Cultura

Poesie di Andrea Zuccolo

Bastano poche poesie ad Andrea Zuccolo per definire con chiarezza le coordinate di una scrittura che ha radici profonde nella poesia del Novecento, ma forse ancora di più nel lavoro di autori capaci di accostare testi importanti e musiche preziose, quali Gianmaria Testa o Boris Vian. Come questi ultimi infatti Andrea Zuccolo, quando rivolge il suo sguardo acuto e spesso amaro verso la contemporaneità, non si limita a osservarne o denunciarne le insensatezze ma le vive in prima persona, le interiorizza sotto forma di inquietudine e tensione. Evitando ogni deriva moralistica, queste poesie si caricano piuttosto di tutta la solitudine che accompagna l’agire etico di un uomo, e al tempo stesso spremono la rabbia come se fosse una gemma da cui si spera possa sbocciare un futuro più giusto.

Francesco Tomada

                                                                                                           

Giallo tulipano

Fratello Jenin
quando leggeranno le nostre parole
saremo ormai altrove
appena dopo le tante storie
sempre disuguali.

Le nostre parole
non avranno più
nemmeno il senso
di un fiore color lampone.
Eppure questa
è Pasqua di sangue
di polvere e urla.
E il libro più sacro
accanto il cantico
avrà parole di orrenda vendetta.

E mi domando
la brama di Dio
del suo popolo
la lingua prediletta.

Che cosa allora
il sollievo di un dito
che tocca il giallo tulipano?

La corsa di un uovo
che rotola tra fili di erbe?
La lama affilata che separa la carne?

Il sordo silenzio
dopo un colpo di pistola?

La notte che viene
dopo il canto del merlo?

L’ultima notte fratello
prima che torni l’alba
dopo l’ultimo abbraccio
dopo l’ultimo sorriso
per restare sempre insieme

Ho fiori di ciliegio negli occhi

Ho fiori di ciliegio negli occhi
e rumore d’acqua per cuscino.
Ti regalerò la mia cravatta.
Legala stretta intorno al ramo.
Stringila forte fratello
perché canti fino a sera
la nostra rossa primavera.

Prendi una scodella
raccogli la bocca del mare.
Non senti il canto delle sirene?

Non senti?
Lo sciame di mille papaveri rossi
sbocciati nel prato
dove baciammo le nostre fidanzate
dove corremmo felici gli amori.

Ho fiori di ciliegio negli occhi
e male alla testa come il lampo
come il temporale che avanza
come la frusta che schiocca
come l’uragano che tuona.

Ho fiori di ciliegio negli occhi
e ai piedi tormenti di gelo.

Così sia

Se non vedo il vostro piede
se non ascolto il vostro passo
non per questo non leggo
le infinite vie
delle nostre vene.

Con l’inchiostro io scrivo
il destino del nostro sangue
ancor prima che il sole
si rapprenda e scompaia.

L’apostolo dagli occhi spenti
predica e predice
la parabola che
sborda il margine
e si schianta sull’orlo
della terra.

Ehi voi … doganiere in divisa …
scansatevi in tempo … per diooo!
Venite meno al precetto
d’un ordigno?
Costituitevi parte lesa
offesa, vilipesa.
In nome della patria, dell’arma
in nome di vostra cognata
di tutta l’armata.

Risuolatevi le scarpe.
Gendarmi di tutte le unioni
pieee … t … arm!!!

Un minuto di silenzio
niente corone
le rose per le vostre puttane.

Vi attendo in paradiso
dove i conti si regolano
a sberle di bronzo.

Se non lo sapete
aprite i denti
le resurrezioni
sono monumenti.

Così sia.

Ho urlato ai petali di girasole

Mentre guardo
il tramonto al declino
provo a contare
le vostre corolle
e so di perdere il conto

Lampo di lingue gialle
baci al vento
dondolio di ghirlande
screziati orizzonti
crepuscolo scuro
listato a lutto

Spalanca gli occhi
spaurito il barbagianni
atteso all’acacia

Formiche composte
seguono lente il corteo
di straziante dolore

Perché domani
sarà la tua mano
a stringere il laccio
o perdere la scarpa

Ho urlato ai petali di girasole
perché si voltassero
verso il sole d’oriente
perché con fiamma ardente
cantassero il gusto
del pane
della mora che geme
della cazzuola
che smalta un muro

Quando un mattone
è il nome
di una tomba
Ho urlato ai petali di girasole

« Annuncio… al mondo… ».

