Era uno di quelli

di Vincenzo Andraous

Su un quotidiano c’era un articolo posizionato in modo da esser letto poco e male, diceva che nella parte abbandonata di un Ferrotel,  era stato trovato sopra un materasso lacero e sporco, un extracomunitario privo di vita.
E’ trascorsa una settimana per scoprire nei sotterranei di una mensa-accoglienza, il corpo senza  vita di una persona, di un ultimo perfino nella malattia.
E’ quanto meno indecente che un episodio del genere passi sotto silenzio, come fosse la risultanza  di un dazio collaterale da mettere in conto, da sopportare e digerire, a fronte di un’inondazione dell’essere “diverso”, che tanto fa adirare  e imprecare chi in casa propria non ha più diritto di vivere in sicurezza.
E’ formidabile l’atteggiamento indifferente e anche intimidatorio dei mass-media, quando intendono cavalcare la tigre nazional-popolare, che vorrebbe le strade pulite, mai più auto in doppia o tripla fila, ma anche e soprattutto poter mandare a quel paese il vigile che redige l’eventuale sanzione.
Indifferenza come strumento di difesa al dilagare della minaccia incombente, del bisogno di sicurezza e protezione, indifferenza verso chi muore senza fare baccano, verso chi disturba da vivo e finalmente diparte senza più scocciare alcuno.
E’ indifferenza a voler allontanare un peso, un carico, perfino il ritaglio di un giornale, è fastidio per quanti s’affannano a non volersi mischiare nelle differenze, quelle che tracciano un confine alle parole spese male, avvinghiate con il filo spinato delle bugie, quelle che non concedono scampo, non consegnano giustizia, invece lacerano disponibilità e buoni sentimenti, menzogne come gli atteggiamenti mentali volutamente disattenti.
E’ morto un immigrato, non un clandestino, un uomo in possesso del necessario permesso di soggiorno, con i requisiti richiesti ben conservati al fondo delle tasche.
Intimidazione mascherata dalla tragicità dell’evento, perché nelle poche righe a epitaffio, c’è malcelata e irriverente la stoccata alla cultura dell’accoglienza, verso quella politica eretta a  norma da rispettare, nei riguardi della fede e delle fratellanze allargate, c’è intimidazione  oltre che indifferenza, nella facilità con cui dividiamo, sommiamo, per meglio rendere conforme e accettabile un onere fastidioso.
“Lavora e non commettere reati, il resto è affar tuo, chiaramente anche il morire, nel massimo rispetto della pace altrui”.
Un piccolo articolo a margine, in fin dei conti se ne è andato uno dell’est, uno di quelli regolari, che fatica davvero nei cantieri, nelle fabbriche, uno di quelli che non ha creato disturbo precario, né problemi all’imprenditore di turno per qualche sfortunato incidente.
Uno di quelli che non intaccava la libertà degli altri, di coloro che neppure lo vedevano, un uomo invisibile, di quelli usati per le braccia sempre pronte all’alzo, quelli delle otto ore di lavoro, e delle altre più dure, a comando.
E’ morto uno di quelli che non  consumava la cena in famiglia, lavorava di giorno e arrancava la notte nel sonno, nel tentativo di rimettere insieme qualche nuova speranza.
Della sua storia personale, della sua dignità e di noi stessi sparsi all’intorno, non interessa a nessuno.

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Monaci o popolo del Tibet

di Enrica Collotti Pischel*

Sul Tibet esiste una pessima informazione, specie in questi giorni in cui la regione è all’onore delle cronache. Per fare un minimo di chiarezza sulla questione tibetana, riportiamo questo articolo della celebre sinologa Enrica Collotti Pischel, scomparsa nel 2003. L’articolo fu pubblicato da Il manifesto il 9 gennaio 2000. Naturalmente, narrare gli antecedenti e liberarli dalle speculazioni non significa legittimare la repressione violenta delle attuali autorità cinesi contro la protesta tibetana. Ringrazio l’amico Roberto Sassi per la segnalazione.] (V.E.)

La notizia della fuga dalla Cina del giovanissimo Lama Ugyen Trinley Dorje, terza autorità nella gerarchia delle reincarnazioni del buddhismo tibetano è stata ritenuta molto ghiotta dai giornali italiani e viene considerata un grave scacco per il governo cinese che non sarebbe riuscito a impedirla, nonostante il proprio apparato militare.

