Mario Draghi

Dimenticare Draghi | Un’altra “Agenda”, un’altra onda

Foto di Elias da Pixabay

di Effimera


A cavallo di quest’onda, sballottato da sponda a sponda
Inseguendo un’altra volta la grande onda che ritorna

(La grande onda, Piotta )

Il governo Draghi è arrivato al capolinea e il 25 settembre si andrà a votare. Quasi tutti si disperano, dai grandi giornali (in primis Corriere e Repubblica) alle varie componenti della cosiddetta società civile. I più disperati sembrano essere i dirigenti del Partito Democratico, insieme alle loro costole che affollano il centro politico delle due Camere; ma li affiancano nel pianto dirotto gli scissionisti a 5 stelle, gli orfani di Berlusconi, la pattuglia che funge da complemento nella sinistra parlamentare. Il motivo di tanta disperazione per la caduta di Draghi è sempre lo stesso: la conclusione anticipata della legislatura non consente (a loro dire anzi ostacola e impedisce) di realizzare gli obiettivi emergenziali che il governo di unità nazionale si era proposto già all’inizio dell’investitura, e tra questi la cd. “agenda sociale”.

La stessa Cgil, che pure rivendica di essere il paladino più radicale dell’interesse dei lavoratori, in una nota stampa dello scorso 15 luglio, auspicava la necessità che si mantenesse “un governo in grado di dare risposte nel pieno delle sue funzioni” e ricordava il proficuo incontro tra le organizzazioni sindacali e il presidente del Consiglio Draghi del 12 luglio per individuare “interventi strutturali” per far fronte alla “crisi energetica, per il superamento della precarietà, per strumenti fiscali idonei a tutelare i salari e le pensioni dall’aumento dell’inflazione (leggasi: riduzione del cuneo fiscale, ndr), per un salario minimo e per una nuova legge che risolva finalmente il problema della rappresentanza”. L’azione sindacale iniziava, e al tempo stesso si concludeva, con una richiesta generica di ammissione al tavolo delle trattative, ferma l’esclusione dei sindacati di base, senza accenni alla posizione della CISL, apertamente e incondizionatamente schierata con l’esecutivo.

Non può non insospettire tanta preoccupazione per le condizioni dei ceti popolari, per il segmento crescente di povertà e per il precariato da parte di forze politiche sempre pronte a recidere i diritti di chi lavora. Quando si parla di “agenda sociale”, a che cosa si fa effettivamente riferimento? Il governo di unità nazionale, in questi 18 mesi, ha eroso le già prudentissime norme del decreto dignità, introdotto ostacoli all’erogazione del reddito di cittadinanza, ripristinato durante la pandemia la liberalizzazione dei contratti precari sottopagati. Ma non c’è stato un solo intervento legislativo – uno! – volto a rimuovere (o almeno cominciare a rimuovere) la discriminazione salariale in danno delle lavoratrici o capace di incidere sulle sacche di povertà assoluta o magari espressamente punitivo, con adeguate sanzioni, di chi usa il sottosalario sfruttando i bisogni esistenziali del precariato. Niente! Per lo più si è trattato di una politica di annunci a cui sono seguiti pochi fatti e questi fatti hanno spesso peggiorato, e non migliorato, le condizioni dei più deboli.

È oramai da più di un anno che il Ministro Orlando ha promesso il varo di una vera e strutturale riforma strutturale degli ammortizzatori sociali (luglio 2021), riconoscendo anzi che la misura era presupposto indispensabile per la ripresa. Quella che doveva essere una delle riforme essenziali per far fronte alla crisi si è poi tramutata nel varo di alcune misure particolari all’interno della legge di bilancio per il 2022, entrate in vigore lo scorso 3 gennaio. La cassa integrazione prevede ora un massimale unico, pari 1129,72 euro lordi mensili. Il sito del governo afferma che ci sarà un aumento di 200,00 euro mensili per i lavoratori che percepiscono meno di 2.159,48 euro. Non è proprio così, peraltro; il ritocco ha applicazione per fascia retributiva (200 euro lordi, pari a 154 netti, come tetto massimo), riguarda essenzialmente la fascia bassa, e per il tempo parziale va poi riproporzionato, senza tener conto dell’orario di fatto, ma conteggiando sulla base di quello formale senza prestazioni supplementari o straordinarie. Inoltre il massimale unico comporta un danno per chi invece percepisce di più di duemila euro lordi mensili, con una redistribuzione fra chi ne usufruisce di fatto. Oltre al nuovo massimale unico la riforma Orlando introduce un ampliamento a vantaggio degli addetti delle imprese in difficoltà per il caro-energia e l’ampliamento dell’ambito di applicazione del FIS, il Fondo di Integrazione Salariale. La misura sarà estesa a tutti i datori di lavoro appartenenti a settori e tipologie non rientranti nell’ambito di applicazione della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria e che non aderiscono a un Fondo di solidarietà bilaterale. La riforma prevede pure l’estensione del contratto di espansione alle imprese di minore dimensione, con proroga al 2023 e ampliamento del campo di applicazione anche alle imprese con almeno 50 addetti.

Di fatto le misure adottate finanziano le imprese, esonerandole dal versamento della retribuzione (a carico di INPS) e riducendo il costo dei contributi a loro carico; il beneficio dei lavoratori, che comunque vedono diminuire le entrate, è solo marginale, di contenimento del danno subito.  Nulla è stato fatto, nonostante dichiarazioni di segno opposto, per avviare una serie ristrutturazione degli stessi ammortizzatori sociali verso una loro semplificazione e armonizzazione, facendo passare il principio universalistico che deve essere tutelata la persona in quanto tale e non la sua condizione lavorativa. Si tratta di un principio, quest’ultimo, di carattere politico che inevitabilmente apre la strada verso un reddito minimo incondizionato quale unico strumento di sicurezza sociale. Per questo, l’agenda sociale di Draghi si fonda su presupposti completamente diversi, di stampo essenzialmente tradizional-liberista: indifferenza per l’allargamento della forbice fra ricchi e poveri, risorse destinate per la più larga parte alle imprese.

E infatti, anche con l’ultimo Decreto Aiuti che ha determinato la caduta dell’esecutivo, si è provveduto a irrigidire ulteriormente le condizionalità di accesso al reddito di cittadinanza, consentendo la chiamata nominativa dei percettori direttamente dai datori di lavoro (senza dover passare dai Centri per l’Impiego), con la conseguente abolizione del sussidio in caso di rifiuto non giustificato. Poiché la chiamata del datore non è sottoposta a regole inderogabili, ma si presenta in buona sostanza come una proposta unilaterale non trattabile, il destinatario si trova di fronte ad un vero e proprio ricatto: o accettare o perdere il beneficio.

Il Decreto Aiuti ha evitato di toccare il delicato crocevia di un trattamento retributivo non derogabile in basso e questo ha acuito il livello di scontro interno all’area governativa. Sul tema del salario minimo sono stati versati fiumi di inchiostro, soprattutto dopo la delibera europea che chiede la sua introduzione (pur se non la impone). Il Ministro Orlando ha promesso, con estrema prudenza e con una certa ipocrisia, un intervento al riguardo, ma dopo consultazioni con le parti sociali (esclusi naturalmente i sindacati di base). Ricordiamo che Cisl e padronato sono contrari all’idea di un salario minimo legale che prescinda dalle condizioni lavorative; la stessa CGIL nicchia temendo di essere superata nella capacità contrattuale dalla legge di tutela. Non dimentichiamo che una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano ha ritenuto non congruo il minimo salariale di un contratto nazionale di settore sottoscritto da CGIL, CISL e UIL perché inferiore al minimo vitale garantito dall’art. 36 della Costituzione! Non sorprende quindi che la proposta governativa Orlando, appoggiata in pieno dalle associazioni datoriali, vada proprio in questa direzione, legando sul campo il salario minimo ai minimi tabellari dei contratti settoriali di riferimento, variabili e contrassegnati da rapporti di forza diversi.  Orlando, fra le altre cose, finge di non sapere che in Italia l’assenza di leggi attuative degli articoli 39 e 40 della Costituzione conferisce carattere privatistico alla scelta di un settore piuttosto che di un altro e soprattutto impedisce di estendere erga omnes la contrattazione collettiva. La Corte Costituzionale, con la sentenza 19.12.1962 n. 106 cancellò la c.d. legge Vigorelli che aveva concesso efficacia generale ai trattamenti dei CCNL di settore. E non indica limiti minimi di trattamento economico nella stesura dei contratti di categoria. Più che un miglioramento sembrerebbe, quello di Orlando, il tentativo, contro i lavoratori, di vanificare la portata dell’art. 36 della nostra Carta. Anche in questo caso, si vuole imporre una logica selettiva e non universalistica: la stessa degli  ammortizzatori sociali. Nell’attuale crisi della contrattazione collettiva e nella fase di perdurante perdita di potere d’acquisto, sino a far emergere una vera e propria questione salariale, solo l’instaurazione di un salario minimo legale per tutte e tutti, a prescindere dal tipo di prestazione effettuata, ad un livello minimo di euro 12 euro lordi, può creare quel pavimento che possa interrompere il dumping salariale verso il basso, conseguenza della precarietà dilagante e oggi fuori controllo e prima causa della crisi della contrattazione collettiva. Non sarà d’accordo il Giudice penale di Piacenza che qualifica come estorsione la lotta sindacale per ottenere trattamenti più favorevoli di quelli minimi nazionali; ma è invece prassi diffusa e ragionevole quella di fissare un limite minimo retributivo, lasciando al conflitto sociale trattamenti superiori. L’ordinanza del Giudice di Piacenza, in accoglimento delle istanze della Procura, è quella che ha disposto l’arresto di numerosi attivisti sindacali di USB e di SI COBAS nei giorni della crisi di governo e della discussione sul salario minimo.

