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Schegge

Schegge (2015)

di Giovanni Zaffagnini

Ferite ancora aperte a 70 anni dal passaggio del fronte nei paesi della Bassa-Romagna.

Chissà se i frequentatori del Parco Piancastelli a Fusignano notano i segni delle granate dell’ultima guerra sul muro di cinta e se hanno mai pensato a coloro che il 27 dicembre del 44 erano lì.
Alcuni liceali, ospiti di una trasmissione televisiva, forse confusi dai video-games, pensano che la guerra sia una soluzione inevitabile e risolutiva.
I clienti del Bar Caio non danno importanza ai segni sui muri, loro la guerra la vedono ogni giorno nei telegiornali, poi è lontana dicono, non ci riguarda.
Cicloamatori solitari procedono lenti e scrutano il territorio in ogni sua parte. Mi trovo di fronte alla casa ferita che uno di loro mi ha segnalato: è piena di ostacoli, poco propensa alle ragioni del fotografo, aspetto l’arrivo del sole nel labirinto, è un’attesa paziente e inutile. Da sempre i fotografi combattono con la luce, mentre scrittori e poeti lottano con le parole, io, poco avvezzo allo scrivere, in questo momento comprendo la loro fatica.
Non ho alternative, le case ferite sono rare, devo assolutamente trovare un’inquadratura decente, è da ieri che combatto, tornerò domani a un’ora diversa.

Schegge, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2016.

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L’attacco russo in Ucraina conviene a tutti tranne che all’umanità

di Effimera

“Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri che muoiono”
(J. P. Sartre, Il Diavolo e il buon dio, 1962)