Quest’interpretazione ignora che i cinesi non hanno mai fatto nulla per fermare la fuga dei rappresentanti politici e religiosi tibetani dalla Cina: nel 1959 l’intera classe dirigente tibetana, con alla testa il Dalai Lama, si allontanò da Lhasa con una lunga fuga a piedi, nonostante il pattugliamento degli aerei da combattimento cinesi. Fa parte della politica delle autorità cinesi il pensare che gli avversari è sempre meglio tenerli fuori del paese che dentro, meglio lontani dai loro adepti che vicini. Se poi le circostanze equivoche di quest’ultimo episodio – cioè la mancata condanna di Pechino – possano far pensare a ipotesi di contatti con il Dalai Lama e di trattative di conciliazione, è difficile dirlo ora. Certamente il fatto che la grande organizzazione propagandistica che negli Stati Uniti (ma anche in Europa e nello stesso nostro scafato e realistico paese) sostiene la causa dell’indipendenza tibetana si sia buttata sull’episodio, non rende certo facile un’intesa: i cinesi sanno fare molto bene i compromessi e sono disposti a concluderli quando siano convenienti. Ma ritengono che debbano essere cercati e raggiunti con la massima discrezione e comunque al di fuori di pressioni che li possano far apparire come una resa a pressioni straniere. E non dimentichiamo mai che “straniero” per l’intera Asia orientale nell’ultimo secolo e mezzo ha significato umiliazione e asservimento: di essa fece parte anche il tentativo pi volte condotto di staccare il Tibet dalla Cina.

Il più povero

Molte cose dovrebbero essere dette a proposito del mito del Tibet che ha preso piede, anche nei ranghi della sinistra. Dal cinematografico Shangri-la, al di fuori del tempo, dello spazio e del clima, alle ovvie seduzioni di turismo “estremo”, dalle tendenze a vedere esempi validi in civiltà rimaste primitive e tagliate fuori dal processo della storia, alla sistematica disinformazione diffusa da potenti mezzi mediatici statunitensi e al fascino che sugli occidentali delusi esercitano le religioni e le ideologie esotiche ed esoteriche, tutto confluito in un’affabulazione della quale sono stati vittime in primo luogo proprio i tibetani.
Certamente sono uno dei popoli più poveri del mondo, esposti a molteplici forme di oppressione: tra esse quella cinese è stata con ogni probabilità meno gravosa di quella esercitata dai monaci e dagli aristocratici, dei quali i pastori e i contadini erano fino al 1959 “schiavi”, nel senso letterale del termine, in quanto sottoposti al diritto di vita e di morte dei loro padroni. Che poi tutti, ma con ben diverso vantaggio, trovassero conforto nel ricorso a una delle forme più degradate di buddhismo (il buddhismo tantrico tibetano popolato di fantasmi e di incantesimi ha ben poco a che vedere con la meditazione intellettuale e la creatività artistica dello Zen), si può anche comprenderlo.
Per fare un minimo di chiarezza è necessario comunque precisare alcune cose. Il Tibet non è stato “conquistato dalla Cina comunista nel 1950”: dopo precedenti più discontinui rapporti, fu conquistato dall’impero cinese nella prima metà del secolo XVIII, e da allora è stato considerato parte dello stato cinese da tutti i governi della Cina, anche dal Guomindang. La Cina (in cinese “Stato del Centro”) è stato ed è uno Stato multietnico nel quale è in corso da millenni un processo di trasferimenti di gruppi etnici e soprattutto di fusione dei gruppi periferici entro quello più importante, che rappresenta nove decimi dei cinesi ed è sempre stato capace di offrire ai suoi membri una maggiore prosperità e i benefici di una cultura più concreta. Mettere in discussione la natura multietnica della civiltà e dello Stato cinesi significherebbe mettere in moto la più spaventosa catastrofe degli ultimi secoli. Quella praticata dalla Cina non è mai stata una politica di “pulizia etnica”, bensì di fusione entro un insieme non etnico ma contraddistinto da una comune cultura e da comuni pratiche produttive: più che sterminarle, i cinesi hanno comprato le minoranze.
E’ vero che i tibetani per ragioni geografiche sono, entro lo “Stato del Centro”, il gruppo più lontano dalla comune cultura, però da 250 anni sono stati sempre governati da funzionari cinesi nominati dal governo centrale: giuridicamente e istituzionalmente ciò ha un senso. Gli inglesi, all’apice del loro potere sull’India all’inizio del secolo XX, intrapresero, tuttavia, una serie di manovre per staccare il Tibet dalla Cina e porlo sotto la loro influenza, giungendo, nel 1913, a convocare una conferenza a Simla nella quale le autorità tibetane cedettero vasti territori all’India britannica. Nessun governo cinese ha mai accettato la validità di quella conferenza. Nel periodo precedente il 1949 il governo del Guomindang considerava il Tibet, a pieno diritto, parte del proprio territorio, tanto che durante la Seconda guerra mondiale concedeva il diritto di sorvolo agli aerei alleati.

