È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice. È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza.
Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.
È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore.
Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.
I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere.
Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale.
È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.
Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra. La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra.
E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli
«non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon),
la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte.
Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia? Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare» (Krenak).
Oggi, di quale Europa stiamo parlando? Europa di pace o Europa di guerra? Europa armata, o Europa disarmata? Europa che investe in armi tagliando il welfare? O Europa che investe in cooperazione tagliando le spese militari? Ci opponiamo alla scellerata decisione di sospendere le regole di bilancio per le spese della difesa armata, facendoci entrare in una economia di guerra. Siamo con gli ucraini. D’accordo, ma come? Dicendogli “vi diamo le armi e combattete” o facendo diplomazia per salvare il salvabile?
Da sempre ripetiamo che non esiste soluzione militare del conflitto: la guerra non la vince nessuno. La scelta armata fatta per difendere l’Ucraina dall’invasione russa, ha portato da 3 anni ad uno stallo evidente, una guerra di logoramento costata da entrambe le parti decine di migliaia di morti e un numero infinito di vedove, orfani e mutilati. La via militare è un fallimento è l’evidenza dei fatti è lì a dimostrarlo.
Nessuno la guerra la vince, la pace invece la possono vincere tutti.
Stessa cosa per quanto accade nella sponda sud del Mediterraneo, l’Europa è pronta a schierarsi per il riconoscimento del diritto di autodeterminazione dei palestinesi come riconosciuto da infinite risoluzioni delle Nazioni Unite, o per gli amici si usa la politica del “doppio standard”, tollerando crimini di guerra, occupazione e pulizia etnica?
Non sono domande provocatorie, sono domande sincere, necessarie, per capire quale Europa dobbiamo ricostruire, quale sicurezza e politica estera vogliamo sostenere.
Il Manifesto di Ventotene, Per un’Europa libera e unita, aveva l’obiettivo di liberare l’Europa, e progressivamente il pianeta, dalle guerre.
“Quale sia il male profondo che mina la società europea è evidentissimo ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri, opprime come un incubo logorante qualsiasi altra attività. Il pericolo permanente di conflitti armati tra popoli civili deve essere estirpato radicalmente se non si vuole che distrugga tutto ciò a cui si tiene di più”. (Altiero Spinelli in Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, 1942).
L’Europa per dimensione e peso economico, per cultura politica, per tradizione storica deve farsi carico di promuovere il rilancio della multilateralità e la collaborazione globale per un futuro comune. Deve dismettere la postura della supremazia e porsi in una posizione di neutralità attiva nella competizione globale. Deve promuovere una “sicurezza condivisa”, e non la “fortezza Europa”, tenuta in piedi con la forza delle armi, con i muri e con politiche economiche restrittive, inique ed ancora fondate sul fossile.
Data la natura altamente delicata della sicurezza, della difesa e della politica estera, l’idea che la costruzione di un complesso militare-industriale europeo possa avere come risultato un rafforzamento dei legami tra gli Stati membri favorendo un miglioramento del consenso, è un tragico errore. Ciò che è certo è che l’Esercito europeo è attualmente solo una giustificazione retorica di decisioni che puntano a spostare ingenti risorse dai compiti civili dell’Unione a fondi a disposizione degli interessi dell’industria militare senza una visione ed un progetto di società per le future generazioni, con il solo risultato di togliere fondi alla coesione sociale ed economica, alla cooperazione ed alla transizione ecologica.
L’Europa deve rimanere uno spazio multinazionale capace di diventare una grande potenza di pace, che faccia i conti con il passato coloniale e con la necessità di porvi rimedio, che escluda la guerra dai propri strumenti politici e che utilizzi la sua grande capacità economica, scientifica e tecnologica per favorire il riequilibrio nella distribuzione delle opportunità e delle conoscenze tra i popoli. La pace è una conquista della politica che si costruisce nel tempo: sappiamo che c’è sempre un’alternativa da poter percorrere al fallimento totale della politica che è la guerra.
