Lettura

L’anima e la carne

di biblos

Il morbo” di Gian Ruggero Manzoni (Edizioni Diabasis)

Fossi stato nei panni dell’autore, avrei esitato a lungo prima di varcare la soglia del Palazzo della Letteratura, presentandomi al portone d’ingresso con un cognome così ingombrante. L’imbarazzo, poi, sarebbe senza dubbio cresciuto se avessi espresso il proposito di confrontarmi sullo stesso piano con il mio più celebre omonimo, scrivendo, cioè, un romanzo storico, ambientato per di più nel corso di un’epidemia di peste. Qui, però, terminano le affinità e i confronti, perché Manzoni (Gian Ruggero) decide di dare una forma completamente diversa ad una storia che avrebbe potuto facilmente correre il rischio di scivolare nella parodia.
Intanto, l’ambientazione delle vicende allarga il proprio orizzonte ben oltre le sponde di un tranquillo lago subalpino, toccando addirittura quelle opposte di un vasto e tempestoso oceano. Da un micromondo, conosciuto e ripercorso fino alla noia, a un macromondo ignoto, che può destare stupore e meraviglia al principio ma che la ragione riesce comunque a ricondurre al denominatore comune ad altri luoghi conosciuti, quello che si potrebbe sintetizzare nella abusata e logora formula “Tutto il mondo è paese”. Buoni e cattivi, amici e nemici, avidi e generosi, spavaldi e timidi si incontrano in ogni angolo della terra, anche il più remoto. A volte il viaggio e l’avventura sono pretesti per sfuggire a se stessi, altre volte stimoli per ritrovarsi e ricongiungersi con l’altra metà della propria anima.
In questo caso il protagonista sembra fermamente intenzionato ad attraversare la propria esistenza nelle vesti fiammeggianti dell’angelo vendicatore, consapevole di combattere una lotta che non potrà concludersi se non con la propria disfatta fisica, non certamente con quella dell’ideale che propugna.
Spirito libero, rivoluzionario, ribelle, anticlericale come possono esserlo solo certi romagnoli e – aggiungerei io – anche certi miei concittadini che ho conosciuto e che continuano a tramandare di padre in figlio i misfatti delle “Stragi perugine” di un secolo e mezzo fa, il protagonista viene proposto al lettore attraverso una fisicità che rasenta il più duro stile iperrealista. Niente ellissi né metafore, a voler celare i terribili dettagli di un fisico minato dal morbo e giunto ormai alla soglia della sua completa disgregazione, niente allusioni da romanzo ottocentesco, ogni cosa è descritta e narrata per come è.
Tra Luigi Compagnoni, il protagonista, e fra Martin de Campinas, l’antagonista che alla fine si fa amico e persino complice, si inserisce la bella e poetica figura di Jolanda, la creola che con estrema dedizione accudisce il Compagnoni morente. E’ una figura dipinta talvolta a leggere sfumature, talvolta con tratti decisi, che richiama e ricollega particolari dell’uno e dell’altro dei due attori principali della narrazione.
Luigi Compagnoni è soltanto un uomo, non un eroe romantico, non un martire, non un profeta, e come tale ci viene proposto dall’autore, anche se si tratta senza alcun dubbio di un uomo oltre la norma. Lui che della Chiesa ha conosciuto solo l’implacabile braccio secolare, che ha procurato a lui e ai suoi compagni sofferenze inenarrabili, non rinuncia, tuttavia, pur morente, a mantenere aperto il confronto e sgombra la mente da pregiudizi che gli impedirebbero di vedere l’uomo che si cela sotto il rozzo saio del monaco, consapevole che oltre l’abito, c’è sempre l’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù. Allo stesso modo si propone anche il frate, attore di un duello verbale che si conclude solo con la morte del protagonista, un duello condotto sul filo di una dialettica dei fatti contrapposti a parole che di questi fatti risultano sempre una difficile ed ambigua rappresentazone.
Ben più pericoloso della peste è il morbo che corrode e consuma l’individuo, il morbo del pregiudizio, che scava incessantemente nella mente di ciascuno di noi fino a svuotarla di ogni capacità di discernere. La morte della ragione coincide inevitabilmente con la morte della libertà, nel momento in cui ciascuno di noi consegna ad altri il proprio spirito imbavagliato e drogato, la libertà muore.
Un’ultima nota di merito va data alla lingua con cui sono state redatte le pagine del romanzo, una lingua ottocentesca che, anziché essere avvertita come un mero esercizio di stile, costituisce al contrario l’essenza stessa della storia, la materia che dà sostanza ai sogni dell’autore.
È un vero peccato che un’artista eclettico e a tutto campo come Gian Ruggero Manzoni non si dedichi in maniera più sistematica alle lettere, nelle quali potrebbe senza dubbio figurare ben più degnamente di tanti “besselleri” che continuano a riempire gli scaffali delle librerie. In un Autore si cerca sempre ciò che, al termine della lettura, ci fa sentire migliori di quando abbiamo preso in mano la sua opera. In questa difficile e spesso impossibile impresa Gian Ruggero Manzoni è sicuramente riuscito.

