
Due contributi di Alberto Guariso e Francesco Ferri
Torniamo sul tema della cittadinanza (oggetto del referendum n. 5) con due contributi, il primo di Alberto Guariso, il secondo di Francesco Ferri, entrambi giuristi.
Guariso, in particolare, si sofferma sul principio di democrazia fondamentale sottostante un quesito di questo genere, che sostiene i diritti di base di chi vive in questo paese già da un periodo di cinque anni: “Chi a quel popolo appartiene perché ne condivide le sorti su un territorio, magari per esservi addirittura nato, perché lì ha relazioni e stabilità di vita, perché lì adempie i suoi doveri di solidarietà, questi è cittadino e ha diritto che questa sua condizione venga riconosciuta”. Si ricorda che l’eventuale vittoria dei SI non garantisce – come propagandato in modo falso e tendenzioso dalle destre razziste e populiste – l’immediato ottenimento della cittadinanza italiana, in quanto occorre possedere altri requisiti, la cui certificazione richiede spesso attese di ulteriori due o tre anni.
Francesco Ferri, invece, fa notare come la legge sull’ottenimento della cittadinanza sia del 1992, pensata in un contesto sociale profondamente diverso, e non è mai stata sottoposta a una revisione sistemica. Questa volontà di non intervenire in materia – scelta ovviamente politica – giustifica ancor di più la necessità di votare SI, ben coscienti che non sarà questo referendum a risolvere la questione migrante (in particolare l’induzione alla clandestinità come strumento di dumping sociale sul mercato del lavoro). Ma può essere un punto di partenza per ribadire che l’esclusione non è un errore del sistema ma una sua funzione: “La cittadinanza è una delle forme principali attraverso cui si produce esclusione istituzionale. È un terreno di conflitto. Il referendum non risolve questa tensione, ma può riaprirla. Può rendere nuovamente possibile la domanda: chi è riconosciutə come parte della collettività? Chi decide? Su quali basi?”.
Chi vive in Italia ha diritto in tempi brevi alla cittadinanza
di Alberto Guariso
Poiché ultimamente le cose semplici sono sempre più rare, era inevitabile che anche il quesito referendario sulla cittadinanza avesse una formulazione un po’ complicata: gli elettori troveranno infatti sulla scheda il riferimento al maggiorenne “adottato da cittadino italiano” e magari si chiederanno perché mai i promotori del referendum dovrebbero avercela con gli adottati, tanto da voler abrogare una norma che li riguarda.
Ma la ragione è presto detta: la nostra Costituzione, come noto, ammette solo i referendum abrogativi e dunque era assai difficile riuscire a estendere le possibilità di acquisizione della cittadinanza mediante la abrogazione dell’una o dell’altra norma.
Si è quindi dovuto scegliere una strada stretta: prendere in considerazione una delle ipotesi di residenza “abbreviata” per poter proporre la domanda di cittadinanza e cancellare le parole che limitano questa ipotesi ai soli adottati da cittadini italiani (altre ipotesi di abbreviazione sono quelle dei cittadini dell’Unione Europea e dei titolari dello status di rifugiato): cancellato il riferimento agli adottati e cancellata anche (con la seconda parte del quesito) l’altra previsione generale dei 10 anni di residenza, si ottiene che il termine abbreviato viene esteso a tutti. Una soluzione ingegnosa che, nonostante comporti una certa manipolazione della norma, la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile, sufficientemente chiara e del tutto conforme agli obiettivi dichiarati dai promotori (sentenza 11/2025).
Una precisazione deve però essere fatta: l’abbreviazione riguarda solo il periodo dopo il quale è consentito “fare domanda” di cittadinanza, ma non comporta affatto che dopo 5 anni si divenga automaticamente cittadini italiani; la domanda rimane comunque sottoposta a una valutazione ministeriale altamente discrezionale (un “atto di alta amministrazione”, tendenzialmente incensurabile, come ricorda la citata sentenza della Corte Costituzionale) e dunque dovrà passare al vaglio del Ministero per quanto riguarda, la sufficienza del reddito, la conoscenza dell’italiano, l’assenza di precedenti penali o di comportamenti ipotizzati come “antisociali” e così via: con un procedimento per il quale, oltretutto, la legge attribuisce al Ministero ben 3 anni di tempo (sicché i cinque anni diventano automaticamente otto).
