di Ettore Masina
Quando in una piazza o in una sala si leva accanto a me il canto, così suggestivo, di “Bella ciao”, mi capita di pensare che soltanto noi vecchi siamo in grado di comprenderne sino in fondo il significato: perché una ragazza, destandosi da un profondissimo sonno e trovando che il suo paese è stato invaso da un esercito straniero, si “senta di morire”. E’ difficile – e forse impossibile – a chi non l’ha provata immaginare la ferocia di un regime di occupazione. Occupazione non significa soltanto guerra perduta ma anche perduta identità. Ti sembra di non avere più patria poiché i confini che la delimitavano sono stati violentemente abbattuti e i luoghi che ti sono cari sono diventati terra di conquista. I maschi del tuo popolo vinto (quelli che non sono morti o prigionieri in “campi” lontani) sono trasformati in lavoratori senza diritti, o profughi miserabili; mogli sorelle o figlie non possono più sentirsi difese dalla possibile violenza dei vincitori; inermi si sentono i bambini davanti a padri di cui ogni giorno vedono umiliata la dignità. Le leggi che vengono emanate sono fatte per il benessere e la sicurezza degli occupanti, non dei cittadini. I raccolti e le produzioni industriali sono bottino di guerra e i generali nemici decidono se e in quale quantità possono essere distribuiti agli sconfitti. Le piazze in cui giocavano i bambini, i parchi in cui passeggiavano gli innamorati, i ristoranti delle allegre tavolate, i teatri in cui si narravano le bellezze della vita o i suoi drammi, ogni luogo pubblico, insomma, è sfregiato dalla presenza di stranieri armati. Vi sono scuole (molte scuole) trasformate in bivacchi delle forze d’invasione; e case requisite e vie sbarrate e zone interdette. Le rovine lasciate dai combattimenti non vengono riparate. Accade che intere popolazioni debbano lasciare i luoghi in cui vivevano, espulse dalla violenza armata o da una fonda paura. Che posti di blocco infestino le strade e impediscano ai vinti di svolgere i propri commerci o, peggio ancora, di riunire le famiglie o di mantenere i collegamenti fra parenti o di accedere rapidamente a luoghi di cura. Che in alcune zone tutti gli alberi vengono abbattuti, “per ragioni di sicurezza”. Le notti sono anticipate e prolungate dai coprifuoco; in quell’eternità di buio si sentono i passi cadenzati delle ronde e di quando in quando vengono dalle strade rumore di spari, grida concitate, alti lamenti. Chiudendo la porta, la sera, sai che potrebbe essere abbattuta da qualche pattuglia venuta a prenderti per potarti chissà dove.
Occupazione vuol dire terrore. Non è soltanto che tutti i diritti sembrano cancellati, è che puoi da un momento all’altro essere punito per ciò che un altro ha fatto: la punizione collettiva, la rappresaglia devastano ogni logica, ogni innocenza, e ogni diritto. Sei immerso nell’arbitrio del dominante, che, se qualcuno osa ribellarsi, non occhio per occhio pretende ma dieci occhi per ogni occhio dei suoi ferito o spento.
E’ in questo modo che da cinquant’anni vivono i palestinesi dei territori occupati.
Il terrorismo non ha mai giustificazioni: è una perversione mortifera. Come le punizioni collettive decise dagli occupanti, colpisce innocenti e dunque devasta ogni giustizia. E’ odio che genera odio. E’ delitto insensato, patologia criminale. Guardo una fotografia scattata sul cortile della scuola rabbinica di Gerusalemme. C’è un ragazzo morto, che mi pare identico a mio figlio quando aveva quindici anni. Provo un senso di lutto che mi sconvolge. Non ci si può, non ci si deve, mai, abituare a queste gioie di vivere affogate nel sangue.
