Armi

“Con le esercitazioni Nato in Sardegna è in atto un massacro”

di Silvia Tuzzi

Le forze Nato, con la complicità attiva del Ministero della Difesa, stanno compiendo un vero e proprio massacro in Sardegna (e non solo), dove militari e civili si ammalano e muoiono a causa dell’uranio impoverito. Lo sostiene l’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito, secondo cui le bonifiche previste non hanno lo scopo di rendere più salubre l’ambiente ma solo quello di rendere possibili nuove esercitazioni.

Sardegna – L’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito da diversi anni si impegna nella lotta per la verità e la giustizia per tutti i militari che sono stati contaminati dall’uranio impoverito e da metalli pesanti durante le cosiddette e surrettizie missioni umanitarie all’estero, ma anche a seguito dell’addestramento nei poligoni di guerra Nato, sul suolo italiano, come denuncia anche Emanuele Lepore portavoce dell’associazione.

Da chi è composta l’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito?
Molti degli associati sono sardi, padri, madri, mogli, sorelle o anche fratelli di militari che si sono addestrati nei poligoni Nato in Sardegna e che sono deceduti o sono tuttora gravemente malati.

La lotta dell’Associazione è contro i poteri forti come la Nato.
La lotta dell’Associazione si lega alla lotta contro la Nato: tutti noi abbiamo interesse affinché i poligoni militari Nato in Sardegna vengano chiusi e bonificati, affinché nessuno più venga contaminato dall’inquinamento bellico dovuto ai giochi di guerra – o meglio alle nefandezze belliche – dove gli stessi militari spesso di truppa, e non i generali ai vertici, vengono utilizzati come carne da macello e bassa manovalanza e sacrificabile. Sottomessi e sacrificati al potere.

E l’interesse del Ministero della Difesa?
Ha stupito l’interesse del Ministero della Difesa nella bonifica della penisola Delta di Capo Teulada, penisola duramente bombardata con ogni sorta di armamenti e di cui stranamente sono state rese pubbliche liste molto vaghe e sintetiche.

La Penisola Delta Poligono di Capo Teulada, che sulla carta risulta inserita in una zona naturalistica protetta, è in realtà l’emblema della devastazione dovuta alle esercitazioni militari: in settant’anni di bombardamenti è stata colpita da milioni di proiettili, missili e razzi, tanto da essere dichiarata non bonificabile e interdetta agli stessi militari.
Stupisce, tra le altre problematiche, che l’interesse del Ministero della Difesa avvenga in un momento in cui alcuni ufficiali delle forze armate italiane sono sotto processo proprio per il disastro ambientale causato dall’esercitazione che qualcuno vorrebbe dare solo per presunta, nonostante la quarta commissione parlamentare di inchiesta sui danni da uranio impoverito, presieduta da Giampiero Scanu, abbia accertato a suo tempo le criticità ambientali dei poligoni di guerra Nato in Sardegna e nonostante lo stesso ministero negli anni abbia dichiarato imbonificabile proprio il poligono di capo Teulada.

Parliamo di Capo Teulada e l’innalzamento della soglia degli inquinanti.
Capo Teulada è un sito talmente inquinato che non è bastato l’innalzamento delle soglie di metalli pesanti – centuplicate nel 2014 con il via libera del disegno di legge “competitività” proposto dal governo Renzi – per far risultare accettabile il livello di inquinamento anche da un punto di vista burocratico.
Nel dispositivo visionabile sul sito della regione autonoma Sardegna si legge che la finalità dell’attività di rimozione dei residuati da esercitazione è quella di ripristinare le condizioni del poligono Delta per consentire il normale transito in sicurezza e consentire l’utilizzo futuro dello stesso quale zona bersaglio per “arrivo colpi”, che sarà delimitata con materiale ecosostenibile e collocata all’interno di un sito privo di essenze arboree pregiate. In tale quadro si intende avviare con l’impiego di assetti specialistici le attività necessarie alla rimozione di tutti i residuati da esercitazione, fino alla profondità di un metro presenti nell’area in questione e classificabili e smaltibili a norma di legge come rifiuti.

A nome dell’Associazione delle vittime occorre approntare bonifiche valide e serie.
Questo significa che l’area deve essere resa agibile a nuove esercitazioni? Poniamo questi quesiti da parte di tutte le vittime e i malati oncologici, che oltre trecento sentenze hanno accertato correlati alla contaminazione da metalli pesanti utilizzati in vari tipi di munizionamento: l’uranio impoverito, il Torio 232 e gli altri agenti si rilevano solo da un metro di profondità? L’acqua e l’aria non sono oggetto di esame? Le tonnellate di nanopolveri, residui delle esplosioni che viaggiano per chilometri trasportati dal vento ,sono considerate residuato da esercitazione?
E ancora: l’uranio impoverito e altri metalli pesanti sono considerati smistabili come rifiuti? Se hanno intenzione di bonificare come è stato fatto fare ai militari italiani in Bosnia, Serbia, Afghanistan, Iraq allora conosciamo bene la metodologia, ma circa ottomila malati di tumore e quattrocento morti stanno a testimoniare che tali bonifiche non sono servite a molto, anzi.

La popolazione serba può essere considerata vittima della Nato?
La popolazione serba – che sconta un aumento dell’incidenza tumorale da quando la Nato nel 1999 ha scaricato sul suo paese quindici tonnellate di uranio impoverito – non è molto convinta delle bonifiche che sono state effettuate con la stessa metodologia ripresa dai manuali di bonifica delle forze armate.