Come se non fossimo
e non se n’è accorto nessuno.

Il lampione si è innamorato
della pozzanghera
si specchia vergognoso
e a mattina si spegne.

Ho acceso la prima sigaretta
deciso a smettere di fumare
per dirmi che in fondo
anche il fumo ha le sue parole
contorte talvolta
diradano in proclami.

Mentre la folla fattasi plebe
tintinna con i gomiti
e picchia ai vetri delle credenze
dalla radio giunge a valvola
con voce magna
l’annuncio al mondo
che la guerra è finita.

« Annuncio al popolo e al mondo
che il pane è rincarato ».

Il placido popolo
dorme placido
e zampilla
e cade
la debole sorgente.

Bocche come pani
a piedi nel deserto
vagano fra sabbie che scottano.

Bacio il tavolo
mi inginocchio ai tuoi piedi
fino alla radice dell’albero
fino a farmi coprire
dal diluvio di stelle.

Arca dell’arca
fra i fiumi
ali di colomba
battute dai venti
volate alte e leggiadre
fino a deporvi
sul primo
e ultimo
mattone
del tempio di fango.

                      cielo!
                   al
        innalzo
    mi
Io
Nel
    canto
          di
            tutte
                  le
                   lotte.

Per tutte le veglie
per tutti gli abbracci
gli allarmi gli amori
i barili di alcool e petrolio
esplosi e rinvasati
per celebrare
con passo lento nel corteo
i riti funebri del mondo.

Il canto si leva
e indosso scuri occhiali
per scontrarmi col sole
per stringergli il polso
prima che pulsi il chiarore dell’alba
e sorprenderlo nel sonno.

La marcia dei panni
e delle lenzuola
mantelli pietosi
a coprire cupole di cadaveri
a diecine e diecine
distesi
a piedi scoperti.

Benedetti i piedi
nati scalzi
giocarono
nel talco dei vicoli
fra risa splendenti.

Dita come datteri
addentarono
grumi di sabbia
fino a sollevare
la tempesta
e seppellire
le braccia di palma
sotto una duna.

Mausoleo
a nessun dio.

I miei amici poeti

I miei amici poeti
non mi scrivono più
Osip Mandel´štam è morto
nel campo di transito
di Vtoraja rečka
il compagno Stalin ha stabilito
di congedarlo

Pier Paolo gioca a pallone
in un campetto
accanto al Lido di Ostia
il motore della sua auto
è ancora acceso

Su Dante
pende una condanna a morte
per via dell’esilio
cambia spesso indirizzo
e prova sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale

Esenin si è impiccato
in una stanza dell’albergo Angleterre
Majakovskij lo ha rimproverato
scrivendo che
in questa vita non è difficile morire
vivere è di gran lunga più difficile
eppure si è sparato al cuore
ma molti non ci credono

Non mi scrivono più
li hanno messi a tacere
perché la loro poesia
frantumava i vetri
con la forza di un sasso
scagliato da una fionda

Dunque le questioni sono due
o io sono un poeta mediocre
magari è anche vero
oppure ho avuto sorte
di vivere in un paese
democratico
emancipato
liberale
dove il sole splende
sulla vite
l’olivo
l’arancio
dove le statue carezzano i ponti
dove si vive ignari ridendo
ma i miei dubbi non hanno calcolo
chiunque nel mio paese
può andare in piazza
mettersi un paio di mutande in testa
e dichiarare
d’essere
un
Napoleone

Foto di günter da Pixabay

Edizione 2023: parola

dire/fare
Si possono fare cose con le parole? A dirci di sì non è solo il titolo del celeberrimo saggio di John L. Austin ma anche l’esperienza quotidiana: lo vediamo quando un celebrante dichiara una coppia marito e moglie, quando una commissione proclama laureato uno studente, quando un certificato consente di svolgere un determinato mestiere. Contratti, titoli, documenti testimoniano il potere magico del linguaggio: il performativo, quello che consente di trasformare la realtà senza usare le mani. Non si tratta semplicemente della possibilità di dare ordini, ottenendo che venga aperta una finestra con il dire a qualcuno: “Apri la finestra”. Si tratta proprio di una facoltà che consente al linguaggio di cambiare il mondo.