Penso, anche, che non si possa, non si debba, mai, dimenticare come vivono, da cinquant’anni, i palestinesi. Se si eccettua la tragedia irlandese, non c’è, nella storia contemporanea, esempio di occupazione (= oppressione ) durata tanto a lungo e tanto a lungo tollerata dall’opinione pubblica internazionale. L’orrore della Shoah sembra nascondere con le sue tenebre la storia della nabka, la violenza perpetrata ai danni di questo popolo arabo, chiamato a pagare le colpe degli europei. Migliaia di pagine sono state scritte dall’ONU a proposito della tragedia palestinese ma si direbbe che nessuno le abbia mai lette. Perché tacerlo? Il nostro razzismo non è soltanto un’infamia che ha massacrato per secoli il popolo ebraico, il nostro antisemitismo continua a stravolgere anche la nostra visuale di quell’altro popolo semitico che è il popolo arabo. Non dobbiamo dimenticarlo: noi italiani siamo stati colonialisti e del colonialismo abbiamo conservato la capacità di velenoso disprezzo per i non-europei. Gli arabi come gente primordiale, insensata, feroce, ignorante, sporca: questi clichès appartengono alla cultura di noi vecchi ma sono passati anche ai nostri figli. E chi è riuscito a evadere dall’infamia dell’antiebraismo ha finito ben presto per pensare Israele come avamposto della civiltà occidentale nel Medio Oriente islamico.
Le capacità imprenditoriali e la finezza della cultura israelitica hanno fatto sì che una gran parte dei mass-media mondiali siano proprietà di ebrei, e perciò apertamente schierati “a favore di Israele”. Film come “Exodus”, tanto per fare un esempio, hanno immensamente giovato a Israele, illuminando di una luce sacrale, di epopea politica e religiosa la creazione di un nuovo stato, rifugio per un popolo ma dannazione per un altro. Lo so bene perchè io stesso ho condiviso questa acritica esaltazione … fino a che sono andato in Israele.
E’ quasi incredibile la mancanza di informazioni sulla Palestina che connota il Nord della Terra e l’Italia in particolare. In buona parte si tratta di scelta consapevole: inutile sapere, i palestinesi sono un popolo di serie B. Posso – e voglio – dare una testimonianza in proposito. Nel 1991 ero presidente del Comitato della Camera per i diritti umani e, su invito dell’agenzia dell’ONU, guidai una delegazione parlamentare a visitare i campi profughi dei territori occupati. Nella delegazione erano rappresentati il PCI il PSI, la DC, l’MSI e Democrazia Proletaria. Compiemmo la nostra missione con (oso dire) grande scrupolo, incontrammo le autorità israeliane e gli organismi non-governativi che si occupavano dei diritti umani, e visitammo uno ad uno tutti i campi. Compilammo poi una relazione unitaria da distribuire ai mass-media. Il presidente della Commissione Esteri della Camera, Flaminio Piccoli, presiedette la conferenza stampa… Ho detto male: NON presiedette la conferenza stampa, la conferenza non ci fu: non uno (uno) delle decine di giornalisti parlamentari si fece vivo.
Peggio ancora: non solo mancanza di informazione ma propaganda di odio. In quell’epoca, Marco Pannella accusò l’Intifada di ogni crimine. Nei campi profughi i militari israeliani avevano ucciso alcuni bambini palestinesi: nella sua abituale esagitazione filoisraeliana, il leader radicale arrivò a gridare nell’aula di Montecitoro che c’era qualcuno che aveva spinto quei piccoli contro i soldati “per avere ogni sera un bollettino sanguinoso da esibire”. Quando, nel corso di una trasmissione da Costanzo, gli contestai quell’infamia, Pannella disse che “anche in Francia, se la polizia spara alle gambe dei dimostranti può colpire dei bambini”. Se e dove la polizia francese avesse ucciso dei bambini, Pannella non lo disse.
Sì, è difficile mantenersi freddi nel valutare la tragedia dell’occupazione dei territori palestinesi. La missione parlamentare da me presieduta firmò allora una relazione in cui si dichiarava che Israele violava costantemente i diritti umani della popolazione. Certamente, crimini venivano commessi anche dai palestinesi, soprattutto nei confronti dei “collaborazionisti”. Ma si poteva e si doveva dire che lo status dell’occupazione negava ogni stato di diritto.
Viaggiando allora per i Territori ci imbattemmo nei segni evidenti della repressione e della rappresaglia: case abbattute dai bull-dozers, scuole devastate, bambini incarcerati, uliveti espiantati per costruire strade riservate ai coloni, università chiuse a tempo indeterminato, devastazione dei viveri distribuiti dall’ONU, posti di blocco sbarrati per ore ed ore anche alle autoambulanze; e l’uso della tortura. Gli organismi non-governativi ci parlarono, a questo proposito, della nuova tecnica dello “scuotimento” : la vittima veniva afferrata per le braccia o per le spalle da un inquisitore particolarmente vigoroso e scrollata furiosamente avanti e indietro, in modo che il cervello “ballasse”, per così dire, nella scatola cranica. Ne conseguivano paralisi, tremori permanenti, distorsioni, gravi disturbi nervosi, quando non la morte.