Capo Teulada vittima dei poteri forti?
L’operazione di bonifica del poligono di capo Teulada serve a un doppio scopo: il primo è riprendere le esercitazioni rese impossibili dagli inerti inesplosi. Non è un problema di salute pubblica, di recupero di un territorio, ma solo di garantire la continuità delle esercitazioni Nato e possibilità di scaricare la peggiore immondizia, che spesso viene chiamata anche “armi convenzionali”.
In secondo luogo, è un’operazione utile a confondere le acque e dare elementi così contrastanti di valutazione utili a far assolvere in qualche modo gli ufficiali coinvolti nel processo in corso proprio sul disastro ambientale di Teulada, in maniera simile a come hanno fatto con i rilevamenti e le indagini discutibili per dare elementi probatori contrastanti nel processo sui veleni di Quirra.

Sono quindi necessarie bonifiche vere e non fasulle con l’innalzamento dei livelli degli inquinanti.
Le bonifiche sono necessarie, ma devono essere quelle vere: tracciare i metalli pesanti dispersi nell’ambiente, attuare le misure necessarie per bonificarli, impedire che le nuove esercitazioni depositino ancora altri metalli pesanti prodotti da sempre più aggiornati e sofisticati armamenti, altamente distruttivi e inquinanti.
È necessario quindi vigilare sulle manovre che i poteri forti stanno portando avanti e cercare di imporre delle bonifiche reali, trasparenti, che siano controllate da organi esterni, dalle associazioni che si occupano del problema e che hanno chiara l’idea di cosa vuol dire risolvere una questione così complessa.

L’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito è per la pace e contro ogni guerra?
L’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito è al fianco della lotta contro la Nato, perché abbiamo un interesse comune: portare a termine il massacro che il Ministero della Difesa promuove a danni dei suoi stessi militari e della popolazione civile che vive e lavora nei pressi dei poligoni di guerra in Sardegna. La società civile e l’associazionismo sono disponibili quindi a compiere la strada necessaria e percorrere il cammino di pace e nonviolenza che possono portarci all’interdizione dei poligoni, alla loro reale bonifica e alla tutela della salute collettiva.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 10 febbraio 2023

La Foto è di Catalania da pixabay

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Il braccio armato del governo

di Gianni Ballarini 

Il neoministro alla difesa è considerato, soprattutto a sinistra, uno dei pochi leader pensanti e stimabili del fronte opposto. Un provocatore schietto. Uno che non sopporta gli equivoci e le ambiguità. E lo dice con supponenza. Allergico alla retorica buonista e agli slogan a uso e consumo di giornali e media. Guido Crosetto abbiamo imparato a conoscerlo nei salotti televisivi. Ora siederà a Palazzo Baracchini.

Fondatore, nel 2012, di Fratelli d’Italia con Meloni e La Russa, è considerato il Richelieu della neo premier. Tra i pochi di cui Meloni si fida ciecamente. Uno che non ha bisogno di Palazzo Chigi per condizionare il prossimo governo. Perché questa figura, dalla stazza ingombrante, racchiude in sé tutti gli aspetti del potere: è un politico, un imprenditore, un lobbista. Soprattutto è il braccio armato del nuovo esecutivo. Uno che da tempo ha fatto pace con la guerra, guadagnando, in questi anni, quando la spesa militare aumentava.

Ha guidato la Confindustria delle imprese militari

Dal 2014, infatti, il colosso di Cuneo indossa l’elmetto nella trincea della rappresentanza dell’industria bellica: è presidente dell’Aiad, la Confindustria delle imprese impegnate nel comparto della difesa. Carica che metterà in naftalina da ministro.
A Palazzo Baracchini, tuttavia, potrebbe vivere momenti imbarazzanti: dal bilancio del suo ministero, infatti, ogni anno parte un flusso consistente di risorse, come investimenti, destinato all’industria nazionale della difesa. A quelle stesse aziende che ha rappresentato per otto anni.

Le giravolte politiche

Ma andiamo con ordine. Piemontese. 59 anni. Inizi politici nella Dc. Folgorato sulla via di Arcore. Coordinatore regionale di Forza Italia del Piemonte dal 2003 al 2009. Nel 2001, la prima elezione alla Camera dei deputati. Rieletto nel 2006 e 2008. Dal 2008 al 2011 ricopre la carica di sottosegretario di stato alla difesa nel quarto governo Berlusconi. Nel 2012 lascia il Popolo delle Libertà. Nel 2014 la nomina all’Aiad coincide con il suo primo addio alla politica. Ritorna in parlamento nel 2017. Ma lo lascia definitivamente un anno dopo. L’impegno “armato” lo assorbe troppo. Perché nel tempo non solo diventa consulente di Leonardo, la nostra holding nel comparto militare, ma viene nominato anche, nel 2020, presidente di Orizzonti sistemi navali, società del settore detenuta al 51% da Fincantieri e per il 49% da Leonardo.

Per lui si producono poche armi

Sebbene nelle sue comparsate televisive dissimuli spesso questo suo ruolo, come se lo desse per scontato (ma scontato non è), ha una passione sfrenata per questo mondo, colmo di bombe, caccia, carri armati: «È un settore ad altissimo valore aggiunto. Uno dei pochi asset strategici e tecnologici rimasti in questo paese. Il problema è che non c’è abbastanza produzione per soddisfare una domanda di investimento in tutte le nazioni». Tradotto: si producono ancora troppe poche armi.
Quando può rifila al suo interlocutore i risultati di una ricerca commissionata, nel 2019, da Aiad a Prometeia, da cui risulta che il fatturato del comparto sfiora i 16 miliardi di euro, impiega 50mila addetti diretti e 150 mila indiretti. «Ogni euro di valore aggiunto generato dall’industria militare ha un effetto moltiplicatore pari a 3, con un gettito fiscale superiore a 5 miliardi di euro».
Tutti dati contestati, o letti con un’altra chiave interpretativa, da ricercatori indipendenti.