Il ruolo della Cia

Non ha quindi alcun senso dire che la Cina conquistò il Tibet nel 1950; nel 1950 le forze di Mao completarono in Tibet il controllo sul territorio cinese; nel 1951 fu raggiunto un accordo con il Dalai Lama per la concessione di un regime di autonomia. Verso il 1957, nel pieno dell’assedio statunitense alla Cina, i servizi segreti inglesi e americani fomentarono una rivolta dei gruppi di tibetani arroccati sulle montagne delle regioni cinesi del Sichuan e dello Yunnan, lungo la strada che dalla Cina porta al Tibet. I cinesi repressero certamente la rivolta con pugno di ferro: nelle circostanze internazionali nelle quali si trovavano e nel loro contesto etnico non era razionale pensare che si comportassero diversamente. Alla fine del 1958 i servizi segreti inglesi annunciarono che, all’inizio del 1959, la rivolta si sarebbe trasferita a Lhasa e avrebbe cercato l’appoggio del Dalai Lama. Ed è infatti ciò che avvenne: sullo sfondo della rivolta, il Dalai Lama dichiarò decaduto l’accordo per il regime autonomo e fuggì con la maggioranza della classe dirigente tibetana in India, dove costituì un proprio governo in esilio e il proprio centro di propaganda. Nessun governo al mondo ha riconosciuto questa compagine. Recentemente la Cia (i servizi segreti americani sono infatti obbligati a rendicontare prima o poi le loro spese di fronte ai contribuenti) ha ammesso di avere finanziato tutta l’operazione della rivolta tibetana.

Pechino: autonomia no

Dopo il 1959 il governo cinese spossessò monasteri e aristocratici e “liberò gli schiavi”, iniziando una politica di modernizzazione forzosa (vaccinazioni, costruzione di opere pubbliche) e di formazione di una classe dirigente locale, figlia di schiavi, sottoposta a un bombardamento educativo razionalista e anti-religioso. Furono questi giovani che durante la rivoluzione culturale distrussero templi e monasteri.
Dopo la morte di Mao, i governanti cinesi hanno cercato di ristabilire i rapporti con i tibetani, migliorando le sorti economiche dell’altipiano ma importando anche gran numero di cinesi, non solo militari. Hanno anche trattato indirettamente con il Dalai Lama, che – politico asiatico molto scaltro – non chiede l’indipendenza, ma una più o meno larga autonomia: Pechino non ha mai tuttavia voluto concedere un reale autogoverno, che aprirebbe rischi di secessione e metterebbe in discussione tutti i rapporti etnici del vasto paese. Alle spalle del Dalai Lama si è sviluppato, intanto, un vasto insieme di interessi della classe dirigente tibetana che ormai è nata all’estero e vi ha ricevuto una formazione culturale moderna: è questa che chiede un’indipendenza che potrebbe essere ottenuta solo con una guerra spietata alla Cina e potrebbe essere innestata dal reclutamento di giovani guerriglieri in India – segnali “terroristici” in questo senso ci sono già stati. Erano proprio dissennati i governanti cinesi che ritenevano che l’attacco alla Serbia, motivato dalla difesa dei “diritti umani” in Kosovo, fosse in effetti la prova generale di un attacco alla Cina?

Carmilla, 25 marzo 2008

Monaci o popolo del Tibet di Enrica Collotti Pischel. Il manifesto il 9 gennaio 2000

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Donne nel dopoguerra

Un catalogo fotografico per la storia del Centro italiano femminile
di Gianna Proia

Un volume per dare una memoria storica visiva al Centro Italiano Femminile. A cura di Fiorenza Taricone è stato pubblicato di recente il catalogo fotografico dal titolo Donne nel dopoguerra. Il Centro Italiano Femminile 1945-2005: una storia per immagini.

Fiorenza Taricone, è studiosa da tempo dell’associazionismo in Italia tra l’Ottocento e Novecento e dell’evoluzione dei diritti civili e politici. Tra i tanti volumi di cui è stata autrice, Teresa Labriola: biografia politica di un’intellettuale fra Ottocento e Novecento, Ausonio Franchi: democrazia e libero pensiero nel XIX secolo, Isabella Grassi (diari 1920-21). Associazionismo e modernismo, Teoria e prassi dell’associazionismo italiano nel XIX e XX secolo; l’ultimo in ordine di tempo ha riguardato la figura di un appartenente al pensiero sansimoniano che svolse un ruolo cruciale nel movimento di liberazione femminile nella Francia del primo Ottocento: Il sansimoniano Michel Chevalier: industrialismo e liberalismo, pubblicato lo scorso anno.