Il piacere di leggere, 21 aprile 2008

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Joë Bousquet – Il silenzio impossibile

di Alfonso Lentini

La misura breve della scrittura, che trova nell’aforisma la sua più nota espressione, ha morfologie svariate. Se l’aforisma è un giro di compasso che per quanto minuscolo risulta in sé concluso, altre forme di scrittura breve si accreditano in quanto puri e semplici frammenti e tendono verso l’apertura, somigliando a movimenti curvilinei la cui eleganza deriva proprio dal loro essere sospesi sul nulla, respiri solidificati, privi di inizio e di fine.
Antonio Castronuovo, squisito cultore di aforismi e scrittura frammentaria, opera in questo campo come autore in proprio, ma anche come traduttore e curatore, ed ha svolto negli anni in quest’ultima veste una preziosa ricognizione, spaziando in ogni tempo e in ogni latitudine, da scrittori della classicità antica come Sinesio di Cirene, al drammaturgo tedesco dell’Ottocento Friedrich Hebbel (i cui “Diari” erano vergati, si dice, su miriadi di foglietti volanti), allo scettico (e per questo inviso al fascismo) Giuseppe Rensi. Era naturale pertanto che prima o poi dovesse imbattersi nell’opera di Joë Bousquet, sospesa per sua arcana natura appunto fra aforisma e scrittura frammentaria.
Bousquet (1897-1950) è una figura appartata, ma non minore, di quella vasta spirale di artisti, poeti, pazzi e ribelli che fu l’esperienza del Surrealismo francese. Ferito in guerra e divenuto paraplegico, trascorse gran parte della sua vita intellettuale costretto all’immobilità nella penombra di una camera le cui pareti erano piene di quadri di Ernst, Mirò, Tanguy. Scrisse in queste condizioni una vasta teoria di opere (e abbozzi di opere, e ombre di opere, e sogni di opere) che formano nell’insieme le tappe di un unico journal.
Tutta l’opera di Bousquet sembra una sorta di rivisitazione allucinata del Viaggio intorno alla mia camera che un altro francese, Xavier De Maistre (fratello del più famoso Joseph) compose intorno al 1790 durante una sua forzata ma momentanea immobilità. A differenza di De Maistre, però, Bousquet non rimase chiuso nella sua camera solo nei 42 giorni di arresti domiciliari a cui l’altro era stato condannato: vi rimase per un’intera vita (al 41 di rue Verdun a Carcassonne), adagiato nel suo grande letto oramai tramutato in vascello di avventurose navigazioni mentali e afflitto da perenni sofferenze. Fra De Maistre e Bousquet, poi, c’è di mezzo il grande mare in tempesta del Surrealismo. La “malattia” del Surrealismo che cade a picco su una malattia materiale e inguaribile.
Il suo “viaggio” dunque non poteva essere ironico e scanzonato come quello di De Maistre, doveva essere per forza altra cosa: vagante, lancinante, onirico e sfrangiato.
Il silenzio impossibile (pubblicato a cura di Antonio Castronuovo dalle edizioni Via del Vento) propone ora per la prima volta in Italia un’ampia scelta di frammenti tratti da un quaderno di memorie, Le pays des armes rouillées (“Il paese delle armi arrugginite”) fra i tanti taccuini che Bousquet andava costantemente coprendo della sua fitta grafia, specialmente di notte.
Vi leggiamo righe (o solidificazioni di respiri) come queste: “Bisogna nascere di lato; ci si fa notare per gli sforzi compiuti a entrare nella fila. Un gatto in acqua, tutto qui”. E ancora: “Sono il punto di incontro in cui la luce è preda del buio”. “Sono sempre lo stesso e i miei giorni entrano dalla finestra: essi non giungono a me”. Annotazioni memoriali in cui però prevalgono ricognizioni oniriche: una specie di autobiografia del sogno, un capovolgimento del tradizionale genere memoriale che prevede il prevalere della veglia e del racconto realistico.
“Surrealizza il giorno, surrealizza la notte…” teorizzava infatti questo autore, il cui letto-vascello era divenuto intanto meta di visite sempre più frequenti da parte di poeti, filosofi e artisti come Ernst, Dalí, Bellmer, Miró, Klee, Valéry, Gide, Eluard, Aragon. La sua casa offriva rifugio ad ebrei perseguitati dal nazismo, mentre a distanza prendevano forma intrecci e amicizie con personaggi come Breton. Nel 1942 conobbe Simone Weil alla quale rimarrà legato sino alla morte.
Da lontano, nell’ombra, ma con un ruolo incisivo, Bousquet fu insomma una presenza-assenza, uno scrittore di grande finezza che le sofferenze e la prolungata immobilità trasformarono in uno straordinario “sensore predisposto all’ascolto dello spazio interiore” (Castronuovo).