Per un’Europa costruttrice di pace e di sicurezza per tutti i popoli:
– L’Europa deve agire come una vera comunità politica, democratica ed economica dentro un sistema multilaterale e non di blocchi politico-militari che competono e si reggono sulla deterrenza militare.
– L’Europa deve avere una propria politica estera fondata sulla cooperazione e sulla costruzione di pace, giustizia e sicurezza condivisa e comune, regolata dal diritto internazionale.
– L’Europa deve rafforzare il modello sociale europeo ampliando l’accesso ai diritti ed alle tutele, destinando le proprie risorse alla difesa civile, alla transizione ecologica alla cooperazione ed al la solidarietà dentro e fuori l’Unione Europea, allargando la sfera di cooperazione (economica, culturale, strategica) per il rafforzamento della democrazia e del raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile a partire dalle aree di vicinato, tanto a Est come a Sud, per poi estendersi al resto del mondo, e non per il riarmo e per l’economia di guerra.
– L’Europa deve praticare una politica commerciale coerente e strumentale alla politica di pace e di sicurezza condivisa: ridurre il divario tra paesi ricchi e paesi poveri; ridurre le diseguaglianze e sconfiggere le povertà e le migrazioni forzate; investire nella transizione ecologica, promuovere stabilità, pace e sicurezza comune.
Così facendo, il concetto di difesa assume un connotato completamente diverso da quello che si sta discutendo, non è più la difesa militare ed il riarmo per difendersi da un nemico o da una invasione, ma è il consolidamento di un sistema di relazioni tra stati che cooperano, regolato dal diritto internazionale e da forti scambi economici, culturali, di interdipendenza e di scambio, con un basso investimento negli eserciti e nelle armi, ed alto investimento nella difesa civile e nonviolenta, nella cooperazione e nel mutuo aiuto.
Rinnoviamo l’invito a portare nelle piazze, ad esporre alle finestre la bandiera della pace che rappresenta questa idea di Europa e che non può essere usata per giustificare la corsa e la spesa al riarmo ed alla guerra, ma per sostenere l’alternativa alle guerre ed alla prepotenza dei più forti, di chi vuole imporre la legge del più forte, dei ricatti, della supremazia. Vale per l’Ucraina, Vale per la Palestina, vale per tutte le guerre che subiscono le popolazioni.
La nostra Europa deve essere un’Europa di pace e di sicurezza condivisa e comune per tutti i popoli.
È il momento di una grande campagna europea per contrastare la corsa al riarmo ed un’economia di guerra.
È un terribile errore liquidare Trump come uno sbruffone psicopatico. Il suo lavoro – ahinoi! – lo sta portando avanti. Non per “fare grande l’America” – questo è quello che vuol far credere ai suoi fan – ma, a suo modo, per salvarla. The Trump sa di essersi impadronito di un impero fragile, “dai piedi d’argilla”, zavorrato da “40 mila miliardi di dollari di debito – poco meno di metà del Pil del mondo, presenti nei portafogli di privati, fondi, banche e banche centrali del pianeta” (vedi Federico Fubini sul Corriere della sera del 17 febbraio) e fa quello che pensa debba fare ogni nazione in un mondo iper competitivo regolato dalla logica ferrea del capitalismo: aumentare la capacità produttiva interna per migliorare la bilancia commerciale, tenere alto il valere della moneta per drenare investimenti dall’estero, colonizzare quanto più possibile altri territori per avere accesso a materie prime a basso costo e per garantirsi mercati di sbocco delle merci marchiate Usa, mantenere la supremazia militare (ma senza sprecarla in conflitti “non strategici” come quello ucraino), mantenere alto il morale del proprio popolo in vista dei salassi che gli saranno imposti (smantellamento del welfare, inflazione, tasse al consumo). Poco altro. A farne le spese sono per prime le persone tenute ai margini del sistema: gli immigranti, quelli che sono dentro i confini fortificati dell’Impero e quelli che non hanno altra alternativa che sperare di entrarci. Per secondi sono le popolazioni delle periferie del Sud globale che cercano di resistere alla rapina delle proprie risorse e del proprio lavoro. Inoltre, – ed è questa la vera novità – ad essere colpiti sono i popoli dei paesi vassalli della costellazione degli stati dell’ex alleanza imperiale nordatlantica che non potranno più godere delle clausole di maggiore favore negli scambi commerciali e nella difesa militare. Infine, ogni essere vivente, umano e non umano pagherà le conseguenze della sfrenata corsa alla predazione della terra, degli oceani, delle foreste, dell’Artico, dello spazio. Ovviamente, per avere le mani libere nella vera competizione globale che l’Impero si gioca con la Cina e gli altri paesi emergenti, The Trumpdeve fare carta straccia di tutti gli accordi, i trattati, i patti di cooperazione internazionale e delle relative istituzioni e agenzie interstatali. L’Onu è il primo della lista. Altro che democratizzazione. Il multipolarismo assomiglia più ad una rissa da saloon che a una danza armoniosa.
