioè simbolico: nessun testo storico registra un avvenimento del genere nella Palestina di quel tempo. Adesso questo avvenimento e il nome che lo descrive sono diventati realtà: proprio a partire dagli ultimi giorni del dicembre scorso e proprio in  Palestina, decine e decine di bambini vengono uccisi, non da sgherri assatanati ma da un esercito fra i più potenti della Terra con generali, bandiere,  ferrea disciplina, minuziosi piani di battaglia.

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Fesso? Chi non sa leggere

Ero un ragazzino di appena undici o dodici anni, quando qualche volta accompagnavo mia madre o mio padre agli uffici dell’Anagrafe comunale, per richiedere documenti e certificati che oggi sembrano residuati di archeologia burocratica, spediti al macero dalle attuali normative sull’autocertificazione. Nell’atrio rettangolare, sul quale si affacciavano gli sportelli dei numerosi uffici, stazionava un ometto, comodamente seduto ad un minuscolo tavolino, che sembrava quasi trovarsi a casa sua, tanto pareva a proprio agio in quell’andirivieni di gente di ogni specie.
Sul tavolino, disposti in pile ordinate, una serie di foglietti di diverse dimensioni, moduli da compilare per richiedere uno dei tanti certificati che le leggi di allora esigevano in ogni circostanza. Nascita, residenza, stato di famiglia, cittadinanza erano i più comuni, ogni tanto l’esercizio più difficile di quell’arte, il triplo salto mortale all’indietro carpiato, la richiesta di una carta d’identità.
Ricordo anche che l’uomo dei moduli era sempre un po’ seccato se qualcuno andava al suo tavolo e si serviva da solo, non gli andava giù che quello facesse tutto da solo, senza degnarsi neppure di richiedere i suoi servizi. Non protestava, perché capiva di non averne alcun diritto, quei foglietti in fondo erano messi lì a disposizione dei cittadini, ma si capiva che la cosa non gli andava affatto giù, non ammetteva che ci fosse qualcun altro capace di fare il suo lavoro altrettanto bene. A quell’epoca ero letteralmente affascinato da quei foglietti, al punto da prenderne sempre un paio da portarmi a casa, per leggerli con calma e cercare finalmente di svelare il mistero celato tra le loro righe. Mi accorgevo di riuscire a comprendere il significato della maggior parte di quei termini burocratici, dove non riuscivo ad arrivare provvedeva il modesto dizionario acquistato all’inizio della scuola media.
Chissà perché, per quell’uomo immaginavo una storia di dignitosa povertà, costretto dal bisogno, nonostante l’età che, a quell’epoca, mi pareva avanzata, a quel lavoro umile ma importante, forse un tempo impiegato di quegli stessi uffici in cui continuava a trascorrere le sue giornate, magari collega di quelli che dietro lo sportello attendevano che qualcuno gli consegnasse il foglietto con la richiesta del certificato, tollerato in virtù del fatto che un tempo anche lui era appartenuto alla nobile casta degli impiegati comunali, sottogruppo anagrafe.
Ogni volta continuava a sorprendermi il fatto che quell’uomo si guadagnasse da vivere compilando, a richiesta del pubblico, quei moduli che ai più apparivano astrusi e incomprensibili, lui, al contrario, sapeva destreggiarsi tra le diverse richieste di certificati con un’abilità che aveva del sorprendente. Quello che mi sorprendeva, però, era il fatto che tanta gente continuasse a rivolgersi a lui per compilare una di quelle richieste, operazione che non sembrava impossibile neppure per un ragazzino di scuola media quale ero io all’epoca.