La guerra alla 185 e alle banche “etiche”

Ma lui ama quei numeri. Mentre ne detesta uno: 185. È il numero della legge del 1990 che disciplina il controllo dello stato sull’import ed export di armi. A suo avviso, una legge che ingabbia. Prevede troppi lacci e lacciuoli. Troppa burocrazia. «Non esiste che una legge metta in capo alla Farnesina le decisioni sul settore della difesa», uno dei suoi numerosi commenti di “apprezzamento”. Gli venne un coccolone quando, nel dicembre del 2020, la maggioranza parlamentare votò la risoluzione proposta da Lia Quartapelle, deputata del Pd. Impegnava l’esecutivo Conte a «mantenere la sospensione della concessione di nuove licenze per bombe d’aereo e missili che possono essere utilizzati a colpire la popolazione civile, e della loro componentistica» verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi, misura già in essere da metà 2019. In Commissione difesa del senato, Crosetto vi si scagliò contro: «Bisogna intervenire sulla 185. Se si vuole cooperare o meno con un paese deve deciderlo il governo non il parlamento».
Ma il tema che in assoluto lo fa andare su tutte le furie è quello delle “banche etiche”, come le chiama lui. Quelle che talvolta si rifiutano di mettere a disposizione i loro servizi alle imprese militari che operano in teatri di guerra o in assenza di diritti civili. «È davvero critico l’atteggiamento delle banche che arrivano a bloccare pagamenti dall’estero nonostante siano autorizzati da diversi ministeri e con arroganza decidono di chiudere i rubinetti ad attività del tutto legali». Sul tema usa toni sprezzanti: «Le aziende non riescono a lavorare. Più sono piccole, e minori sono i loro affari, e più le banche diventano etiche. Ma la stessa banca diventa meno etica se sul tavolo c’è un affare da un miliardo di euro».
In commissione difesa aveva auspicato che Mediobanca e Banca Popolare di Puglia finissero nella galassia del ministero economia e finanze (Mef). Come in effetti è avvenuto. «A quel punto diventeranno le banche del sistema e le uniche con cui si potrà lavorare tranquillamente. Perché avuta l’autorizzazione dalla Farnesina, dal ministero della difesa e dal Mef, una banca pubblica non può dire di no come fanno le altre banche».
Il kingmaker meloniano ha le idee chiare. E ora che è al potere, per la 185 si profila un futuro accidentato.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 22 ottobre 2022

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Mario Draghi: il massacro delle illusioni

Immagine: Regno Unito, 1915, operaie impiegate nella lavorazione del TNT, trinitrotoluene o tritolo

di Joe Vannelli

Là dove si trova un esercito i prezzi sono alti,
là dove i prezzi salgono la ricchezza del popolo
si esaurisce. Quando la ricchezza è esaurita il
popolo sarà afflitto da richieste fiscali pressanti.

Sun Zu, L’arte della guerra
(Milano, 1965, II, XII, pag. 119)

In occasione del 1 maggio 2022 è stato reso noto l’annuale rapporto Censis-Ugl e non è difficile scorgere nell’elaborazione e nella ricchezza di dati sostanziali l’insegnamento di Giuseppe De Rita, fondatore dell’Istituto nel 1964 e dal 2021 membro del Consiglio d’Indirizzo presso Palazzo Chigi. A dispetto dei suoi novant’anni al governo sentono ancora il bisogno di questo inossidabile grand commis formatosi, come Mario Draghi, presso i gesuiti, nel liceo romano Massimiliano Massimo.

I dati oggettivi degli studi statistici

Lo studio pone questioni oggettivamente ineludibili che, tuttavia, i nostri parlamentari si ostinano a non ritenere tali. In dieci anni, ovvero da quando un mediocre economista, Mario Monti, ebbe a varare una disastrosa riforma delle norme che regolano il rapporto di lavoro e il trattamento pensionistico (2012), invece della promessa ripresa, abbiamo registrato un crollo. La retribuzione di fatto è diminuita in modo assai consistente, la misura individuata dalla ricerca è pari ad 8,3%; questo dato, già significativo, risente ora, di giorno in giorno, degli effetti connessi all’inflazione, e in particolare all’andamento dei prezzi nel settore energetico. Oggi, dopo la cura elaborata da pretesi esperti, il 13% della popolazione italiana si colloca sotto la soglia di povertà, proprio mentre una canea di analfabeti, spacciati per studiosi e/o giornalisti, non si fa scrupolo di invocare il taglio del reddito di cittadinanza e perfino degli ammortizzatori sociali. Il rapporto del Censis pubblicato il 3 dicembre 2021 (prima della guerra in Ucraina) è implacabile: l’Italia è l’unico fra i 38 paesi che aderiscono all’OCSE – organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – in cui la retribuzione dei lavoratori è diminuita nel trentennio 1990/2020, nella misura del 2,9%. Nello stesso arco temporale si è registrato un aumento salariale del 31,1% in Francia e del 33,7% in Germania. Dunque l’alternanza dei governi di centrodestra, di centrosinistra e di tecnici non ha comportato mutamenti di rotta, con malvagia coerenza ha sempre trovato conferma l’esproprio sistematico dei salariati.

