Politica

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio? Chiamiamoli lager

Foto di Fabrizio Maffioletti

L’Ideota

Nanni Moretti ha detto che le parole sono importanti.
E il governo lo sa bene.
Le parole sono così importanti che diventano pericolose e vengono omesse.
In questi giorni abbiamo appreso che vogliono aprire 12 nuovi lager per imprigionare le persone migranti.
Ma non leggerete la parola “lager” nei titoli delle news.
Hanno paura di turbare l’atmosfera conviviale di un aperitivo milanese con una descrizione esatta della realtà.
Nelle occasioni mondane della buona società capitolina la parola “lager” può mandarti di traverso il prosecco e causare silenzi imbarazzati.
Quella parola mette in difficoltà gli editorialisti che si arrampicano sugli specchi per lodare il “senso di responsabilità del governo”.
Nemmeno Piantedosi riuscirebbe a pronunciare senza batter ciglio una frase come: “L’Europa ci chiede la costruzione di nuovi lager”.
C’è il rischio che la popolazione comprenda l’esatta natura di questi posti, quando racconti le cose come stanno con le parole giuste.
Quindi evitano con cura la parola “lager”. Li definiscono CPR.
Diventa tutto più facile quando usi un acronimo asettico e burocratico che fa dormire sonni tranquilli e si fa dimenticare subito.
Li chiamano CPR, così puoi voltare pagina senza farti troppe domande.
Ma sono abominevoli lager in cui i diritti umani vengono fatti a pezzi.

L’Ideota Classe 1973. Sono uno scrivente che ha fatto di tutto: articolista per giornali e riviste (Left per esempio), editor, ghost writer, autore di quarte di copertina per manuali universitari, compilatore di schede per saggi sull’arte e persino scrittore di racconti posizionati sulle etichette di bottiglie di vino. Da diversi anni sono volontario di Emergency. Antifascista da sempre, anarchico dal 2020. Odio i CPR e sogno l’abolizione del carcere. Nel mondo reale sono moderatamente noto come Danilo Zanelli, ma sul web sono L’Ideota, un autore satirico cupo, malinconico e malmostoso.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 20 settembre 2023

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Quell’11 settembre del 1973

di Raffaele Crocco

Non sono solo le Torri Gemelle a New York a rendere ogni 11 settembre una data da ricordare. Quella volta, ventidue anni fa, il Mondo si trovò sul crinale del cambiamento. Mentre vedevamo le torri crollare, abbattute dall’attacco omicida e suicida degli uomini di Bin Laden, capivamo che c’era stato un prima e ci sarebbe stato un dopo, con tutto differente, cambiato.

Ma un altro 11 settembre, molti anni prima, nel 1973, aveva ottenuto lo stesso effetto, con molto meno clamore. Anche quel 11 settembre aveva dato al Mondo di allora un prima e un dopo. Quel giorno di 50 anni fa, un golpe militare assistito e progettato dagli Stati Uniti rovesciava e uccideva in Cile il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Il tutto accadeva davanti ad una platea mondiale equamente divisa fra chi approvava l’abbattimento di “quel pericoloso socialista” e chi condannava i fatti restando comodamente seduto in poltrona. Allende morì, quel giorno, assieme a chi difendeva la democrazia. Negli anni successivi morirono in migliaia. Ma quel giorno, quel 11 settembre, con lui morì la democrazia, diventata immediatamente fragile e possibile, realizzabile, solo sino a quando “faceva comodo al padrone”, in questo caso gli Stati Uniti.

Non fu più la stessa cosa, per chi viveva in democrazia. Non c’erano più certezze, i valori e gli strumenti del sistema erano troppo fragili per resistere al potere forte e reale di chi governa l’economia e ha le armi per imporre la propria volontà. Di questo si resero conto i democratici di tutto il Mondo, che iniziarono a ripiegare su posizioni sempre più “coerenti” con la visione del padrone e, quindi, sempre meno democratiche. Pensate all’Italia, al tentativo avviato subito dal Partito Comunista di Berlinguer di avvicinarsi alla Democrazia Cristiana, il braccio politico dell’Alleanza atlantica filo statunitense nel Paese, cercando il cosiddetto “compromesso storico”. Fu, quello di Berlinguer, il tentativo di mettere in sicurezza la democrazia italiana, pressato dalla paura che potesse ripetersi il Cile.