Mi accorgo di pensare a quell’omino, proprio mentre mi passa davanti agli occhi un trafiletto, una notizia come tante altre, i dati dell’indagine PISA sulle abilità di comprensione di un testo scritto da parte dei nostri adolescenti quindici – sedicenni. Aumenta vistosamente, anno dopo anno, l’incapacità di comprendere un breve testo scritto, fenomeno ancora più abnorme se si pensa che, nel frattempo, aumenta anche il numero delle persone che conseguono un diploma o una laurea. Mi chiedo cosa avranno fatto quei ragazzi e quelle ragazze nei dieci anni trascorsi sui banchi di scuola prima che quell’indagine venisse a mettere impietosamente a nudo i buchi neri delle loro incompetenze.
Mi scopro anche ad immaginare un futuro, non troppo fantascientifico, in cui le difficoltà di leggere e comprendere un testo saranno esasperate dalla necessità sempre più stringente di dover compiere queste elementari operazioni, potenzialmente accessibili da parte di qualunque persona alfabetizzata. Perché, nella società dell’informazione ossessiva – compulsiva, il dato assume sempre più un valore relativo, se non accompagnato da opportune spiegazioni, e il moltiplicarsi e l’affastellarsi delle norme costringe sempre più spesso a ricorrere a specialisti di linguaggi sempre più astrusi, nei quali significato e significante continuano a divergere costantemente. Come se non bastasse la complessità della lingua materna a rendere difficili le cose, ci si mette anche la burocrazia che, forse a corto di termini astrusi, ricorre ad altre lingue per confondere le idee della gente. Da quali menti perverse vengono proposti e approvati termini quali “welfare”, “social card”, “bonus”, “incapiente”, quest’ultimo addirittura sconosciuto al correttore ortografico?
Insomma, allo scritturale di una volta potrebbe essere necessario sostituire oggi l’Esplicatore, qualcuno capace non solo di leggere ma anche di comprendere e, soprattutto, far comprendere il significato delle parole contenute nei moduli, nei documenti, nei testi in generale. I più ricchi – beati loro! – potranno permettersi il personal reader, accanto agli ormai collaudati personal trainer e personal shopper. Ce le vedo queste signore ingioiellate rivolgersi al reader di turno e farsi spiegare cosa c’è scritto su un manifesto o nelle tre righe che scorrono davanti ai loro occhi, mentre aspettano sotto il casco del parrucchiere che le loro capigliature prendano forma.
Ogni volta che penso a queste cose, mi tornano in mente immagini della mia infanzia. “Fesso chi legge”, era scritto su tutti i muri, con calligrafie grossolane, a supremo disprezzo di quell’arte che non occorreva padroneggiare per fare quattrini, palanche, sghei, bastavano forza e furbizia, per “stare sul pezzo” ventiquattro ore su ventiquattro e fregare i fessi, appunto quelli che leggevano. Inoltre, quel messaggio denigratorio poteva arrivare solo a chi era in grado di leggerlo e decodificarlo e quindi colpiva senz’altro nel segno.
Restava solo da sciogliere un piccolo dubbio, se l’ignoto estensore del messaggio avesse operato di proprio pugno o avesse assoldato uno scritturale, al quale affidare il compito di dare forma a quei suoni canzonatori che lui era appena in grado di compitare. La differenza non è da poco, perché nel secondo caso quel tale era indenne dall’infamante marchio derivante dal saper leggere, ma nel primo caso sarebbe rientrato di diritto in quella categoria contro la quale si indirizzava il suo grossolano sarcasmo. Anche lui sarebbe stato un fesso a tutti gli effetti, con l’unica eccezione del caso in cui avesse vergato le lettere infamanti ad occhi chiusi e, pertanto, si fosse astenuto dal leggerle. Ma forse in quel cervello di passerotto non poteva trovare posto nessuna forma di logica, persino la più grossolana. Se avesse provato a riflettere anche per un solo istante, sarebbe giunto all’unica, vera, tristissima conclusione del ragionamento: l’unico fesso, oggi e sempre, è chi non sa leggere.