Tutto ciò avveniva sedici anni fa. Da allora l’occupazione è rimasta e i tentativi di negoziato sono falliti, in parte per insipienza di alcuni capi palestinesi, ma prevalentemente per volontà del governo di Israele di portare gli avversari all’estenuazione delle loro forze economiche e politiche prima di concedere loro uno stato, destinato così all’inermità, alla mendicità e all’insignificanza. E non è retorica dire che il proseguimento dell’occupazione e delle sue tecniche sta operando una vera e propria mutazione antropologica dei due popoli, in senso regressivo. I razzi che Hamas lancia verso le città israeliane di Sderot e Ashqelon colpendo alla cieca la popolazione, macchiano la storia della resistenza palestinese. La rappresaglia israeliana (il blocco dei confini della Striscia, con l’affamamento della popolazione e poi le stragi e le devastazioni compiute nelle scorse settimane a Gaza) infangano le bandiere dell’esercito israeliano.
Dall’una e dall’altra parte, gli amanti della dignità umana invecchiano quasi disperando. Notavo qualche mese fa, recensendo “L’ultimo comandante” di Abraham B. Yehoshua: “Una sorta di sfinimento psicologico e morale pervade questo bel libro di racconti. La perpetuazione della follia medio-orientale e della occupazione delle terre palestinesi genera ormai negli intellettuali israeliani non soltanto un allarme che i politici non hanno raccolto, ma un’ accorata malinconia che pervade tutti i rapporti sociali, anche quelli più intimamente familiari”. Adesso Yehoshua è venuto in Italia e ha confermato questa desolazione.
Nel suo libro appena uscito in italiano con il titolo “Fuoco amico” compare la figura di un israeliano fuggito in Africa perché non riesce più a sopportare le tensioni e le tragedie che derivano dall’occupazione. Dal canto loro, gli psicologi palestinesi parlano delle perversioni che le violenze generano nei bambini e negli adolescenti: di fronte all’inermità dei padri e alle umiliazioni che essi subiscono, gli adolescenti finiscono per introiettare come modello virile quello del soldato israeliano; o diventano facile preda dei fondamentalisti.
E’ possibile uscire da questa situazione che sembra un cancro della storia in cui viviamo? Certamente non con parvenza di accordi come quello di Annapolis, prontamente sabotato dal governo Olmert e comunque poco più che ovvio a una pace posticcia. Soltanto una profonda mutazione dell’opinione pubblica mondiale può portare i Grandi a gettare la maschera di una falsa diplomazia: a garantire insieme la sicurezza di Israele e il ristabilimento dei diritti dei palestinesi a vivere in piena libertà. Come dice John Dugard, Commissario speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Palestina, “I territori occupati palestinesi hanno una speciale importanza per il futuro dei diritti umani nel mondo. Non ci sono altri casi di regimi occidentali che negano il diritto all’autodeterminazione ed ai diritti umani ad un popolo in via di sviluppo e che lo fanno per così tanto tempo. Questo spiega perché i Territori Occupati sono diventati un test per l’Occidente. Se l’Occidente, che è assurto a guida nella promozione dei diritti umani nel mondo, non dimostrerà un reale impegno per i diritti umani palestinesi, l’intero movimento internazionale per i diritti umani, che può rivendicare grandi successi nella comunità internazionale negli ultimi 60 anni, sarà messo in pericolo”.
Queste parole riguardano anche noi, perché il silenzio e l’inerzia sono complicità. E allora, io credo, è necessario che ciascuno di noi, nei modi che gli sono possibili (politici, culturali, economici) si impegni alla diffusione di una cultura della pace senza pregiudizi. In Israele e in Palestina sono al lavoro, spesso vincendo giorno dopo giorno difficoltà enormi, gruppi, più numerosi di quanto i media registrino, di israeliani e di palestinesi che si muovono in fraternità sui sentieri del dolore e di una eroica speranza. Conoscere questi gruppi significa respirare onestà, tenerezza, forza morale, coraggio, creatività. Alcuni di essi sono palestinesi, altri israeliani, altri ancora non si definiscono con nomi di nazione. Dobbiamo misurare anche sul rapporto con loro la nostra volontà di essere protagonisti della storia piuttosto che servi del cinismo di chi vuole decidere per tutti.
ettore masina