Il precipitare della situazione in Ucraina non sorprende del tutto. Ci sorprende, per quel che è dato sapere mentre scriviamo, nel pomeriggio del 24 febbraio 2022, la vastità dell’operazione che Putin ha deciso di scatenare.
Il casus belli va ricercato lontano, quasi un decennio fa, quando ci fu il cambio di governo a Kiev. Un movimento genuino iniziato con il movimento arancione nel 2004, trova il suo compimento dieci anni dopo nel 2014 con l’uscita di scena dell’allora presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovyč (filo russo), in cerca di maggior democrazia (richiesta che potrebbe essere valida in qualsiasi paese, a Oriente come a Occidente) e viene di fatto strumentalizzato per insediare un governo nazionalista filo-occidentale (come spesso succede, pensiamo alle cosiddette Primavere arabe). Tali fatti innescano una spirale di eventi che acuiscono la tensione: la minoranza russa del Donbass comincia a sentirsi meno protetta, anche a seguito di alcuni attacchi di gruppi neo-nazisti che avevano già colpito a Kiev e a Odessa. La politica sovranista di Putin coglie l’occasione per annettere la Crimea, regione strategica fondamentale per la dottrina Monroe in salsa russa, rappresentando lo sbocco al mare e al Mediterraneo. La situazione rimane instabile in presenza di una guerra a bassa intensità nel Donbass, in qualche modo regolata dagli accordi di Minsk, che, in cambio dell’immediato cessate il fuoco, dovevano garantire maggiori poteri autonomi alle due repubbliche filorusse. Le violazioni alla tregua sancita a Minsk sono tuttavia ripetute e da ambo le parti, la maggiore autonomia di fatto non viene concessa: il risultato è un bilancio, fino a oggi, di oltre 14.000 morti.
Le elezioni del 2019 portano al potere in Ucraina l’ex comico (di lingua russa) Volodymyr Zelens’kyj, accentuando la svolta filo-atlantistica, con l’approvazione di un emendamento costituzionale che impone l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Una richiesta che viene subito definita da Putin inaccettabile. E la tensione ritorna a crescere.
Viene in mentre la crisi dei missili a Cuba, dopo che gli Stati Uniti avevano cercato di rovesciare il governo cubano con il fallito attacco alla Baia dei Porci. Proviamo a immaginare uno stato che confina con gli Stati Uniti (ad esempio il Canada) che entra a far parte di un’alleanza con la Russia o la Cina. La reazione Usa verrebbe immediatamente giustificata dai media filo-occidentali.
L’insistenza della Nato a trazione Usa con la collaborazione supina dei paesi membri europei ad accettare l’entrata di Kiev tra i paesi membri (e, in prospettiva, della Georgia) non giustifica l’aggressione russa ma ne fa comprendere le ragioni. Da questo punto di vista tra le due ex super potenze la differenza è minima. Entrambe attuano politiche egemoniche, giustificate dalla stessa dottrina Monroe pur con differente collocazione geografica. Ad entrambe, per ragioni diverse ma non opposte, questa guerra conviene. Putin mira al rafforzamento della sua potenza militare nazionalista e sovranista per recuperare terreno sul fronte economico. E ad aprire una possibile interlocuzione con la Cina, con un rapporto di forza maggiore. Biden e il partito democratico hanno un disperato bisogno di rallentare il declino americano, acuito da forti crisi interne, cercando di recuperare quella leadership militare che le vicende afghane hanno fortemente indebolito. E non è nascosto il tentativo di impedire una maggior partnership economica tra l’Europa e la Russia. Non è una novità che ciò avvenga quando alla Casa Bianca alloggia un presidente del Partito Democratico. Come in Italia sono i partiti di centro-sinistra ad aver partorito le peggiori leggi contro i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori (dal pacchetto Treu al Jobs Act), negli Usa, sono i presidenti democratici ad essere i più guerrafondai.
Si tratta, inoltre, di soddisfare le lobby delle armi che sono particolarmente potenti negli Usa oltre che in Russia e il cui ruolo non è affatto banale anche in Italia. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), un istituto internazionale indipendente che si occupa di conflitti, armi, controllo degli armamenti e disarmo, il valore annuale del commercio mondiale di armi ha superato i 75 miliardi di euro negli ultimi anni. Nel 2020 gli Stati Uniti hanno incrementato le vendite del 15% e rafforzato la propria posizione egemonica. Quasi il 40% delle armi importate negli ultimi cinque anni analizzati (2016-2020) è stato prodotto negli USA. Le esportazioni di Washington sono già quasi il doppio di quelle di Mosca, dopo pochi anni.
L’Italia, nel frattempo, non si sente affatto estranea alla contesa, anzi. Il ministro della difesa Guerini ha già dichiarato che l’Italia potrebbe schierare 2000 militari, mentre le basi Nato in Italia – Vicenza e Sigonella – sono già pienamente operative e la 173rd Airborne Brigade ha comunicato che «circa 800 soldati della 173/a brigata aviotrasportata Usaf di stanza a Vicenza sono in partenza per la Lettonia, dove saranno dispiegati per rafforzare le capacità difensive dell’alleanza Nato». Eppure per il coinvolgimento nelle operazioni della Nato dovrebbe esserci un voto del Parlamento.
A fronte di questa situazione, fortemente preoccupante, crediamo che per risolvere il conflitto in modo pacifico siano necessarie due mosse, entrambe in mano all’Europa. La richiesta di una neutralità dell’Ucraina sul modello della Svizzera (come suggerito anche da Sergio Romano, intervistato da Alberto Negri) e il distanziamento dalla politica internazionale degli Usa, chiedendo un ridimensionamento della Nato, un’organizzazione che non ha più ragione di esistere se non per finalità imperialistiche che oggi non hanno più storia.
Tuttavia l’Europa, parafrasando Metternich, è oggi, in campo internazionale, solo un’”espressione geografica”, a conferma dell’incompiutezza del progetto di unificazione, carente non solo nella politica estera ma anche nella politica fiscale e di difesa. È auspicabile che l’attuale situazione possa rappresentare un campanello d’allarme in grado di stimolare un processo di liberazione dalla sudditanza agli Usa, nata dopo la II Guerra Mondiale.
Il contesto attuale è infatti completamente diverso. Non solo non esiste più l’URSS come modello alternativo al capitalismo, ma esistono diverse forme di capitalismo fra loro in competizione, con diversi gradi di dirigismo. E tra queste, gioca un ruolo sempre più importante la Cina, che oggi è il vero convitato di pietra, in grado di sfruttare al meglio l’attuale crisi. E non esiste più neanche il Patto di Varsavia, sciolto da Gorbaciov (premio Nobel per la Pace) il 1 aprile 1991, con la promessa che la Nato non si sarebbe mai estesa verso Est. Promessa che, come abbiamo visto, non è stata mantenuta.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 25 febbraio 2022

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La vittoria di Putin e l’isteria della guerra

di Raffaele Crocco

Al netto di ogni considerazione, c’è che la guerra uno la fa se gli conviene. Altrimenti la evita, perché la guerra è una di quelle cose imprevedibili, in cui la garanzia di avere la superiorità militare, non è garanzia di vittoria. Almeno se parliamo di guerra convenzionale, non nucleare. Gli Stati Uniti lo hanno imparato in Vietnam, Afghanistan. I russi lo hanno appreso in Afghanistan e, in parte, in Cecenia. Se questo è vero – e lo è, in termini di analisi – la domanda è: perché Putin dovrebbe fare la guerra? Per quale ragione?Quello che voleva lo ha già ottenuto da tempo.
L’Ucraina per i prossimi vent’anni e sino a quando la guerra – quella sì che c’è – nel Donbass non sarà risolta, non potrà in ogni caso entrare nella Nato, per assenza di requisiti. La Georgia è nelle medesime condizioni. Ogni allargamento dell’Alleanza, quindi, è pura teoria, estremo gioco di fantasia. I confini fra Russia e Nato sono quelli attuali e resteranno così per un pezzo, cosa che per il capo del Cremlino è fondamentale. Contemporaneamente, Putin ha chiuso un accordo con la grande rivale degli Usa, la Cina. Accordo che gli permetterà di rafforzarsi economicamente e di dedicarsi al futuro. Futuro che si chiama Rotta Artica: è quella rotta navale e commerciale che si sta aprendo grazie allo scioglimento dei ghiacci e che consentirà di trasportare merci più in fretta e con minor costo passando a Nord, nel Mare Artico, praticamente sempre davanti alla Russia.
Guardate la cartina: i canali di Panama e Suez diventeranno vecchi di colpo. La Cina, per arrivare in Europa – che ricordiamolo, resta il più grande e ricco mercato mondiale – passerà da Nord, con l’aiuto dell’amica Russia. Per gli Usa un colpo durissimo, per la Russia la possibilità di controllare rotte semplici e fondamentali.
In questa situazione, con il prestigio internazionale ripristinato e con il Mondo riposizionato, perché Putin dovrebbe fare la guerra? Perché non dovremmo invece semplicemente credere al fatto che l’invasione dell’Ucraina non è mai realmente stata pianificata? Perché non dovremmo credere al ritiro delle truppe, soprattutto se questo ritiro è – banalmente – la fine di una lunga esercitazione? La guerra si ferma anche usando la logica e mantenendo i nervi saldi. Il continuo gridare “al lupo, al lupo” degli Stati Uniti sembra l’urlo isterico di chi sa di aver perso posizioni e prestigio.
Washington negli ultimi vent’anni ha già trascinato il Mondo in guerra con la menzogna, non dimentichiamolo. Abbiamo occupato l’Afghanistan raccontandoci che i talebani erano gli autori, con Osama bin Laden, degli attentati alle torri di New York. Stiamo occupando da quasi vent’anni l’Iraq, perché i servizi segreti statunitensi dicevano che aveva armi chimiche: non era vero. Ora siamo alla nuova isteria. Non caschiamoci. Non si tratta di pensare che Putin sia migliore o “buono”. Si tratta di capire che Putin non è stupido e non gli conviene fare la guerra.
Si tratta di ascoltare quello che, ad esempio, dice la chiesa cattolica ucraina attraverso il vescovo di Kiev, Vitalii Kryvytskyi: “Se da un lato non vediamo motivi politici per l’inizio di una guerra, c’è già chi sostiene che la guerra sia già cominciata, anche se magari sono gli stessi media che ancora uno o due anni fa negavano che in Ucraina ci fosse un conflitto iniziato in realtà già otto anni fa”. “L’Ucraina – aggiunge – deve restare indipendente e respingere ogni desiderio imperialista”. Insomma, informiamoci meglio e con lucidità. Forse così aiuteremo molto di più e molto meglio il popolo ucraino.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 16 febbraio 2022

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“Fuori dalla camera oscura”

di Giuseppe Nicoloro

Chi come me ne ha avuto esperienza diretta, conosce bene l’impatto emotivo di vedere, nel buio della camera oscura, la lenta trasfigurazione in immagini dei frammenti di realtà catturati con l’obiettivo della macchina fotografica. I protofotografi di inizio Ottocento definivano “magia” questo processo di trasformazione collocato tra arte e scienza, e per davvero sembrò tale perché il supporto fotosensibile sapeva restituire le figure originali in tutti i loro dettagli.
Negli anni la ricerca tecnologica ha messo a punto tecniche e strumenti sempre più sofisticati a beneficio della fotografia, riconosciuta, tra i moderni mezzi di comunicazione, come uno dei più espressivi e creativi.
Oggi predomina la tecnologia digitale che ha interrotto quel rapporto stretto, direi fisico, tra il fotografo e l’immagine, rapporto a cui non rinunciano i non pochi appassionati che ancor oggi scelgono la tecnica di sviluppo tradizionale.
Le fotografie di questa rassegna non escono fuori dalla camera oscura, ma costituiscono una selezionata raccolta di immagini, in prevalenza tratte dall’archivio del mio lavoro di fotocronista; ricordi di viaggio insieme a momenti catturati nella loro spontaneità quando persone e situazioni attirano la mia attenzione.
Il titolo della mostra allude metaforicamente a quella secolare “camera oscura” del pregiudizio, della discriminazione che ha relegato le donne nel buio delle stanze domestiche, in ambiti marginali della società, generalmente deputate a compiti di cura. È una “camera oscura” simbolica da cui oggi le donne sono uscite, sviluppando tutte le loro potenzialità latenti, a lungo inespresse o misconosciute, rendendosi presenze sempre più “visibili”.
Le donne oggi hanno acquisito piena consapevolezza di sé, hanno rivendicato la loro dignità, si sono mobilitate a difesa della parità di genere, dei diritti civili, fanno parte del mondo del lavoro, fino ad assumere ruoli di vertice, grazie al loro talento e alla loro determinazione.
Sono enunciazioni di principio che testimoniano l’avviata maturazione culturale della società nei riguardi dell’universo femminile, nonostante il perdurare di tanti ostacoli da superare per la piena emancipazione. Prova ne siano le donne che nei Paesi islamici vivono ancora nel buio la loro condizione e le inammissibili forme di violenza che le donne continuano a subire, sotto qualsiasi cielo e cultura.
In questa rassegna fotografica troverete, accanto a personalità di spicco, persone comuni riprese nella quotidianità della loro esistenza. Fra le tante possibili scelte, ho privilegiato i soggetti che a mio parere risultano più significativi per il contesto, per un movimento, per un gesto, un’espressione, e per il significato sotteso nei loro sguardi. Coinvolgente è stato per me l’impatto con le manifestazioni di protesta, in cui le donne si sono esposte con risolutezza per la rivendicazione dei diritti, per la denuncia dei pregiudizi di genere, in cui hanno fatto sentire alta la loro voce per renderla udibile al mondo intero.

 

FUORI DALLA CAMERA OSCURA
UN OMAGGIO ALLE DONNE

Mostra fotografica presso lo spazio espositivo PALLAVICINI22 ART GALLERY

INAUGURAZIONE 
Sabato 26 febbraio 2022 alle ore 18.30

ORARI 
Tutti i pomeriggi dalle 17:00 alle 20:00
Dal venerdì alla domenica anche al mattino dalle 09:00 alle 13:00

 

 

Nota critica

di Michela Mollia

La realtà è mobile, fluida, al contrario della fotografia che può isolare l’attimo per restituircelo come fosse senza tempo. L’occhio vigile del fotografo ci mette in condizione di sospendere per qualche istante il flusso di visioni che sollecitano normalmente la nostra vista, per concentrarci su una precisa immagine. Ci invita a guardare: guardare come atto di attenzione e consapevolezza rispetto al vedere, che si limita alla funzionalità fisiologica del nostro occhio.
Giuseppe Nicoloro riesce a indurci questo tipo di attenzione scegliendo, isolando un particolare, una scena, una persona, un gesto, che potrebbero passare inosservati. Lo scatto delimita, ci obbliga a guardare all’interno della sua cornice: è la particolarità dell’inquadratura che “si fa guardare e ci parla”. 
In questa mostra fotografica le donne sono riprese nel quotidiano, nel ruolo materno, nel tempo libero, nei gesti del lavoro, all’opera con le mani. I loro volti esprimono serietà, impegno, soddisfazione, ma anche determinazione e successo: sono le donne intorno a noi in cui noi stesse ci riconosciamo. Non tutte però rappresentano una condizione di parità e in alcuni casi il fotografo vuole cogliere l’ironia sottile dei gesti e degli sguardi. In alcune percepiamo la povertà, il peso dell’esistenza, l’angoscia per il futuro imperscrutabile come possibili condizioni umane, nemmeno tanto lontane dai nostri occhi, come nell’immagine della donna seduta sui gradini della scala di una delle tante metropolitane milanesi. In questo caso la scala non è simbolo di ascesa o di successo, ma di emarginazione e solitudine. 
La figura femminile seduta sul masso, nella sua grazia pudica, completamente vestita, con il solo piede scoperto, richiama la caravaggesca Madonna dei Pellegrini, conservata nella basilica di Sant’Agostino a Roma. Nel suo essere assorta, non guarda verso il mare alle sue spalle, dove i bagnanti si immergono.  L’inquadratura che il fotografo ci propone sembra dirci che la donna si nega persino la possibilità di volgersi, per non cedere al richiamo del mare, simbolo di fuga, libertà e scoperta.
La giovane donna in nero, dritta e filiforme, che si batte per i suoi diritti, risponde alla verticalità perfettamente geometrica del grattacielo.

Tra le diverse declinazioni del tema della femminilità, lo scatto del fotografo ci sollecita a considerare anche la femminilità transgender. Femminilità desiderata, voluta, orgogliosamente conquistata e quindi ostentata contro il pregiudizio dominante.
A queste scene di vita, a volte tenere e poetiche, fa da contrappunto, accentuato dall’uso del bianco e nero, l’irruenza delle immagini delle manifestazioni in cui le donne inneggiano, provocano, erompono nelle vie cittadine, a ricordarci che la condizione femminile, ancora instabile e contraddittoria, è da difendere e che le donne sono capaci di battersi per vedere riconosciuti i propri diritti.
È così che, terminato il nostro percorso, possiamo dire di aver guardato

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Sovversivi, non ribelli – parte seconda

di Sergio Tardetti

Il catalogo della mostra fotografica “ Sovversivi” di Giovanni Zaffagnini, oltre i quattro scrittori di cui si è già detto (Joyce, Dante, Calvino e Pasolini), ne propone altri quattro a lui particolarmente cari. Gianni Celati, Arthur Rimbaud, Dino Campana, Luis Sepulveda sono autori che si sono insinuati nell’anima dell’artista e con i quali Zaffagnini viene intessendo una muta conversazione attraverso i suoi scatti fotografici da un lato e le parole degli scrittori dall’altro. Domande senza risposta apparente, immagini da decrittare da parte di uno “spettatore” – nella sua più totale accezione, come “colui che guarda” – niente affatto passivo, anzi decisamente partecipe. Sovversivi sono, dunque, costoro, temutissimi, più dei ribelli, perché sanno quale direzione prendere e quale futuro voler raggiungere, e per questo osteggiati con maggiore veemenza. Caparbiamente perseguono un obiettivo, a qualunque costo, in qualunque condizione. Zaffagnini il fotografo poeta, “scrive”, attraverso le immagini, versi silenziosi, che sanno arrivare all’anima e all’immaginario di chi osserva le sue foto, esplorandole come si esplora un mondo nel quale ci si sente proiettati per la prima volta. Il muto colloquio di Zaffagnini con i suoi sovversivi continua.
Ripartiamo, allora, da Gianni Celati, del quale Zaffagnini cita ed estrapola un pensiero, una riflessione che serve a definire il rapporto fra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Un rapporto di “servaggio” – inteso come sottomissione e sfruttamento – nel quale l’uomo tiene l’ambiente, soggiogandolo alla propria volontà e rendendolo schiavo delle proprie abitudini e dei propri desideri. L’ambiente è una creatura viva, che si ribella e si oppone in ogni modo ai tentativi di volerlo trasformare anche con la violenza, esercitata in tutte le sue forme più deteriori. E tutto questo allo scopo di distrarci dal pensiero dominante di ogni esistenza umana, quello della precarietà della nostra presenza su questa terra, che, malgrado ogni tentativo e ogni sforzo da parte nostra, continuiamo ad avvertire. Noi, immaginari presuntuosi padroni della natura? Non sia mai! Siamo inquilini e anche scomodi, che continuano ad accumulare debiti nei confronti dell’ambiente in cui vivono. Zaffagnini documenta lo stato delle cose con l’obiettività e la freddezza di un anatomopatologo, anche se non riesce a trattenere dentro di sé, e trasferisce nelle immagini, il grido di dolore e di ribellione che si leva alto dalla sua cosciente presa d’atto di tanto scempio. Lo fa scegliendo emblematicamente di mostrare gli effetti di una delle tante frane che ogni anno si abbattono sul territorio del nostro paese. Per accentuare drammaticamente l’effetto delle immagini, non fotografa la scena alla luce del sole, ma al fioco riverbero di luci che illuminano soltanto tratti circoscritti di terreno, andando immediatamente al cuore dello scempio ambientale. Il messaggio che promana dalle immagini vuole renderci consapevoli che è la Natura la padrona di casa, è la Natura che ci avverte e ci ammonisce, quando abbiamo passato il segno. Ma le immagini rappresentano, al tempo stesso, la precarietà del nostro esistere: siamo pietre che rotolano sempre più in basso, fino