La democrazia morì quel giorno a Santiago, sotto i colpi del golpista Pinochet e degli Stati Uniti. E morì ovunque, nel Pianeta, che si inaridì per paura. E mentre la democrazia perdeva pezzi ed efficacia, dal Cile partiva la grande sperimentazione neo liberista, con l’economia a governare le vite degli individui, sostituendo la politica e il mercato trasformato nel nuovo dio. Un dio talmente insinuante, affascinante e potente da diventare l’unico punto di riferimento per decenni. Tutto si è fatto in nome del mercato e tutto è stato sacrificato su quell’altare: la giustizia sociale, il diritto al lavoro, il welfare.

Non è stato un evento locale, il golpe contro Allende. L’undici settembre del 1973 iniziò una controrivoluzione i cui effetti ancora ci portiamo addosso, come scorie radioattive. Le nostre democrazie – là dove in qualche modo hanno resistito – da quel giorno sono monche e malate. Per questa ragione oggi, dobbiamo ricordare anche quel giorno. Perché le tragedie non vanno mai dimenticate.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo l’ 11 settembre 2023

La foto è della Biblioteca del Congreso Nacional da wikimedia

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Senza responsabilità. Il mondo unipolare e semplificato di Jens Stoltenberg

di Pasquale Pugliese

Nell’incontro al Parlamento europeo dello scorso 7 settembre, Jens Stoltenberg ha fatto le seguenti dichiarazioni: “nell’autunno del 2021 il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la Nato firmasse l’impegno a non allargarsi più. Naturalmente non lo abbiamo firmato. Era la precondizione per non invadere l’Ucraina” – continua il Segretario generale della Nato – “voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la Nato dall’Europa Centrale ed Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Lo abbiamo rifiutato e lui è andato alla guerra, per evitare di avere confini più vicini alla Nato. Ha ottenuto esattamente l’opposto: una maggiore presenza della Nato nella parte orientale dell’Alleanza”. Non entro sul piano delle implicazioni geopolitiche di queste decisioni se non per osservare che, a parti invertite, sappiamo come avrebbero reagito gli USA se un’alleanza militare ostile si fosse avvicinata alle sue porte con dispiegamento di armamenti: nel 1961 l’umanità è stata sull’orlo di una guerra nucleare esattamente perché l’URSS aveva provato a portare i missili nucleari a Cuba; ne’ entro sulla questione – da alcuni ritenuta controversa – se ci fossero accordi verbali o scritti, dopo l’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, tra il presidente Gorbacëv e il governo statunitense sulla non espansione della Nato ad Est.

Sto sulle cose certe. Nonostante la conclusione della “guerra fredda” tra il 1989 e il 1991 abbia generato un nuovo assetto dell’Europa e del mondo, essa non è stata l’esito di una vittoria militare di una parte sull’altra, ma la conseguenza della convergenza delle azioni nonviolente dei popoli dal basso e dell’avvio del disarmo unilaterale voluto da Gorbacëv dall’alto. Essendo sfuggita al paradigma bellico come motore della storia che domina il pensiero politico impregnato di militarismo, nel quale la pace è solo considerata “negativa”, ossia fine della guerra, e non frutto di una specifica gestione nonviolenta dei conflitti come invece era accaduto in quel frangente, la fine della guerra fredda non è stata sancito da alcuna Conferenza internazionale di pace – come la fine delle precedenti guerre europee e mondiali – generando così interpretazioni differenti sul suo esito nei diversi protagonisti. E azioni conseguenti. Non a caso il 6 febbraio del 1992 Michail Gorbacëv, già premio Nobel per la pace ma ormai privo di ruoli di potere in Russia, su La Stampa di Torino scriveva: “Il presidente George Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo per anni nel clima della guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi di quel clima, tutti hanno vinto”. Oltre tre decenni di guerre, da allora ad oggi, dimostrano che non è andata così.