In quest’ultimo volume, la curatrice ha ripercorso, come rivela il titolo, la storia, le tappe fondamentali del CIF attraverso le immagini, tanto da costruire un excursus storico per immagini dell’associazione dalle origini alla contemporaneità. “In primo luogo – ha precisato – si vuol far parlare le immagini. In secondo luogo, visualizzare l’intreccio teorico e operativo della sua azione. In terzo luogo, evidenziare i rapporti collaborativi con quegli uomini e quelle donne che tanta parte hanno avuto nella storia della Repubblica”.

F. Taricone con molta precisione ha illustrato le nove sezioni in cui è stato diviso il catalogo, dando la possibilità alle lettrici e ai lettori di rivivere avvenimenti, rivedere volti di persone che hanno segnato le tappe più significative del cammino: Angela Cingolati Guidi, Maria Unterrichter Jervolino, Tina Anselmi, Maria Federici solo per fare qualche nome, donne della Costituente quindi, della Repubblica, dell’associazionismo.

La prima sezione è dedicata alle linee direttive del Centro Italiano Femminile, esplicitate nello statuto elaborato nel settembre 1944, la seconda mette in evidenza l’impegno sociale e politico, come si configura attraverso l’elaborazione dei primi statuti e l’azione in merito alla condizione femminile.

I compiti a cui le donne erano chiamate a impegnarsi erano contenuti in un opuscolo “sorto dalla necessità di raggruppare e coordinare le forze femminili di attiva e franca professione cattolica, in vista dei grandi compiti morali, sociali e civili che la pace affiderà alla responsabilità della donna italiana”. La donna doveva, quindi, essere pronta a sostenere principi morali e sociali, a difendere la famiglia, e a contribuire alla ricostruzione del Paese.

Dedicata al lavoro è la terza sezione che illustra le tante attività lavorative che impegnavano quotidianamente le donne. “Il Cif ha avuto il merito di sapersi distaccare da una visione originaria cara agli ambienti cattolici non progressisti della donna lavoratrice che, in quanto tale, sarebbe stata di disgregazione dell’unità familiare. Pur dando la precedenza a quest’ultima, erano riconosciuti alle donne i meriti del doppio lavoro, svolto in casa e fuori, e il valore economico di uno stipendio aggiuntivo, anche se quello del capofamiglia restava la fonte di reddito primaria”. Il volume contiene foto che mostrano le diverse attività che impegnavano le donne: i lavori sartoriali, le donne al telaio, le tipografe, le donne che svolgevano lavori in muratura, le venditrici di agrumi e di vino, le impagliatrici, le donne che lavorano in miniera, fino ad illustrare le prime due donne commissari di polizia: Anna Maria Jannuzzi Coniglio e Francesca Milillo Taldone.

“Con il progredire della scolarità femminile – ha sottolineato F. Taricone – si riconoscono via via anche le ambizioni professionali e intellettuali delle giovani generazioni, che cercano di farsi spazio in un mondo lavorativo a totale dimensione maschile. Il Cif affianca le iniziative di numerose associazioni femminili e soprattutto azioni legislative tendenti a capovolgere le discriminazioni cui erano fatte oggetto anche donne provviste di curriculum e titolo di studio adeguato”. Il Cif cambiò anche la visione della famiglia “vista non solo come luogo di conservazione e riproduzione di valori, ma anche e soprattutto come luogo di solidarietà e di apertura alla società”, con una modificazione dei ruoli maschili e femminili, genitoriali e affettivi. L’idea di indissolubilità della famiglia portò comunque il Cif a schierarsi contro i progetti di legge divorzisti a partire dagli anni Sessanta.

“Dell’attenzione all’istituzione familiare è testimonianza sia il lavoro assiduo di studio che il Cif dedica alla riforma del diritto di famiglia, sia l’interesse per i consultori come strutture di sostegno; infine, il Centro incontra nelle sue riflessioni sulla famiglia anche quelle legate alle politiche sulle pari opportunità, attinenti alla conciliazione dei ruoli e dei tempi all’interno delle famiglie, con il coinvolgimento inevitabile della partnership maschile, operando negli organismi preposti quali la Commissione Nazionale per le Pari Opportunità fin dal suo nascere con la presenza di Alba Dini, presidente del Cif dal 1997 al 2003, e di Maria Chiaia, presidente dal 1988 al 1997. (15) A chiudere la sezione sono due foto che ritraggono rispettivamente una manifestazione di uomini e donne medico e un corteo di lavoratori e lavoratrici a Roma negli anni Settanta.