Anche sul tema della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva si sono spese molte parole, ma senza nessun fatto. È diventato usuale in Italia, unico paese in Europa, rinnovare i contratti collettivi con un ritardo medio di tre anni. Al punto, che la ragione principale dei pochi scioperi che vengono indetti non riguarda il merito del rinnovo ma la richiesta di avviare le trattative. Si tratta di una politica contrattuale scientemente utilizzata dal padronato per risparmiare ulteriormente sul costo del lavoro. Infatti, quando il contratto viene rinnovato, la “vacatio” contrattuale viene risarcita con somme miserevoli, di gran lunga inferiori a quelle che sarebbero spettate ai lavoratori e alle lavoratrici se il contratto fosse stanno rinnovato nei tempi previsti.

Nel frattempo, l’”agenda sociale” di Draghi si materializza concretamente nel DDL sulla concorrenza, la cui logica si fonda esclusivamente sulla filosofia del New Public Management (NPM). Esso detta nuove regole di gestione del settore pubblico, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglo-sassoni, dove si è diffuso il sistema di workfare, integrando le gestioni tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato economico (o al limite ad annullare le possibili perdite). La finalità è decretare la scomparsa della sfera pubblica senza che scompaia del tutto la proprietà pubblica, immergendola nelle leggi del mercato, non più improntata al buon andamento della società, in funzione delle esigenze della collettività. È il trionfo dell’individualismo anche nella sfera pubblica. La sanità, così come il sistema d’istruzione e la pubblica amministrazione, vengono amministrate in base a criteri che non contemplano la qualità dei servizi, dal momento che per il NPM la qualità non è altro che una proprietà derivata dalla quantità – e della quantità contano solo gli aspetti economici, che vengono valutati attraverso il benchmarking: invece di fissare gli obiettivi di un’istituzione in base ai suoi scopi (tipo curare i malati per la sanità, istruire per la scuola), si stabilisce uno standard astratto – il benchmark – che dovrebbe consentire di mettere a confronto diverse istituzioni.

Se si deve favorire la logica del mercato, ovvero le sue gerarchie, l’azione governativa si fa sentire. Se si deve intervenire sul tema della sicurezza sociale, alle parole non seguono fatti. Anzi. L’incertezza normativa e l’insicurezza sociale marciano insieme e diventano parte integrante del programma, ovvero dell’agenda sociale, di un esecutivo che non accetta più neppure l’ingerenza o la critica parlamentare. Maggiore ascolto viene dato, eventualmente, alla pressione lobbistica, o perfino all’arroganza criminale (la cronaca giudiziaria di queste ore narra di un compenso fisso, rilevato dall’inquirente milanese dottoressa Cerreti, versato alla ndrangheta per velocizzare le pratiche amministrative!).

È il caso, ad esempio, che abbiamo già ricordato su Effimera del venir meno della responsabilità in solido per le grandi imprese committenti nella logistica (Tnt, Amazon, Leroy Merlin, ecc.) quando le imprese subappaltanti non pagano adeguatamente i propri dipendenti. Un duro colpo per le condizioni di lavoro in un comparto già caratterizzato da ampi livelli di sfruttamento e di non rispetto delle regole. Altro che salario minimo: l’agenda Draghi tende a costruire la riduzione di quello reale!

Ma tutto ciò non basta. L’esperienza del governo di unità nazionale, dell’agenda Draghi, è quella di varare un modello di governo tirannico e liberista insieme; e sia destra sia sinistra sono pronte a raccogliere i frutti della velenosa semina in questo ultimo scorcio di legislatura. Si aggiunge, mentre cade l’esecutivo e si annunciano le nuove elezioni, un nuovo capitolo, pesantemente repressivo, come testimoniano le inquietanti accuse formulate contro alcuni sindacalisti di base nel polo logistico di Piacenza. La dottoressa Sonia Caravelli, Giudice per le Indagini Preliminari presso il locale Tribunale, ritiene assolutamente normale l’uso di intercettazioni telefoniche fin dal 2016 (per oltre sei anni!) nei confronti di attivisti sindacali; la contestazione di un reato quale associazione per delinquere viene ricondotto ai tipici delitti con cui il codice Rocco colpiva lo sciopero: violenza privata, danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale, minaccia, blocco stradale, violazione del domicilio. L’ordinanza della dottoressa Caravelli che dispone l’arresto di una pattuglia di sindacalisti sotto inchiesta da oltre sei anni è a modo suo un capolavoro tecnico giuridico che ci riporta indietro negli anni; andrebbe letta nelle scuole, recitata a teatro, diffusa nei centri sociali, inserita in video con una platea di quei lavoratori immigrati che sono il bersaglio del Tribunale e che costituiscono la base del profitto ingiusto acquisito dalle multinazionali mediante inaccettabile sfruttamento della manodopera. Questa è l’agenda Draghi: una tenaglia di emendamenti inseriti da abili manine e di ordinanze decise a reprimere il dissenso ribelle nella logistica.

Si legge nell’ordinanza dei giudici: Le lotte della logistica sono finalizzate a ‘estorcere’ alle società condizioni di miglior favore per i lavoratori, che ovviamente prevedono un aumento dei costi per le aziende. Il Tribunale si erge a sociologo, a storico, a censore sociale, e non esita a sostenere che i due sindacati di base si erano trasformati, di fatto, da lecite strutture in associazioni per delinquere, poiché i loro dirigenti creavano ad arte od alimentavano situazioni di conflitto con la parte datoriale […] avviando attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti interessati, impedendo ai mezzi di entrare e uscire, anche occasionando scontri con le forze dell’ordine, occupando la sede stradale anche con oggetti oltre che con la persona dei lavoratori istigati allo scopo, ponendo in essere continue azioni di sabotaggio” (pag. 2). Per la verità il sabotaggio (articolo 508 del codice penale) disciplina casi un po’ diversi, non è il picchetto e neppure il blocco dell’ingresso, riguarda l’occupazione e l’invasione dello stabilimento, appropriandosi di macchinari e scorte; per giunta le aziende debbono essere agricole o industriali, non logistiche o di trasporto. Ma sono dettagli per la nostra giudicante.

Ricordiamo tutti che a Piacenza e a Biandrate (Novara), due lavoratori sono morti, travolti dagli autisti dei mezzi pesanti determinati a superare qualsiasi ostacolo; poco possono i corpi umani disarmati contro un bilico o un camion. Eppure, l’autista è stato prosciolto a Piacenza, da tutte le imputazioni, neppure tenuto a risarcire la vittima. Nel secondo e più recente caso, in Piemonte, il procedimento langue. Gli unici colpevoli sembrano al momento essere i compagni dei defunti.

Contro le medesime organizzazioni sindacali (Si Cobas e Usb) agisce invece la potente Assologistica; assistita dal prestigioso studio del giuslavorista Pietro Ichino ha chiesto i danni e l’udienza sarà chiamata presso la Sezione Lavoro del Tribunale di Milano, nel prossimo mese di settembre. La premessa di Assologistica, anche in sede civile, è la medesima: le forme di lotta nel settore logistico sono illecite, illegali e penalmente rilevanti. L’azione per danni ha lo scopo preciso di dissuadere, di creare difficoltà al sindacato di base, di piegarlo anche sul piano economico oltre che sul piano politico. Una manovra a tenaglia, che rientra pienamente nella filosofia del diritto che caratterizza i governi di unità nazionale.

Poiché questa è l’agenda sociale di Draghi, non ci strappiamo di certo i capelli per la sua caduta. Per “agenda  sociale”, noi intendiamo invece l’introduzione di un salario minimo orario a prescindere dalla condizione contrattuale, sanzioni ed esclusione dalle gare (pubbliche e private) per chi non lo applica, l’introduzione di una penale pagata delle imprese a favore dei lavoratori e del loro salario per ogni mese di ritardo del rinnovo contrattuale o nel pagamento, l’estensione del reddito di cittadinanza in forme sempre più incondizionate a favore di una armonizzazione degli ammortizzatori sociali che non sia legato allo status e condizione professionale, in senso universalistico, una riforma fiscale progressiva che contempli anche una tassazione dei grandi patrimoni e una web tax sui profitti delle grandi piattaforme della logistica e non solo. Nell’agenda sociale di Draghi fa capolino nuovamente il nucleare e neppure viene esclusa la privatizzazione dell’acqua, contro l’esito di ben tre referendum e contro la volontà popolare; nell’agenda sociale di chi a Draghi si oppone deve invece risaltare il NO netto e chiaro ad entrambe le restaurazioni, costringendo ogni forza politica alla chiarezza, per evitare l’ennesima frode.

Vogliamo anche ricordare che, nei profondi recessi della crisi infinita – che ha raggiunto l’apice con la spesa pubblica dirottata dai tanti bisogni sociali scoperchiati dalla pandemia verso gli armamenti e la guerra – la stagnazione e l’immobilità sociale hanno avuto ripercussioni particolarmente dure per le donne, la cui subalternità sul piano economico e decisionale viene svelata dalle statistiche sull’occupazione, sui salari, sulla assenza nei luoghi del potere. L’assenza di servizi sociali adeguati è ciò che ancora oggi, in Italia, vincola le scelte, i desideri, le libertà femminili. Cosicché delle donne italiane, nell’anno 2022, resta esclusivamente una malinconica e ingiusta rappresentazione in termini di marginalizzazione e inferiorizzazione. Che cosa dovrebbero rimpiangere, le donne di questo paese, di Mario Draghi e della sua azione politica?

Lo stesso ragionamento potrebbe essere condotto dalle generazioni più giovani, condannate alla più cruda povertà da una precarietà che si estende nelle maglie della vita: il lavoro ha perso ogni valore, economico, sociale, addirittura culturale mentre il capitale viene protetto e celebrato dalla politica. Lo diciamo da convinti non lavoristi: la precarizzazione estrema, e il dumping sociale che oggi caratterizzano e segnano l’attuale dinamica del mercato del lavoro, enfatizzata dal succedersi delle crisi dal 2008 fino ai precipizi odierni, ha svilito il significato della parola lavoro. Aumentano i casi di giusto e legittimo rifiuto di condizioni di lavoro, sottopagate e degradate. Tuttavia, il fenomeno rischia di assumere tendenze nichiliste se non accompagnato da strumenti di politica e sicurezza sociale che permettano lo sviluppo di processi di autodeterminazione della persona.