Gli Stati Uniti, dopo aver ottenuto tutto ciò che potevano ottenere dalla globalizzazione delle merci e della finanza, sono ora obbligati dalla “stagnazione secolare” dei tassi di profitto a cambiare strada, a rinserrare le fila e provare a ripartire da sé. Per questo hanno bisogno come il pane della retorica patriottica, dei bagni di folla negli stadi, della investitura divina, della reinvenzione della Nazione bianca e di un nuovo grande nemico esterno: la Cina, i Brics e il loro (per ora solo ipotizzato) mezzo di pagamento indipendente dal dollaro per gli scambi internazionali.
No, Trump non è un cialtrone da circo, segue un copione ben studiato, e il trumpismo non è una accolita di sciamani, imbottiti di fake news da canali social e predicatori/trici televisivi/e. Così come le destre-destre europee non sono un rigurgito romantico d’altri tempi. Hanno in testa un disegno di moderna restaurazione dell’”ordine naturale” delle cose: capofamiglia, capofabbrica, capobastone, capi di stato plebiscitati. Forse sono queste cose che accumunano Trump a Putin e, temo, anche a Xi Jinping.
La pericolosa sottovalutazione – da parte dei liberaldemocratici come dei socialdemocratici – dell’avvento delle destre in tutto il mondo dipende dalla rimozione delle ragioni che stanno alla base del loro consenso popolare. Le varie famiglie politiche progressiste e i loro maîtres à penser, ben insediati nelle accademie e nei mass media, sono alla deriva, frastornati e afoni, perché si rifiutano di ammettere la caduta verticale di credibilità e legittimità delle istituzioni rappresentative liberai da loro mitizzate, plasmate e malgovernate. È probabilmente vero: siamo a un passaggio di regime. La lunga golden age del compromesso keynesiano nell’ex Primo mondo è terminata. Siamo entrati nella stag-flation. Non aver preso sul serio e per tempo questa “crisi terminale” (per dirla con Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi, 2024) del modello sociale liberaldemocratico ha inevitabilmente lasciato dietro di sé una marea montante di insoddisfazioni, risentimenti e odi verso le élite al potere. Dalla lenta decomposizione della “post democrazia” (C. Crunch, 2003) è sorto il nuovo mostro della “internazionale bianca” suprematista, nazionalista, patriarcale, neocolonialista, xenofoba, sessista, classista e tecno-modernista – tanto per gettare un po’ di polvere di stelle negli occhi! Fino a che le socialdemocrazie e le liberal democrazie non faranno i conti con le ragioni del loro fallimento – in tutti i campi: socioeconomico, geopolitico e soprattutto ordinamentale – non riusciranno mai a capire e, quindi, a fronteggiare la nuova situazione. Sono crollate le promesse di benessere (ricordate la retorica del “non lasceremo indietro nessuno”?), di esportazione pacifica della democrazia in ogni dove (ma sotto l’ombrello della Nato), di rigenerazione green del pianeta (ma senza eliminare i sussidi ai fossili). Ma ciò che ha smesso di funzionare è stato proprio il sistema della rappresentanza e dei poteri con la consegna delle decisioni pubbliche ai gruppi di potere economico-finanziari transnazionali (le giant corporation americane) e, a cascata, ai faccendieri sotto casa. Il risultato è stato lo smantellamento del sistema delle imprese e dei patrimoni pubblici, la privatizzazione del welfare, politiche fiscali regressive, inattivismo ambientale. Soprattutto, svuotamento e squalificazione delle assemblee elettive, ridotte ad accrocchi di lobbisti.
