Il quinto quarto
Lo Spirito e altri briganti di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli (Mondolibri)
Quando ero poco più che un bambino, mi presero a lavorare presso una macelleria a pochi passi da casa. Era l’estate al termine delle scuole elementari, ad ottobre avrei iniziato le medie e così, un po’ per necessità, un po’ per passare il tempo, avevo cominciato la mia modesta carriera di garzone di bottega. Fu in quell’occasione che conobbi Memmo, antico e nobile membro della confraternita dei norcini, forte come un toro, capace di mettersi in spalla mezzo bue e trasportarlo dal camion del mattatoio, parcheggiato nel cortile antistante il negozio, alla cella frigorifera della macelleria. Fu sempre in quell’occasione che sentii parlare di quarti di bue, due anteriori e due posteriori, com’era naturale che fossero.
Ma fu la scoperta dell’esistenza del quinto quarto a sconvolgere le conoscenze elementari di aritmetica che possedevo e riuscivo già a padroneggiare adeguatamente . Inutile cercare di capire il concetto, l’esistenza del fantomatico quinto quarto era categoricamente esclusa dal mio pur ristretto universo matematico. Per quanto continuassi a rifletterci, qualsiasi oggetto diviso in quattro, ad esempio la classica torta, che tanto piaceva alla maestra, produceva quattro quarti, era ovvio, logico, anzi, matematico. Da dove prendeva origine questo quinto quarto? Mi ci volle un po’ di tempo per capire che con questo termine venivano indicate le frattaglie, la testa, le zampe, la coda e tutto quello che, pur facendo parte dell’animale, non era incluso negli altri quattro quarti. Il quinto quarto era la fortuna del macellaio, il suo guadagno vivo, quello su cui poter contare per soddisfare i clienti meno facoltosi e al tempo stesso incrementare con poca fatica i propri incassi.
Tutta questa storia mi è tornata in mente quando ho terminato di leggere il libro che Guccini e Macchiavelli hanno, per così dire, confezionato, ad uso e consumo di quanti avevano avuto modo, a suo tempo, di gustare le saporite e robuste storie narrate nella trilogia che vede come protagonista il maresciallo Santovito e come sfondo l’Appennino tosco-emiliano e i piccoli borghi che lo popolano. E, difatti, come per segnalare e sottolineare una continuità con le storie precedenti, gli autori ricorrono all’espediente narrativo di far precedere ogni capitolo da una specie di monologo del maresciallo, che funge da raccordo tra le storie e da introduzione a ciascuna di esse. Senza questo espediente, ogni storia sarebbe un racconto a sé stante, al quale mancherebbe quel valore aggiunto costituito proprio dalla presenza in funzione di testimonial del maresciallo stesso, presenza essenziale per trainare un libro altrimenti destinato a passare nel dimenticatoio.
Uno degli aspetti del libro, quello che sorprende piacevolmente, mentre si legge, è la sensazione di “leggerezza” della scrittura, dimostrazione tangibile del fatto che i due autori si sono divertiti molto a mettere insieme i fili di una narrazione capace di dare vita a storie così gradevoli da leggere. Immagino conversazioni notturne accanto ad un camino acceso, col fiasco del vino a portata di mano e le castagne che arrostiscono sul fuoco, i ciocchi della legna che scoppiettano e le parole di Guccini, alle quali fanno eco quelle di Macchiavelli, che rimbalzano sui muri e sul soffitto di un’antica cucina, annerita dal fumo.
Si ritrova in ogni pagina, praticamente intatta, la stessa atmosfera che si respira nella trilogia del maresciallo, una serie di abiti – mi si conceda la metafora – confezionati con stoffe di ottima qualità, anche se di colori e tessuti diversi. La leggera nota stonata del libro è invece dovuta alla sensazione che, pur mantenendo l’ottima fattura dei precedenti, l’ultimo nato sia stato confezionato con ritagli di stoffe rimasti inutilizzati nella bottega della premiata sartoria Guccini – Macchiavelli.
Dare del “quinto quarto” ad un’opera, per quanto minore, dei due bravi scrittori potrà sembrare forse riduttivo, se non addirittura irriverente, si tratta pur sempre di storie di un certo pregio. Per chi ha potuto apprezzare a fondo i libri che vedono protagonista il maresciallo Santovito, però, è esattamente questa l’impressione che si avverte. Le pagine che scorrono sotto gli occhi del lettore trasmettono la sensazione di essere poco più che frattaglie, rimasugli di brani espunti dai libri precedenti e confluiti in questo, forse perché si era venuta avvertendo la necessità di proporre ai lettori anche le parti meno “nobili” delle storie già narrate. Questo, naturalmente, a pensare bene, nella più favorevole delle ipotesi. Volendo, però, pensare male e, di conseguenza, fare peccato, si potrebbe intravedere in questo libro una banalissima e scontata operazione commerciale, a rimorchio del successo della trilogia di Santovito.
In conclusione, non so decidere se condannare o assolvere i due autori, per aver tentato di carpire la buona fede dei loro appassionati sostenitori. Anche se la tentazione di propendere per una condanna sarebbe forte, preferisco sospendere il giudizio. A loro va, in ogni caso, l’onore delle armi, per il merito di avere assolto un non facile compito, quello di essere riusciti a divertire il lettore, Anche se ogni tanto si lasciano affascinare dalle sirene del mercato, meritano tutta la nostra considerazione, se non altro per quello che hanno saputo darci, singolarmente o in sodalizio, durante questi anni.
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