È in questo orizzonte che si collocano i giochi linguistici. Secondo Wittgenstein, il rapporto fra mondo e linguaggio non segue una struttura necessaria, come invece voleva Aristotele, bensì una possibilità che si apre a forme sempre diverse. Recitare, cantare, spettegolare, raccontare una barzelletta, impartire un ordine, tradurre, ringraziare, maledire, pregare, stendere formule matematiche: tutte queste azioni con cui riempiamo il mondo sono frutto del modo in cui giochiamo col linguaggio. E, come tutti i giochi, traggono senso e validità esclusivamente dalla presenza di un contesto che detti delle regole.

Il contesto è la chiave di volta del potere performativo del linguaggio: non ha valore una multa comminata da un passante o una carta d’identità fabbricata dal diretto interessato. Resta però il fatto che, ogni volta che utilizziamo il linguaggio, lo facciamo all’interno del contesto più ampio che ci è dato, quello della società umana. Questo ci impone di considerare sempre le nostre parole in base agli effetti che possono avere sull’Altro: l’interazione personale è fatta di parole e ha conseguenze reali e concrete. Ci sono quelle della violenza verbale, dell’hate speech e della prevaricazione sul consenso; ma ci sono anche, per fortuna, le parole dell’attenzione, dell’apertura, del rispetto.

Per approfondire questo percorso si possono seguire lezioni che vertano sulla terminologia dell’odio e dell’amore, della definizione del genere e della pratica della violenza, oltre che sulla teoria di Wittgenstein. Dal programma creativo si possono scegliere eventi che abbiano a che fare con gli eventuali limiti da porre alla satira, le scelte lessicali nell’insegnamento e nella narrazione, l’utilizzo della parola come strumento concreto per costruire oggetti d’arte.

Programma Completo

WARS2023: la mostra virtuale di AtlantePhotoExpo

Atlanteguerre.it

È on line “WARS2023. Al di là dell’orrore”, il percorso virtuale AtlantePhotoExpo della mostra nata dalla collaborazione fra il Mag (Museo Alto Garda) e l’Associazione 46° Parallelo. 

A questo link si ripercorre infatti l’esposizione che resterà visibile a Forte Garda sul Monte Brione a Riva del Garda fino al 15 ottobre.

Tramite trenta foto si racconteranno tre conflitti in corso, sottolineando le loro drammatiche conseguenze. Le fotografie selezionate sono state riprese dalle prime due edizioni di Wars, premio fotografico internazionale creato da Raffaele Crocco, direttore dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo, e da Montura, con la direzione del pluripremiato fotografo Fabio Bucciarelli.

I tre conflitti raccontati sono quelli in Ucraina, in Iraq e nello Yemen, tramite gli scatti di tre vincitori del concorso: Laurence Geai, Manu Brabo e Giles Clarke. Le foto raccontano luoghi distanti tra loro eppur legati e vicinissimi per ciò che rappresentano. Oltre a raccontare la tragedia di ogni guerra, queste fotografie parlano dell’incredibile capacità degli esseri umani di creare e cercare una quotidianità, una normalità anche nella disperazione più cupa. Il vincitore o la vincitrice della terza edizione di Wars sarà rivelato a settembre.

La mostra virtuale resterà visibile fino al 10 settembre.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 17 luglio 2023

Decostruzione del mito della violenza. Una ricerca sull’efficacia della resistenza civile

di Pasquale Pugliese

In un tempo nel quale non solo la guerra è tornata perfino in Europa, ma il bellicismo – ossia l’ideologia della guerra – ha assunto un’inedita centralità mediatica e politica nella storia repubblicana del nostro Paese, la traduzione in italiano dell’importante lavoro sulla resistenza civile della ricercatrice statunitense Erica Chenoweth Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile (2023) – grazie all’impegno di Angela Dogliotti del Centro studi Sereno Regis di Torino e delle Edizioni Sonda – rappresenta una contro-narrazione rispetto alla vulgata della inevitabilità dell’esito violento dei conflitti. Una vera e propria decostruzione di un mito. Questo volume è uno degli esiti dello studio ultra decennale, svolto insieme a Maria Stephan, sulla quantità ed efficacia delle lotte nonviolente nel mondo dal 1900 ai giorni nostri, una mappa sistematica e ragionata dell’evoluzione della nonviolenza nei conflitti degli ultimi 120 anni, i cui frutti ribaltano secoli di pensiero dominante, anche storiografico, secondo il quale solo “quando c’è guerra c’è storia” (Anna Bravo, La conta dei salvati, 2013). “La vita quotidiana” – scrive Erica Chenoweth – “è piena di innumerevoli racconti, film, miti e altri desiderata culturali che glorificano la violenza. E questa costante esaltazione della violenza serve anche a cancellare la straordinaria storia umana della resistenza civile e dei movimenti popolari che nel corso dei millenni hanno portato avanti battaglie nonviolente”.