Mentono dunque, sapendo di mentire, le forze politiche di governo quando equiparano la vittoria del SI a una sorta di “regalo” della cittadinanza a chiunque la chieda: quello che accadrebbe è solo che il periodo di residenza sufficiente per proporre domanda si ridurrebbe al medesimo livello previsto dalla gran parte dei paesi europei: il termine di cinque anni è infatti previsto in Francia, Germania, Paesi Bassi, Irlanda, Svezia; in Austria sono 6, in Spagna solo due se si proviene da paesi sudamericani; persino l’Ungheria, paese non certo tenero con i migranti, prevede un periodo inferiore a quello italiano (8 anni).
Nulla cambierebbe invece per quanto riguarda i casi di acquisizione della cittadinanza “per diritto” (cioè per il caso di matrimonio, del 18enne nato in Italia che ivi abbia sempre risieduto e pochi altri) e dunque le varie proposte nate per estendere l’accesso alla cittadinanza (per diritto) a coloro che sono nati in Italia (ius scholae, ius culturae ecc.) resterebbero ancora una volta senza risposta.
Un esito positivo del referendum avrebbe tuttavia l’effetto – quasi rivoluzionario nel clima politico attuale – di rendere manifesta la volontà popolare di rompere l’inerzia del legislatore e arrivare a una soluzione ragionevole.
Tra l’altro un ulteriore spinta in questo senso potrebbe paradossalmente venire dal “pasticcio dello ius sanguins”: e infatti il governo, risvegliatosi improvvisamente dal suo torpore, ha improvvisamente deciso che il riconoscimento dello status di cittadino solo per discendenza dall’avo italiano (il famoso ius sanguins) stava generando effetti paradossali, tra le divisioni della maggioranza, è corso ai ripari con il decreto legge 36/2025, ormai già convertito in legge e destinato, per la sua formulazione pasticciata, a generare ulteriore contenzioso.
L’operazione, al di là del contenuto, segnala quantomeno l’indifendibilità del regime vigente e se qualcosa si è potuto fare (tra l’altro in tempi brevissimi) in termini restrittivi sul versante della trasmissione iure sanguinis, significa che qualcosa si può fare anche in termini estensivi sugli altri versanti.
Ancor più lo segnala il fatto che nel corso del mese di giugno verrà anche discussa alla Corte Costituzionale l’eccezione sollevata dal Tribunale di Bologna secondo il quale la eccessiva facilitazione (fino alla DL 36/2025) nella acquisizione della cittadinanza “per diritto di sangue” sarebbe contraria alla Costituzione addirittura per violazione dell’ l’art. 1, laddove sancisce che “la sovranità appartiene al popolo”: attribuire “la sovranità” (prima di tutto mediante il diritto di voto) a persone che a quel popolo non appartengono, per distanza geografica e culturale, violerebbe il diritto del “popolo” a decidere lui stesso delle proprie sorti.
Non è detto che la tesi del Tribunale di Bologna sia giusta e giuridicamente fondata. Sicuramente segnala quanto sia giusto e fondato il principio opposto: che cioè chi a quel popolo appartiene perché ne condivide le sorti su un territorio, magari per esservi addirittura nato, perché lì ha relazioni e stabilità di vita, perché lì adempie i suoi doveri di solidarietà, questi è cittadino e ha diritto che questa sua condizione venga riconosciuta.
Il referendum, se vinceranno i SI, servirà a fare un passo in questa direzione. Dunque, senza dubbi, un SI!
Cittadinanza in movimento. Il referendum contro lo stallo istituzionale
di Francesco Ferri
A poche settimane dal voto referendario sulla cittadinanza, vale la pena fermarsi a riflettere su due domande: in che momento politico arriva questa iniziativa? E quali scenari può aprire?
Il referendum propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale e continuativa richiesto a chi vive in Italia, insieme a molti altri requisiti, per poter presentare domanda di cittadinanza. Si tratta di una modifica specifica, ma tutt’altro che irrilevante: non solo perché agisce su uno dei dispositivi principali dell’esclusione istituzionale, ma perché costringe il dibattito pubblico a tornare su un terreno che la politica istituzionale ha sistematicamente evitato.
Un contesto di transizione bloccata
Nonostante questa dimensione sia sistematicamente rimossa, l’Italia è una società eterogenea, plurale attraversata da processi di mobilità, mescolanze, genealogie plurali. La presenza di milioni di persone di origine straniera – molte delle quali nate o cresciute in Italia, o residenti da decenni – è un dato strutturale. Eppure, l’impianto normativo che regola la cittadinanza resta ancorato a un paradigma identitario. La legge in vigore risale al 1992, pensata in un contesto sociale profondamente diverso, e non è mai stata sottoposta a una revisione sistemica.