Con l’inflazione il dispotismo attacca

Nel corso dell’audizione alla Camera in data 27 luglio 2021 il presidente di ISTAT, Gian Carlo Blangiardo, ha confermato (pagina 12) che è in forte crescita la povertà assoluta e non solo nelle regioni arretrate: nel nord ovest si è passati dal 5,8% al 7,9% mentre nel nord est dal 6% al 7,1%. L’allargamento della forbice caratterizza, sia pure in forma meno accentuata, anche i paesi del nord, Belgio e Olanda compresi.

Secondo le sostanzialmente unanimi diverse rilevazioni economiche già nell’ottobre del 2021 – dunque prima della guerra – l’inflazione si è posta come elemento costante, tanto da determinare un aumento dei costi di produzione industriale prossimo al 20%, con inevitabili effetti a cascata. In particolare vi è stato un incremento, clamoroso e inarrestabile, dei prezzi nel settore energetico: elettricità, gas, petrolio sono raddoppiati e le stime meno inquietanti si collocano comunque almeno sulla soglia di 80%. Nonostante il taglio drastico delle retribuzioni percepite sia dai subordinati sia dagli autonomi la rete industriale italiana fatica a mantenere il passo, così che, per la prima volta dopo molti anni, gli analisti cominciano a considerare l’eventualità, in alcuni casi, di possibile stagflazione.

L’erosione del reddito esistenziale di fatto subisce inoltre un aumento sinergico a causa del contestuale taglio degli ammortizzatori sociali, che durante la pandemia si è rilevato soprattutto in ambito sanitario, con una palese contrazione dell’assistenza. Mentre i profitti delle società farmaceutiche crescevano in progressione geometrica, sottratti già in origine al fisco e al patrimonio dei singoli stati nazionali, la privatizzazione della salute proseguiva, anche con il quotidiano ricatto di versare una tangente legalizzata o di attendere tempi biblici, con il rischio di morire prima dell’accesso al servizio.

L’attacco al precariato si pone come obiettivo quello di cancellare ogni forma di contrasto e di ribellione alla conquista dell’intera esistenza di ogni suddito, reso precario sul piano contrattuale e impaurito sul piano psicologico; il moderno capitalismo finanziarizzato si articola in forme diverse per esercitare un pieno dominio, ma ciascuna forma ha quale caratteristica comune il dispotismo politico, economico, giuridico, sociale. La guerra e la prevaricazione, la paura diffusa e l’incertezza costante, sono intrinsecamente legate, tutte, all’esercizio del comando, ne sono anzi elementi costitutivi; l’autocrazia del XXI secolo prescinde, a ben vedere, dal tiranno quale soggetto titolare di una propria autonomia, e ormai anche dalla forma stato contingente. Il potere, sempre più sganciato dall’ideologia e dalla religione, si fonda piuttosto sulla menzogna spettacolare, è capace di trasformare il falso oggettivo in vero reale, con le armi, con la comunicazione, con il denaro, con il terrore.

L’attuale governo italiano di larga intesa intende completare il percorso intrapreso colpendo le due ultime roccaforti di resistenza popolare: la casa e il risparmio della famiglia.

La casa. Il recentissimo dibattito sulla revisione degli estimi catastali si prefigge di aumentare il prelievo statale e solo un ingenuo può fidarsi della parola di un banchiere abituato, fin da giovanissimo, ad esercitare l’arte della speculazione, mentendo ai mercati. Mario Draghi non riusciva a trattenere un sorriso divertito mentre spiegava ai membri delle due Camere che la rivalutazione del valore degli immobili non si sarebbe in nessun caso concretata in un maggior costo per la vasta platea dei piccoli proprietari: non si capacitava di essere creduto! Già. In Italia, negli anni trascorsi, grazie soprattutto alla forza del movimento operaio e contadino, i meno abbienti avevano ottenuto il mattone, percepito come un bene rifugio in cui ripararsi durante i tempi grami. Come noto il nostro è il paese europeo in cui i ceti popolari hanno, in percentuale, la maggior quota immobiliare, non solo di prime case, ma anche di laboratori artigianali, abitazioni rurali o di secondo soggiorno.

Il risparmio di famiglia è un’altra caratteristica peculiare italiana. Difficile calcolarlo esattamente – gli italiani sono gente che diffida dei potenti e dello stato – ma con gli strumenti informatici nascondersi diventa ogni giorno più difficile: richiede una professionalità che solo gli speculatori finanziari possiedono in pieno. Secondo il Censis il risparmio/patrimonio si è ridotto del 5,3% negli ultimi dieci anni; i depositi ammontano comunque a 967 miliardi, una somma considerevole. I dati offerti presentano tuttavia contraddizioni evidenti, generati probabilmente dalla diversa modalità di acquisizione. Secondo ABI (la struttura bancaria) il risparmio complessivo sarebbe cresciuto del 10% fra il 2019 e il 2020, calcolandolo in 1.737 miliardi; Eurostat rileva invece un calo del 4,6% nel 2021 in confronto ai trimestri precedenti, con un taglio che non ha determinato aumento di consumi (questo vorrebbe dire che l’uso delle somme accantonate è servito per far fronte a debiti già accumulati, non per investimento).