Siamo giunti così al più paradossale e – questo sì, sorprendente – rovesciamento mentale, prima che politico e geopolitico, sulla questione della guerra in Ucraina. A fronte di una realistica valutazione dell’imperatore The Donald circa l’insostenibile costo della guerra, i vassalli europei, traditi nel loro orgoglio, non trovano di meglio che chiedere soldi ai propri sudditi (leggi: superamento del Patto di stabilità) per comprare più baionette e mandare alla morte ancora più soldati. Se questi sono gli eletti, i custodi dell’ordine democratico, povere liberal democrazie. Non si stupiscano poi se il “popolo sovrano” cerca altre vie per farsi rappresentare.
L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 19 febbraio 2025
Dal 24 al 28 settembre 2025, Gubbio ospiterà l’undicesima edizione del Festival del Medioevo, dedicata al tema “Il viaggio. Pellegrini, viandanti, esploratori”. Un’occasione per sfatare l’idea di un Medioevo statico e raccontare le migrazioni, i pellegrinaggi, i commerci e gli incontri culturali che hanno segnato quell’epoca.
Per cinque giorni, storici, scrittori, scienziati, giornalisti e filosofi animeranno il festival con conferenze stimolanti, affiancate da mostre, mercati, spettacoli, rievocazioni storiche e laboratori didattici per i più giovani.
Tra gli appuntamenti irrinunciabili: la Fiera del Libro Medievale, lo spazio Scriptoria, dedicato alla miniatura e alla calligrafia, e il ciclo “Medievalismi”, che esplora l’influenza del Medioevo sulla cultura contemporanea.
Il festival è organizzato dall’Associazione Festival del Medioevo, in collaborazione con il Comune di Gubbio, con il sostegno di numerosi sponsor e istituzioni culturali.Inizio modulo
Gli uomini sopportano più agevolmente e con minor pena il presente se nutrono buone speranze per il futuro.
Procopio di Cesarea (Carte segrete, VII, Garzanti, 1981, pag. 40)
Qualche giorno addietro Roberto Faure mi ha segnalato un volume scritto da un naturalista (genovese come lui), Alfredo Lucifredi, sul tema della sovrappopolazione umana nel pianeta: Troppi, Codice Edizioni, Torino, agosto 2024. Contiene molti dati statistici, non sempre scontati, e si avvale di una bibliografia assai corposa: senza tuttavia indicare soluzioni, limitandosi piuttosto a porre una serie di problemi irrisolti con i quali, quasi quotidianamente, tutti noi ci troviamo a fare i conti, sia nella vita sociale, sia nello scorrere dell’esistenza personale. Una lunga sequenza di numeri si accompagna ad alcune interviste rilasciate da tecnici, studiosi, attivisti, diversi fra loro per età anagrafica, posizione politica, lingua e nazionalità. Un mosaico composto da tasselli difformi, che tuttavia costruiscono un’immagine non priva di logica armonia. Il decimo capitolo, Niente più figli?, mi ha riportato alla mente il tema dell’estinzione, che Franco Bifo Berardi ha più volte sollevato perché secondo lui deve essere posto al centro delle nostre riflessioni; io, per via di una certa mia resistenza ad una simile ipotesi, mi sono guadagnato qualche affettuosa frecciata ma lo scambio di vedute fra noi non ha minimamente incrinato il nostro rapporto di oltre mezzo secolo. Ebbene, nel decimo capitolo, troviamo l’intervista a Les U. Knight, fondatore nell’ormai lontano 1991 del movimento per l’estinzione umana volontaria, o VHEMT, oggi un tranquillo signore sulla settantina, con modi gradevoli e un tono di voce pacato.