alla fine della corsa. Anche noi partecipiamo a questa guerra non dichiarata alla Terra, anche noi, nella metafora delle immagini, finiamo per diventare tronchi mozzati e “stroncati” – mi si consenta l’involontario gioco di parole – come se fossero stati colpiti e spezzati da una granata. Le immagini per raccontare tutto questo si presentano con un colore grigio terreo, un colore piatto con scarse sfumature, immagini prese, sembrerebbe, alla luce dei fari di un’auto in piena notte, quasi il sopralluogo sulla scena di un crimine, con i cadaveri ancora non rimossi, e che quasi stanno esalando l’ultimo soffio vitale. Anche se non lo mostra in campo, ogni immagine parla dell’uomo e del suo vano tentativo di nascondere la finitezza della sua esistenza, tormentando l’ambiente del quale dimentica sempre di essere parte.
Il catalogo prosegue proponendo immagini ispirate a parole di Arthur Rimbaud, che raccontano il rapporto del poeta con la Bellezza e con il suo “amaro” sapore. Un sapore che, una volta gustato, pone l’uomo sulla difensiva, perché la Bellezza potrebbe avvolgerlo nelle sue spire e renderlo suo schiavo. Ma l’uomo sa anche che non potrà mai più assaggiare un sapore simile e allora lo finge amaro, per convincersi che quel sapore non esista e che la Bellezza altro non sia che il frutto della sua immaginazione e del suo inquieto fantasticare. E allora, come accade spesso in queste situazioni, si sente respinto dalla Bellezza e comincia ad ingiuriarla e a ferirla in tutti i modi possibili. Di questo parlano le foto di Zaffagnini, tutto ciò che è bello va deturpato per cancellarne e negarne la bellezza. Bello è tutto ciò che ci circonda, fin dal primo istante in cui veniamo al mondo; così, la Bellezza astratta si incarna nella bellezza dell’ambiente in cui viviamo. L’uomo, consapevole della precarietà della sua esistenza e della impossibilità di poter godere all’infinito della Bellezza, vuole lasciare comunque il segno del suo passaggio. Appena entra in contatto con lei, comprende come sia impossibile stabilire un confronto temporale fra lui e la Bellezza, che continuerà ad esistere anche quando lui non ci sarà più. Da qui la sua reazione di rabbia e dolore, che trovano sfogo nella deturpazione della bellezza. Così, negli scatti dell’artista passano davanti agli occhi immagini di plexiglas sporcati con pennarelli, per segnalare il passaggio dell’uomo sulla terra. Un uomo, tuttavia, incapace di migliorare il mondo nel quale si trova a vivere, ed è così che lo “ingiuria”, con segni, macchie, scritte, alcuni opera sua, altri lasciati dal tempo e dalle intemperie. Quello che del mondo appare ai suoi occhi è una visione offuscata, filtrata da lastre di materiale semitrasparente, che gli impediscono di vedere come è in realtà. Tutte le alterazioni che la presenza dell’uomo produce nella natura verranno cancellate e rimosse al momento della sua scomparsa. Dov’è il mondo? Oltre un velo che ci separa dalla realtà, quella che chiamiamo bellezza è solo un nostro modo di vedere il mondo. Dal momento in cui comprendiamo che la Bellezza continuerà ad esistere dopo di noi e ben oltre noi, e che non potremo portarla con noi quando lasceremo la terra, non potremo portarne con noi nemmeno il ricordo, e così lasciamo tracce del nostro passaggio, ingiurie delle quali la natura ride. In poco tempo, se si considera il tempo della Natura come misura del suo trascorrere, quelle tracce scompariranno. Ci mostriamo così più mortali di quanto si immagina, una fugace apparizione agli occhi della natura che osserva impassibile il nostro passare. Così, diventano assurde e ridicole le scritte lasciate a futura memoria, i graffiti di rabbie mal trattenute o di amori volatili, il tutto immerso in un paesaggio urbano surreale, dove l’uomo è un’assenza che fa sobbalzare il cuore e tremare l’anima. I pensieri si arrestano sulla soglia di un mondo che non conosciamo e non riusciamo ad accettare e ad immaginare, frapponiamo lastre di plexiglas per non essere feriti e quasi derisi dalla bellezza del mondo, noi che con la bellezza ci sentiamo a disagio ed esprimiamo tutto il nostro malessere, trasformandolo in segni che gridano la nostra sofferenza. L’uomo nella sua infelicità non potrà mai convivere in pace con la bellezza, né con il mondo che lo circonda, deve sempre violentarlo, per trasformarlo a immagine e somiglianza del proprio scontento.