Necessiterebbe una lettura più ragionata per comprendere meglio il significato esatto di questi numeri, apparentemente in contrasto logico, e lascio volentieri il compito a chi possiede maggiore professionalità e competenza. Rimane tuttavia – e questa è una valutazione politica più che strettamente tecnica – che si prospetta assai probabile un programma di aggressione alla quota di risparmio, nella migliore delle ipotesi per trasformare risorse inutilizzate in investimenti produttivi (magari speculativi), nella peggiore per sanare il deficit senza toccare le grandi imprese. O, forse, nell’ottica a breve termine che caratterizza il progetto neoliberista negli ultimi anni, solo per sopravvivere un altro semestre, senza curarsi della prossima generazione, magari sperando in una qualche neo-hegeliana astuzia della storia.

Il dispotismo di Mario Draghi

Alberto Quadrio Curzio, un valtellinese sempre attento alle cose del mondo, fu tra i primi a cogliere l’importanza della riunione romana in cui fu presentato il rapporto elaborato da Mario Draghi e Raghuram Rajan su richiesta del Gruppo dei Trenta. Il titolo era assai suggestivo: Reviving and Restructuring the Corporate Sector post Covid. Rajan era stato il governatore della banca indiana di stato fra il 2013 e il 2016; di lui ricordiamo un saggio scritto a quattro mani con Luigi Zingales, Saving Capitalism from the Capitalists, elogio senza remore del più bieco liberalismo finanziario, privo di qualsivoglia tentazione pacifista o anche solo solidaristica. Dopo la rottura con il leader nazionalista indiano Narendra Modi, Rajan era rientrato a Chicago, accompagnato dall’accusa di aver utilizzato e trasmesso, per fini propri, informazioni riservate. A Roma era presente Janet Yellen, attuale segretario del tesoro nell’amministrazione Biden; l’Italia sarebbe stato il laboratorio politico economico del nuovo corso americano, con il conferimento dell’incarico di governo a Mario Draghi. Quando il Gruppo dei Trenta propone – la sede è a Washington – e il governo USA approva, i parlamentari italiani debbono eseguire, limitandosi di volta in volta a ripartire i voti fra una maggioranza richiesta e un’opposizione che, per decoro istituzionale, deve, almeno apparentemente, esistere. Il presidente emerito dell’Accademia dei Lincei, professor Quadrio Curzio, nel suo acuto commento del 16 dicembre 2020, mostrò di aver perfettamente compreso l’ormai prossimo procedere degli avvenimenti politici, in Italia e in Europa. Neppure due mesi dopo, il 13 febbraio 2021, il nuovo esecutivo prestava giuramento preparandosi a realizzare quanto deliberato out there. I rappresentanti dei lavoratori italiani, nelle due Camere, negli enti territoriali, nei sindacati, si guardarono bene dal lottare contro e perfino dal protestare con troppa energia. Un po’ per interesse, un po’ per codardia, ma soprattutto per mancanza di prospettive concrete e di seguito nel territorio. Si sono guadagnati sul campo il disprezzo con cui vengono trattati.

La strage delle illusioni

In un breve saggio scritto nel 1824 (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani) Giacomo Leopardi notava che l’ambizione può aver varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica e dallo stato politico della società … e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni.

Da ormai tre mesi il tema della guerra è dominante. Prima dell’invasione russa in Ucraina lo scontro epocale che caratterizzava la cronaca italiana era fra presunti sì vax e presunti no vax; ora la contesa riguarda i difensori della libertà democratica (la NATO) e i paladini dell’autocrazia (Putin). A ogni facchino/a precario/a del settore logistico e a ogni addetto/a all’inserimento dati nel gran mare telematico immateriale viene chiesto di schierarsi; il quesito è presentato con tale impeto che riesce difficile evitare una risposta, e molto spesso, pur di farla finita, si risponde con la pancia, magari a casaccio, in ogni caso senza convinzione.

La resistenza presuppone la caduta del governo e la sua sostituzione con altra struttura istituzionale controllata dall’occupante; sicuramente fu il caso francese durante la seconda guerra mondiale, quando i ribelli guidati da De Gaulle si unirono all’opposizione socialcomunista per rovesciare il governo di Vichy. E sicuramente non è il caso della repubblica Ucraina, visto che il governo rimane in carica. La Russia è attaccante, dunque l’Ucraina è resistente: non c’è dubbio. Ma si tratta di uno scontro fra due eserciti di mestiere, entrambi con una quota di coscritti arruolati a forza e con un supporto di mercenari (chiamati con eufemismo volontari); i rispettivi comandanti non hanno mai inteso mettere in discussione la fedeltà ai rispettivi presidenti. I russi, a differenza del nostro Manzoni, non coltivano il vero per soggetto e chiamano liberazione quella che gli ucraini denunciano come invasione; non c’è dubbio che in base alle vigenti norme del diritto internazionale gli invasi abbiano sempre ragione. Ma insurrezioni, rivoluzioni e conquiste tendono, per loro natura, a rifiutare le regole, preferiscono senza dubbio sottrarsi ad esse; non per caso Russia, America e Ucraina si sono rifiutate fino ad oggi di riconoscere le decisioni del TPI, il Tribunale Penale Internazionale. Usando le norme internazionali vigenti (peraltro spesso disconosciute dagli Stati) quale criterio tecnico giuridico per la risoluzione delle controversie territoriali, dovremmo ri-disegnare la geografia politica del pianeta, cosa per nulla agevole e anzi probabilmente impossibile. Israele dovrebbe restituire il Golan alla Siria? In Somalia a chi assegnare territori vasti come Puntland o Galmudugh?