Knight osserva che ci sono due posizioni: ecologia sociale ed ecologia profonda. Lui dichiara di avere scarso interesse per la prima, e di essere orientato verso la seconda, la biosfera terrestre nel suo complesso. E conclude: noi esseri umani siamo il pericolo maggiore e per questo motivo mi sembrò chiaro che la risoluzione del problema passasse attraverso un azzeramento complessivo della crescita della popolazione umana….smettiamo di aggiungere altre persone al nostro totale e andiamo infine all’estinzione. Lasciando da parte un facile sarcasmo o una scontata ironia le questioni che hanno originato un movimento che ha compiuto l’età del Cristo (33 anni) rimangono. Ma, al tempo stesso, non c’è dubbio che nel nostro pianeta, ad oggi, il numero di viventi rimane caratterizzato da crescita costante: 4 miliardi nel 1974, 8 miliardi nel 2022 (erano 7 miliardi nel 2011, in 10 anni un miliardo di nuovi nati!). Le previsioni ritengono che saremo circa 10 miliardi nel 2080 (ulteriore incremento) ma, personalmente, alle previsioni credo poco, specie in questo tempo caratterizzato da progetti sempre più a breve termine; tuttavia l’aumento complessivo degli umani, giorno dopo giorno, è un dato di fatto. E questo neppure il mio amico Bifo può negarlo; e infatti non lo nega, propone invece un altro approccio, che muove dalla constatazione di un calo (pure questo oggettivo) delle nascite nei paesi caratterizzati da maggior sviluppo.
Popolazione che cala, popolazione che cresce
In Italia la popolazione diminuisce e ogni anno la comparazione fra decessi e nascite porta un segno negativo. Gli appelli in favore della procreazione nazionale bianca e cristiana diffusi dal governo neofascista sono rimasti inascoltati; le uniche famiglie con elevato tasso di natalità sono proprio quelle che la coalizione al potere vorrebbe cacciare oltre confine, accentuando in questo modo il calo demografico già inarrestabile. La maggioranza parlamentare non riesce a cogliere la contraddizione in cui si è impantanata, prigioniera di vuote parole d’ordine, incapace di saldare i segmenti separati delle popolazioni metropolitane e rurali e fomentando invece la divisione dentro le comunità. La composizione attuale di una qualsiasi scuola elementare milanese, torinese o romana dovrebbe far comprendere la tendenza; invece prevalgono il rancore ostinato, la nostalgia irrazionale per un mai esistito fascismo di operoso ordine sociale, il sogno irrealizzabile di poter dominare il mondo con prepotenza. Calo demografico e xenofobia, razzismo e fondamentalismo religioso, questi sono gli ingredienti che vanno alimentando in quasi tutti i paesi della vecchia Europa il sostegno alle formazioni di estrema destra; avviene in Spagna, in Austria, in Francia, in Germania, in Ungheria, in Polonia, ovunque disagio (anche psichico) e malessere (non solo sociale) si sono andati radicando, grazie al diffondersi della condizione precaria e alla continuità dei conflitti armati. Il debito statale aumenta, per farvi fronte la scelta è stata (sia a destra sia a sinistra) quella di tagliare la spesa pubblica, così che si è allargata la forbice ricchi/poveri, dilatando la platea degli indigenti. Crisi, guerra e calo demografico non sono prerogativa del vecchio continente; anche Corea del Sud e Giappone hanno intrapreso la medesima via. Gli Stati Uniti, per ora, non ne risentono per via del flusso migratorio, ma Donald Trump sta provvedendo con raffiche di decreti a rimuovere questa anomalia nel mondo sviluppato, segando l’albero su cui sta seduto.