La quarta sezione è dedicata al settore dell’educazione, la quinta illustra l’impegno profuso nella società civile e politica, la sesta pone l’attenzione alle generazioni del futuro e il cammino dell’idea d’Europa, la settima delinea i momenti più significativi delle udienze papali, l’ottava è dedicata alla cura della memoria storica e la nona al materiale tratto dal periodico del Centro Italiano Femminile.

L’attenzione del Cif andava, quindi, dall’educazione, al lavoro, dai giovani alla famiglia fino all’idea di Europa. Nel V Congresso nazionale dedicato all’Educazione della donna, alla conoscenza dei suoi doveri e diritti del 1953 il catalogo mostra l’on Maria Federici. In una foto compare lo stendardo del Cif con il motto che era stato di Santa caterina da Siena, patrona del dell’associazione: “Non si dorma più che noi siamo chiamati e invitati a levarci dal sonno. Dormiremo noi nel tempo che i nemici nostri vegliano?”.

Il Cif promuoveva incontri, dibattiti, cicli di conferenze per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni rilevanti e il catalogo ha ripercorso attraverso le immagini le tappe dell’evoluzione di un pensiero e di un impegno che ha sviluppato il Centro in modo originale, ispirandosi con lungimiranza all’idea di una democrazia solidale e paritaria.

“Le immagini – ha sottolineato F. Taricone – riflettono ciò che era realmente nelle intenzioni del Centro: l’agire come un segnalatore delle conquiste, ma anche dei nodi della modernità e della contemporaneità, dell’importanza del quotidiano in cui erano tollerate eccessive disparità sociali a danno dei deboli e dei non protetti; ciò restituisce a noi oggi, attraverso una testimonianza tangibile come la fotografia, una ulteriore possibilità di conoscenza e di riflessione su un passato che in termini di realtà è prossimo, ma appare più remoto e meno afferrabile di quanto la vicinanza del tempo faccia credere” .

Taricone Fiorenza (a cura di), Donne nel dopoguerra. Il Centro Italiano Femminile 1945-2005: una storia per immagini. – Roma: Edizioni Studium, 2005.

il paese delle donne, 23 marzo 2008

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Fine pena mai: giustizia al collasso

di red

Chi pensa che farsi i fatti propri e non aver mai messo piede in un tribunale basti a non scontare l’inefficienza del sistema giudiziario italiano si sbaglia. Il crac della giustizia insegue tutti i cittadini fin dentro casa e invade la loro vita quotidiana.

Questo libro è una visita guidata in un sistema crollato. Un viaggio capillare da Nord a Sud nelle aule giudiziarie, nei corridoi dei tribunali, nei bilanci ministeriali, nel lavoro di magistrati, avvocati, del personale amministrativo, nella perversione e nella proliferazione di leggi che sono fatte ad arte per aggravare questo stato di cose.

Viviamo in uno dei Paesi con la più elevata spesa pubblica nel settore della giustizia. Una macchina giudiziaria che consuma più di 7,7 miliardi di euro l’anno, eppure nei tribunali mancano le penne, la carta, i computer, l’inchiostro per le stampanti, le fotocopiatrici. Abbiamo lo stesso numero di giudici, eppure in Italia i processi durano più a lungo che in ogni altro Paese d’Europa.

Una media di cinque anni per decidere se qualcuno è colpevole o innocente. Sette anni e mezzo per un divorzio. Due anni per un licenziamento in prima istanza. Otto per dare ragione o torto in una causa civile.

Una lentezza e un’inefficienza che il cittadino paga anche quando stipula un mutuo o accende un conto in banca a condizioni più onerose che nel resto d’Europa; quando si imbatte nelle difficoltà di recuperare un credito; quando subisce un infortunio sul lavoro; quando sconta l’inefficienza delle condanne ai delinquenti.

Basti pensare che ogni anno nelle carceri italiane entrano 90.000 persone e ne escono 88.000 e che a Milano due mani mutilate sul lavoro valgono 200.000 euro meno che a Roma. Una giustizia a pezzi in un Paese spaccato.

Luigi Ferrarella scrive di cronaca giudiziaria per il Corriere della Sera. Nel 1997 ha pubblicato L’intruso (Limina). Nel 2005 ha vinto il premio giornalistico Livio Zanetti e nel 2007 il Premiolino.