Riteniamo che siano questi i temi e le proposte che devono stare al centro dell’”agenda sociale”, così intesa, nell’imminente campagna elettorale che, al solito, sarà caratterizzata da promesse vane e da menzogne. Sperando dunque in una nuova grande onda che li faccia traballare e preoccupare: il nostro sguardo è rivolto là.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 28 luglio 2022

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Mario Draghi: il massacro delle illusioni

Immagine: Regno Unito, 1915, operaie impiegate nella lavorazione del TNT, trinitrotoluene o tritolo

di Joe Vannelli

Là dove si trova un esercito i prezzi sono alti,
là dove i prezzi salgono la ricchezza del popolo
si esaurisce. Quando la ricchezza è esaurita il
popolo sarà afflitto da richieste fiscali pressanti.

Sun Zu, L’arte della guerra
(Milano, 1965, II, XII, pag. 119)

In occasione del 1 maggio 2022 è stato reso noto l’annuale rapporto Censis-Ugl e non è difficile scorgere nell’elaborazione e nella ricchezza di dati sostanziali l’insegnamento di Giuseppe De Rita, fondatore dell’Istituto nel 1964 e dal 2021 membro del Consiglio d’Indirizzo presso Palazzo Chigi. A dispetto dei suoi novant’anni al governo sentono ancora il bisogno di questo inossidabile grand commis formatosi, come Mario Draghi, presso i gesuiti, nel liceo romano Massimiliano Massimo.

I dati oggettivi degli studi statistici

Lo studio pone questioni oggettivamente ineludibili che, tuttavia, i nostri parlamentari si ostinano a non ritenere tali. In dieci anni, ovvero da quando un mediocre economista, Mario Monti, ebbe a varare una disastrosa riforma delle norme che regolano il rapporto di lavoro e il trattamento pensionistico (2012), invece della promessa ripresa, abbiamo registrato un crollo. La retribuzione di fatto è diminuita in modo assai consistente, la misura individuata dalla ricerca è pari ad 8,3%; questo dato, già significativo, risente ora, di giorno in giorno, degli effetti connessi all’inflazione, e in particolare all’andamento dei prezzi nel settore energetico. Oggi, dopo la cura elaborata da pretesi esperti, il 13% della popolazione italiana si colloca sotto la soglia di povertà, proprio mentre una canea di analfabeti, spacciati per studiosi e/o giornalisti, non si fa scrupolo di invocare il taglio del reddito di cittadinanza e perfino degli ammortizzatori sociali. Il rapporto del Censis pubblicato il 3 dicembre 2021 (prima della guerra in Ucraina) è implacabile: l’Italia è l’unico fra i 38 paesi che aderiscono all’OCSE – organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – in cui la retribuzione dei lavoratori è diminuita nel trentennio 1990/2020, nella misura del 2,9%. Nello stesso arco temporale si è registrato un aumento salariale del 31,1% in Francia e del 33,7% in Germania. Dunque l’alternanza dei governi di centrodestra, di centrosinistra e di tecnici non ha comportato mutamenti di rotta, con malvagia coerenza ha sempre trovato conferma l’esproprio sistematico dei salariati.

Con l’inflazione il dispotismo attacca

Nel corso dell’audizione alla Camera in data 27 luglio 2021 il presidente di ISTAT, Gian Carlo Blangiardo, ha confermato (pagina 12) che è in forte crescita la povertà assoluta e non solo nelle regioni arretrate: nel nord ovest si è passati dal 5,8% al 7,9% mentre nel nord est dal 6% al 7,1%. L’allargamento della forbice caratterizza, sia pure in forma meno accentuata, anche i paesi del nord, Belgio e Olanda compresi.

Secondo le sostanzialmente unanimi diverse rilevazioni economiche già nell’ottobre del 2021 – dunque prima della guerra – l’inflazione si è posta come elemento costante, tanto da determinare un aumento dei costi di produzione industriale prossimo al 20%, con inevitabili effetti a cascata. In particolare vi è stato un incremento, clamoroso e inarrestabile, dei prezzi nel settore energetico: elettricità, gas, petrolio sono raddoppiati e le stime meno inquietanti si collocano comunque almeno sulla soglia di 80%. Nonostante il taglio drastico delle retribuzioni percepite sia dai subordinati sia dagli autonomi la rete industriale italiana fatica a mantenere il passo, così che, per la prima volta dopo molti anni, gli analisti cominciano a considerare l’eventualità, in alcuni casi, di possibile stagflazione.

L’erosione del reddito esistenziale di fatto subisce inoltre un aumento sinergico a causa del contestuale taglio degli ammortizzatori sociali, che durante la pandemia si è rilevato soprattutto in ambito sanitario, con una palese contrazione dell’assistenza. Mentre i profitti delle società farmaceutiche crescevano in progressione geometrica, sottratti già in origine al fisco e al patrimonio dei singoli stati nazionali, la privatizzazione della salute proseguiva, anche con il quotidiano ricatto di versare una tangente legalizzata o di attendere tempi biblici, con il rischio di morire prima dell’accesso al servizio.

L’attacco al precariato si pone come obiettivo quello di cancellare ogni forma di contrasto e di ribellione alla conquista dell’intera esistenza di ogni suddito, reso precario sul piano contrattuale e impaurito sul piano psicologico; il moderno capitalismo finanziarizzato si articola in forme diverse per esercitare un pieno dominio, ma ciascuna forma ha quale caratteristica comune il dispotismo politico, economico, giuridico, sociale. La guerra e la prevaricazione, la paura diffusa e l’incertezza costante, sono intrinsecamente legate, tutte, all’esercizio del comando, ne sono anzi elementi costitutivi; l’autocrazia del XXI secolo prescinde, a ben vedere, dal tiranno quale soggetto titolare di una propria autonomia, e ormai anche dalla forma stato contingente. Il potere, sempre più sganciato dall’ideologia e dalla religione, si fonda piuttosto sulla menzogna spettacolare, è capace di trasformare il falso oggettivo in vero reale, con le armi, con la comunicazione, con il denaro, con il terrore.

L’attuale governo italiano di larga intesa intende completare il percorso intrapreso colpendo le due ultime roccaforti di resistenza popolare: la casa e il risparmio della famiglia.

La casa. Il recentissimo dibattito sulla revisione degli estimi catastali si prefigge di aumentare il prelievo statale e solo un ingenuo può fidarsi della parola di un banchiere abituato, fin da giovanissimo, ad esercitare l’arte della speculazione, mentendo ai mercati. Mario Draghi non riusciva a trattenere un sorriso divertito mentre spiegava ai membri delle due Camere che la rivalutazione del valore degli immobili non si sarebbe in nessun caso concretata in un maggior costo per la vasta platea dei piccoli proprietari: non si capacitava di essere creduto! Già. In Italia, negli anni trascorsi, grazie soprattutto alla forza del movimento operaio e contadino, i meno abbienti avevano ottenuto il mattone, percepito come un bene rifugio in cui ripararsi durante i tempi grami. Come noto il nostro è il paese europeo in cui i ceti popolari hanno, in percentuale, la maggior quota immobiliare, non solo di prime case, ma anche di laboratori artigianali, abitazioni rurali o di secondo soggiorno.

Il risparmio di famiglia è un’altra caratteristica peculiare italiana. Difficile calcolarlo esattamente – gli italiani sono gente che diffida dei potenti e dello stato – ma con gli strumenti informatici nascondersi diventa ogni giorno più difficile: richiede una professionalità che solo gli speculatori finanziari possiedono in pieno. Secondo il Censis il risparmio/patrimonio si è ridotto del 5,3% negli ultimi dieci anni; i depositi ammontano comunque a 967 miliardi, una somma considerevole. I dati offerti presentano tuttavia contraddizioni evidenti, generati probabilmente dalla diversa modalità di acquisizione. Secondo ABI (la struttura bancaria) il risparmio complessivo sarebbe cresciuto del 10% fra il 2019 e il 2020, calcolandolo in 1.737 miliardi; Eurostat rileva invece un calo del 4,6% nel 2021 in confronto ai trimestri precedenti, con un taglio che non ha determinato aumento di consumi (questo vorrebbe dire che l’uso delle somme accantonate è servito per far fronte a debiti già accumulati, non per investimento).

Necessiterebbe una lettura più ragionata per comprendere meglio il significato esatto di questi numeri, apparentemente in contrasto logico, e lascio volentieri il compito a chi possiede maggiore professionalità e competenza. Rimane tuttavia – e questa è una valutazione politica più che strettamente tecnica – che si prospetta assai probabile un programma di aggressione alla quota di risparmio, nella migliore delle ipotesi per trasformare risorse inutilizzate in investimenti produttivi (magari speculativi), nella peggiore per sanare il deficit senza toccare le grandi imprese. O, forse, nell’ottica a breve termine che caratterizza il progetto neoliberista negli ultimi anni, solo per sopravvivere un altro semestre, senza curarsi della prossima generazione, magari sperando in una qualche neo-hegeliana astuzia della storia.

Il dispotismo di Mario Draghi

Alberto Quadrio Curzio, un valtellinese sempre attento alle cose del mondo, fu tra i primi a cogliere l’importanza della riunione romana in cui fu presentato il rapporto elaborato da Mario Draghi e Raghuram Rajan su richiesta del Gruppo dei Trenta. Il titolo era assai suggestivo: Reviving and Restructuring the Corporate Sector post Covid. Rajan era stato il governatore della banca indiana di stato fra il 2013 e il 2016; di lui ricordiamo un saggio scritto a quattro mani con Luigi Zingales, Saving Capitalism from the Capitalists, elogio senza remore del più bieco liberalismo finanziario, privo di qualsivoglia tentazione pacifista o anche solo solidaristica. Dopo la rottura con il leader nazionalista indiano Narendra Modi, Rajan era rientrato a Chicago, accompagnato dall’accusa di aver utilizzato e trasmesso, per fini propri, informazioni riservate. A Roma era presente Janet Yellen, attuale segretario del tesoro nell’amministrazione Biden; l’Italia sarebbe stato il laboratorio politico economico del nuovo corso americano, con il conferimento dell’incarico di governo a Mario Draghi. Quando il Gruppo dei Trenta propone – la sede è a Washington – e il governo USA approva, i parlamentari italiani debbono eseguire, limitandosi di volta in volta a ripartire i voti fra una maggioranza richiesta e un’opposizione che, per decoro istituzionale, deve, almeno apparentemente, esistere. Il presidente emerito dell’Accademia dei Lincei, professor Quadrio Curzio, nel suo acuto commento del 16 dicembre 2020, mostrò di aver perfettamente compreso l’ormai prossimo procedere degli avvenimenti politici, in Italia e in Europa. Neppure due mesi dopo, il 13 febbraio 2021, il nuovo esecutivo prestava giuramento preparandosi a realizzare quanto deliberato out there. I rappresentanti dei lavoratori italiani, nelle due Camere, negli enti territoriali, nei sindacati, si guardarono bene dal lottare contro e perfino dal protestare con troppa energia. Un po’ per interesse, un po’ per codardia, ma soprattutto per mancanza di prospettive concrete e di seguito nel territorio. Si sono guadagnati sul campo il disprezzo con cui vengono trattati.