In realtà Israele sostiene, ad esempio, la piena legittimità della presenza in Golan sulla base di una articolata sequenza di ragioni politiche (la cui validità è negata dalla Siria) così come il Puntland fonda la propria, non riconosciuta, autonomia su una sorta di diritto naturale. Il conflitto fra giusnaturalismo e positivismo giuridico dura fin dalla notte dei tempi. La distinzione fra aggredito e aggressore è certamente suggestiva, e altrettanto certamente non priva di importanza; ma non risolve il problema connesso alla guerra e le grandi potenze non hanno mai deciso, in concreto, chi sostenere sul solo rilievo di chi avesse preso l’iniziativa. La letteratura militare è ricca di testi sulla guerra preventiva intesa come guerra difensiva; una giustificazione teorica si trova sempre per ogni azione.

Ucraina e Russia vogliono entrambe il possesso e il controllo sulla Crimea e sul Donbass; la prima per la posizione strategica, il secondo per i giacimenti di gas, petrolio e altre ricchezze del sottosuolo. Non intendono rinunziare a questa formidabile opportunità, e si trascinano dietro i rispettivi oligarchi (più banalmente: imprenditori avventurosi e avventurieri) i quali, negli anni, hanno accumulato fortune immense sfruttando la manodopera e depredando le comunità. La messa in scena spettacolare dei princìpi universali più diversi è solo un espediente per nascondere la realtà di una guerra per le risorse e per il controllo di un mare.

Mario Draghi è schierato con gli Stati Uniti, con la NATO, con le banche occidentali, con i suoi amici di sempre. Non cerca gloria e non cerca libertà; il suo interesse è rivolto esclusivamente al bottino, l’unico fascino cui, fin dall’infanzia, si mostra costantemente sensibile, con lodevole coerenza. Quest’uomo è andato oltre l’ormai superata etica protestante descritta da Max Weber; l’ha rinnovata con il cattolicesimo meticcio di Biden, un misto di liberismo e di Santa Inquisizione, forgiato nelle parrocchie del Delaware. Il capitalismo di Putin si prefigge lo stesso obiettivo. Per mettere le mani sul medesimo bottino non esita ad invocare i sacri valori del cristianesimo ortodosso, la tradizione imperiale zarista, perfino le imprese dell’Armata Rossa.

Nella incessante ricerca del profitto, inteso come bene Supremo, Putin, Biden, Draghi e Zelensky hanno ucciso i valori; piegando alla moneta democrazia e libertà si sono macchiati di un crimine, la strage delle illusioni.

La legislatura si avvia a conclusione

Piuttosto in sordina la legislatura si avvia verso la naturale conclusione e nelle file dei partiti monta un sordo rancore, si moltiplicano i complotti, si preparano le risse. Il taglio al numero di parlamentari alimenta il clima di sospetto e di congiura, senza che ad oggi sia stato possibile risolvere la questione della legge elettorale, fra le due ipotesi del maggioritario e del proporzionale. Le ormai vicine elezioni amministrative non sembrano sufficienti, comunque vadano, a determinare la scelta. Nel frattempo i due rami del Parlamento vivacchiano rassegnati alla loro irrilevanza, chiamati solo a ratificare le decisioni del Gruppo dei Trenta e della Commissione, trasmesse con arroganza da Mario Draghi senza consentire modifiche o, tantomeno, rifiuti. Quando una forza di maggioranza abbozza forme di protesta provvede la cosiddetta opposizione al salvataggio dell’Esecutivo; davvero la cabina di comando può contare su larghe intese.

I risultati del 2018 erano stati, in una certa misura, sorprendenti. Il primo governo Conte, definito gialloverde, si chiuse con una rottura, ma, a differenza di quanto sperava il gruppo dirigente leghista, non portò ad elezioni anticipate. Seguì invece il secondo governo Conte, definito giallorosso, con maggioranza nuovamente risicata, ma unita grazie al collante di un imprevisto, la pandemia. E si caratterizzò per l’introduzione del meccanismo tecnico giuridico di leggi delega, decreti legge convertiti mediante apposizione della fiducia e decreti ministeriali. Questo metodo di governo, a modo suo innovativo, ha creato un precedente che sarà nel prossimo futuro difficile rimuovere. Mario Draghi lo ha ereditato e ben volentieri confermato, esautorando le Camere nonostante l’ampiezza del consenso.

Dopo la pandemia anche la guerra non è sfuggita alla regolamentazione sganciata dal dibattito parlamentare, sottraendo ad ogni verifica di merito la scelta di appoggio militare alla NATO e agli USA. In assenza di voto parlamentare il Governo Draghi ha varato, a distanza di pochi giorni (25 e 28 febbraio 2022), due decreti legge di immediata attuazione (n. 14 e n. 16). Il primo disponeva (articolo 2) la cessione gratuita di mezzi non letali di protezione per le autorità governative ucraine con scadenza 30 settembreIl secondo, tre giorni dopo, modificava radicalmente il quadro. Senza alcuna limitazione – e in assenza di riferimenti al costo o alla gratuità – il primo comma dell’art. 1 disponeva: fino al 31.12.2022 previo atto di indirizzo delle Camere è autorizzata la cessione di mezzi, materiali, equipaggiamenti militari. Una vera e propria delega in bianco, da esercitarsi a mezzo di decreti ministeriali che non necessitano più del voto parlamentare. Decide dunque il ministro della difesa, Lorenzo Guerini (PD, corrente moderata), di concerto con Luigi Di Maio (esteri, 5 Stelle) e Daniele Franco (economia, Banca d’Italia), senza rendere conto a nessuno; per aggiunta, con ulteriore innovazione, il testo con l’elenco delle armi è secretato. Quattro giorni dopo l’invasione si prevedeva dunque non una guerra lampo (come cianciano i commentatori) ma un conflitto presumibile fino al 31 dicembre (almeno dieci mesi) con impiego illimitato di forniture militari alla repubblica ucraina per la difesa del territorio nazionale. Il decreto legge n. 14 è stato poi convertito nella legge 5 aprile 2022 n. 28, assorbendo il contenuto del decreto n. 16, lasciato decadere, con salvezza dei provvedimenti adottati (l’invio di armi). Non è vero pertanto che esistano limiti, qualitativi e quantitativi, all’invio di forniture belliche in Ucraina; è vero invece che le due Camere (contro il volere dei cittadini italiani, almeno secondo tutti i sondaggi) hanno rimesso ogni decisione al ministro Lorenzo Guerini, rendendolo libero di fare quel che vuole fino al 31 dicembre 2022, quale che sia la spesa. A prescindere direbbe Totò.