Mentre gli abitanti calano e invecchiano nei paesi ricchi l’incremento demografico prosegue incessante nel resto del pianeta. In Africa il fenomeno dilaga: attualmente il paese più prolifico è il Niger (7,1 figli per donna), seguito dalla Somalia (6,20), e, via via, dalla repubblica Democratica del Congo, dal Sud Sudan, Angola, Tanzania, Zambia. Ma anche alcuni paesi dell’Asia, soprattutto il Bangladesh (da 50 milioni del 1960 ai 180 di oggi), l’Indonesia (da 90 a 280) e il Pakistan (da 33 milioni nel 1947 ai 240 milioni di oggi) non accennano a diminuire il ritmo delle nuove nascite.
Incremento demografico, risorse, migrazione
Specialmente in Africa, ma anche negli altri continenti, l’incremento della popolazione si accompagna ad una diminuzione delle risorse alimentari. In Madagascar (grande il doppio dell’Italia, con 28 milioni circa di abitanti) (erano 7 milioni nel 1970), la carenza di mezzi spinge la popolazione rurale (20 milioni) a deforestare in forme incontrollate, per procurare legna necessaria a cucinare, o allevare zebù, o coltivare riso; l’agricoltura slash and burn rende il terreno argilloso, procurando danni permanenti e causando una sorta di pseudonomadismo (cfr. Kate Thompson, Tavy: slash and burn, Safina Center, aprile 2019). Non deve stupire allora che la contestualità del picco demografico e del dilagare della povertà (spesso vera e propria fame), in un quadro di guerra, epidemie e colonialismo, produca esodi di massa, fuga dalla miseria, conseguentemente flusso migratorio verso le terre che dispongono di risorse. Il conflitto nel Sudan (provocato e gestito da contrapposti stati civili tramite milizie locali) ha determinato uno spostamento (a piedi) di un numero incerto, indicativamente fra 8 e 10 milioni di persone, intenzionate a raggiungere cibo e tetto; più di recente sono ripresi gli scontri militari nella Repubblica Democratica del Congo, fra i ribelli filo Rwanda del Movimento M23 e l’esercito regolare, e, secondo l’ISPI, gli sfollati interni vanno calcolati fra 6 e 7 milioni, privi di mezzi e di prospettive, in balia delle numerose soldatesche regionali. Il territorio al centro della battaglia, quello del lago Kiwu, è ricco di Coltan, materiale necessario per le comunicazioni telematiche e conteso dalle grandi imprese multinazionali. Infatti la situazione è a dir poco ingarbugliata. Il governo della Repubblica Democratica del Congo (paese cristiano per oltre il 90%) è, oggi, uno degli alleati più stretti di Israele, cui vende appunto il coltan, tanto da perorare una sorta di amnistia liberatoria in favore del miliardario Dan Gertler, monopolista storico nel commercio dei prodotti minerari congolesi (dal diamante al coltan), posto sotto sanzione economica americana per scalzarlo dalla posizione e sottrargli l’affare. In questo intrigo di commerci, corruzioni, complotti e stragi si inserisce la tratta dei migranti, in forma di deportazione: il Regno Unito aveva deciso di sistemare in qualche lager del Rwanda gli irregolari espulsi mentre la Repubblica Democratica del Congo, in anticipo su Donald Trump, si era detta disponibile ad ospitare profughi volontari sfollati dalla striscia di Gaza. Entrambi i disegni non si sono realizzati, ma rimangono pur sempre il segnale di quanto intrecciati siano i percorsi di guerra, finanziarizzazione, migrazione, clima, fame, valore.
Il flusso migratorio è inarrestabile, con buona pace di chi sostiene il contrario
Nella città di San Paolo, in Brasile, circa 6 milioni di residenti hanno almeno un ascendente italiano; e nello stato di Espirito Santo gli italiani sono circa 2 milioni, il 60% della popolazione. A New York l’ultimo censimento ne ha contati 3.372.512: sono molti di più di quelli che vivono a Milano o a Roma. Sono il risultato della grande migrazione del XIX secolo.