Intanto la definizione pragmatica – come nello stile dei ricercatori statunitensi, a cominciare dallo storico lavoro di Gene Sharp The politics of nonviolent action (1973) – di resistenza civile: “la resistenza civile” – scrive Erica Chenoweth – “è un metodo di azione diretta in cui persone disarmate utilizzano diversi metodi coordinati, non istituzionali per promuovere il cambiamento senza fare fisicamente del male o minacciare di fare fisicamente del male all’avversario”. Ciò significa che la resistenza civile è un metodo attivo di gestione dei conflitti sociali e politici, che viene agita da cittadini che intenzionalmente rinunciano all’uso della violenza – non perché siano necessariamente (e capitinianamente, potremmo aggiungere) persuasi della superiorità morale della nonviolenza, ma perché la violenza è per lo più inefficace – e fanno uso di varie tecniche di disobbedienza civile (scioperi, proteste, manifestazioni, boicottaggi, costruzione di istituzioni alternative e molte altre raccontate nel documentato volume) nei confronti di leggi ingiuste, regimi oppressivi, occupazioni militari.

Poi i dati. Tra il 1900 e il 2019 sono state censite 627 campagne di lotta di massa, violente e nonviolente: 303 di queste sono state prevalentemente di carattere violento, 324 invece si sono affidate alla resistenza civile nonviolenta, di cui 96 solo nel decennio 2010-2019. Ebbene, mentre solo il 26% delle lotte armate hanno avuto successo, hanno raggiunto i propri obiettivi oltre il 50% di quelle nonviolente. “Si tratta di una percentuale sbalorditiva che invalida l’opinione diffusa secondo cui l’azione nonviolenta è debole e inefficace mentre l’azione violenta è forte ed efficace”, commenta Chenoweth, che elenca in appendice tutte le campagne degli ultimi 120 anni di storia, con i loro rispettivi esiti. Pur con la consapevolezza che le trasformazioni sociali e politiche non sono risultati che si ottengono una volta per tutte, ma è necessario l’impegno di più generazioni affinché siano consolidati, Chenoweth illustra i principali fattori di successo delle lotte nonviolente: la partecipazione, più ampia e diversificata è la base dei partecipanti ad una campagna di resistenza civile più è probabile che abbia successo (empiricamente si è visto che la massa critica è l’attivazione del 3,5% dei cittadini); le defezioni avversarie, la capacità di un movimento di far passare dalla propria parte i sostenitori del potere; la varietà delle tattiche, sono più efficaci le lotte che si esprimono attraverso una diversificazione delle azioni; infine, l’autodisciplina e la resilienza di fronte alla repressione.

Il punto di riferimento storico di tutte le forme di resistenza civile sono naturalmente le campagne gandhiane per l’indipendenza e l’autogoverno dell’India dall’imperialismo britannico, rispetto alle quali l’obiezione che viene posta sempre è che non avrebbero potuto funzionare contro un’eventuale occupazione nazista. Ma questa obiezione parte da due presupposti errati, spiega Chenoweth, che è il caso di ribadire ancora: “il primo è l’idea che quello istituito in India dall’Impero britannico fosse un sistema coloniale benevolo. Il secondo è che il regime di Hitler non abbia mai dovuto affrontare una resistenza nonviolenta e che abbia comunque annientato quella poca che trovò sul suo cammino”. La ricercatrice decostruisce ciascuno di questi presupposti, dimostrando sia la ferocia del dominio coloniale britannico e dei suoi eccidi, che le molte efficaci resistenze nonviolente – dalla Danimarca alla Norvegia, ma anche nella stessa Germania (per esempio le donne della Rosenstrasse, episodio raccontato anche in un film di Margarethe Von Trotta) – che sfidarono con successo il regime nazista.

Del resto, aggiungiamo infine, anche in Ucraina sono state censite da diversi centri di ricerca internazionali (per esempio dall’International Catalan Institute for Peace), molte azioni di resistenza civile da parte dei cittadini, soprattutto nei primi mesi di occupazione russa, ma sono state sommerse dal frastuono dalla narrazione dominante del governo ucraino, supportata dalla montagna di armi occidentali ed amplificata dall’”informazione” italiana, secondo la quale non c’è resistenza possibile al di fuori della guerra. Ovvero l’alimentazione forzata del mito della violenza.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 21 giugno 2023