In questo caotico svolgersi degli eventi non si possono neppure escludere del tutto sorprese, con elezioni anticipate entro l’anno. Ma, con maggiore probabilità, la gestione affidata dal Gruppo dei Trenta a Mario Draghi proseguirà senza incontrare altro ostacolo che il mugugno. Questo, dal punto di vista precario, è un vero peccato.

La caduta del governo sarebbe un fatto positivo

Il precariato italiano nulla avrebbe da perdere, anche se poco da guadagnare, in caso di inattesa crisi del governo Draghi.

La composizione attuale regge su un compromesso elaborato dal neocapitalismo finanziario, per necessità contingente: per poter completare l’opera di precarizzazione e sottomissione ai danni di un’intera popolazione lascia vivere il vecchio apparato di funzionari, di faccendieri, di gendarmi, quando occorre perfino di criminali (questi ultimi con maggiore prudenza, naturalmente). Le cariche e le provvigioni servono anche a questo; il ceto imprenditoriale emergente si è dimostrato capace di aspettare con pazienza il concludersi della transizione, si accontenta per ora del denaro senza rinunziare al sogno del potere anche formale.

L’insieme dell’apparato è ancora necessario per rendere inoffensiva l’opposizione, distribuendo con sapienza qualche buona occasione ai ribelli più utili mediante cooptazione oppure estromettendo le menti potenzialmente più pericolose. L’opera di bonifica procede con metodo; l’arruolamento dei rappresentanti eletti nel territorio, in sede nazionale o europea, sembra rassicurare la cabina di comando. Bisogna saper cogliere l’occasione, magari con maggior utile di un Bobby Seale o di una Angela Davis. Mario Draghi è un esempio, quanto a proficua riservatezza. Dal matrimonio con la discendente di Bianca Cappello (la moglie di Francesco de’ Medici) sono nati due figli: Giacomo si occupa dal 2017 di investimenti speculativi (i famosi hedge funds) per LMR Partners (2,5 miliardi) e Federica, dirigente di Genextra, attende il via libera per il fondo farmaceutico X Gen (il programma è quello di guadagnare investendo in farmaci e vaccini). Qualcuno ritiene che possa sussistere un conflitto di interesse, ma il fedele bracco ungherese conosce bene l’intera famiglia e giura che non esiste alcun pericolo; a Città della Pieve è rigorosamente vietato parlare di affari. L’unico a protestare, abbaiando, è un altro cane, ma totalmente inaffidabile: si tratta di Vernyi, il molosso turcomanno di Putin, discendente di una razza abituata ad accompagnare i mongoli durante l’invasione dell’Europa centrale.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 30 maggio 2022

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Export di armamenti: la Relazione corretta rivela un record storico

di Giorgio Beretta

Un semplice “Errata corrige”. Di quelli che si appiccicano nei libri per segnalare qualche piccolo refuso. E’ il metodo adottato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per correggere una serie di dati, tra cui il maggiore per la modica cifra di oltre 4,5 miliardi di euro relativi alle esportazioni di sistemi militari, nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”Relazione che era stata inviata al parlamento lo scorso 5 aprile e pubblicata alcuni giorni dopo sui siti di Camera e Senato. Relazione che i funzionari dell’ufficio di Presidenza del Consiglio avevano letto considerato che, come sempre, ne avevano fatto una presentazione riportando i dati recepiti dai vari ministeri. Ma che evidentemente non avevano compreso. Perché chiunque avesse avuto un minimo di dimestichezza con le precedenti Relazioni o avesse posto anche solo po’ di attenzione alle cifre non poteva non notare che quei 225 milioni di euro di esportazioni di materiali d’armamento riportati dall’Agenzia delle Dogane per l’anno 2021 cozzavano con gli oltre 4,6 miliardi di euro di autorizzazioni all’esportazione concesse dall’Autorità Nazionale UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) e ancor più con gli oltre 5 miliardi di euro di operazioni, relativi soprattutto ad incassi dall’estero, segnalate dal Ministero dell’Economia e della Finanze. Un po’ come se una ditta nello stesso anno registrasse 4,6 miliardi di ordinativi, oltre 5 miliardi di incassi e vendite per soli 250 milioni di euro: l’Agenzia delle Entrate invierebbe i funzionari per ispezionare i libri contabili e del magazzino.