Ma gli spostamenti di intere comunità sono ben presenti anche nel secolo scorso nella nostra vecchia Europa, causati dall’instabilità politica o dalla guerra mondiale in arrivo. Con la pace di Losanna, nel 1923, oltre un milione di greci ortodossi furono obbligati a lasciare l’Anatolia e a trasferirsi nelle regioni elleniche; percorso inverso fu imposto a circa 350.000 musulmani turchi che abbandonarono le loro case sotto minaccia delle armi. La composizione dei due paesi, sociale e culturale, mutò profondamente per una ragion di stato. Nel biennio 1930-31 l’intera etnia coreana che abitava nella parte orientale dell’Unione Sovietica ricevette ordine di andare a vivere in Kazakistan, al fine di spezzare il legame con il Giappone, che governava la Corea come un proprio dominio. E il mitico Laurent Berija, in vista della guerra contro la Germania nazista, organizzò un gigantesco esodo dei c.d. Tedeschi del Volga (minoranza etnica con radici antiche) nelle repubbliche asiatiche dell’URSS. Toccò poi a ceceni e ingusci, nel 1944, con i soggetti più refrattari al socialismo improvvisamente trasferiti dal Caucaso al Kirghizistan; nella notte fra il 17 e il 18 maggio 1944 i tatari della Crimea vennero accompagnati con grande dispiego di mezzi in Uzbekistan e in Tagikistan, rifondando le singole esistenze in luoghi sconosciuti.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale le potenze vincitrici organizzarono alcuni riposizionamenti etnici. Polonia e Ucraina si scambiarono le rispettive minoranze linguistiche (qualche milione, 400/500 mila morirono durante l’operazione, ma pazienza, sono incidenti che capitano); nelle file degli sconfitti i tedeschi di Boemia, Moravia, Romania e Polonia furono rialloggiati in Germania (anche se l’avevano vista solo in cartolina) mentre gli italiani dell’Istria o della Dalmazia pagarono salato il conto lasciato aperto dal fascismo in quelle zone. Nel 1949, ed è storia ormai recente con ricaduta contemporanea, possiamo ricordare, quali ulteriori esempi, lo sgombero dei palestinesi dall’odierno Israele o la ricollocazione di intere popolazioni nell’India a seguito della nascita di Pakistan e Bangladesh
Queste furono deportazioni, di natura geopolitica, che affiancarono e integrarono il permanere di flussi migratori più tradizionali, ovvero legati alla richiesta di manodopera a buon prezzo da parte delle imprese operanti nel cuore dell’impero: gli operai maghrebini dell’auto in Francia, i messicani in California e in tutti gli USA, i filippini, i cingalesi, gli slavi ….. l’intero pianeta, nel XX secolo, ha registrato un movimento ininterrotto di esseri umani che ha cambiato il volto delle metropoli, non soltanto di quelle occidentali, ridisegnando la nuova composizione sociale. Il vecchio mondo, che i partiti reazionari vorrebbero far rivivere, trasformando il loro sogno in una impossibile realtà, è irrimediabilmente defunto, anche se in molti non lo hanno ancora capito.
Conseguenze della attuale tendenza demografica. Guerra o pace?
In questo primo quarto del XXI secolo gli abitanti della vecchia Terra (dell’orbe terraqueo in cui Meloni nei suoi deliri insegue frotte di scafisti) sono cresciuti a dismisura, fino a superare il traguardo degli otto miliardi. Con l’interessante e significativa eccezione degli Stati Uniti (in piccola parte anche della Francia) nei paesi ricchi il calo delle nascite è assai elevato, tanto che le formazioni elettorali nazionaliste e sovraniste si caratterizzano per una ferma opposizione alla legalizzazione dell’aborto e per le proposte di incentivare a suon di bonus la procreazione (nelle famiglie di bianchi nativi ovviamente). Contraddittoriamente queste posizioni ideologiche raccolgono consenso nelle urne, ma si rivelano fallimentari nei comportamenti concreti: anche nella comunità indigena italiana il numero dei morti continua a superare quello dei partoriti, proseguono dunque la diminuzione e l’invecchiamento. Ma l’ultradestra non demorde.
