Cultura

Deifobe di Marisa Lepore

Tracce di Silvana Liotti 4 -18 maggio 2005

Deifobe tecnica mista su carton gesso 2 pezzi cm 70 x 200    2005
Virago I tecnica mista su carta cm 70 x 160            2005
Virago II tecnica mista su carta cm 70 x 160            2005

Tra letteratura, antropologia e storia, il mito della Sibilla giunge a noi sotto il peso di un femminino arcano, misterioso e misterico. In origine connesse con Dioniso e l’orfismo, poi con l’ambiente di Delphi, le Sibille, sacerdotesse di Apollo con il dono del vaticinio, ne hanno diffuso il culto oltre l’ambiente orientale.
Presumibilmente nata a Jonia, nell’Asia Minore, appartenente ai Cimmeri, popolazione scitica delle steppe eurasiche a nord del Mar Morto, la Sibilla Cumana, giunta in Italia prima della guerra di Troia, è qui conosciuta anche con il nome di Deifobe, di virgiliana memoria.
La leggenda la vuole concupita da Apollo per la sua avvenenza e, superba, a lui concessasi inavvedutamente in cambio di un’immortalità divenuta poi, crudelmente, vecchiezza fino alla consunzione, fino alla riduzione alla sola voce, metafora della sua stessa funzione profetante.
Tra oriente e occidente, tra umano e divino, tra passato e futuro, la “Deifobe” di Silvana Liotti è assunta a donna possente e misteriosa, moderna e futurista, androgina e bivalente, stratificata e complessa, divisa fino alla frattura. Il mito, percorso nella memoria, viene introiettato, attualizzato e proiettato indiscindibilmente verso il futuro.
L’artista dà corpo e possanza alla metafora e alla leggenda. Protegge, difende e rafforza la frattura, raddoppiando l’immagine della Sibilla in due parti asimmetriche, in una dominante il pube e nell’altra il torace. Il potere dell’istinto-passione-natura e quello del logos-gesto-azione, simbologia di quel rosso e quel blu, che ancora una volta ritornano nel segno estetico dell’artista.
Silvana/Sibilla, forza e fragilità, pensiero e passione, logos e pathos.
Alla complessità concettuale fanno riscontro, in “Deifobe”, la complessità del supporto dell’opera e la tecnica utilizzata: due carton gesso di cm 70 x 200, sui quali altra carta è impastata con acqua e vinavil. La materia è già segnata dalla qualità della propria composizione e il colore si adatta al substrato, ne segue le tracce. La gocce del colore seguono un percorso che si emancipa a tratti dal gesto dell’artista, seguendo una strada che è, in parte, aleatoria. L’artista cede alla tirannide del subtrato materico, ma, contemporaneamente, lo domina incanalando e circoscrivendo il colore con altra materia. Stratifica il substrato via via che al suo estro giungono, sommandosi, immagini delle vestigia del passato arcano, misterioso e magico della sua Sibilla, tracce impresse sulla propria femminilità.
Altera, conscia del potere femminile, divisa tra superbia e mercificazione, la Sibilla ha posto ad Apollo la sua condizione: “Fammi vivere tanti anni, quanti granelli di sabbia può contenere il palmo della mia mano.” e, dimentica di chiedere al dio anche l’eterna giovinezza, è condannata ad una funzione profetante per il tempo non più umano della sua vita.
Deifobe”, eroina moderna, insoddisfatta, si misura ed è schiacciata da una potenza superiore, più forte dei propri limiti e delle proprie aspirazioni, immagine di un bovarismo arcaico dove il potere divino ha la medesima valenza degli schemi sociali.
Silvana/Deifobe: essere e voler essere, potenza e fragilità della creazione artistica, estro e insoddisfazione, urgenza e limitazione.
La “Deifobe”, spezzata nelle due metà,  è posta, protetta in una cavità degli ambienti esterni di Batis, struttura al limite tra lo spazio contemporaneo e quello archeologico del parco di Baia. Non solo operazione didascalica: la grotta-di-tufo, cisterna, antro, diviene la soglia di un tempo e uno spazio sincronico: una voce della memoria.
Le due “Virago” sono poste una a destra, una a sinistra, a guardia di un luogo, di un’identità, di un tempo che stratifica e sovrappone. Tempo di compresenza, circolare, sincrono, dove tutto è già stato detto e tutto ancora si dice e si ridice. Custodi della memoria, anch’esse “tracce” di un tempo attualizzato. Forti, guerriere di sguardo e possanza, dipinte su carta, “pergamena-vestigia”, ma fragilmente esposte, per la durata della mostra, all’alterazione del vento, della pioggia, dell’umidità della terra e del tufo, la pietra che idealmente ne assorbirà le tracce, per conservarle e stratificarle nella sua memoria.
Tracce” rappresenta per l’artista l’autoriflessività, il doppio, la frattura, ma anche il riconoscimento di sé nell’altro. L’unità, tradita dalla reiterazione di figure e attributi, deve passare attraverso sdoppiamenti e gemmazioni, perché venga ricostruita l’identità originaria.

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