Il macroscopico errore dell’Agenzia delle Dogane

Invece niente di tutto questo, nessuna ispezione e via libera alla pubblicazione della Relazione governativa che – come dicevo – è avvenuta ai primi di aprile. L’Agenzia delle Dogane riportava operazioni doganali relative a “Esportazioni definitive”, cioè per spedizioni all’estero di materiali militari, per un valore complessivo pari a 225.151.624,16 euro e per tutti andava bene. Ma non a me che da oltre vent’anni leggo queste Relazioni e un minimo di conoscenza in materia credo di essermela fatta. Così, lo scorso 20 aprile in un articolo per “Il Manifesto” segnalavo le numerose incongruenze nei dati contenuti nella relazione evidenziando che “l’Agenzia delle Dogane, che è tenuta a certificare le esportazioni di armamenti italiani, non le sta riportando tutte: e questo è grave perché inficia radicalmente la possibilità di controllo parlamentare e della società civile sulle esportazioni effettive di armamenti italiani”. Tra i miei quattro lettori, evidentemente c’è qualche funzionario governativo ed è stato così che, il 13 maggio scorso sui siti di Camera e Senato (qui i due volumi) è apparsa una nuova versione dei due volumi della Relazione governativa. Nuova versione (denominata nei file in pdf: vers.2) che, nel primo volume, riporta alla prima pagina un “Errata Corrige” e che invece è stata completamente rifatta nel secondo volume in cui la relazione dell’Agenzia delle Dogane è stata integrata introducendo di soppiatto 271 pagine relative soprattutto alle “Esportazioni definitive” il cui valore adesso è di 4.794.025.000,65 euro: una bella differenza rispetto ai 225.151.624,16 euro riportati nella prima versione.

Record storico nel 2021 di esportazioni effettive

Si scopre così che nel 2021, anno ampiamente segnato dalla pandemia per Covid-19, le aziende militari italiane hanno lavorato a pieno ritmo esportando nel mondo armamenti per un record storico di quasi 4,8 miliardi di euro. Tra i maggiori destinatari di sistemi militari “made in Italy” figurano Qatar (958.849.653 euro), Kuwait (875.393.504 euro), Egitto (773.289.163 euro), Turkmenistan (378.470.352 euro) tutti paesi che, come noto, non primeggiano certo per livelli di democrazia e di rispetto dei diritti umani. Scorrendo il lungo elenco, dopo Regno Unito (233.466.565 euro), Stati Uniti (223.451.692 euro), Francia (148.001.753 euro) troviamo l’Arabia Saudita (135.844.327 euro) e Emirati Arabi Uniti (122.460.394 euro) di poco preceduti dalla Germania (128.755.982 euro) e subito seguiti dal Pakistan (87.774.972 euro).

Ripresa anche delle nuove autorizzazioni

La nuove autorizzazioni individuali mostrano un leggero calo passando dai 3.927.988.408 euro del 2020 ai 3.648.843.633 euro dell’anno scorso,calo che è compensato dalle “licenze globali” che riguardano soprattutto progetti militari i cui destinatari sono i paesi dell’Unione europea e della Nato: ai 3.648.843.633 di euro di “autorizzazioni individuali” (cioè per singole licenze di esportazione) vanno infatti sommati i 1.012.348.699 euro di “licenze globali” e “licenze generali” e “intermediazioni” che rappresentano per le aziende uno strumento di semplificazione delle procedure: il totale definitivo delle autorizzazioni rilasciate nel 2021 è dunque di 4.661.192.334 euro, in leggero aumento rispetto all’anno precedente (4.647.446.532 euro).

Sul calo delle licenze individuali ha influito anche la diminuzione degli ordinativi soprattutto dei Paesi extra-UE che, con limitate risorse, hanno dovuto fronteggiare la pandemia da Covid-19. Anche per questo, per la prima volta negli ultimi sei anni, il valore delle autorizzazioni individuali all’esportazione verso i Paesi Ue e Nato supera quello dei Paesi esterni alle due alleanze politiche e militari dell’Italia: si tratta di 1,9 miliardi di euro (pari al 52,1%) a fronte di 1,7 miliardi (il 47,9%) rilasciati ai Paesi extra Ue-Nato.

Sempre più armi nelle zone di tensione

Ma anche quest’anno il primo destinatario delle nuove licenze per armamenti italiani è un paese del Medio Oriente, il Qatar, che con oltre 813 milioni di euro supera ampiamente Stati Uniti (763 milioni), Francia (306 milioni) e Germania (263 milioni). Tra i principali acquirenti figurano anche Pakistan (204 milioni), Filippine (99 milioni), Brasile (73 milioni), India (60 milioni), Emirati Arabi Uniti (56 milioni), Malaysia (48 milioni), Arabia Saudita (47 milioni) e l’immancabile Egitto (35 milioni) – che era stato il primo destinatario nei due anni precedenti – i cui corpi di polizia e enti governativi continuano ad essere riforniti dall’Italia di “armi leggere” tra cui pistole e fucili automatici. Più di 970 milioni di euro di licenze di esportazione (pari al 26,6%) riguarda l’Africa settentrionale e Medio oriente: un dato preoccupante considerato che quest’area costituisce una delle zone di maggior tensione del mondo. Una zona in cui il governo Draghi, come i suoi predecessori, ha dunque continuato a inviare armamenti. Mentre – come hanno rivelato vari sondaggi d’opinione – i cittadini italiani da anni chiedono ai vari governi di rispettare rigorosamente le norme della legge 185/1990 che vieta espressamente di esportare armamenti a paesi in guerra e i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.

Pubblicato il 17 maggio 2022 in Unimondo

giorgio.beretta@unimondo.org

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