Negli Stati Uniti l’ultimo censimento decennale del 2020 conferma invece la crescita in termini assoluti, ma al tempo stesso muta la composizione etnica interna. Nel 1945 i bianchi erano il 77,7%, i neri 8,4%, gli ispanici 10,7%, gli asiatici 2,7%; ma nel 2020 i nati dopo il 2012 sono bianchi solo per il 49,6% (per la prima volta non la maggioranza), gli ispanici il 25,9%, gli asiatici il 20,4%, i neri il 13,7%. Fra luglio 2023 e luglio 2024 la popolazione è aumentata di 1% (in Italia -0,3%), 3,3 milioni; nello stesso periodo il saldo migratorio (differenza fra insediati più o meno regolari ed espulsi) risulta essere circa 2,79 milioni. In buona sostanza i vecchi americani calano, la curva demografica rimane in salita per il permanere di una rilevante quota di arrivi dalle più diverse parti del mondo. In questo quadro si inserisce il progetto di Trump, deciso a mettere in esecuzione una gigantesca cacciata degli stranieri irregolari dal paese, rimuovendo ogni residua forma di assistenza o di pacifica convivenza. Suona il corno di guerra.
L’incremento demografico non accenna invece a diminuire proprio dove non solo mancano risorse, ma vengono pure bruciate senza tregua le possibilità di utilizzarle. In America ogni singolo cittadino consuma in media 150 chilogrammi di carne all’anno, ma anche i 75 chilogrammi pro capite dell’europeo non sono sostenibili dal punto di vista ambientale (cfr. Mauro Mandrioli, Nove miliardi a tavola, Zanichelli, 2020). In Africa invece si muore di fame, manca l’acqua e dilaga la siccità, l’agricoltura non riesce a far fronte alle più elementari necessità di sussistenza, milizie di soldati predoni rubano quel che trovano e terrorizzano i popoli, una minoranza di faccendieri al governo viene pagata dalle imprese multinazionali per consentire l’esproprio di ogni bene comune. La comunicazione si cala in questa realtà, cancella il segreto, ogni povero affamato africano sa che altrove vivono esseri umani che mangiano, bevono, si vestono, hanno un tetto, consumano. E sognano di muoversi, di partecipare alla spartizione, in mancanza di cibo o medicinali si nutrono di speranza. In queste comunità l’invito ad estinguersi di Les U. Knight non riuscirà mai ad attecchire, sono i moderni barbari, non vogliono estinguersi, vogliono migrare, migliorare la loro sorte: non temono la morte, sono disponibili ad affrontarla, mirano a un futuro che si colloca in una dimensione ultra-generazionale.
Certo. Non hanno mezzi, soldi, armi. Ma sono in molti e, direbbe il nostro Karl Marx, hanno da perdere solo le catene. Pensiamo alla marcia, straordinaria, incredibile, di oltre duecentomila gazawi (gli abitanti di Gaza, ndr.) decisi a riprendersi un cumulo di rovine perché è l’unica cosa che hanno. Forse Donald Trump riuscirà a deportarli o a ucciderli tutti; ma non avrà risolto il problema, lo avrà solo aggravato. Sono i bianchi ad invecchiare, a rischiare l’estinzione, non gli africani, giovani, in crescita. Non esistono bombe atomiche o minacce nucleari capaci di fermare il cammino che miliardi di affamati saranno costretti ad intraprendere, spinti dalla necessità di sopravvivere, decisi a non soccombere, refrattari all’ipotesi di estinguersi.
Ancora esitano, incerti, spaventati. Lasciano al centro dell’impero ancora una residua possibilità di costruire un’alternativa: ecologica per salvare il pianeta danneggiato, etnica mediante la fusione in luogo di guerra e sostituzione violenta, sociale con più giustizia, politica proteggendo il comune. Il centro dell’impero sembra, oggi, preferire le barriere, i muri, i confini, l’emarginazione, la supremazia, la violenza; si tratta di una scelta destinata ad una cocente sconfitta perché i numeri non lasciano scampo. Il futuro sarà, piaccia o no, inevitabilmente meticcio.
L’articolo è stato pubblicato su Effimerail 17 febbraio 2025