La strage delle illusioni

In un breve saggio scritto nel 1824 (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani) Giacomo Leopardi notava che l’ambizione può aver varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica e dallo stato politico della società … e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni.

Da ormai tre mesi il tema della guerra è dominante. Prima dell’invasione russa in Ucraina lo scontro epocale che caratterizzava la cronaca italiana era fra presunti sì vax e presunti no vax; ora la contesa riguarda i difensori della libertà democratica (la NATO) e i paladini dell’autocrazia (Putin). A ogni facchino/a precario/a del settore logistico e a ogni addetto/a all’inserimento dati nel gran mare telematico immateriale viene chiesto di schierarsi; il quesito è presentato con tale impeto che riesce difficile evitare una risposta, e molto spesso, pur di farla finita, si risponde con la pancia, magari a casaccio, in ogni caso senza convinzione.

La resistenza presuppone la caduta del governo e la sua sostituzione con altra struttura istituzionale controllata dall’occupante; sicuramente fu il caso francese durante la seconda guerra mondiale, quando i ribelli guidati da De Gaulle si unirono all’opposizione socialcomunista per rovesciare il governo di Vichy. E sicuramente non è il caso della repubblica Ucraina, visto che il governo rimane in carica. La Russia è attaccante, dunque l’Ucraina è resistente: non c’è dubbio. Ma si tratta di uno scontro fra due eserciti di mestiere, entrambi con una quota di coscritti arruolati a forza e con un supporto di mercenari (chiamati con eufemismo volontari); i rispettivi comandanti non hanno mai inteso mettere in discussione la fedeltà ai rispettivi presidenti. I russi, a differenza del nostro Manzoni, non coltivano il vero per soggetto e chiamano liberazione quella che gli ucraini denunciano come invasione; non c’è dubbio che in base alle vigenti norme del diritto internazionale gli invasi abbiano sempre ragione. Ma insurrezioni, rivoluzioni e conquiste tendono, per loro natura, a rifiutare le regole, preferiscono senza dubbio sottrarsi ad esse; non per caso Russia, America e Ucraina si sono rifiutate fino ad oggi di riconoscere le decisioni del TPI, il Tribunale Penale Internazionale. Usando le norme internazionali vigenti (peraltro spesso disconosciute dagli Stati) quale criterio tecnico giuridico per la risoluzione delle controversie territoriali, dovremmo ri-disegnare la geografia politica del pianeta, cosa per nulla agevole e anzi probabilmente impossibile. Israele dovrebbe restituire il Golan alla Siria? In Somalia a chi assegnare territori vasti come Puntland o Galmudugh?

In realtà Israele sostiene, ad esempio, la piena legittimità della presenza in Golan sulla base di una articolata sequenza di ragioni politiche (la cui validità è negata dalla Siria) così come il Puntland fonda la propria, non riconosciuta, autonomia su una sorta di diritto naturale. Il conflitto fra giusnaturalismo e positivismo giuridico dura fin dalla notte dei tempi. La distinzione fra aggredito e aggressore è certamente suggestiva, e altrettanto certamente non priva di importanza; ma non risolve il problema connesso alla guerra e le grandi potenze non hanno mai deciso, in concreto, chi sostenere sul solo rilievo di chi avesse preso l’iniziativa. La letteratura militare è ricca di testi sulla guerra preventiva intesa come guerra difensiva; una giustificazione teorica si trova sempre per ogni azione.

Ucraina e Russia vogliono entrambe il possesso e il controllo sulla Crimea e sul Donbass; la prima per la posizione strategica, il secondo per i giacimenti di gas, petrolio e altre ricchezze del sottosuolo. Non intendono rinunziare a questa formidabile opportunità, e si trascinano dietro i rispettivi oligarchi (più banalmente: imprenditori avventurosi e avventurieri) i quali, negli anni, hanno accumulato fortune immense sfruttando la manodopera e depredando le comunità. La messa in scena spettacolare dei princìpi universali più diversi è solo un espediente per nascondere la realtà di una guerra per le risorse e per il controllo di un mare.

Mario Draghi è schierato con gli Stati Uniti, con la NATO, con le banche occidentali, con i suoi amici di sempre. Non cerca gloria e non cerca libertà; il suo interesse è rivolto esclusivamente al bottino, l’unico fascino cui, fin dall’infanzia, si mostra costantemente sensibile, con lodevole coerenza. Quest’uomo è andato oltre l’ormai superata etica protestante descritta da Max Weber; l’ha rinnovata con il cattolicesimo meticcio di Biden, un misto di liberismo e di Santa Inquisizione, forgiato nelle parrocchie del Delaware. Il capitalismo di Putin si prefigge lo stesso obiettivo. Per mettere le mani sul medesimo bottino non esita ad invocare i sacri valori del cristianesimo ortodosso, la tradizione imperiale zarista, perfino le imprese dell’Armata Rossa.

Nella incessante ricerca del profitto, inteso come bene Supremo, Putin, Biden, Draghi e Zelensky hanno ucciso i valori; piegando alla moneta democrazia e libertà si sono macchiati di un crimine, la strage delle illusioni.

La legislatura si avvia a conclusione

Piuttosto in sordina la legislatura si avvia verso la naturale conclusione e nelle file dei partiti monta un sordo rancore, si moltiplicano i complotti, si preparano le risse. Il taglio al numero di parlamentari alimenta il clima di sospetto e di congiura, senza che ad oggi sia stato possibile risolvere la questione della legge elettorale, fra le due ipotesi del maggioritario e del proporzionale. Le ormai vicine elezioni amministrative non sembrano sufficienti, comunque vadano, a determinare la scelta. Nel frattempo i due rami del Parlamento vivacchiano rassegnati alla loro irrilevanza, chiamati solo a ratificare le decisioni del Gruppo dei Trenta e della Commissione, trasmesse con arroganza da Mario Draghi senza consentire modifiche o, tantomeno, rifiuti. Quando una forza di maggioranza abbozza forme di protesta provvede la cosiddetta opposizione al salvataggio dell’Esecutivo; davvero la cabina di comando può contare su larghe intese.

I risultati del 2018 erano stati, in una certa misura, sorprendenti. Il primo governo Conte, definito gialloverde, si chiuse con una rottura, ma, a differenza di quanto sperava il gruppo dirigente leghista, non portò ad elezioni anticipate. Seguì invece il secondo governo Conte, definito giallorosso, con maggioranza nuovamente risicata, ma unita grazie al collante di un imprevisto, la pandemia. E si caratterizzò per l’introduzione del meccanismo tecnico giuridico di leggi delega, decreti legge convertiti mediante apposizione della fiducia e decreti ministeriali. Questo metodo di governo, a modo suo innovativo, ha creato un precedente che sarà nel prossimo futuro difficile rimuovere. Mario Draghi lo ha ereditato e ben volentieri confermato, esautorando le Camere nonostante l’ampiezza del consenso.

Dopo la pandemia anche la guerra non è sfuggita alla regolamentazione sganciata dal dibattito parlamentare, sottraendo ad ogni verifica di merito la scelta di appoggio militare alla NATO e agli USA. In assenza di voto parlamentare il Governo Draghi ha varato, a distanza di pochi giorni (25 e 28 febbraio 2022), due decreti legge di immediata attuazione (n. 14 e n. 16). Il primo disponeva (articolo 2) la cessione gratuita di mezzi non letali di protezione per le autorità governative ucraine con scadenza 30 settembreIl secondo, tre giorni dopo, modificava radicalmente il quadro. Senza alcuna limitazione – e in assenza di riferimenti al costo o alla gratuità – il primo comma dell’art. 1 disponeva: fino al 31.12.2022 previo atto di indirizzo delle Camere è autorizzata la cessione di mezzi, materiali, equipaggiamenti militari. Una vera e propria delega in bianco, da esercitarsi a mezzo di decreti ministeriali che non necessitano più del voto parlamentare. Decide dunque il ministro della difesa, Lorenzo Guerini (PD, corrente moderata), di concerto con Luigi Di Maio (esteri, 5 Stelle) e Daniele Franco (economia, Banca d’Italia), senza rendere conto a nessuno; per aggiunta, con ulteriore innovazione, il testo con l’elenco delle armi è secretato. Quattro giorni dopo l’invasione si prevedeva dunque non una guerra lampo (come cianciano i commentatori) ma un conflitto presumibile fino al 31 dicembre (almeno dieci mesi) con impiego illimitato di forniture militari alla repubblica ucraina per la difesa del territorio nazionale. Il decreto legge n. 14 è stato poi convertito nella legge 5 aprile 2022 n. 28, assorbendo il contenuto del decreto n. 16, lasciato decadere, con salvezza dei provvedimenti adottati (l’invio di armi). Non è vero pertanto che esistano limiti, qualitativi e quantitativi, all’invio di forniture belliche in Ucraina; è vero invece che le due Camere (contro il volere dei cittadini italiani, almeno secondo tutti i sondaggi) hanno rimesso ogni decisione al ministro Lorenzo Guerini, rendendolo libero di fare quel che vuole fino al 31 dicembre 2022, quale che sia la spesa. A prescindere direbbe Totò.