Fine pena mai
L’ergastolo dei tuoi diritti nella giustizia italiana
di Luigi Ferrarella
Ed Il Saggiatore

Osservatorio sulla legalita’, 20 marzo 2008

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A proposito di una occupazione

di Ettore Masina

Quando in una piazza o in una sala si leva accanto a me il canto, così suggestivo, di “Bella ciao”, mi capita di pensare che soltanto noi vecchi siamo in grado di comprenderne sino in fondo il significato: perché una ragazza, destandosi da un profondissimo sonno e trovando che il suo paese è stato invaso da un esercito straniero, si “senta di morire”. E’ difficile – e forse impossibile – a chi non l’ha provata immaginare la ferocia di un regime di occupazione. Occupazione non significa soltanto guerra perduta ma anche perduta identità. Ti sembra di non avere più patria poiché i confini che la delimitavano sono stati violentemente abbattuti e i luoghi che ti sono cari sono diventati terra di conquista. I maschi del tuo popolo vinto (quelli che non sono morti o prigionieri in “campi” lontani) sono trasformati in lavoratori senza diritti,  o profughi miserabili; mogli sorelle o figlie non possono più sentirsi difese dalla possibile violenza dei vincitori; inermi si sentono i bambini davanti a padri di cui ogni giorno vedono umiliata la dignità. Le leggi che vengono emanate sono fatte per il benessere e la sicurezza degli occupanti, non dei cittadini. I raccolti e le produzioni industriali  sono bottino di guerra e i generali nemici decidono se e in quale quantità possono essere distribuiti agli sconfitti. Le piazze in  cui giocavano i bambini, i parchi in cui passeggiavano gli innamorati, i ristoranti delle allegre tavolate,  i teatri in cui si narravano le bellezze della vita o i suoi drammi, ogni luogo pubblico, insomma, è sfregiato dalla presenza di stranieri armati. Vi sono scuole (molte scuole) trasformate in bivacchi delle forze d’invasione; e case requisite e  vie sbarrate e zone interdette. Le rovine lasciate dai combattimenti non vengono riparate. Accade che intere popolazioni debbano lasciare i luoghi in cui vivevano, espulse dalla violenza armata o da una fonda paura. Che posti di blocco infestino le strade e impediscano ai vinti di svolgere  i propri commerci o, peggio ancora, di riunire le famiglie o di mantenere i collegamenti fra parenti o di accedere rapidamente a luoghi di cura. Che in alcune zone tutti gli alberi vengono abbattuti, “per ragioni di sicurezza”. Le notti sono anticipate e prolungate dai coprifuoco; in quell’eternità di buio si sentono i passi cadenzati delle ronde e di quando in quando vengono dalle strade rumore di spari, grida concitate, alti lamenti. Chiudendo la porta, la sera, sai che potrebbe essere abbattuta da qualche pattuglia venuta a prenderti per potarti chissà dove.
Occupazione vuol dire terrore. Non è soltanto che tutti i diritti sembrano cancellati, è che puoi da un momento all’altro essere punito per ciò che un altro ha fatto: la punizione collettiva, la rappresaglia devastano ogni logica, ogni innocenza, e ogni diritto. Sei immerso nell’arbitrio del dominante, che, se qualcuno osa ribellarsi,  non occhio per occhio pretende ma dieci occhi per ogni occhio dei suoi ferito o spento.

E’ in questo modo che da cinquant’anni vivono i palestinesi dei territori occupati.

Il terrorismo non ha mai giustificazioni: è una perversione mortifera. Come le punizioni collettive decise dagli occupanti, colpisce innocenti e dunque devasta ogni giustizia. E’ odio che genera odio. E’ delitto insensato, patologia criminale. Guardo una fotografia scattata sul cortile della scuola rabbinica di Gerusalemme. C’è un ragazzo morto, che mi pare identico a mio figlio quando aveva quindici anni. Provo un senso di lutto che mi sconvolge. Non  ci si può, non ci si deve, mai, abituare a queste gioie di vivere affogate nel sangue.