Alla luce di questo fatto è utile leggere le dichiarazioni di Stoltenberg dal punto di vista dell’etica politica che sottendono: nonostante si muovano in un mondo complesso e multipolare gli USA e la Nato agiscono come fossero in un mondo unipolare e semplificato, in base ai propri principi e interessi globali, disinteressandosi delle reazioni e delle conseguenze: è il dispiegamento dell’etica delle intenzioni. Ossia il contrario dell’etica della responsabilità che invece – soprattutto nell’epoca nucleare – impone di agire tenendo conto del contesto e degli effetti delle azioni, per prevedere, valutare e prevenire le prevedibili re-azioni ed “effetti collaterali”. Non ha caso, dopo Hiroshima e Nagasaki, sull’etica della responsabilità sono state fondate la Costituzione italiana e la Carta delle Nazioni Unite; scritti l’appello di Albert Einstein e Bertrand Russell per il disarmo nucleare e le lettere di don Lorenzo Milani ai cappellani militari ed ai giudici; elaborati importanti lavori filosofici da pensatori come Hans Jonas e Hannah Arendt, Aldo Capitini e Günther Anders, per citarne solo alcuni

Ma Stoltenberg, ignorando tutto ciò, continua il suo intervento al Parlamento europeo dicendo che “tutti vorremmo investire in qualcos’altro, ma il problema è che, a volte, bisogna investire in armamenti per assicurare la pace”. Ossia ribadisce anche l’obsoleto paradigma fondato sul pensiero magico del se vis pacem, para bellum. Non abbiamo mai speso tanto per preparare le guerre (2240 miliardi di dollari nel solo 2022) ed esse, infatti, dilagano ovunque (170 conflitti armati sul pianeta), perfino in Europa e non siamo mai stati così vicini alla mezzanotte nucleare (a soli 90 secondi, dice il Bollettino degli scienziati atomici; nel 1961 eravamo a 7 minuti). E’ necessario ribaltare, dunque, l’irrazionale paradigma che ancora guida le relazioni internazionali, costruendo e dando gambe e mezzi al paradigma opposto fondato sulla ragione: se vuoi la pace, prepara la pace. Trasformando anche lo strumento di misurazione dell’efficacia e sostenibilità delle guerre per “risolvere” i conflittti: non i metri persi o conquistati – “cento metri al giorno”, dice ancora Stoltenberg a proposito della controffensiva ucraina – ma le vite perse o, al contrario, risparmiate. Sarebbe un salto di civiltà, cioè di razionalità e responsabilità.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 12 settembre 2023

La foto è di 首相官邸ホームページ da wikimedia

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Le Equilibriste. La maternità nel Rapporto 2023 di Save the Children

di Giovanni Caprio

La popolazione italiana è in costante calo dal 2008 e lo scorso anno si è registrato il record minimo di nascite, scese, come non succedeva dalla seconda metà dell’800, sotto la soglia delle 400mila unità. Una denatalità che neppure la presenza della popolazione residente di origine straniera riesce più a compensare: anche tra le famiglie con almeno un genitore straniero sono infatti diminuite le nascite, passando da più di 107.000 nati nel 2012 a poco meno di 86.000 nel 2021. Altrettanto simile appare la decrescita nei nuclei con entrambi i genitori stranieri, dove si passa da circa 80.000 figli/e nel 2012 ai quasi 57.000 del 2021.

I fattori che stanno alla base di questi trend negativi sono molti e riguardano ogni aspetto della vita quotidiana: il ritardo con cui i giovani tendono a iniziare la vita indipendente a causa dell’investimento nell’educazione e nella formazione; le difficoltà che incontrano ad entrare nel mondo del lavoro, dove spesso sono costretti ad accettare occupazioni precarie, instabili e povere; un mercato immobiliare estremamente sfavorevole, per non dire proibitivo, nei confronti delle giovani coppie; i costi insostenibili della cura dei figli e delle figlie; la carenza di politiche a sostegno delle famiglie; l’assenza di una rete di supporto familiare sul territorio; le difficoltà di conciliare adeguatamente la maternità e la paternità con il lavoro. Nel 2021, il 6% degli uomini si è dimesso dal proprio impiego in occasione della nascita di un/a figlio/a, dato che per le donne è schizzato addirittura al 65,5%, ovvero più di 6 donne su 10 rinunciano al proprio lavoro per adempiere alle responsabilità di cura dei propri figli.