In questo caotico svolgersi degli eventi non si possono neppure escludere del tutto sorprese, con elezioni anticipate entro l’anno. Ma, con maggiore probabilità, la gestione affidata dal Gruppo dei Trenta a Mario Draghi proseguirà senza incontrare altro ostacolo che il mugugno. Questo, dal punto di vista precario, è un vero peccato.

La caduta del governo sarebbe un fatto positivo

Il precariato italiano nulla avrebbe da perdere, anche se poco da guadagnare, in caso di inattesa crisi del governo Draghi.

La composizione attuale regge su un compromesso elaborato dal neocapitalismo finanziario, per necessità contingente: per poter completare l’opera di precarizzazione e sottomissione ai danni di un’intera popolazione lascia vivere il vecchio apparato di funzionari, di faccendieri, di gendarmi, quando occorre perfino di criminali (questi ultimi con maggiore prudenza, naturalmente). Le cariche e le provvigioni servono anche a questo; il ceto imprenditoriale emergente si è dimostrato capace di aspettare con pazienza il concludersi della transizione, si accontenta per ora del denaro senza rinunziare al sogno del potere anche formale.

L’insieme dell’apparato è ancora necessario per rendere inoffensiva l’opposizione, distribuendo con sapienza qualche buona occasione ai ribelli più utili mediante cooptazione oppure estromettendo le menti potenzialmente più pericolose. L’opera di bonifica procede con metodo; l’arruolamento dei rappresentanti eletti nel territorio, in sede nazionale o europea, sembra rassicurare la cabina di comando. Bisogna saper cogliere l’occasione, magari con maggior utile di un Bobby Seale o di una Angela Davis. Mario Draghi è un esempio, quanto a proficua riservatezza. Dal matrimonio con la discendente di Bianca Cappello (la moglie di Francesco de’ Medici) sono nati due figli: Giacomo si occupa dal 2017 di investimenti speculativi (i famosi hedge funds) per LMR Partners (2,5 miliardi) e Federica, dirigente di Genextra, attende il via libera per il fondo farmaceutico X Gen (il programma è quello di guadagnare investendo in farmaci e vaccini). Qualcuno ritiene che possa sussistere un conflitto di interesse, ma il fedele bracco ungherese conosce bene l’intera famiglia e giura che non esiste alcun pericolo; a Città della Pieve è rigorosamente vietato parlare di affari. L’unico a protestare, abbaiando, è un altro cane, ma totalmente inaffidabile: si tratta di Vernyi, il molosso turcomanno di Putin, discendente di una razza abituata ad accompagnare i mongoli durante l’invasione dell’Europa centrale.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 30 maggio 2022

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Enrico Letta: il cavaliere dalla nobile coscienza

di Gianni Giovannelli

E se la Nato chiama
ditele che ripassi:
lo sanno pure i sassi:
non ci si crede più.                                                        

(Marcia della Pace Perugia-Assisi, 1961:
Franco Fortini e Fausto Amodei, camminando)      

Nel 1854, a New York, fu pubblicato un opuscolo di Marx (Il cavaliere dalla nobile coscienza), dedicato alla figura di Lord Palmerston, rimasto vent’anni Segretario per la Guerra nelle file dei conservatori e successivamente, per altri vent’anni, a capo della politica estera, ma ora quale esponente dei progressisti. Ogni volta trovava il modo di presentarsi come il rappresentante di una novità politica, come l’unica possibile soluzione per risolvere le crisi di governo. Un giudizio rimaneva sempre fermo nel suo agire, ovvero l’anonima nullità del Parlamento. Almeno così riteneva Marx in questa salace ma puntualissima invettiva.
Lo scritto mi è tornato alla memoria leggendo il recente intervento, concesso in esclusiva da Enrico Letta al quotidiano Il Foglio: per almeno due graffianti annotazioni. La prima: quando è incapace di tenere testa a un avversario forte ne improvvisa uno debole. La seconda: a forza di adulazioni e di seduzioni quell’Alcina riusciva a trasformare tutti i suoi nemici in giullari. D’accordo. Enrico Letta non è certo Palmerston (che non si sarebbe mai fatto fregare il posto di comando da un birbante toscano di provincia); ma attenzione a non sottovalutarlo, quando gli altri son tutti ciechi pure un orbo vede lontano.
Enrico Letta è assai abile nel sedurre, e non si sente per nulla in imbarazzo nell’adulare; questo non significa affatto che non sia pronto a colpire, occorrendo alle spalle. Giuseppe Conte, buon incassatore, è diventato assai più guardingo, dopo aver subito, insieme a complimenti eccessivi, uno sgambetto inatteso nel corso delle elezioni per la presidenza della Repubblica; il sempre sorridente Roberto Speranza farebbe bene, pure lui, ad evitare distrazioni, dopo il troppo caloroso abbraccio del segretario PD durante la caricatura di congresso organizzata a Roma da Articolo 1. Più che una fusione si profila la resa incondizionata del manipolo di ex dissidenti, con prevedibili risse per agguantare i pochi seggi disponibili alle prossime elezioni nazionali. Letta non esita a lodare, elogia perfino Giorgia Meloni, giusto per non trascurare nulla. Attenti: la maga Alcina (Palmerston/Letta) è assai lesta nel trasformare gli ammaliati in piante o animali, anche quando magari sembra accontentarsi di renderli vocianti giullari della Nato.
Enrico Letta evita gli avversari che potrebbero infastidirlo, ostacolando il corso da lui prefissato degli eventi; preferisce dunque sostituirli con altri più deboli, da lui appositamente scelti o, quando occorre, perfino creati dal nulla.  In genere sono personaggi grigi e inutili, resi famosi per 15 minuti e ricacciati in archivio a fine spettacolo. Quando la pandemia occupava le prime pagine Letta vestiva i panni del paladino della scienza, attaccando con foga qualche ingenuo malcapitato, chiamato a ricoprire il ruolo dell’oscurantista o del negazionista. Negli ultimi due mesi ha scoperto, come Palmerston, di poter utilizzare una nobile coscienza e si è fatto cavaliere della libertà, della resistenza popolare, della guerra di liberazione dal dispotismo russo; alla testa delle truppe governative mobilitate dal maresciallo Draghi va stanando i renitenti alla leva, ignobili pacifisti al soldo del tiranno Putin e dei suoi alleati.