Penso, anche, che non si possa, non si debba, mai, dimenticare come vivono, da cinquant’anni, i palestinesi. Se si eccettua la tragedia irlandese, non c’è, nella storia contemporanea, esempio di occupazione  (= oppressione ) durata tanto a lungo e tanto a lungo tollerata dall’opinione pubblica internazionale. L’orrore della Shoah sembra nascondere con le sue tenebre la storia della nabka, la violenza perpetrata ai danni di questo popolo arabo, chiamato a pagare le colpe degli  europei. Migliaia di pagine sono state scritte dall’ONU a proposito della tragedia palestinese ma si direbbe che nessuno le abbia mai lette. Perché tacerlo? Il nostro razzismo non è soltanto un’infamia che ha massacrato per secoli il popolo ebraico, il nostro antisemitismo continua a stravolgere anche la nostra visuale di quell’altro popolo semitico che è il popolo arabo. Non dobbiamo dimenticarlo: noi italiani siamo stati colonialisti e del colonialismo abbiamo conservato la capacità di velenoso disprezzo per i non-europei.  Gli arabi come gente primordiale, insensata, feroce, ignorante, sporca: questi clichès appartengono alla cultura di noi vecchi ma sono passati anche ai nostri figli. E chi è riuscito a evadere dall’infamia dell’antiebraismo ha finito ben presto per pensare Israele come avamposto della civiltà occidentale nel Medio Oriente islamico.
Le capacità imprenditoriali e la finezza della cultura israelitica hanno fatto sì che una gran parte dei mass-media mondiali siano proprietà di ebrei, e perciò apertamente schierati “a favore di Israele”. Film come “Exodus”, tanto per fare un esempio, hanno immensamente giovato a Israele, illuminando di una luce sacrale, di epopea politica e religiosa la creazione di un nuovo stato, rifugio per un popolo ma dannazione per un altro.  Lo so bene perchè io stesso ho condiviso questa acritica esaltazione … fino a che sono andato in Israele.
E’ quasi incredibile la mancanza di informazioni sulla Palestina che connota il Nord della Terra e l’Italia in particolare. In buona parte si tratta di scelta consapevole: inutile sapere, i palestinesi sono un popolo di serie B. Posso –   e voglio – dare una testimonianza in proposito. Nel 1991 ero presidente del Comitato della Camera per i diritti umani e, su invito dell’agenzia dell’ONU, guidai una delegazione parlamentare a visitare i campi profughi dei territori occupati. Nella delegazione erano rappresentati il PCI il PSI, la DC, l’MSI e Democrazia Proletaria. Compiemmo la nostra missione con (oso dire) grande scrupolo, incontrammo le autorità israeliane e gli organismi non-governativi che si occupavano dei diritti umani, e visitammo uno ad uno tutti  i campi. Compilammo poi una relazione unitaria da distribuire ai mass-media. Il presidente della Commissione Esteri della Camera, Flaminio Piccoli, presiedette la conferenza stampa… Ho detto male: NON presiedette la conferenza stampa, la conferenza non ci fu: non uno (uno) delle decine di giornalisti parlamentari si fece vivo.

Peggio ancora: non solo mancanza di informazione ma propaganda di odio. In quell’epoca, Marco Pannella accusò l’Intifada di ogni crimine. Nei campi profughi i militari israeliani avevano ucciso alcuni bambini palestinesi: nella sua abituale esagitazione filoisraeliana, il leader radicale arrivò a gridare nell’aula di Montecitoro che c’era qualcuno che aveva spinto quei piccoli contro i soldati “per avere ogni sera un bollettino sanguinoso da esibire”. Quando, nel corso di una trasmissione da Costanzo, gli contestai quell’infamia, Pannella disse che “anche in Francia, se la polizia spara alle gambe dei dimostranti può colpire dei bambini”. Se e dove la polizia francese avesse ucciso dei bambini, Pannella non lo disse.

Sì, è difficile mantenersi freddi nel valutare la tragedia dell’occupazione dei territori palestinesi. La missione parlamentare da me presieduta firmò allora una relazione in cui si dichiarava che Israele violava costantemente i diritti umani della popolazione. Certamente, crimini venivano commessi anche dai palestinesi, soprattutto nei confronti dei “collaborazionisti”. Ma si poteva e si doveva dire che lo status dell’occupazione negava ogni stato di diritto.

Viaggiando allora per i Territori ci imbattemmo nei segni evidenti della repressione e della rappresaglia: case abbattute dai bull-dozers, scuole devastate, bambini incarcerati, uliveti espiantati per costruire strade riservate ai coloni, università chiuse a tempo indeterminato, devastazione dei viveri distribuiti dall’ONU, posti di blocco sbarrati per ore ed ore anche alle autoambulanze; e l’uso della tortura. Gli organismi non-governativi ci parlarono, a questo proposito, della nuova tecnica dello “scuotimento” : la vittima veniva afferrata per le braccia o per le spalle da un inquisitore particolarmente vigoroso e scrollata furiosamente avanti e indietro, in modo che il cervello “ballasse”, per così dire, nella scatola cranica. Ne conseguivano paralisi, tremori permanenti, distorsioni, gravi disturbi nervosi, quando non la morte.