Troppo spesso di questi tempi quando si parla di denatalità ci si dimentica però che avere figli/e è una possibilità e non un obbligo imposto dalla società, che si deve arrivare alla maternità e alla paternità con consapevolezza e partendo da una scelta fatta in assoluta libertà, che va tutelato anche chi nel proprio orizzonte di vita non ha ritenuto di considerare la genitorialità e tutti coloro che non possono avere  figli/e. Così come ci si dimentica con facilità dello squilibrio di genere che caratterizza la suddivisione del lavoro produttivo e riproduttivo all’interno della società contemporanea.

Ed è proprio allo squilibrio di genere che si richiama una parte dell’8^ edizione del Report del maggio scorso di Save the Children intitolato “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2023”, curato da Alessandra Minnello e Maddalena Cannito. “Dalle risposte relative alla distribuzione dei carichi di cura emerge tra le coppie che convivono, si legge nel Rapportoun forte squilibrio a svantaggio delle donne. Sebbene solo il 13% delle mamme che convivono con il padre o l’attuale partner si dichiari insoddisfatta della loro collaborazione nell’accudimento del bambino, sono loro a dedicare gran parte del proprio tempo quotidiano alla cura del figlio/a: 16 ore al giorno contro le 7 del partner”.

La cura dei figli continua insomma a penalizzare le mamme, nonostante alcuni importanti passi avanti fatti sul terreno della parità. “In relazione al congedo parentale (ovvero facoltativo), nonostante si rilevi un certo livello di adesione dei padri, che nel 16% dei casi hanno preso un congedo più lungo delle madri e nel 22% in maniera equilibrata rispetto alle madri, permane– si sottolinea nel Report, una prevalenza di donne che ne usufruiscono (53% hanno preso un congedo più lungo, a cui si sommano quelle che lo hanno preso in maniera equilibrata rispetto ai padri). Da segnalare che, tra le motivazioni addotte a un congedo più lungo da parte delle donne, il 37% delle mamme lavoratrici intervistate indica motivi legati al mercato del lavoro: per il 21% lo stipendio inferiore a quello del padre e per il 16% il lavoro del padre più promettente del proprio hanno influito sulle scelte relative alla cura dei figli”.

E’ pur vero però che anche in Italia la paternità sta cambiando ed è importante accelerare con tutti i mezzi un cambiamento culturale, sostenuto dalle politiche, che renda la cura dei figli anche una responsabilità maschile, mettendo in luce i numerosi benefici che il  coinvolgimento paterno ha su diversi fronti. Sono molti ormai, si sottolinea nel Rapporto di Save the Children, gli studi che hanno trovato una relazione positiva di una paternità attiva e accudente sulla parità di genere nelle coppie eterosessuali, sui mutamenti delle pratiche e dei modelli di maschilità, sulla riduzione della violenza nelle relazioni intime, sulla salute, il benessere di madri e padri, sullo sviluppo cognitivo ed emotivo di bambini/e. Certamente il cammino è ancora lungo e tanti passi vanno fatti sia sul lato del cambiamento di modelli culturali di riferimento maschili che delle politiche, ma il percorso della condivisione delle cure sembra ormai irreversibile e rappresenta un tassello fondamentale per contrastare la crisi demografica in atto nel nostro Paese, rilanciare l’occupazione femminile e, in ultima battuta, raggiungere, promuovere e avanzare verso la parità di genere.

Qui per scaricare il Report.

Qui il video con le testimonianze delle madri “equilibriste”.

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 3 settembre 2023
Foto di Endho da Pixabay