Le sette unioni e il programma di restaurazione

Enrico Letta evoca, in apertura del suo saggio, nientemeno che un nuovo ordine europeo contro il dispotismo putiniano, un nuovo ordine che secondo lui dovrebbe sorgere dalla guerra e dalla pandemia, appoggiato a sette pilastri. Il primo pilastro viene individuato in una politica estera comune, fondata sul piano di sanzioni messo a punto da Mario Draghi e da Janet Yellen, entrambi membri del Gruppo dei TrentaMa si guarda bene dallo spiegare quali misure andrebbero in concreto adottate per evitare l’inflazione galoppante e la crisi economica connessa all’aumento dei costi energetici, alla strategia delle sanzioni. In realtà i 27 paesi dell’Unione sono profondamente divisi proprio sul come affrontare le conseguenze di guerre e ritorsioni, sia sul piano di un welfare adeguato sia sulla spinosa questione del deficit. Il secondo pilastro si presenta ancora più fragile e sconsiderato del primo. Si tratterebbe di confederare all’Unione Europea dei 27 (ormai orfani del Regno Unito, divenuto quasi ostile) Ucraina, Moldavia (con o senza i contrabbandieri della Transnistria ?), Georgia (con o senza Abkhazia e Ossezia ?), e a maggior ragione, sussurra il Letta, tutti i paesi balcanici (dunque Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia, Kossovo, Bosnia, ma a questo punto perché non la confinante Turchia con il suo pezzo di Cipro ?). Già esiste un diritto di veto che impone ai 27 l’unanimità; figuriamoci se una simile Confederazione, piena zeppa di litigi antichi, sarebbe in grado di organizzare il cambiamento climatico, oltre a garantire la pace! Questa è una consapevole esposizione fraudolenta, comunque è un disegno non realizzabile. Il terzo pilastro riguarda l’accoglienza. Sostiene Letta che la vecchia contrapposizione frontale in tema di rifugiati si sarebbe ribaltata per poter soccorrere chi fugge dalla guerra, sottolineando in particolare lo sforzo del governo polacco. Ma non è affatto così; il trattamento riservato dal governo polacco ai diversi che premevano alla frontiera bielorussa, respinti e bastonati, non lascia dubbi. Rimane viva nella vecchia Europa, a est come a ovest, la xenofobia razzista, l’aiuto umanitario non vale per tutti, l’accordo momentaneo connesso alla guerra non può diventare regola. Anche Visegrad possiede diritto di veto. Il quarto pilastro, la politica energetica, si concreta in una generica petizione di principio, senza indicazione puntuale di passaggi operativi, di investimenti (e di profitti). Propone di moltiplicare le fonti di energia rinnovabili, ma al tempo stesso tace, senza prendere posizione, sulle continue pressioni per introdurre il nucleare, a dispetto dell’esito referendario italiano e delle normative tedesche vicine all’entrata in vigore. Di fatto il governo italiano cerca rifornimenti fossili (gas e petrolio) in altri e diversi paesi (che peraltro neppure applicano sanzioni e commerciano con la Russia), senza alcun progetto energetico comprensibile e chiaro, lasciando di fatto ogni ricaduta sulle spalle dei meno abbienti. Chi ci guadagna? Per ora le banche, non certo i precari. Il quinto pilastro lascia pochi dubbi, posto che tratta esplicitamente della sicurezza militare. Il buon Letta riconosce che già nel lontano 1954 il tentativo di costruire la Comunità Europea della Difesa si era concluso con un naufragio, e da allora nessuno ne aveva più parlato, lasciando in sostanza ogni decisione alle strutture sovranazionali della Nato. Ora vorrebbe che Italia, Spagna, Francia e Germania promuovessero un esercito europeo, autonomo dai singoli Stati; ma al tempo stesso non può non essere consapevole che si tratta di una pura astrazione, senza gambe per camminare. È solo un alibi per giustificare il cedimento alle pretese delle grandi imprese che producono armi e le vogliono vendere! Peraltro questi quattro paesi sono profondamente divisi al loro interno, tutti con una evidente mancanza di consenso delle popolazioni verso i singoli esecutivi che le governano, reggendo a fatica solo grazie alla mancanza di alternative possibili. La navigazione a vista consente di sopravvivere, non di pianificare. Il sesto e il settimo pilastro (welfare e salute) indicati dal leader del PD lasciano il lettore sconcertato, per l’ovvietà delle premesse e per la totale carenza di reali prospettive.  Si afferma: una democrazia che funziona ha una forte dimensione sociale: è lo spazio della redistribuzione, della solidarietà e della tutela dei diritti. In astratto la proposizione si presenta sensata. Ma il governo Draghi non pare affatto intenzionato a percorrere questa via; si guarda anzi bene dal contrastare la speculazione in atto, mediante inflazione, o perfino in qualche caso stagflazione, accettando piuttosto l’allargamento costante della forbice fra ricchezza e povertà. L’erosione di salari reali e pensioni prosegue senza sosta, al tempo stesso incrementando la spesa militare, ritenuta inderogabile fino al punto di rischiare la caduta del governo. Con un ribaltamento dei ruoli che lascia esterrefatti, sia sul fronte del valore catastale revisionato (dire che non comporta aggravi fiscali è una presa in giro), sia sul fronte delle bollette, la sinistra sostiene a spada tratta i prelievi in danno delle masse popolari, mentre la destra chiede un incremento della spesa sociale, anche sforando i limiti del pareggio di bilancio; davvero il mondo va alla rovescia, con Ferrara e Sesto San Giovanni capisaldi elettorali di Salvini! Quanto alla sanità, a prescindere da vuote affermazioni di circostanza, il cavaliere dalla nobile coscienza farebbe bene a spiegare la ragione che spinge lui, e il suo amico Mario Draghi, a non mettere in cantiere poche rapide norme che consentano, in questa fase di crisi economica e sociale, un virtuoso prelievo fiscale sulla quota di profitti giganteschi realizzati dalle società farmaceutiche durante la pandemia, consentendo invece loro di costruire, con la connivenza dei vertici europei, percorsi monetari sostanzialmente fraudolenti, che si traducono in benefici fiscali scandalosi. Un muratore subisce il prelievo minimo del 23% sul suo magro salario e Pfizer paga (ma all’estero) il 7% su un profitto già ampiamente tagliato grazie ad astute detrazioni. Lasciando da parte ogni rilievo sull’opportunità o meno di inviare armi dirette (magari per sentieri traversi) verso territori nei quali si spara (Ucraina compresa, senza escludere gli altri luoghi), chi ci guadagna e quanto? I prodotti bellici esportati dall’Italia, spesso per dubbi motivi di sicurezza occultati nelle spedizioni, sono fiscalmente tracciati? Contanti o bonifici?
Di questo si dovrebbe discutere in un Parlamento che non sia l’anonima nullità cara a Lord Palmerston o il pilota automatico elaborato dal primo ministro Draghi, questa sarebbe democrazia trasparente. Invece va di moda l’aria fritta di cui scriveva, inascoltato, Ernesto Rossi, un galantuomo che si starà rivoltando nella tomba di fronte a quel che oggi sono diventati i radicali italiani. Come notava nel XVII secolo il nostro maggior scrittore di cose militari, Raimondo Montecuccoli: E’ il danaro quello spirito universale che per tutto infondendosi l’anima e  ‘l move; è virtualmente ogni cosa, lo stromento degli stromenti, che ha la forza d’incantar lo spirito de’ più savi e l’impeto de’ più feroci. Qual meraviglia dunque se producendo gli effetti mirabili di cui son piene le storie, richiesto tal’uno (n.d.r.: si trattava di Gian Giacomo Trivulzio) delle cose necessarie alla guerra egli rispondesse tre esser quelle: danaro, danaro, danaro.

Quale Europa?

Dopo aver indicato i sette punti programmatici Enrico Letta chiude il suo saggio politico-economico con inquietanti proposte di riforma della struttura comunitaria. Nel 2020 le sanzioni europee alla Bielorussia, dopo le contestate elezioni presidenziali, furono bloccate dal veto di Cipro, unico dei 27 paesi ad opporsi; il leader del PD si dichiara indignato per questo imprevisto incidente di percorso e coglie la palla al balzo chiedendo la rimozione del diritto di veto in capo ad ogni singolo stato, ravvisando in tale istituto l’elemento principe della debolezza europea.
Le cose naturalmente non stanno proprio così. La Turchia, come noto, occupa da anni una parte dell’isola, dopo averla invasa con le armi, senza provocare l’indignazione dell’occidente democratico. Ora intende mettere le mani sul petrolio dei giacimenti ciprioti, e ha più volte dato corso a veri e propri colpi di mano, a cannoni spianati per avvertimento. Cipro, paese piccolo e poco armato, chiese ripetutamente, ma invano, sanzioni economiche dissuasive nei confronti di Erdogan; l’Unione Europea ha sempre fatto (è il caso di dirlo) orecchie da mercante. Evidentemente non c’erano ragioni di irritare il governo turco, considerando l’adesione alla Nato e una certa cointeressenza occidentale negli affari petroliferi.
Cipro allora pose un’alternativa: non si opponeva alle sanzioni contro la Bielorussia a patto che l’Unione Europea sanzionasse pure la Turchia, sperando così di essere lasciati in pace (da Erdogan, non da Lukaschenko). Ma il cavaliere dalla nobile coscienza è disponibile a prendere provvedimenti contro russi e alleati dei russi, non certo nei confronti di un paese amico (dell’America) quale è la Turchia. Chi aderisce alla Nato ha diritto di invadere e bombardare (come fece D’Alema devastando Belgrado); anzi quello non fu neppure un bombardamento, forse al più una operazione di polizia internazionale (tra ex compagni si tende ad usare il medesimo vocabolario).
Per ironia del destino la Conferenza sul futuro dell’Europa si chiude il 9 maggio, la stessa data scelta da Putin per dichiarare liberato il Donbass; probabilmente sono tutti un po’ troppo ottimisti. Certamente la strada indicata da Enrico Letta, ovvero di procedere ad una revisione dell’assetto istituzionale europeo, favorendo l’alleanza dei più forti e cancellando l’autonomia dei più deboli, si presenta assai pericolosa per la pace futura. Il leader del PD vorrebbe in questo modo rafforzare l’Unione, ma non comprende che, ove mai fosse ascoltato, in questo modo la distruggerà. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra sentono che il loro dominio vacilla; per mantenerlo debbono modificare l’equilibrio del vecchio continente, completare il tragitto iniziato con la Brexit. L’Unione indebolita e divisa può diventare un alleato fedele; l’Europa rafforzata e capace di agire in modo autonomo può diventare invece un concorrente.
Enrico Letta riconosce che un mutamento è in atto, che secondo previsioni entro il 2050 la quota occidentale del PIL globale scenderà dal 60% al 26%; ma pretende di fermare il corso della storia, ripristinando l’egemonia bianca occidentale con uno scontro generale diretto ad impedire l’arrivo dei barbari. Si tratta di una strategia che non ha mai avuto molta fortuna nel corso dei secoli; soprattutto quando a condurre le operazioni sono governi che non possono contare sul consenso sociale dei loro governati, ma rimangono faticosamente in sella solo inventando continui artifizi e raggiri.

Meglio uscire dalla Nato.

