Un’apartheid nostrana


di Raffaele Crocco


Di tutti i cinque referendum abrogativi che dovremo affrontare, come elettori, l’8 e 9 giugno, quello sul diritto alla cittadinanza intriga molto.
È il referendum che più racconta delle contraddizioni della democrazia, che ancora oggi pare essere un diritto per alcuni, non per tutti. Come diceva Gino Strada, se un diritto non è universale, si chiama privilegio e l’idea che il nostro Paese da rispetto agli stranieri che ci vivono e magari ci sono nati, è quello di voler discriminare. Pensate alla frase, citata da chi da anni si oppone a qualunque concessione agli stranieri: “la cittadinanza – dicono costoro – bisogna meritarsela”. Una frase così fantasiosa e roboante che viene da chiederci cosa abbiamo fatto tutti noi – a parte avere avuto la fortuna di nascere qui, in questo periodo storico – per meritare di essere italiani certificati.

Detto questo, facciamo un doveroso ripasso. Il referendum chiede di abrogare interamente la lettera F dell’articolo 9 della legge del 1992 sulla cittadinanza. Quella legge dice che «la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno, al cittadino straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio dello Stato» . Questo termine si riduce a quattro anni per i cittadini dell’Unione Europea e a cinque per gli apolidi, coloro che non hanno cittadinanza. Prima di allora, del 1992 intendo, il termine di attesa per la richiesta di cittadinanza era di cinque anni. La riforma – decisamente peggiorativa – venne varata in un clima di crescente stupore e paura: chi è più anziano ricorda, gli altri facciano lavorare la fantasia. Nell’agosto del 1991 erano iniziati gli arrivi massicci di albanesi. Arrivavano su navi mercantili, prese d’assalto nei porti albanesi e costrette a dirigersi in Italia, cariche di esseri umani. Un fenomeno nuovo per noi, allora, addestrati storicamente ad essere Paese di emigranti, non luogo d’immigrazione. Qualcuno – più o meno gli stessi di oggi – iniziarono a usare la cosa per creare paura e insicurezza. Iniziarono a parlare di “invasione straniera”, di “pericolo per le nostre donne e le nostre case”, di “rischio per i posti di lavoro”. L’idea del nemico nacque così: lo straniero divenne – e resta – pericoloso. Tra le varie scelte che vennero fatte, tutte utili ad aprire la strada alle contraddizioni che ancora oggi viviamo sul tema dell’emigrazione, vi fu appunto il varo della legge sulla cittadinanza. Si decise di prolungare il termine dai cinque anni precedenti, ai dieci attuali.

Una decisione che, di fatto, creò e crea un’apartheid nostrana: più di 2,5milioni di persone, che vivono in questo Paese da anni, lavorano, producono ricchezza, pagano le tasse, non hanno alcun diritto politico. Molte di loro, spesso più giovani, in Italia ci sono nate. Vuol dire che stanno studiando qui, sono cresciute qui, pensano, parlano, agiscono come qualsiasi altra ragazza o ragazzo italiani. Eppure, anche se durante le gare sportive tifano Italia e vivono questo Paese come casa loro, vengono trattati da stranieri, da cittadini di serie B. In qualsiasi momento, per qualsiasi bizza burocratica o perché la fabbrica dove il padre o loro lavorano chiude e si perdono così occupazione e permesso di soggiorno, possono essere presi e “rispediti al loro Paese”. Ma loro quel Paese là non lo conoscono, perché si sentono e sono italiani.

Votare SI l’8 e 9 giugno per abrogare quella norma è, quindi, un voto contro l’idea di avere una democrazia monca. Votare SI significa ristabilire giustizia e senso di cittadinanza ad un Paese che pratica un aphartheid subdolo e vigliacco. Il SI è un primo passo per stabilire il principio che la cittadinanza non è un privilegio, ma un sentire comune e condiviso. Soprattutto, deve essere il modo per iniziare a far tacere gli imbecilli che continuano a giocare con le paure e le fragilità di molti. Ancora oggi si sentono slogan che invitano a votare No o a non andare a votare per “impedire ai clandestini di diventare italiani”. Una menzogna clamorosa, raccontata come verità.
Se è vero che una bugia raccontata dieci volte può diventare, grazie alla propaganda, una verità, è altrettanto vero che un’idiozia raccontata cento volte resta una misera idiozia.


L’aricolo è stato pubblicato su Unimondo il 26 maggio 2025

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto