redazione

Ultramodum (la sparizione dell’immanente)

Dal risvolto di copertina la presentazione della raccolta:

Singolare figura di intellettuale “eretico”, Gian Ruggero Manzoni si misura da sempre con un’espressione poetica dai toni crudi ed essenziali: si pensi a quella sorta di trittico composto dalle raccolte “Il dolore” (1991), “L’evento” (1997) e “Gli addii” (2003). A proposito
di quest’ultimo lavoro un critico finissimo come Paolo Lagazzi dichiarava: «Manzoni ci ricorda anzitutto che non si finisce mai di dire addio; l’addio, a chi amiamo e a ciò che amiamo, è il movimento fondamentale del nostro stare confitti nel tempo». E al tema dell’addio è dedicata anche questa nuova raccolta di Manzoni, “Ultramodum (la sparizione dell’immanente)” che, fin dal titolo, rivela gli intenti esoterici (i riferimenti all’alchimia, alla numerologia ecc.) e, al contempo, essoterici (la ricerca del sacro, il contrasto fra bene e male). Si tratta di un viaggio metaforico nel nihil del deserto, composto in cinquantacinque tappe, lungo un itinerario impervio che si manifesta attraverso folgoranti prose. Vi si ricostruisce un mondo onirico e favoloso ma che, nella sua esemplarità, non ha niente di “esotico” e che diviene metafora del nichilismo attuale, di un percorso privato e collettivo in cui non è possibile non riconoscere il sigillo della precarietà che ci attanaglia (si pensi anche al suo profetico romanzo “Il morbo”, edito nel 2002). La scrittura di Manzoni si dipana così, tra suggestioni veterotestamentarie e richiami agli autori più compositi (da Pound a Eliot, da Char a Genet), configurandosi come un’esperienza irrinunciabile, toccata dai crismi sempre più rari dell’autenticità.
(Pasquale Di Palmo)

 

Gian Ruggero Manzoni – Ultramodum. MC Editrice, 2021

 

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Che estate, il ’75, per i burattini (ed altro)

di Stefano Giunchi

Fine luglio del ’75, a Cervia. Giovedì, giorno di folla e di mercato.
Un tempo caldo, oltre i trenta gradi, e una pioggia battente, come solo i violenti acquazzoni estivi possono scatenare. Si crea in questi casi, nella città del sale e del mare, un clima un po’sovraeccitato, con odori più forti catalizzati dall’ozono e un gioco divertente di bagnato e asciugato, attraversamenti di spazi urbani di corsa, sotto ombrelli e nylon improvvisati.

In più si aggiungeva in quei giorni, il tifo per Agostini che tentava di conquistare il suo XV mondiale in sella alla sua poderosa Yamaha. Per gli impegnati aleggiava l’attesa per un comunicato che i tre Partiti Comunisti dell’Occidente, avrebbero di lì a poco emanato, che segnava il distacco definitivo dall’URSS e la nascita dell’Eurocomunismo (quanti sogni…). 
La Juve stava cedendo il giovanissimo Paolo Rossi, che avevamo visto giocare quell’anno a Cesena, al Como. Era una bella mossa? A molti di noi juventini di Romagna era piaciuto il ragazzino. In cambio ci prendevamo Tardelli, un altro giovanissimo dalla fama già di terzino tosto.
In più, ve lo devo dire, eravamo giovani, ostia come eravamo giovani. Avevamo “fatto” il ’68, a Firenze e un numero già elevato di altre cose. Ma ancora tutto ci pulsava dentro e il futuro sembrava non avere limiti…

Io da funzionario comunale alla cultura e da coordinatore del Crad, una roba estiva dell’Associazionismo che riceveva contributi dalla Regione, facevo la spola dal mio ufficio al vecchio Teatro Comunale.
Lì stavamo allestendo una curiosa mostra, che avrebbe inaugurato il sabato e che portava il pomposo titolo “Mostra – museo del burattino dell’Emilia -Romagna, scaturita dalla testa di Dino Silvestroni, ma fatta subito propria dalla Compagnia Drammatico Vegetale.
Il progetto (ispirato dalla nostra comune passione per i Muppets, in particolare dei due vecchietti turbolenti sulla Barcaccia del teatrino televisivo) era quello di svuotare la platea dalle sedie, cosicché il pubblico potesse camminarvi in tondo, e di riempire di burattini i due ordini di palchi.
Tu passeggiavi in platea e guardavi la splendida baracca montata sul palco del Teatro. Sentivi occhi che ti guardavano da dietro e di fianco. Poi realizzavi che eri circondato da decine di esserini di legno che… stavano dalla tua parte, pronti a prendere movimento e parola. Una collocazione spaziale completamente rivotata, che ti metteva subito in gioco come spettatore “partecipante”.

Montare il tutto, fra pannelli di iuta, note esplicative, fondali e burattini che uscivano dalle scatole per entrare in un palchetto… beh prese il suo tempo.
Quel week-end tropicale sembrava insufficiente, ma alla fine (pochi minuti prima dell’inaugurazione la mostra era montata. 
Il successo fu pieno, per tutto il mese di agosto, dove avvennero molte cose, ma dove a Cervia si andava a vedere quella strana ed affascinante mostra.
In quella esperienza vi sono svariati elementi “seminali” (di cui non eravamo del tutto consapevoli) che poi furono sviluppati e diedero una spinta alla nascita rigogliosa di un nuovo settore teatrale.

– Intanto l’uso del singolare “burattino” preconizzava una rinnovata attenzione al genere, più che ai reperti materiali: il burattino come epitome di un intero genere teatrale, per noi già affascinante, il cui apprezzamento volevamo rilanciare al grande pubblico. Ciò, da lì a qualche anno, diventò il nuovo lemma “teatro di figura” sempre al singolare, per definire una meta-area semantica e una casa accogliente per tutti i generi e i sottogeneri (marionette, pupazzi, ombre, pupi, oggetti, ecc.).

– Un secondo seme era la scelta di presentare in modo vivo e originale una materia (pezzi di legno scolpiti e fondali dipinti), altrimenti facile allo sbadiglio. I pezzi, messi a disposizione da burattinai e da collezionisti erano appartenuti alle più importanti “famiglie”, dai Ferrari, a Gualtiero Mandrioli, alla famiglia Preti, a Vasco Monticelli, Guglielmina Zaffardi, a Luigi-Ugo-Francesco Campogalliani, Giordano Mazzavillani, Benigno Zaccagnini (!), a Nino Presini, Augusto Galli, Gaetano Chinelato, Ciro Bertoni, Umberto Malaguti, Pilade Zini, Carlo Salici, per dire dei più noti.

– Un terzo elemento era l’impostazione antropologico-culturale piuttosto che “antiquariale” o strettamente storicista. I materiali era organizzati ed esposti per dare una idea concreta di cos’era il “teatro” dei burattini. Abbondavano i copioni, le scenografie, le attrezzerie, le foto d’epoca, le locandine e i manifesti, nonché documenti “vecchi e nuovi di vario genere”, come diceva il libretto che avevamo stampato.
Roberto Leydi mi confessò, la sera che gli consegnammo la “Sirena d’Oro”, che questa nostra mostra gli suggerì  l’idea che poi prese forma nella mega-mostra di Palazzo Reale, a Milano, cinque anni dopo.

-Durante quel fantastico agosto, sul palco del Comunale organizzammo anche alcuni spettacoli, affollatissimi, con la partecipazione del mitico Gottardo Zaffardi, afflitto da una balbuzie cosmica, che scompariva d’incanto appena prendeva in mano i burattini. Quel piccolo seme fece nascere la determinata convinzione che dall’anno dopo sarebbe sorto a Cervia un grande festival (cosa che è successa veramente con “Arrivano dal Mare!”).

– Forse quella bella esperienza servì anche a rafforzare la determinazione a proseguire la strada della Drammatico Vegetale (soprattutto di Elvira Mascanzoni, di Piero Fenati e Sergio Diotti che avevano in primavera battezzato la loro compagnia col nome che poi è rimasto). Cercarono burattinai e collezionisti in tutta l’Emilia Romagna, selezionarono e cartellinarono i reperti. Lavoro che poi continuò con le loro tesi di laurea.

– Mi pare rilevante che la Mostra fosse accompagnata da un libricino/catalogo che collegava fortemente, nelle motivazioni, la cultura e il turismo. In un articoletto dal titolo “Perché una mostra di burattini, nel caldo dell’estate, a Cervia” davamo la “linea” a un connubio che si è dimostrato vincente in tutta Italia.
Ora più che mai importante, visto il ruolo determinante affidato dal nuovo Governo e dallo Stato a questi due “motori” per la salvezza e lo sviluppo del Paese.

Il prezioso libricino/catalogo contiene inoltre un raro intervento di Andrea Emiliani, avanguardia storica della tutela e della valorizzazione dei Beni Culturali, ove si colgono gli aspetti “strutturalisti” del nostro Teatro, fatto di linguaggi efficaci e quindi durevoli nel tempo, la sua stretta correlazione con le piazze, la Commedia dell’Arte e “il grido dei cantastorie”. Non ultima, una annotazione sulla necessità di rilanciare il Teatro dei Burattini nella sua capacità di attualizzare caratteri “classici”, anche attraverso un uso vivo della lingua e dei dialetti.

Completa la preziosità del librino, un gioiello unico: lo scritto amichevole e appassionato di Giordano Mazzavillani (dentista, burattinaio amatore e collezionista), uno dei protagonisti ravennati della emerita compagnia del “Trì Dutùr”. La sua muta di burattini antichi passò alla figlia Cristina e fa ancora bella mostra di sé nello studio del marito Riccardo Muti ove continua ad allietare ed ispirare il lavoro del Maestro.

Mazzavillani, nel suo pezzo fa un bel excursus delle famiglie di burattinai emiliani e romagnoli e dei repertori e conduce una intensa perorazione a favore dell’uso dei burattini “tradizionali”. Scrive profeticamente: “mi auguro che quanto prima possa istaurarsi un rapporto artistico (di sviluppo) ed economico (provvidenze e previdenze) fra organi competenti e burattinai. Si assegnino sovvenzioni e aiuti finanziari, si estenda lo spettacolo agli Enti di cultura, alle scuole e agli asili”.
Questa scheggia di saggezza del lontano ’75 fu da guida a molti di noi, per tutto il lavoro successivo, che produsse molti dei risultati che Mazzavillani ci indicava in quello scritto e in appassionate discussioni private.
Arte burattinesca e cultura, ma anche arte e professione: tre binari paralleli da percorrere e intrecciare.

Conclude lo scritto di Giordano una breve nota sugli artisti presenti in Romagna in quel periodo. E ricorda Otello Monticelli, figlio d’arte, ma anche i più giovani Stefano Zaccagnini “entusiasta e infaticabile dilettante” e, a Mezzano il “gruppo drammatico di avanguardia, che si esprime con personaggi moderni e avveniristici”. Si parla infine naturalmente della Compagnia Drammatico Vegetale, nata con “Storie di Peppi” e rapidamente evoluta verso la ricerca estetica e di linguaggio più avanzata, nonché realizzatrice di una raffinata linea di TdF per la prima infanzia.

A seguire quello storico agosto, Agostini raggiunse il suo record, i tre leader lanciarono la loro idea di futuro europeo, la Juve realizzò di avere in squadra uno dei più grandi difensori della storia (per Rossi doveva passare altra acqua sotto i ponti), viene brutalmente massacrato P.P.Pasolini, in Spagna riparte la democrazia, i Ramones lanciano il primo long Play e arriva Ron Wood nei Rolling Stones, il grande Miles (dopo Agharta) crolla e scompare per cinque anni, mentre arrivano ad Umbria Jazz Cecil Taylor e Archie Shepp con il loro free e “Tamurriata Nera” entra nelle top list, Forman becca l’Oscar con “Il nido del cuculo..”, Niki Lauda rivince con una strepitosa Ferrari il campionato di formula uno, esce in Italia “L’uomo stocastico” di Silverberg, George Lucas pubblica “Guerre Stellari” (da cui poi la saga)..

Per me e molti di noi, in quella estate del ’75, stava incominciando una lunga, difficile ma meravigliosa strada. Non lo sapevamo ancora bene, ma lo capimmo quasi subito. L’avremmo poi chiamata “Teatro di Figura”.