Viene quindi introdotto Dino Campana, personaggio tormentato, la cui vita, come rappresentato anche dalle immagini fotografiche, è spezzata nettamente in due dal suo ricovero in manicomio. Alle “ultime notizie dalle montagne della Romagna toscana”, rappresentate da ampi e sereni paesaggi bucolici, si contrappongono gli spazi ristretti di scuri e tristi edifici e di cortili soffocati dall’insistere di quelle mura dall’aspetto carcerario. Come a voler mostrare la dolorosa spaccatura fra illusione di un’esistenza serena nei sogni di un adolescente e delusione di un adulto, ormai uomo fatto, per non essere stato capace di raggiungere la sua meta, il contrasto insanabile tra poesia e follia, quasi fossero due facce della stessa medaglia. Le immagini di Zaffagnini sanno rendere in maniera esplicita questa pesante dicotomia, che così tanto ha gravato sulla vita del poeta. Il percorso dell’esistenza di Campana prende avvio dalle selve montane e i paesaggi agresti, in cui lo spirito si smarrisce e si mescola con la natura, quasi a voler simboleggiare la giovinezza con tutti i suoi sogni ma anche con tutti i suoi rovelli, i suoi dubbi e le sue incertezze. Una “selva oscura” che è già di per sé lirica e metafora della adolescenza, ma anche immagine di un doloroso smarrimento nel quale il poeta finirà per confondersi e non più ritrovarsi. I paesaggi aspri della Romagna toscana introducono alla natura difficile e scontrosa dell’autore, paesaggi dai quali si ha la sensazione di essere accolti, inglobati e quasi soffocati, orizzonti di breve respiro, selve intricate dalle quali è difficile venire fuori una volta entrati. Così, il paesaggio deve avere lavorato sull’anima del poeta, accerchiandolo e avvinghiandolo in una morsa dalla quale la sua anima e, soprattutto, la sua mente doveva uscire sconfitta. Gli ameni, e al tempo stesso inquietanti, paesaggi dei dintorni di Marradi, nei quali la presenza dell’uomo è pressoché inesistente. Non un sentiero tracciato dal frequente e intenso andare e venire di uomini lungo quel cammino, abitazioni isolate e ormai in rovina che raccontano di una esistenza difficile, perdute in mezzo a campi incolti, lontane dalle vie di comunicazione, sono pagine di quel libro della Natura dalle quali il poeta deve avere attinto l’ispirazione per le sue liriche e le sue prose poetiche. Ma, al di là di quelle selve e di quelle montagne, un altro mondo lo chiamava, un mondo con il quale Campana si è scontrato, uscendone sconfitto. Lo prova la cruda e fredda ammissione: sono stato in manicomio. È la parabola discendente di una vita che non è riuscita a costruire il suo equilibrio e si è lasciata cadere nel baratro della disperazione. Le immagini dei luoghi di internamento, ormai quasi ruderi di un passato non così lontano, ci trasmettono l’atmosfera tetra e dolorosa di spazi in cui l’umanità sembra cedere il posto ad una razionalità che non ammette nulla oltre quella che viene considerata la norma della condizione umana. Non sembra esistere niente altro al di fuori di quell’allinearsi a comportamenti che la morale corrente non trovi riprovevoli e quel manifestare una funzione utile alla società in senso strettamente economico-produttivo. O si è individui socialmente ed economicamente utili o si è pazzi. Sempre più spesso si finisce per dimenticare che l’arte, e segnatamente la poesia, non ha alcun proposito economico, è spesso fine a se stessa e pertanto deve essere tenuta ai margini di una società le cui uniche ragioni di esistere sono la produzione e il profitto.