Proporre oggi di uscire dalla Nato è certamente più una petizione di principio, che una strada rivendicativa realmente percorribile. Non c’è dubbio che i rapporti di forza attuali non consentono di raggiungere davvero questo obiettivo. Ma è anche vero che non ci sono serie alternative a questa doverosa affermazione costituente, se non quella di una malinconica resa, accettando tutto quanto le circostanze ci vanno imponendo. E una testimonianza programmatica ribelle tutto è fuor che una resa. E’ invece la base su cui costruire nuove coalizioni.
Guardiamo le figure che oggi rappresentano il potere. Il democratico Joe Robinette Biden fu nominato senatore del Delaware nel 1972, a soli 29 anni; ha mantenuto il seggio fino al 2008, costruendo un potere dinastico proprio nello Stato che è il notorio paradiso fiscale degli USA. Suo figlio Beau (morto prematuramente per un tumore) di quello Stato fu il procuratore distrettuale, ovvero colui che dirigeva l’azione penale; l’altro figlio, Hunter, dal 2014 al 2019, rimase continuativamente membro della struttura direttiva di Burisma, compagnia importante nel settore del gas. Biden senior divenne vicepresidente con Obama, per essere poi eletto presidente dopo la parentesi Trump.
Burisma nacque nel 2002, per iniziativa di due imprenditori ucraini; uno morì in un incidente d’auto, l’altro, Mikola Lisin, fu l’artefice del successo di questa struttura imprenditoriale. Spostata già nel 2006 la sede legale originaria a Cipro, per ovvie ragioni fiscali, Burisma acquisì il controllo (69,47%) di Sunrise Energy Resources, impresa americana del settore energetico con sede (naturalmente!) in Delaware; e Sunrise, a sua volta, acquistò nel 2008 due società ucraine del gas, Esko Pivnic e Pari. L’operazione continuò con la cessione quasi contestuale dell’affare a un cartello composto da quattro società panamensi ed una americana, poi con il controllo di tre importanti imprese energetiche ucraine. Nell’apparato dirigente di Burisma ritroviamo pure Alexander Kwasniewski, per 10 anni presidente socialdemocratico della Polonia (ex POUP prima della caduta del muro), ora uomo d’affari buon amico degli americani. Burisma ha infine ottenuto ben 20 licenze per idrocarburi proprio nelle terre contese del Donbass; sono giacimenti in buona parte inesplorati ma ricchissimi, rappresentano secondo le stime oltre l’80% del potenziale gas/petrolio ucraino, nel centro del conflitto attualmente in corso. Dopo l’elezione (per nulla scontata) alla presidenza, Zelenskij ricevette le pressioni di Trump per colpire Biden e di Biden per colpire Trump; è un riflesso condizionato, gli USA non riescono mai ad evitare di intromettersi negli affari interni di altri paesi, quando intravedono potenza e denaro. Questa è una guerra per conquistare il controllo dei giacimenti, dunque il compromesso è possibile, trattandosi di soldi.
A questa guerra partecipa, interessato, il cavaliere dalla nobile coscienza, Enrico Letta, e con lui sta Mario Draghi. Se preferite è Enrico Letta a stare con Mario Draghi, poco cambia, questione di gerarchie fra sottufficiali. Il loro legame con gli americani è assai più solido di quello che hanno con l’Europa; più esattamente lavorano per costruire l’alleanza di un’America forte con un’Europa indebolita. Mario Draghi è un esponente di spicco del Gruppo dei Trenta, viene dalla finanza, agisce sul prelievo e sulla distribuzione; Enrico Letta è fin dal 2015 un membro della celebre Trilateral, viene dalla politica. Nel 1991, venticinquenne, fu eletto capo dei Giovani Democristiani Europei, poi divenne deputato europeo nel gruppo liberale di ALDE (con gli spagnoli di Ciudadanos, per capirci), a seguire fu nominato ministro in più governi, e ora è il leader del PD. La sua Trilateral, creatura di Rockfeller e di Chase Manhattan Bank, è un pensatoio operativo globale; al vertice europeo vi è l’inossidabile Trichet, scelto dopo i risultati ottenuti guidando la BCE nella stagione del contenimento della spesa pubblica. In Italia Trilateral può contare fra gli altri su Giampiero Massolo (prima ai servizi segreti ora in Fincantieri), su Tronchetti Provera, su Carlo Messina (Banca Intesa), su Monica Maggioni (RAI).  Trilateral condiziona, in quota americana, l’informazione, la comunicazione, la finanza, l’industria (civile e militare) di tutta Italia.
Quest’uomo si presenta sempre come una novità, lascia intendere che abbia appena iniziato la sua vera carriera; rappresenta invece il tramonto, vuole solo prolungare per un tempo indefinito il mondo in cui è nato e in cui si è formato. Vuole la Nato e vuole la supremazia americana; questo è il suo vero programma, ed è il programma di Draghi.
La Nato è il principale strumento di questa imposizione violenta, militare, e al tempo stesso insensata. Nacque nel 1949, fra i fondatori compare il colonialista fascista Antonio de Oliveira Salazar, dittatore del Portogallo; evidentemente la democrazia non costituiva requisito indispensabile per l’adesione all’apparato militare. È dunque un falso storico affermare che la caratteristica originaria e originale della Nato sia la difesa della libertà, dell’autonomia dei popoli, della democrazia. La Nato difendeva i territori delle colonie francesi, portoghesi, inglesi, belghe, olandesi e non certo i movimenti di liberazione nazionale nei territori occupati. La Nato stringeva alleanza con il fascismo di Salazar contro il blocco sovietico, nel tempo della guerra fredda. Ora è un patto militare che piega l’Unione Europea alle esigenze americane. Ma i popoli europei non hanno niente da guadagnare e molto da perdere in questa prospettiva. Meglio sarebbe starne fuori.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 2 maggio 2022

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Draghi al volante: il pilota automatico è in riparazione

di Gianni Giovannelli

Dopo la caduta di Giuseppe Conte si sono scatenate violente risse fra i diversi gruppi parlamentari rendendo quasi impossibile la formazione di un nuovo governo. Per ripristinare l’ordine, munito di bastone e di carota, è arrivato il capo-banca

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Il 7 marzo 2013, a conclusione della seduta del consiglio BCE, durante la consueta conferenza stampa nella sala di EuroTower, Mario Draghi ebbe a commentare i risultati delle elezioni appena svolte in Italia, senza alcuna maggioranza certa. Il 5 agosto 2011, a quattro mani con il suo predecessore Trichet, il nuovo presidente aveva indirizzato al presidente del consiglio Silvio Berlusconi una lettera segreta per imporre non solo profonde modifiche della legislazione giuslavoristica italiana ma anche l’inserimento nella Carta Costituzionale del principio di pareggio del bilancio, minacciando in ipotesi di diniego la cancellazione degli aiuti economici europei. Come noto tutti i partiti si erano piegati, approvando in tempo record, quasi all’unanimità e senza referendum confermativi, la norma che impediva qualsiasi investimento pubblico futuro, ove questo determinasse un incremento del passivo.

Il pilota automatico

Dopo aver così constatato la fragilità del ceto politico italiano Mario Draghi non esitò ad affermare, con voce pacata ma con insolente sicurezza, che le elezioni impressionano solo i partiti e i giornalisti, non i mercati; dunque si dichiarò certo che l’Italia avrebbe proseguito il cammino di riforme tracciato dalla BCE, a prescindere da chi avrebbe costituito la compagine governativa. A decidere la via dell’esecutivo in formazione, quale che fosse, era infatti, ormai, un pilota automatico: non ci potevano essere ostacoli o deviazioni. Bisogna riconoscere che l’immagine del pilota automatico rendeva (rende) perfettamente l’idea di quelli che erano (sono) i rapporti di forza e gli equilibri di potere; in ogni caso la successione degli eventi gli diede perfettamente ragione.

Fra il 2013 e il 2018, infatti, le due Camere smantellarono l’intera architettura dei diritti conquistati dai lavoratori, a prezzo di durissime lotte, nel secolo scorso; l’opera iniziata dalla coppia Monti-Fornero (su richiesta della BCE guidata da Draghi) proseguì con Matteo Renzi. Il pacchetto di Decreti Legislativi (il c.d. Jobs Act) autorizzati a larga maggioranza parlamentare ebbero il pieno consenso dell’attuale gruppo interno alla componente di sinistra L&U, ovvero Articolo 1 di Bersani/Speranza, e perfino il voto dell’icona Mario Tronti. Solo la severa sconfitta del Partito Democratico al referendum costituzionale (dicembre 2016) determinò una scomposizione del quadro politico, una crisi delle alleanze acuita dalla contestuale crescita di consensi per la componente sovranista (di destra: Meloni e Salvini). Ma il pilota automatico (in piena funzione pure nel curioso mosaico del governo Gentiloni) continuava ad assicurare il mantenimento della rotta. Nel quinquennio 2013-2018 Mario Draghi, saldo al vertice della BCE, fu il vero indiscusso artefice di un formidabile consolidamento delle privatizzazioni, in particolare nei settori chiave della telefonia, dell’energia, delle banche, delle assicurazioni; in un breve volgere di tempo è radicalmente mutato il sistema-paese.

Mario Draghi

Draghi nacque a Roma nel 1947, durante il IV governo De Gasperi, e questo pare già un segno del destino; per ottenere i fondi del Piano Marshall i comunisti erano stati necessariamente collocati per la prima volta all’opposizione, pur restando costruttivi e partecipiIl padre, Carlo, era entrato in Banca d’Italia nel 1922, legandosi a Donato Menichella, l’uomo che diresse l’IRI fra il 1936 e il 1944 e poi la Banca d’Italia nel 1946, su indicazione di Luigi Einaudi. Terminato il liceo dei gesuiti romani (il prestigioso Massimiliano Massimo) e conseguita la laurea alla Sapienza, Draghi, già nel 1971, fu ammesso al Massachussets Institute of Technology su segnalazione (nientemeno!) di Modigliani; nel 1981, a 34 anni, era già ordinario all’Università di Firenze (cattedra di economia e politica monetaria). Goria, ministro del tesoro, lo fece suo consigliere già nel 1983 e questo fu il primo passo in politica di questo giovane ambizioso e brillante, direttore esecutivo della Banca Mondiale fra il 1984 e il 1990. Per nulla al mondo un uomo simile si sarebbe tenuto lontano dalle stanze del governo; anzi! Fra il 1991 e il 2001, quale direttore generale del Ministero del Tesoro (e indifferente al cambio dei ministri temporaneamente in carica) fu il grande regista della prima vasta opera di privatizzazione delle compagnie di stato. La rivoluzionaria normativa in materia di intermediazione finanziaria fu varata in base ad una legge delega, a mezzo di un decreto legislativo, n. 58/1998; dal nome di chi aveva redatto il testo si chiama legge Draghi. Proprio per la lunga esperienza acquisita dentro il ministero e dentro il palazzo della politica fu chiamato in Goldman Sachs, con una funzione apicale, curando in particolare i derivati. Ci rimase per quasi quattro anni, nell’ultimo biennio quale membro del Comitato Esecutivo. Nel 2016 è poi arrivato Barroso, sempre dall’Unione Europea. Poiché era stata proprio Goldman Sachs a riempire la Grecia dei prodotti derivati che causarono il tracollo di quel paese scoppiarono accese polemiche, con accuse di conflitto d’interesse; ma il professor Draghi chiarì – con calma e con garbo – di essere estraneo a quel cattivo affare, la Grecia lo aveva fatto nel 2011,dunque  prima del suo arrivo. E accettò, dopo lo scandalo detto Bancopoli, la proposta di Silvio Berlusconi sostituendo Fazio al vertice della Banca d’Italia, nel dicembre 2005. L’investimento in Goldman Sachs fu affidato al fondo cieco Serena insieme al resto del patrimonio mobiliare; e possiamo naturalmente essere certi che da allora Mario Draghi non ne abbia saputo più nulla, salvo un periodico esame dei riepiloghi inviati dai funzionari del blind trust.  Il resto è storia recente: dal novembre 2011 fino alla scadenza del mandato nel 2019 rimase al vertice della BCE, per poi recarsi in Umbria. L’unico in famiglia a occuparsi di derivati è Giacomo, suo figlio, prima in Morgan Stanley e ora con Hedge LMR (ex trader di UBS). La cronaca giornalistica ci riferisce che da molti mesi il banchiere vive appartato in un borgo umbro, Città della Pieve, con la moglie e un cane bracco ungherese (si chiamerà Orban?), dedito all’ozio e alla lettura; per rispetto non si accenna a quel che mangia e a quanto beve, ma lo presentano come uno sfaccendato a riposo.

Il cambio di passo

La realtà è tuttavia un’altra. Mario Draghi è il vicepresidente del Gruppo dei Trenta (G30), l’organismo creato nel 1978 per iniziativa di Geoffrey Bell, presidente onorario ancora oggi, con il finanziamento della Fondazione Rockfeller. I membri – non più di 30 complessivamente – vengono dai più diversi paesi e rappresentano i diversi possibili punti di vista del moderno capitalismo finanziarizzato e tecnologico; sono economisti, governatori delle banche centrali, ministri del tesoro, una pattuglia scelta incaricata di predisporre consigli a tutti i governi del mondo per mezzo di periodici rapporti. Ne fanno parte Jean Claude Trichet (il vecchio socio della lettera segreta), il neo ministro del tesoro americano Janet Yellen, il governatore cinese della Banca del Popolo Yi Gang, lo spagnolo Caruana, l’israeliano Frenkel, e così via. Incaricato dal G30 di procedere alla redazione del rapporto ai governi del mondo sul rapporto economia/pandemia è stato assegnato proprio al nostro sfaccendato banchiere, insieme a Raguram Raiaw; fu presentato in conferenza stampa il 16 dicembre 2020, quando ormai la crisi di governo faceva capolino. E se incaricò naturalmente, in assenza del fido bracco ungherese rimasto a Pieve della Città, il nostro nuovo presidente del consiglio. Con lui c’erano Victoria Ivashina (proveniente dal Kazakistan, ma ormai brillantemente insediata ad Harward) e Douglas Elliot, entrambi in piena sintonia. Proprio a riposo non doveva essere.

Il rapporto è di grande interesse, pur se ignorato dai commentatori italiani, i quali preferivano occuparsi di questioni più alla loro portata, come il colore degli abiti della sindacalista Bellanova o il disagio del dissidente Di Battista, riducendo le ragioni della crisi alle grottesche liti di cortile fra le bande di maggioranza e minoranza.

Draghi e Raiaw riprendono, rielaborandoli e adeguandoli alla fase, alcuni spunti di Joseph Schumpeter sul c.d. modello dinamico, a fronte di un oggettivo mutamento delle modalità organizzative del complessivo processo di produzione e profitto. La gigantesca trasformazione originata dalla spinta di continue innovazioni è entrata in contatto con le conseguenze legate alla pandemia; i giuristi potrebbero ricondurre il corona virus nell’ambito del danno evento , contemporaneamente causa ed effetto, senza necessità di ulteriori dimostrazioni. Certamente vi è stata una sinergia che ha moltiplicato geometricamente sia le perdite sia i profitti, le ricchezze e le povertà. Quasi rifacendosi al nostro Christian Marazzi il G30 sembra evocare una sorta di comunismo del capitale per rimediare, almeno nell’immediatezza, alle crepe dell’attuale meccanismo, e assicurare continuità in questo passaggio.

Il flusso delle merci immateriali impone un cambio di passo, qui e ora, al nuovo capitalismo; la pandemia ha evidenziato come l’ipotesi di una sostituzione graduale del vecchio assetto sia ormai insufficiente. Nel 2011 la scelta era stata quella di utilizzare l’austerità e il pareggio di bilancio per smantellare l’impianto tradizionale di welfare laburista-popolare in tutti gli stati dell’Unione Europea, di far pagare il costo della crisi finanziaria ai lavoratori stabilizzati, di agevolare, imponendolo, l’introduzione di una condizione precaria generalizzata perché più adeguata alle esigenze di profitto. Dunque si diede corso al taglio di personale pubblico, alla privatizzazione dell’istruzione e della sanità, al contenimento della spesa; il pareggio di bilancio, invocato da strutture statali in deficit istituzionale permanente, costituiva una manovra tutta politica di attacco funzionale al processo di sussunzione da realizzare nella fase di transizione. Nel 2020, dopo il susseguirsi di crepe e di crisi, cambia il programma; si torna all’utilizzo dell’indebitamento per investire, per sanare i guasti, per consolidare il cambiamento e tenere fermi i nuovi rapporti di forza conseguiti dal capitale durante lo scontro sociale in atto.

In forme diverse, negli ultimi anni, si è sviluppata una scomposizione del quadro politico tradizionale, una ripartizione del consenso elettorale così variegata da rendere difficile qualsiasi sintesi, anche per i troppo frequenti cambi di sentiment in territori regionalizzati e quasi atomizzati. Il prepotente ingresso sulla scena di movimenti nazionalisti, di componenti apertamente reazionarie e xenofobe, perfino di violenti scontri motivati con richiami alla religione, tutto ciò ha creato qualche intoppo nel funzionamento del pilota automatico; nei singoli stati la risoluzione delle difficoltà ha richiesto una certa dose di creatività, diversificandosi in Spagna, Germania, Francia, Inghilterra, Polonia, Italia (fra le esperienze indubbiamente più fantasiose, come di consueto siamo un laboratorio). La pandemia ha acuito i problemi; non ci si può stupire che nella cabina di regia non si siano limitati alla strategia di contenimento, ma abbiano deciso di usarla. Seize the opportunity! Specie dopo aver deliberato la spesa, l’investimento allo scoperto di cassa, la scelta di un deficit.

La distruzione creatrice. Il progetto del Group of Thirty

Rielaborando Schumpeter il rapporto stilato da Mario Draghi e presentato il 16 dicembre 2020 si fonda su una vera e propria distruzione creativa, capace di calarsi nella fase attuale di crisi e trasformazione per costruire un nuovo diverso equilibrio con i fondi stanziati. In questa situazione a ben poco servono elezioni; tanto la soluzione sarebbe la stessa a prescindere dall’esito. Il povero Tsipras vinse ampiamente il suo referendum, ma gli servì a nulla; le condizioni non erano trattabili, o le accettava o lo facevano quadrato. Si arrese a Mario Draghi inteso come male minore.

Il progetto di distruzione creativa non prevede affatto di conservare o ripristinare il precedente status quo ante. Le attuali regole sono assai chiare, come ebbe ad esporre l’attuale direttore del Tesoro Alessandro Rivera: i fondi vanno a chi possa presentare un fatturato pregresso di almeno 50 milioni, non sia in stato di oggettiva decozione, intenda investire almeno 100 milioni in un tempo preciso. L’ingresso della parte pubblica gioca un ruolo primario, a garanzia delle banche, con il fine di preservarle dai rischi connessi ai finanziamenti andati a vuoto; quindi (ma è cosa diversa dalla vecchia IRI di Beneduce e Menichella) lo Stato entra direttamente in partita per controllare il complessivo meccanismo. Con buona pace dei nostalgici legati alla manifattura il progetto Draghi (e del G30) non teme affatto il rischio di un incremento della disoccupazione; si lascia anzi intendere che non si debbano sprecare risorse per il salvataggio di imprese che non appaiano capaci di assicurare la loro sopravvivenza al termine della pandemia. La distruzione riguarda proprio loro, senza alcun senso di colpa e senza ripensamenti. L’idea forza sta nel ritenere che solo procedendo in questa maniera potranno emergere nuove possibilità di accesso al lavoro e al reddito (Draghi è persona garbata, non lo chiama accesso allo sfruttamento). È questa una concezione di taglio palesemente sviluppista che vede le nuove tecnologie (digitalizzazione) e la trasformazione ecologica (il tema ambientale) tutte piegate alle esigenze del nuovo capitalismo finanziario e informatico. Dentro questo schema non si consuma solo il tradizionale conflitto fra operai e capitale ma prevede anche una inevitabile resa dei conti all’interno delle strutture d’impresa.

Il governo di unità nazionale

Pandemia e inadeguatezza del ceto politico rendono necessario il tagliando e il pilota automatico è momentaneamente in officina per interventi di manutenzione. Nelle more il suo inventore, Mario Draghi, si è messo al volante per evitare incidenti di percorso. Persona decisa, ma al tempo stesso prudente, ha accettato l’incarico solo dopo aver ottenuto l’adesione di quasi tutto lo schieramento politico, da destra a sinistra, con la sola opposizione, naturalmente serena e costruttiva, della ex-fascista Giorgia Meloni, che così garantisce il contraddittorio e la dialettica parlamentare.

Dopo Ciampi, Dini e Monti la Banca d’Italia si incarica di mandare i suoi funzionari al governo di unità nazionale. Questa volta ci siamo risparmiati le lacrime comuniste che avevano accompagnato il voto di fiducia a Dini, il ministro Speranza (pure lui laureato alla LUISS peraltro) è rimasto al suo posto senza necessità di un pianto dirotto. Siamo ben oltre la maggioranza Ursula, aveva ragione la cattolica Victoria Ivashina (Pontifical Catholic of Perù prima di Harward) nel ritenere che Mario Draghi avrebbe portato a termine la missione, tenendo incollate tutte le forze litigiose delle due camere. Giustizia e lavoro si caratterizzano per nomine sostanzialmente interlocutorie. Orlando è stato ministro durante il Jobs Act, ma varò anche le norme penali sul caporalato; è certo più gradito a Confindustria della Catalfo, ma non è neppure totalmente un forcaiolo. Cartabia è una cattolica un po’ bacchettona (non si è mai rassegnata all’introduzione dell’aborto) ma non è priva di sensibilità sociale. Scuola e ricerca sembrano procedere con cautela, senza scossoni probabilmente, a giudicare dai prescelti. Il ritmo del nuovo esecutivo appare chiaro guardando le nomine legate alla spesa: Colao, Franco, Giovannini, Garofoli, Cingolani sono una squadra di tecnocrati guardinghi e collaudati, in piena sintonia con il rapporto del G30 e con lo stile di Draghi. I politici, siano essi leghisti pentastellati o democratici, si adegueranno, accontentandosi di una percentuale, esattamente come se fosse ancora in funzione il pilota automatico. E i giornalisti come Fubini o Buccini eviteranno accuratamente di misurarsi sul tema spinoso delle imprese da finanziare o abbattere, limitandosi come sempre a dissertare di spread, di Mes, di nulla, scrivendo qualsiasi cosa purché a pagamento. Il bracco ungherese può passeggiare tranquillo nel parco privato di Pieve della Città.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 14 febbraio 2021

Draghi al volante: il pilota automatico è in riparazione Leggi tutto »