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Draghi al volante: il pilota automatico è in riparazione

di Gianni Giovannelli

Dopo la caduta di Giuseppe Conte si sono scatenate violente risse fra i diversi gruppi parlamentari rendendo quasi impossibile la formazione di un nuovo governo. Per ripristinare l’ordine, munito di bastone e di carota, è arrivato il capo-banca

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Il 7 marzo 2013, a conclusione della seduta del consiglio BCE, durante la consueta conferenza stampa nella sala di EuroTower, Mario Draghi ebbe a commentare i risultati delle elezioni appena svolte in Italia, senza alcuna maggioranza certa. Il 5 agosto 2011, a quattro mani con il suo predecessore Trichet, il nuovo presidente aveva indirizzato al presidente del consiglio Silvio Berlusconi una lettera segreta per imporre non solo profonde modifiche della legislazione giuslavoristica italiana ma anche l’inserimento nella Carta Costituzionale del principio di pareggio del bilancio, minacciando in ipotesi di diniego la cancellazione degli aiuti economici europei. Come noto tutti i partiti si erano piegati, approvando in tempo record, quasi all’unanimità e senza referendum confermativi, la norma che impediva qualsiasi investimento pubblico futuro, ove questo determinasse un incremento del passivo.

Il pilota automatico

Dopo aver così constatato la fragilità del ceto politico italiano Mario Draghi non esitò ad affermare, con voce pacata ma con insolente sicurezza, che le elezioni impressionano solo i partiti e i giornalisti, non i mercati; dunque si dichiarò certo che l’Italia avrebbe proseguito il cammino di riforme tracciato dalla BCE, a prescindere da chi avrebbe costituito la compagine governativa. A decidere la via dell’esecutivo in formazione, quale che fosse, era infatti, ormai, un pilota automatico: non ci potevano essere ostacoli o deviazioni. Bisogna riconoscere che l’immagine del pilota automatico rendeva (rende) perfettamente l’idea di quelli che erano (sono) i rapporti di forza e gli equilibri di potere; in ogni caso la successione degli eventi gli diede perfettamente ragione.

Fra il 2013 e il 2018, infatti, le due Camere smantellarono l’intera architettura dei diritti conquistati dai lavoratori, a prezzo di durissime lotte, nel secolo scorso; l’opera iniziata dalla coppia Monti-Fornero (su richiesta della BCE guidata da Draghi) proseguì con Matteo Renzi. Il pacchetto di Decreti Legislativi (il c.d. Jobs Act) autorizzati a larga maggioranza parlamentare ebbero il pieno consenso dell’attuale gruppo interno alla componente di sinistra L&U, ovvero Articolo 1 di Bersani/Speranza, e perfino il voto dell’icona Mario Tronti. Solo la severa sconfitta del Partito Democratico al referendum costituzionale (dicembre 2016) determinò una scomposizione del quadro politico, una crisi delle alleanze acuita dalla contestuale crescita di consensi per la componente sovranista (di destra: Meloni e Salvini). Ma il pilota automatico (in piena funzione pure nel curioso mosaico del governo Gentiloni) continuava ad assicurare il mantenimento della rotta. Nel quinquennio 2013-2018 Mario Draghi, saldo al vertice della BCE, fu il vero indiscusso artefice di un formidabile consolidamento delle privatizzazioni, in particolare nei settori chiave della telefonia, dell’energia, delle banche, delle assicurazioni; in un breve volgere di tempo è radicalmente mutato il sistema-paese.

Mario Draghi

Draghi nacque a Roma nel 1947, durante il IV governo De Gasperi, e questo pare già un segno del destino; per ottenere i fondi del Piano Marshall i comunisti erano stati necessariamente collocati per la prima volta all’opposizione, pur restando costruttivi e partecipiIl padre, Carlo, era entrato in Banca d’Italia nel 1922, legandosi a Donato Menichella, l’uomo che diresse l’IRI fra il 1936 e il 1944 e poi la Banca d’Italia nel 1946, su indicazione di Luigi Einaudi. Terminato il liceo dei gesuiti romani (il prestigioso Massimiliano Massimo) e conseguita la laurea alla Sapienza, Draghi, già nel 1971, fu ammesso al Massachussets Institute of Technology su segnalazione (nientemeno!) di Modigliani; nel 1981, a 34 anni, era già ordinario all’Università di Firenze (cattedra di economia e politica monetaria). Goria, ministro del tesoro, lo fece suo consigliere già nel 1983 e questo fu il primo passo in politica di questo giovane ambizioso e brillante, direttore esecutivo della Banca Mondiale fra il 1984 e il 1990. Per nulla al mondo un uomo simile si sarebbe tenuto lontano dalle stanze del governo; anzi! Fra il 1991 e il 2001, quale direttore generale del Ministero del Tesoro (e indifferente al cambio dei ministri temporaneamente in carica) fu il grande regista della prima vasta opera di privatizzazione delle compagnie di stato. La rivoluzionaria normativa in materia di intermediazione finanziaria fu varata in base ad una legge delega, a mezzo di un decreto legislativo, n. 58/1998; dal nome di chi aveva redatto il testo si chiama legge Draghi. Proprio per la lunga esperienza acquisita dentro il ministero e dentro il palazzo della politica fu chiamato in Goldman Sachs, con una funzione apicale, curando in particolare i derivati. Ci rimase per quasi quattro anni, nell’ultimo biennio quale membro del Comitato Esecutivo. Nel 2016 è poi arrivato Barroso, sempre dall’Unione Europea. Poiché era stata proprio Goldman Sachs a riempire la Grecia dei prodotti derivati che causarono il tracollo di quel paese scoppiarono accese polemiche, con accuse di conflitto d’interesse; ma il professor Draghi chiarì – con calma e con garbo – di essere estraneo a quel cattivo affare, la Grecia lo aveva fatto nel 2011,dunque  prima del suo arrivo. E accettò, dopo lo scandalo detto Bancopoli, la proposta di Silvio Berlusconi sostituendo Fazio al vertice della Banca d’Italia, nel dicembre 2005. L’investimento in Goldman Sachs fu affidato al fondo cieco Serena insieme al resto del patrimonio mobiliare; e possiamo naturalmente essere certi che da allora Mario Draghi non ne abbia saputo più nulla, salvo un periodico esame dei riepiloghi inviati dai funzionari del blind trust.  Il resto è storia recente: dal novembre 2011 fino alla scadenza del mandato nel 2019 rimase al vertice della BCE, per poi recarsi in Umbria. L’unico in famiglia a occuparsi di derivati è Giacomo, suo figlio, prima in Morgan Stanley e ora con Hedge LMR (ex trader di UBS). La cronaca giornalistica ci riferisce che da molti mesi il banchiere vive appartato in un borgo umbro, Città della Pieve, con la moglie e un cane bracco ungherese (si chiamerà Orban?), dedito all’ozio e alla lettura; per rispetto non si accenna a quel che mangia e a quanto beve, ma lo presentano come uno sfaccendato a riposo.

Il cambio di passo

La realtà è tuttavia un’altra. Mario Draghi è il vicepresidente del Gruppo dei Trenta (G30), l’organismo creato nel 1978 per iniziativa di Geoffrey Bell, presidente onorario ancora oggi, con il finanziamento della Fondazione Rockfeller. I membri – non più di 30 complessivamente – vengono dai più diversi paesi e rappresentano i diversi possibili punti di vista del moderno capitalismo finanziarizzato e tecnologico; sono economisti, governatori delle banche centrali, ministri del tesoro, una pattuglia scelta incaricata di predisporre consigli a tutti i governi del mondo per mezzo di periodici rapporti. Ne fanno parte Jean Claude Trichet (il vecchio socio della lettera segreta), il neo ministro del tesoro americano Janet Yellen, il governatore cinese della Banca del Popolo Yi Gang, lo spagnolo Caruana, l’israeliano Frenkel, e così via. Incaricato dal G30 di procedere alla redazione del rapporto ai governi del mondo sul rapporto economia/pandemia è stato assegnato proprio al nostro sfaccendato banchiere, insieme a Raguram Raiaw; fu presentato in conferenza stampa il 16 dicembre 2020, quando ormai la crisi di governo faceva capolino. E se incaricò naturalmente, in assenza del fido bracco ungherese rimasto a Pieve della Città, il nostro nuovo presidente del consiglio. Con lui c’erano Victoria Ivashina (proveniente dal Kazakistan, ma ormai brillantemente insediata ad Harward) e Douglas Elliot, entrambi in piena sintonia. Proprio a riposo non doveva essere.

Il rapporto è di grande interesse, pur se ignorato dai commentatori italiani, i quali preferivano occuparsi di questioni più alla loro portata, come il colore degli abiti della sindacalista Bellanova o il disagio del dissidente Di Battista, riducendo le ragioni della crisi alle grottesche liti di cortile fra le bande di maggioranza e minoranza.