I tentativi di riforma – dal cosiddetto ius soli temperato allo ius scholae– sono stati depotenziati o bloccati, neutralizzati da un sistema politico incapace di affrontare il tema della cittadinanza fuori da logiche emergenziali o securitarie. Nel frattempo, la cittadinanza continua a funzionare come una barriera d’accesso, una soglia che separa chi è riconosciutə come parte della collettività da chi, pur vivendoci, ne resta formalmente esclusə.
In questo quadro, il referendum si presenta come un’interruzione dell’inerzia. Non è una riforma organica, ma un’iniziativa politica puntuale e necessaria: rompe il silenzio istituzionale, costringe a ridefinire il perimetro della discussione, chiama alla mobilitazione soggetti da tempo marginalizzatə nel dibattito pubblico.
La partecipazione delle persone escluse
Il referendum sposta lo sguardo sulle persone adulte escluse dalla cittadinanza. Il discorso dominante si è concentrato, nell’ultimo decennio, quasi esclusivamente sulle cd. “seconde generazioni”, in particolare su bambinə e adolescenti, raffiguratə come innocenti, integratə, meritevoli. Questa narrazione, oltre a essere paternalistica, ha prodotto una rimozione sistematica della condizione materiale e simbolica dellə adultə esclusə dalla cittadinanza.
Chi oggi non ha accesso alla cittadinanza partecipa già attivamente alla vita collettiva. Lavora, studia, abita, costruisce relazioni, si organizza. Ma lo fa da una posizione subalterna. L’esclusione dalla cittadinanza ha conseguenze materiali molto concrete: limita la possibilità di accedere a determinati lavori, soprattutto nel pubblico impiego; impedisce la piena libertà di movimento; nega il diritto di voto e di rappresentanza; alimenta una condizione di precarietà amministrativa.
Non si tratta dunque di persone “in attesa” di partecipare: si tratta di soggetti che partecipano già, ma a cui viene sistematicamente negato il riconoscimento e la titolarità piena dei diritti.
La cittadinanza come dispositivo selettivo
La cittadinanza non è solo uno status formale. È un dispositivo che organizza l’accesso a diritti, risorse, spazi, forme di visibilità. È una soglia che definisce chi può prendere parola nello spazio pubblico, chi può rivendicare, chi può essere consideratə interlocutorə politico. Funziona come un filtro, selettivo e diseguale, che riproduce gerarchie razziali, economiche e sociali. Il referendum non mira a cancellare questa soglia, ma a ridurne almeno una parte dell’arbitrarietà. Prolungare artificialmente l’esclusione giuridica serve solo a consolidare disuguaglianze.
Comunque vada, il referendum ha già avuto effetti politici. Ha riattivato discorsi, messo in circolazione argomentazioni, prodotto alleanze, mobilitato soggettività. In vista del voto, gli scenari che si aprono sono molteplici. Se il quorum venisse raggiunto e l’esito fosse netto, si aprirebbe la possibilità concreta di riaprire il dibattito parlamentare, rompendo un tabù che da troppo tempo paralizza ogni riforma. Se anche il quorum non fosse raggiunto, ma la partecipazione fosse significativa, si potrebbe comunque consolidare una rete politica ampia e durevole. Viceversa, un’astensione diffusa rafforzerebbe lo status quo.
Per questo il referendum va attraversato con tutta l’energia possibile. Non si tratta di affidare a una scheda elettorale il potere di cambiare tutto. Si tratta di cogliere un’occasione per mettere in discussione il modo in cui lo Stato organizza l’appartenenza e per politicizzare un terreno che è stato depoliticizzato per decenni.
Politicizzare l’esclusione
La cittadinanza è una delle forme principali attraverso cui si produce esclusione istituzionale. È un terreno di conflitto. Il referendum non risolve questa tensione, ma può riaprirla. Può rendere nuovamente possibile la domanda: chi è riconosciutə come parte della collettività? Chi decide? Su quali basi?Sta a noi tuttə mantenere aperto questo spazio. Non solo per difendere una proposta importante ma parziale, ma per farne un punto di partenza. Politicizzare la cittadinanza significa mostrare che ogni soglia è storicamente costruita, e come tale può essere modificata, anche radicalmente. Significa affermare che l’esclusione non è un errore del sistema, ma una sua funzione. E che può essere rovesciata solo se viene nominata, contestata, decostruita.
I contributi sono stati pubblicati su Effimera il 26 maggio 2025
Immagine: Ivan Milev, Rifugiati, 1926 – Wikimedia Commons