Tutto ciò avveniva sedici anni fa. Da allora l’occupazione è rimasta e i tentativi di negoziato sono falliti, in parte per insipienza di alcuni capi palestinesi, ma prevalentemente per  volontà del governo di Israele di portare gli avversari all’estenuazione delle loro forze economiche e politiche prima di concedere loro uno stato, destinato così all’inermità, alla mendicità e all’insignificanza. E non è retorica dire che il proseguimento dell’occupazione e delle sue tecniche sta operando una vera e propria mutazione antropologica dei due popoli, in senso regressivo. I  razzi che Hamas lancia verso le città israeliane di Sderot e Ashqelon colpendo alla cieca la popolazione, macchiano la storia della resistenza palestinese. La rappresaglia israeliana (il  blocco dei confini della Striscia, con l’affamamento della popolazione e poi le stragi e le devastazioni compiute nelle scorse settimane a Gaza) infangano le bandiere dell’esercito israeliano.
Dall’una e dall’altra parte, gli amanti della dignità umana invecchiano quasi disperando.  Notavo qualche mese fa, recensendo “L’ultimo  comandante” di Abraham B. Yehoshua: “Una sorta di sfinimento psicologico e morale pervade questo bel libro di racconti. La perpetuazione della follia medio-orientale e della occupazione delle terre palestinesi genera ormai negli intellettuali  israeliani non soltanto un allarme che i politici non hanno raccolto, ma un’ accorata malinconia che pervade tutti i rapporti sociali, anche quelli più intimamente familiari”. Adesso Yehoshua è venuto in Italia e ha confermato questa desolazione.
Nel suo libro appena uscito in  italiano con il titolo “Fuoco amico” compare la figura di un israeliano fuggito in Africa perché non riesce più a sopportare le tensioni e le tragedie che derivano dall’occupazione. Dal canto loro, gli psicologi palestinesi parlano delle perversioni che le violenze generano nei bambini e negli adolescenti: di fronte all’inermità dei padri e alle umiliazioni  che essi  subiscono, gli adolescenti finiscono per introiettare come modello virile quello del soldato israeliano; o diventano facile preda dei fondamentalisti.

E’ possibile uscire da questa situazione che sembra un cancro della storia in cui viviamo? Certamente non con parvenza di accordi come quello di Annapolis, prontamente sabotato dal governo Olmert e comunque poco più che ovvio a una pace posticcia. Soltanto una profonda mutazione dell’opinione pubblica mondiale può portare i Grandi a gettare la maschera di una falsa diplomazia: a garantire insieme la sicurezza di Israele e il ristabilimento dei diritti dei palestinesi a vivere in piena libertà. Come dice John Dugard, Commissario speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Palestina,  “I territori occupati palestinesi hanno una speciale importanza per il futuro dei diritti umani nel mondo. Non ci sono altri casi di regimi occidentali che negano il diritto all’autodeterminazione ed ai diritti umani ad un popolo in via di sviluppo e che lo fanno per così tanto tempo. Questo spiega perché i Territori Occupati sono diventati un test per l’Occidente. Se l’Occidente, che è assurto a guida nella promozione dei diritti umani nel mondo, non dimostrerà un reale impegno per i diritti umani palestinesi, l’intero movimento internazionale per i diritti umani, che può rivendicare grandi successi nella comunità internazionale negli ultimi 60 anni, sarà messo in pericolo”.

Queste parole riguardano anche noi, perché il silenzio e l’inerzia sono complicità. E allora, io credo, è necessario che ciascuno di noi, nei modi che gli sono possibili (politici, culturali, economici) si impegni alla diffusione di una cultura della pace senza pregiudizi. In Israele e in Palestina sono al lavoro, spesso vincendo giorno dopo giorno difficoltà enormi, gruppi, più numerosi di quanto i media registrino, di israeliani  e di palestinesi che si muovono in fraternità sui sentieri del dolore e di una eroica speranza. Conoscere questi gruppi significa respirare onestà, tenerezza, forza morale, coraggio, creatività. Alcuni di essi sono palestinesi, altri israeliani, altri ancora non si definiscono con nomi di nazione. Dobbiamo  misurare anche sul rapporto con loro la nostra volontà di essere protagonisti della storia piuttosto che servi del cinismo di chi vuole decidere per tutti.

ettore masina

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