Draghi e Raiaw riprendono, rielaborandoli e adeguandoli alla fase, alcuni spunti di Joseph Schumpeter sul c.d. modello dinamico, a fronte di un oggettivo mutamento delle modalità organizzative del complessivo processo di produzione e profitto. La gigantesca trasformazione originata dalla spinta di continue innovazioni è entrata in contatto con le conseguenze legate alla pandemia; i giuristi potrebbero ricondurre il corona virus nell’ambito del danno evento , contemporaneamente causa ed effetto, senza necessità di ulteriori dimostrazioni. Certamente vi è stata una sinergia che ha moltiplicato geometricamente sia le perdite sia i profitti, le ricchezze e le povertà. Quasi rifacendosi al nostro Christian Marazzi il G30 sembra evocare una sorta di comunismo del capitale per rimediare, almeno nell’immediatezza, alle crepe dell’attuale meccanismo, e assicurare continuità in questo passaggio.

Il flusso delle merci immateriali impone un cambio di passo, qui e ora, al nuovo capitalismo; la pandemia ha evidenziato come l’ipotesi di una sostituzione graduale del vecchio assetto sia ormai insufficiente. Nel 2011 la scelta era stata quella di utilizzare l’austerità e il pareggio di bilancio per smantellare l’impianto tradizionale di welfare laburista-popolare in tutti gli stati dell’Unione Europea, di far pagare il costo della crisi finanziaria ai lavoratori stabilizzati, di agevolare, imponendolo, l’introduzione di una condizione precaria generalizzata perché più adeguata alle esigenze di profitto. Dunque si diede corso al taglio di personale pubblico, alla privatizzazione dell’istruzione e della sanità, al contenimento della spesa; il pareggio di bilancio, invocato da strutture statali in deficit istituzionale permanente, costituiva una manovra tutta politica di attacco funzionale al processo di sussunzione da realizzare nella fase di transizione. Nel 2020, dopo il susseguirsi di crepe e di crisi, cambia il programma; si torna all’utilizzo dell’indebitamento per investire, per sanare i guasti, per consolidare il cambiamento e tenere fermi i nuovi rapporti di forza conseguiti dal capitale durante lo scontro sociale in atto.

In forme diverse, negli ultimi anni, si è sviluppata una scomposizione del quadro politico tradizionale, una ripartizione del consenso elettorale così variegata da rendere difficile qualsiasi sintesi, anche per i troppo frequenti cambi di sentiment in territori regionalizzati e quasi atomizzati. Il prepotente ingresso sulla scena di movimenti nazionalisti, di componenti apertamente reazionarie e xenofobe, perfino di violenti scontri motivati con richiami alla religione, tutto ciò ha creato qualche intoppo nel funzionamento del pilota automatico; nei singoli stati la risoluzione delle difficoltà ha richiesto una certa dose di creatività, diversificandosi in Spagna, Germania, Francia, Inghilterra, Polonia, Italia (fra le esperienze indubbiamente più fantasiose, come di consueto siamo un laboratorio). La pandemia ha acuito i problemi; non ci si può stupire che nella cabina di regia non si siano limitati alla strategia di contenimento, ma abbiano deciso di usarla. Seize the opportunity! Specie dopo aver deliberato la spesa, l’investimento allo scoperto di cassa, la scelta di un deficit.

La distruzione creatrice. Il progetto del Group of Thirty

Rielaborando Schumpeter il rapporto stilato da Mario Draghi e presentato il 16 dicembre 2020 si fonda su una vera e propria distruzione creativa, capace di calarsi nella fase attuale di crisi e trasformazione per costruire un nuovo diverso equilibrio con i fondi stanziati. In questa situazione a ben poco servono elezioni; tanto la soluzione sarebbe la stessa a prescindere dall’esito. Il povero Tsipras vinse ampiamente il suo referendum, ma gli servì a nulla; le condizioni non erano trattabili, o le accettava o lo facevano quadrato. Si arrese a Mario Draghi inteso come male minore.