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‘’Ululare con i lupi’’. Indifferenziazione e deumanizzazione come orizzonte implicito della cultura postmoderna.

di Angelo Moroni

“La morte ha inizio da quel ritaglio dell’infinita indeterminazione del senso  che chiamiamo ‘Identità'”.
G. Marramao (1991)

Viviamo in un epoca di superfici e di assenza di profondità, in una “società liquida” (Bauman, 2006) nella quale predomina l’appiattimento del soggettivo rispetto al socialmente visibile nell’immediatezza pura, priva di qualsiasi elaborazione, sedimentazione, processualità e fatica di pensiero. L’Essere (umano, heideggerianamente inteso) sembra essersi nascosto, insieme col Pensiero, in un luogo lontano, inaccessibile, sembra essere diventato un “Essere-rintanato-via-da-qui”. Ciò che viviamo-qui (il nostro esser-ci umano) si è ridotto a una continua frammentazione che non trova mai coesione, come se l’Inconscio fosse tutto e sempre catapultato fuori e compulsivamente agito (nei reality show, nella velocizzazione dei processi produttivo-lavorativi, nelle relazioni umane, nella fruizione della cosiddetta “realtà virtuale”, etc.). L’Umano è diventato quindi secondario, fuggito via l’Essere, e perciò siamo spinti sempre più in un’attrazione simil-psicotica, epilettoide, verso l’inanimato, il meccanico, il tecnologico: il telefonino, la TV al plasma, l’ipod, il forno a microonde, le protesi biotecnologiche che innestiamo su ciò che resta di umano dei nostri corpi fisici, tutti OGGETTI inanimati che sono più significativi di ciò che è il SOGGETTO. Idealizziamo continuamente oggetti inanimati, un Dio-Protesi, un feticcio tecnologico proteiforme e cangiante, nuova forma del Vitello d’Oro di biblica memoria. Diventando secondario l’umano, fuggito via l’Essere in una deriva di disumanizzazione di cui poco ci rendiamo conto, diventa sempre più inesistente la distinzione tra la Vita e la Morte, tra ciò che è reale e ciò che è virtuale, tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo. Fuggito via l’Essere, subentra il Kaos parcellizzante e frantumato, il piacere pulsionale immediato, muto e impersonale, che rende “significativo” solo il frammento scisso da tutto il resto, l’immagine fine a stessa, la consumazione avida del bisogno, generando così laceranti amputazioni di parti di Sé, della Memoria, della Storia, della Soggettività, dell’Io. Ne consegue, tra l’altro, una delle patologie più diffuse oggi giorno: l’attacco di panico, ben nascosto dietro la superficie patinata di un suv o del palmare ultimo modello. L’accelerazione globale, la cancellazione ossessiva e televisiva tra pubblico e privato, tra intimo e sociale, sono processi di deriva dell’Essere che trasformano qualsiasi psicologia del “senso” in trasferimento e semplice accumulazione di informazioni, svuotando di significato l’esperienza introspettiva, ciò che è mente, interiorità, in una parola ciò che è Umano. Vengono in mente appunto le struggenti parole di Heidegger: “Memoria è qui raccoglimento del pensiero (…). Memoria è il raccogliersi della rimemorazione presso ciò che è prima di ogni altra cosa da-considerare. Questo raccogliersi alberga presso di sé (…). La memoria, la raccolta rimemorazione volta verso il da-pensare, è il terreno da cui sgorga la poesia” (M. Hedegger ‘Che cosa significa pensare?’, in ‘Saggi e discorsi’, 1957-Tr.it Mursia, Milano, 1976). “Poesia” è per Heidegger ciò che può essere indicato come segno dell’Umano in quanto rappresentazione, e sul versante della Psicoanalisi “rappresentazione” indica il lavoro della mente, di quell'”apparato per pensare i pensieri” di cui ci ha parlato intensamente Bion, e che a sua volta è caratteristica più distintiva dell’Essere dell’Uomo. L’appiattirsi sul gruppale, sul virtuale, sul tecnologico omologante, taglia fuori  (forclude, direbbe Lacan, in