Joë Bousquet
Il silenzio impossibile
a cura di Antonio Castronuovo

Via del Vento edizioni, Pistoia 2007. pagg. 35.

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Moonlighting

Venerdi’ 4 APRILE ore 21.30

Presentazione libro

Moonlighting di Gianni Giovannelli

Conduttori

Dino Silvestroni – Gianfranco Coccari

MAMA’S CLUB – Via S.Mama, 75 RA

Per la prima volta viene affrontato con esame lucido e critico il rapporto fra lavoro nero (moonligthing, appunto), organizzazioni criminali ed evasione fiscale: democrazia e legalità risultano un onere insostenibile per l’economia globale.
Sei milioni di lavoratori ogni giorno partecipano al ciclo italiano di accumulazione della ricchezza, svolgendo attività nell’economia sommersa.
Sono i fantasmi dei vari territori moonligthing. Sfuggono alle statistiche, alle ricerche, è difficile contarli. Ma sono il pilastro dell’intero sistema.

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La Voce di Pasquino

coertina del libroDa lettore conosco il patto che mi lega a tutti lettori: non annunciare mai il finale di un libro, tanto più se questo si colora di giallo anche se storico. Però posso sottolineare che gli Autori sono riusciti a trasportare nella trama del romanzo il personaggio di Salvatore Rosa con tutte le sue inquietudini e tutte le sue domande come la “storia” lo ha consegnato a noi posteri. Uno dei personaggi afferma che le domande sono più importanti delle risposte. Questa è la linea di indagine del poeta/pittore Salvatore Rosa; non si accontenta mai delle risposte che nei fatti trova. Sa bene, come nel suo quadro riprodotto in copertina, dove la Fortuna non ha la benda sugli occhi, che gli avvenimenti anche i più violenti non sono mai come appaiono, sono sempre legati da interessi, convenienze e silenzi, ecco perché è necessario riformulare le domande. Storia e romanzo si intrecciano per costruire una trama che non ha tempo. Però noi sappiamo che molti prima di noi hanno cercato nelle domande la vera chiave per capire la società, questa mi sembra una possibile lettura del libro: “La Voce di Pasquino”, l’altra, per svelare il colpevole, dovete leggerla voi.
Benito LA MANTIA – Gabriella CUCCA

La voce di Pasquino. Un’indagine di Salvatore Rosa nella Roma di papa Chigi.
Stampa Alternativa. Viterbo, 2008.

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