Un Simenon d’annata

di Ghismunda

Copertina del libro: Le campane di Bicêtre - Georges Simenon

Quello che mi piace della grande narrativa del Novecento è che in essa non succede mai nulla. Né avventure né colpi di scena e nemmeno eroi e lieto fine, come in tanta narrativa ottocentesca, specchio di un mondo borghese fiducioso nell’esistenza di un ordine e di una concatenazione logica degli eventi che il romanzo può e deve riprodurre, a scopo di evasione, consolazione o di semplice conoscenza. A dominare, nel romanzo del Novecento, è l’interiorità e l’analisi, tortuosa e serrata, implacabile, di una coscienza; il punto di vista, molteplice e soggettivo, dell’autore/personaggio; la mancanza di certezze tanto scientifiche quanto religiose; il senso di precarietà dell’esistenza; la giornata di tanti Ulisse/Bloom, smarriti nella routine e nel caos delle metropoli moderne o di tanti Josef K., alle prese con l’angoscia e il non senso di un mondo estraneo e persecutorio. Non si esce dall’io e da come lui sente e ragiona e più spesso sragiona, chiamando in causa il nostro io e la nostra percezione del mondo, in un confronto e percorso di conoscenza sempre aperto, inesauribile. Affascinante. E poi c’è il tempo, quella cosa che, proustianamente, torna, a ricomporre nella memoria i frammenti  baluginanti di vite trascorse. Ma per questo occorre un’occasione speciale. Non è indispensabile, forse, arrivare a chiudersi in una stanza dalle pareti di sughero per recuperare in qualche modo il tempo perduto, ma una “sospensione”, un evento eccezionale, a volte traumatico, che rompe e stacca dall’ordinaria amministrazione, ci vuole. Per tornare a vedere. Per tornare a pensare. “Quando, in quale momento – si chiede René Maugras nel suo letto d’ospedale – si perde la percezione degli odori, dei suoni, delle gemme che si schiudono?” A volte, può essere proprio la malattia il momento privilegiato del recupero di se stessi. Passando attraverso gli altri, raschiandone via la superficie per “arrivare a vedere più chiaro in se stesso”.

“Le campane di Bicêtre” di Georges Simenon è un capolavoro nel senso novecentesco testé illustrato. Il protagonista, René Maugras, è un uomo arrivato, potente, direttore di importanti testate giornalistiche, temuto e vezzeggiato da ministri e artisti di fama. Durante uno dei primi martedì di ogni mese, in cui è solito ritrovarsi a cena con i suoi amici nella saletta privata dell’esclusivo Grand Véfour, viene colpito da un ictus e portato, incosciente, all’ospedale psichiatrico di Bicêtre, da dove riemergerà lentamente alla coscienza e ad una vita colta e riassaporata in ogni dettaglio, a partire dal suono delle vicine campane, che scandiscono il ritmo regolare di un’esistenza affatto diversa dal passato e dipendente, in tutto e per tutto, dal personale medico e infermieristico che lo circonda. René non si stacca dal letto e il lettore non si stacca dal libro, attirato com’è da esperienze e pensieri profondamente umani e veri, in cui è inevitabile riconoscersi e commuoversi. A René non accade nulla, se non il normale decorso di una malattia che molto lentamente, attraverso le varie fasi della riabilitazione, lo porterà al parziale recupero del suo corpo. Ma la forzata immobilità accende quella che Proust chiama la “memoria involontaria”, l’affiorare improvviso e senza ordine di ricordi e immagini di un passato più o meno remoto, come di chi sfogli a casaccio un album di vecchie fotografie in bianco e nero.  Ad ogni immagine (perché proprio quella e non un’altra?), un’ “intermittenza” del cuore e un lavorio incessante della mente, che scava impietosa nelle pieghe della vita e arriva a porsi le domande fondamentali, quelle che fanno tremare le vene e i polsi e che, nella routine quotidiana, si preferisce eludere, rimandare o francamente ignorare. Sei soddisfatto di te? Sei felice? Lo sei stato almeno una volta, felice di quella “perfetta felicità, una felicità gratuita, che si riceve con totale innocenza e che si vive senza rendersene conto?”. E ancora: a che scopo vivere? Cosa hai realizzato, partito dal niente, cominciando (il suo “fiuto” che tutti gli invidiano …) “col raccogliere pettegolezzi come si fruga nelle pattumiere…”? Ed hai veramente amato e come? (“Probabilmente farebbe ridere gli amici confessando loro che, ai suoi occhi, nonostante gli anni e le molteplici esperienze, la donna conserva il proprio mistero, l’incanto, e lui è ancora tentato, pensando all’amore, di usare le parole del catechismo: l’atto carnale…”); insomma, Maugras è deciso a determinare, “con tutta l’obiettività possibile, ciò che resta di cinquantaquattro anni della vita di un uomo”. Il prete dell’infanzia era soliti ripetergli: “Tutto conta… Niente si perde…”. Ma è davvero così?

Simenon riesce a farci entrare, con grande finezza espressiva e sensibilità, nella psiche di quello che per lui è l’essere più sconcertante del mondo: l’uomo ammalato, colui che, dopo il verdetto, “non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce”. Attraverso René Maugras, conosciamo alcuni dei sentimenti più frequenti da cui si viene assaliti in una camera d’ospedale, a pagamento o pubblica non fa differenza: il panico, l’impotenza, la vergogna; il desiderio di essere lasciato in pace, l’insofferenza verso l’ottimismo di circostanza mostrato da parenti e amici in visita; la paura di guarire, di tornare al mondo di fuori… E soprattutto loro, i medici, colti dal paziente durante quella sorta di “cerimonia religiosa” che è la visita del Professore seguito dal codazzo ossequiente di studenti e semplici dottori: “In fondo si trattava di un gioco crudele. Una mano indifferente sollevava il lenzuolo e scopriva corpi febbricitanti, malformazioni, piaghe da decubito, mentre il professore, con la voce che aveva in cattedra, esponeva le proprie opinioni al riguardo e gli allievi prendevano appunti. Il gruppo passava lentamente da un letto all’altro seguito da sguardi che in qualche caso erano a malapena umani e non esprimevano più che una paura animale. Ciascuno aspettava il proprio turno, tendeva l’orecchio, si sforzava di capire i commenti del medico che, per quanto li riguardava, avrebbero potuto essere pronunciati anche in latino …  Tra tutti loro  c’è un grande scambio di sguardi. Naturalmente, lui ne è escluso.  Quello che avviene non lo riguarda, anche se avviene in lui, nel suo corpo … A Maugras viene da fare una battuta che dentro di sé trova divertente. Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?” La malattia rende gli uomini davvero tutti uguali e la ricchezza, il privilegio della camera privata, dell’infermiera personale, i pigiami di seta con le iniziali ricamate a sinistra, così stonati mentre, come tutti gli altri, è in fila per la rieducazione, appaiono a Maugras la vera eccezione, un tradimento, il simbolo di un’esistenza lontana dalla realtà. Di un’esistenza immorale.

Un grande romanzo. Non perdetevi il suono delle campane di Bicêtre.

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