Il progetto di distruzione creativa non prevede affatto di conservare o ripristinare il precedente status quo ante. Le attuali regole sono assai chiare, come ebbe ad esporre l’attuale direttore del Tesoro Alessandro Rivera: i fondi vanno a chi possa presentare un fatturato pregresso di almeno 50 milioni, non sia in stato di oggettiva decozione, intenda investire almeno 100 milioni in un tempo preciso. L’ingresso della parte pubblica gioca un ruolo primario, a garanzia delle banche, con il fine di preservarle dai rischi connessi ai finanziamenti andati a vuoto; quindi (ma è cosa diversa dalla vecchia IRI di Beneduce e Menichella) lo Stato entra direttamente in partita per controllare il complessivo meccanismo. Con buona pace dei nostalgici legati alla manifattura il progetto Draghi (e del G30) non teme affatto il rischio di un incremento della disoccupazione; si lascia anzi intendere che non si debbano sprecare risorse per il salvataggio di imprese che non appaiano capaci di assicurare la loro sopravvivenza al termine della pandemia. La distruzione riguarda proprio loro, senza alcun senso di colpa e senza ripensamenti. L’idea forza sta nel ritenere che solo procedendo in questa maniera potranno emergere nuove possibilità di accesso al lavoro e al reddito (Draghi è persona garbata, non lo chiama accesso allo sfruttamento). È questa una concezione di taglio palesemente sviluppista che vede le nuove tecnologie (digitalizzazione) e la trasformazione ecologica (il tema ambientale) tutte piegate alle esigenze del nuovo capitalismo finanziario e informatico. Dentro questo schema non si consuma solo il tradizionale conflitto fra operai e capitale ma prevede anche una inevitabile resa dei conti all’interno delle strutture d’impresa.

Il governo di unità nazionale

Pandemia e inadeguatezza del ceto politico rendono necessario il tagliando e il pilota automatico è momentaneamente in officina per interventi di manutenzione. Nelle more il suo inventore, Mario Draghi, si è messo al volante per evitare incidenti di percorso. Persona decisa, ma al tempo stesso prudente, ha accettato l’incarico solo dopo aver ottenuto l’adesione di quasi tutto lo schieramento politico, da destra a sinistra, con la sola opposizione, naturalmente serena e costruttiva, della ex-fascista Giorgia Meloni, che così garantisce il contraddittorio e la dialettica parlamentare.

Dopo Ciampi, Dini e Monti la Banca d’Italia si incarica di mandare i suoi funzionari al governo di unità nazionale. Questa volta ci siamo risparmiati le lacrime comuniste che avevano accompagnato il voto di fiducia a Dini, il ministro Speranza (pure lui laureato alla LUISS peraltro) è rimasto al suo posto senza necessità di un pianto dirotto. Siamo ben oltre la maggioranza Ursula, aveva ragione la cattolica Victoria Ivashina (Pontifical Catholic of Perù prima di Harward) nel ritenere che Mario Draghi avrebbe portato a termine la missione, tenendo incollate tutte le forze litigiose delle due camere. Giustizia e lavoro si caratterizzano per nomine sostanzialmente interlocutorie. Orlando è stato ministro durante il Jobs Act, ma varò anche le norme penali sul caporalato; è certo più gradito a Confindustria della Catalfo, ma non è neppure totalmente un forcaiolo. Cartabia è una cattolica un po’ bacchettona (non si è mai rassegnata all’introduzione dell’aborto) ma non è priva di sensibilità sociale. Scuola e ricerca sembrano procedere con cautela, senza scossoni probabilmente, a giudicare dai prescelti. Il ritmo del nuovo esecutivo appare chiaro guardando le nomine legate alla spesa: Colao, Franco, Giovannini, Garofoli, Cingolani sono una squadra di tecnocrati guardinghi e collaudati, in piena sintonia con il rapporto del G30 e con lo stile di Draghi. I politici, siano essi leghisti pentastellati o democratici, si adegueranno, accontentandosi di una percentuale, esattamente come se fosse ancora in funzione il pilota automatico. E i giornalisti come Fubini o Buccini eviteranno accuratamente di misurarsi sul tema spinoso delle imprese da finanziare o abbattere, limitandosi come sempre a dissertare di spread, di Mes, di nulla, scrivendo qualsiasi cosa purché a pagamento. Il bracco ungherese può passeggiare tranquillo nel parco privato di Pieve della Città.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 14 febbraio 2021

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L’Emilia Romagna per l’arte contemporanea: il Collettivo Indocile

Presentazione degli artisti che hanno vinto il bando dell’autunno 2020 voluto dall’Assessorato alla cultura e paesaggio della Regione Emilia-Romagna. Il Collettivo Indocile è composto da Giacomo Garaffoni, Michele Ambroni e Sofia Rossi, che hanno realizzato l’opera “Cassandra. Il diritto di parlare”, realizzata nell’ottobre 2020 e composta da cinque quadri. Si tratta di un lavoro sulla censura violenta dell’identità femminile attraverso la negazione del diritto fondamentale alla parola, analizzata attraverso le storie delle donne internate in manicomio all’inizio del 900

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