Cultura

”Vignette”

"Vignette" - Tomaso Marcolla. Lupo Editore, 2009
"Vignette" - Tomaso Marcolla. Lupo Editore, 2009

Il libro raccoglie una  selezione di opere digitali dell’artista Tomaso Marcolla realizzate assemblando fotografia e computer grafica.
Con testi di Gianni Sinni e  Anna Cordella

Tomaso Marcolla ci propone le sue “Vignette”, vere e proprie opere d’arte che trasudano maestria e ingegno sin dalla prima immagine. Aprendo il libro ci si rende conto di come ognuna delle scene rappresentate costituiscano dei veri e propri romanzi, poiché ognuna di esse dà lo spunto a didascalie infinite. È così che Marcolla riproduce dei capolavori, vignette di grande impatto, in cui gli argomenti salienti fanno capolino dalle pagine e travolgono il lettore in tutta la loro complessità. Ci troviamo così a contemplare immagini di cronaca passata e presente, e in certi casi anche futura. (Anna Cordella)

I lavori di Tomaso Marcolla sono un coerente esempio di … pratica militante che cerca di dare attuazione ad una delle più ambiziose affermazioni del mestiere: il design può cambiare il mondo.
O almeno può provarci.  (Gianni Sinni)

www.marcolla.it

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Perche’ non abbiamo avuto figli

Introduzione del libro “Perché non abbiamo avuto figli. Donne “speciali” si raccontano” scritto da Paola Leonardi. Un libro che propone tante riposte alla domanda che molte donne che non hanno fatto la scelta della maternità si sono sentite rivolgere: perché non sono diventate madri e, ancor più spesso e con maggior stupore, come mai non abbiano avuto nemmeno il desiderio di diventarlo

Per anni c’è stata una cartella viola sul mio tavolo da lavoro, con una bella etichetta non qualunque, con scritto “L’altra madre. Il valore della maternità simbolica”, dove riponevo appunti e materiali che andavo raccogliendo sul tema di Madri e non Madri.

Quando poi ho lasciato la terra emiliana d’origine per questa casastudio affacciata sul mare delle Cinque Terre (“luogo di guarigione e giardino d’arte”), dove ho trasferito da Milano sia il Centro Autostima che la “Scuola biennale di formazione in Socio-Psicologia delle Donne”, l’intuizione iniziale è diventata progetto di scrittura. E il luogo non è ininfluente per il pensare, per il fare.

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Un Simenon d’annata

di Ghismunda

Copertina del libro: Le campane di Bicêtre - Georges Simenon

Quello che mi piace della grande narrativa del Novecento è che in essa non succede mai nulla. Né avventure né colpi di scena e nemmeno eroi e lieto fine, come in tanta narrativa ottocentesca, specchio di un mondo borghese fiducioso nell’esistenza di un ordine e di una concatenazione logica degli eventi che il romanzo può e deve riprodurre, a scopo di evasione, consolazione o di semplice conoscenza. A dominare, nel romanzo del Novecento, è l’interiorità e l’analisi, tortuosa e serrata, implacabile, di una coscienza; il punto di vista, molteplice e soggettivo, dell’autore/personaggio; la mancanza di certezze tanto scientifiche quanto religiose; il senso di precarietà dell’esistenza; la giornata di tanti Ulisse/Bloom, smarriti nella routine e nel caos delle metropoli moderne o di tanti Josef K., alle prese con l’angoscia e il non senso di un mondo estraneo e persecutorio. Non si esce dall’io e da come lui sente e ragiona e più spesso sragiona, chiamando in causa il nostro io e la nostra percezione del mondo, in un confronto e percorso di conoscenza sempre aperto, inesauribile. Affascinante. E poi c’è il tempo, quella cosa che, proustianamente, torna, a ricomporre nella memoria i frammenti  baluginanti di vite trascorse. Ma per questo occorre un’occasione speciale. Non è indispensabile, forse, arrivare a chiudersi in una stanza dalle pareti di sughero per recuperare in qualche modo il tempo perduto, ma una “sospensione”, un evento eccezionale, a volte traumatico, che rompe e stacca dall’ordinaria amministrazione, ci vuole. Per tornare a vedere. Per tornare a pensare. “Quando, in quale momento – si chiede René Maugras nel suo letto d’ospedale – si perde la percezione degli odori, dei suoni, delle gemme che si schiudono?” A volte, può essere proprio la malattia il momento privilegiato del recupero di se stessi. Passando attraverso gli altri, raschiandone via la superficie per “arrivare a vedere più chiaro in se stesso”.

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Kleiner Mann

di Ghismunda

“In un mondo nel quale si possono contare circa venti milioni di disoccupati e in un paese dove la gioventù che esce dalle scuole si vede sbarrata ogni via e ogni occupazione proficua, la storia di un disoccupato diventa quasi simbolica e ci interessa di per sé”. Se un lettore, oggi, trovasse tali parole, a mo’ di presentazione, nella seconda di copertina, troverebbe interessante e sicuramente attuale il libro. Forse lo comprerebbe. Poi, a casa, scoprirebbe che la storia narrata non è ambientata (e scritta) nei nostri tempi, ma nel periodo che va dalla primavera del 1930 all’inverno del 1932. Nell’ultimo periodo della Repubblica di Weimar, quando il numero dei disoccupati tedeschi raggiunse i sei milioni. E quando mezzo chilo di burro costava tremila marchi. Nel gennaio del 1933 Hitler è nominato cancelliere e assume la guida del governo. Il nesso è evidente.

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