un recinto-prigione psicotico) il soggettivo,  e tutto questo, tutto il poetico heideggeriano, si scioglie in massa, in  gruppo, in aggregazione indistinta, indifferenziata. Una interessante riflessione su un versante eminentemente psicoanalitico su questi temi, la troviamo nel volume “Ululare con i lupi. Conformismo e reverie” (2003) di Gaburri e Ambrosiano. In questo libro i due Autori, psicoanalisti, analizzano il problema del conformismo nella doppia ottica dell’individuo e del gruppo, sottolineando quanto il ricorso all’omologazione sottenda un movimento massicciamente evacuativo dell’angoscia dell’individuo, attraverso il rifugio in una fantasia simbiotico-edenica gruppale. Tale fantasia (inconscia) trasforma i non-luoghi del postmoderno (i centri commerciali, la tecnologia, lo spazio virtuale, eccetera) in “luoghi” illusori, autistici dove domina il senso di onnipotenza e viene meno il senso di condivisione e costruzione relazionale. Sono luoghi dove l’indifferenziato prolifera. Non sembra quasi più necessario, infatti, nell’epoca odierna, ricercare una nozione condivisa di cosa significa essere-una-persona (distinta, differente-da-un-altro), che si dà nell’autopoiesi del suo essere-nel-mondo. Tutto ciò sembra diventato superfluo (là dove per Heidegger, per Freud era fondativo). Ma se diventa superflua la nostra memoria-identità, destino migliore certo non sarà quello dell’Altro-da-sé, dal momento che il nostro Sé è “come un Altro” (Ricoeur, 1990).  Ciò che voglio significare qui è che stiamo vivendo una profonda, radicale trasformazione antropologica dell’Essere Umano, alla quale non siamo ancora pienamente preparati e di cui, soprattutto, non abbiamo piena consapevolezza. La nostra vita si sta infatti sempre più trasformando in un contenitore di sterili oggetti inanimati, di “cose”. Cose da fare, cosa da consumare, cellulari sempre accesi, connessioni a internet sempre attivate, televisori che srotolano in continuazioni immagini da vedere. Ogni immagine uguale a un’altra, significante del regno dell’indifferenziato. Non c’è più silenzio, pausa, attesa, differimento del desiderio, ricordo, memoria, pensiero, là dove il desiderio e la memoria (il Tempo) e la loro  assenza sarebbero la marca distintiva del Soggetto Umano, in quanto animale culturale caratterizzato dalle stigmate dell’identità e della morte. Il senso dell’Essere Umano è infatti, intrinsecamente, Senso come Limite, cioè la Morte è inscritta nel senso dell’Essere e nel Tempo (Heidegger) dell’uomo, ontologicamente. La cultura umana e le sue espressioni derivano infatti da questo sfondo permanente di un senso che si sottrae, che non si dà, ovvero che sì dà per scarto e mostra ogni momento il suo carattere di inattingibilità: non possiamo mai attingere al senso come “cosa-in-sé”, come “in-conscio”. Come scrive Silvana Borutti, “questa prospettiva dice sostanzialmente che non sappiamo il senso come una cosa, che l’essere è non ente, ni-ente, nulla; che perciò dal punto di vista esistenziale, lo stato dell’essere (dell’essere che noi siamo) è l’angoscia che si prova di fronte al nulla, è il lutto senza oggetto”. Un lutto senza oggetto che però ci contraddistingue come Esseri Umani. Tutto quanto detto fin qui sfuma via in un’evanescenza futile, in una “chiacchiera insensata” (Heidegger), nel tempo che viviamo: il Tempo del chiacchiericcio, del telegiornale infinito, delle veline, di Striscia la Notizia. Chiacchiericcio nel quale affonda come in una palude maniacale, euforica, pseudo-brillante, unicamente psicotico-fusionale, il senso del limite, il significato dell’angoscia della nostra impotenza di essere uomini, radicati temporaneamente su una Terra che ci vede solo come passeggeri.

‘’Ululare con i lupi’’. Indifferenziazione e deumanizzazione come orizzonte implicito della cultura postmoderna. Leggi tutto »