E, infine, il catalogo si conclude con le immagini ispirate dalle parole di Luis Sepulveda sull’inutilità di chiudere le porte che ci mettono in comunicazione con il resto del mondo e, soprattutto, sulla necessità di tenerle aperte. Così, le immagini mostrano spazi vuoti in cui il tentativo di tenere distinte due parti dello stesso terreno diventa velleitario, quando il tempo agisce su ogni cosa e la natura torna a prendere possesso in maniera indistinta di ogni luogo. Ritorna anche qui, in maniera sempre più accentuata, quello che sembra il motivo conduttore della raccolta di immagini, l’assenza dell’uomo, del quale istintivamente percepiamo la presenza che si materializza dietro l’obiettivo che inquadra e scatta la foto. Ma, al di là di quell’obiettivo, il mondo appare deserto, come se fosse avvenuta una improvvisa catastrofe, un accadimento universale che ha sconvolto la terra, lasciando però intatta la natura nelle sue forme vegetali. Come se tutti, uomini e animali, si fossero imbarcati su una ideale arca, abbandonando la terra e dirigendosi verso altre destinazioni. E, senza la presenza dell’uomo, questi sbarramenti difensivi, questi tentativi di contenere l’onda di migranti o di nemici che è pronta ad invadere spazi un tempo non loro, diventano privi di senso. Il tempo, poi, da grande corruttore, inizia ad agire con la sua infinita pazienza sopra i resti di questi oggetti inanimati, corrodendo i ferri del cemento posto a delimitare una terra da un’altra, un mio da un tuo, un nostro che si contrappone a un loro, che in un mondo deserto non hanno più alcuna ragione d’essere. È il tempo che dà e toglie il senso alle cose, alterando la realtà fino a renderla inconoscibile, indecifrabile e perfino assurda. La porta chiusa di cui parla Sepulveda, la separazione tra un dentro e un fuori, tra un qui e un lì, tra un adesso e un prima/dopo, diventa così una lontana perduta memoria, non ci sono più porte, perché non ci sono più sbarramenti capaci di contenere il vento e il tempo. Niente può impedire al vento di soffiare e al tempo di trascorrere. Così, le prime fessure cominciano ad aprirsi nella muraglia di cemento che si sgretola, dando l’avvio a un processo irreversibile che non potrà essere arrestato, fino a quando le memorie di quegli uomini. che eressero sbarramenti per proteggere e separare quello che ritenevano loro dal resto del mondo, scompariranno. Quando in un immaginario lontano futuro la terra verrà visitata da esistenze aliene, qualcuno, forse un archeologo del terzo millennio, si domanderà quale fosse la natura e il senso di quegli sbarramenti, forse anche senza trovare una risposta. Per una civiltà libera da volontà di sopraffare l’altro, queste recinzioni diventeranno inspiegabili e inimmaginabili. Come accade anche per Sepulveda, costretto a lasciare gli spazi sconfinati dell’America Latina per rifugiarsi e adattarsi agli spazi ristretti e limitati delle nostre terre.
Sfogliando l’intero catalogo, viene fatto di domandarsi dove sia l’uomo in tutte queste immagini e perché la sua presenza non si manifesti davanti all’obbiettivo del fotografo. Il suo è sempre e comunque un esserci stato, che appare per lo più come un “incidente di percorso”; della sua assenza la natura non sembra affatto soffrire, anzi sembra poterne fare decisamente a meno. Dell’uomo restano appena labili segni o immagini-ricordi, che incidentalmente affiorano lungo il percorso. La sequenza delle foto ci conduce attraverso un percorso che, partendo dalla delicatezza poetica delle immagini iniziali, arriva alla crudezza del bianco e nero finale, dove l’assenza dell’uomo è ormai un fatto consolidato. I manufatti umani vengono presentati sempre nella loro drammaticità, la natura nel suo quieto lirismo, che sa rimanere tale fino a quando l’uomo non interviene ad alterarla, costringendola a ribellarsi. L’operazione di “trasdurre” le parole in immagini, della quale Zaffagnini ci offre la sua “prova d’autore”, si rivela, infine, capace di suscitare emozioni e riflessioni ancora più elevate e suggestive di quanto riescano a farlo singolarmente la scrittura o la fotografia. Un risultato convincente, un’operazione decisamente da replicare.

Sovversivi, non ribelli – parte seconda Leggi tutto »

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