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“Sono diventato morte, distruttore di mondi”. Oppheneimer, Moravia e il disarmo nucleare

di Pasquale Pugliese

“Sono diventato morte, distruttore di mondi” è un verso della Bhagavadgītā – il libro sacro dell’induismo – che, nel film di Cristopher NolanRobert Oppheneimer legge direttamente dal sanscrito e poi, quando a capo del progetto Manhattan assiste all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo con il quale il presidente Truman darà il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, gli ritorna in mente insieme alla consapevolezza. La visione del film a me ha riportato in mente un testo “inedito” di Alberto Moravia, autore peraltro già evocato recentemente, in riferimento alla guerra in Ucraina, da Dacia Maraini sul Corriere della sera dell’11 agosto e da Adriano Sofri sul Foglio del 23 agosto, seppur per considerare utopistico il suo impegno per rendere la guerra un “tabù”. Si tratta del testo di un intervento mai svolto al parlamento europeo, dove Moravia era stato eletto nel 1984, oggi inserito in appendice a L’inverno nucleare (a cura di Alessandra Grandelis, 2022), nel quale lo scrittore spiega come in una tragica eterogenesi dei fini, Hitler – che pure ha perso la seconda guerra mondiale – attraverso le armi nucleari realizzate e usate dai suoi nemici, a nazismo ormai sconfitto, in realtà ha vinto, lasciando l’umanità nell’incubo permanente di “morte e distruzione di mondi”. E’ questa la vera “reazione a catena” proiettata nel futuro, come dicono nel dialogo che chiude il film Oppheneimer ed Albert Einstein, che non a caso al progetto Manhattan non ha voluto contribuire in alcun modo.

<<Nei primi anni del dopoguerra>>, scriveva Moravia probabilmente nel 1987, <<la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba (…). Oggi vediamo che genocidio è sinonimo di guerra e violenza. Infatti la bomba, proprio per il suo carattere specifico di arma di strage di massa, si tira dietro la teoria nazista della soluzione finale, anche se chi ce l’ha si proclama in buona fede nemico del nazismo. Al processo di Norimberga>>, continuava lucidamente Moravia, <<la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della seconda guerra mondiale>>.

E’, in fondo, quella di Alberto Moravia, la stessa critica al principio del “fine che giustifica i mezzi” portata avanti dal pensiero nonviolento, da Mohandas Gandhi ad Aldo Capitini, perché i mezzi usati nei conflitti non sono mai neutri ma determinano e modificano i fini. Fino a trasformarli nel loro contrario, se ad essi incoerenti. La lettura di questo e degli altri scritti contro le armi nucleari di Alberto Moravia, può essere uno strumento molto utile per comprendere davvero la reale posta in gioco raccontata nel film di Nolan, al di là della pur complessa vicenda biografica di Oppenheimer: un gioco a somma negativa, ancora pienamente in corso, nel quale non possono esserci vincitori. In cui il mezzo della proliferazione delle armi nucleari impedisce e contraddice il fine della convivenza pacifica tra gli Stati e i popoli.

Il regista ha fatto la scelta stilistica di evocare senza mai mostrare le vittime delle due bombe atomiche sganciate sulle città giapponesi. Invece è necessario vedere, o almeno farsi raccontare, che cosa è successo ad Hiroshima e Nagasaki, per capire pienamente la vicenda narrata nel film. Non a caso gli scritti e l’impegno di Moravia contro la guerra sono anche l’esito di tre viaggi in Giappone, nel 1957, nel 1967 e nel 1982. Così come fu fondamentale il viaggio ad Hiroshima e Nagasaki nel 1958 per il filosofo Günther Anders, che ne scrisse il celebre “Diario” intitolato Essere o non essere, di cui è fondamentale leggere, per comprendere il nostro presente, anche le Tesi sull’età atomica del 1960 e il carteggio con uno dei piloti di Hiroshima, Claude Eatherly “l’ultima vittima” della bomba. Il maggiore finito nel manicomio militare sotto il peso – disconosciuto e nascosto dal sistema politico e militare USA – della responsabilità del male: come per Oppenheimer, anche sulla sua drammatica storia bisognerebbe, prima o poi, girare un film.

Visto il film di Nolan e lette almeno queste opere fondamentali di Moravia ed Anders, non rimane che trasformare l’indignazione e il senso di impotenza in azione, sostenendo attivamente la Campagna internazionale per il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) – la loro messa fuori legge invocata da Moravia – entrato in vigore nel 2021 e sottoscritto da 68 Stati. Ma non ancora dal nostro Paese e dalle potenze nucleari, le maggiori delle quali si fanno follemente la guerra sul territorio ucraino. Accusandosi reciprocamente, e non a torto, di nazismo.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni  il 27 agosto 2023

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