marisa lepore

Dalla creta al Tibet, attraverso gli angeli

di Marisa Lepore

“Vibrazioni su Scale di Differenze“ è l’installazione di Teresa Mangiacapra dedicata al Tibet.
Presentata nei suggestivi spazi della Sala delle Prigioni del Castel dell’Ovo per il Maggio dei Monumenti 2008 a Napoli, è attualmente in mostra fino a febbraio 2009 presso l’Istituto degli Studi Filosofici, nel Palazzo Serra di Cassano, nella città partenopea.
Il Tibet è un sogno, un sogno che stiamo perdendo e che tutta l’umanità dovrebbe difendere e salvaguardare” E’ così che l’artista si dichiara, in empatia con il popolo del Tibet, la regione adagiata sul tetto del mondo, che difende coraggiosamente la propria identità territoriale e culturale dall’aggressione cinese.
Il lavoro di Teresa Mangiacapra è scaturito dal contatto con una dimensione che le ha imprigionato la mente, il cuore e l’animo al punto tale da desiderare fortemente di farne partecipi gli altri, attraverso una rielaborazione artistica. Il suo incontro con il Tibet è stato l’incontro con una dimensione di armonia. Il suo sogno del Tibet l’accompagna fin da bambina.
Quello che ammiriamo in uno dei saloni dell’Istituto degli Studi Filosofici è un’istallazione tridimensionale complessa, i cui soggetti sono immagini fotografiche adagiate come parti integrali di supporti–sculture o sospesi in successione lineare.
Manipolati al computer e stampati su tela e alluminio, i volti, i corpi e i luoghi riprodotti e la loro insita bellezza e autenticità, forte, sacrale e spirituale, sono divenuti, nell’intenzione dell’artista, veri e propri dipinti, per poter conferire loro e comunicare a noi la maggiore espressività combattiva e la resistenza al pericolo di annientamento che incombe su questo popolo.
La mostra, come si è analizzato, si pone ben oltre il didascalico “racconto di viaggio” e si compone di opere di grande valenza simbolica.
Al centro della sala è posta una struttura di forte impatto emotivo e di comunicazione armonica: una piramide, l’archetipo dalla forma perfetta, la scultura per eccellenza con carattere di sacralità e che, ponte tra la vita e la morte, rimanda, nell’immaginario collettivo, al qui e all’altrove, all’eternità, all’immortalità.
E la piramide diviene il supporto che fa riflettere dalle immagini di ciascuna delle facce visibili, il grande messaggio di pace e di incontro e di comunicazione tra popoli, che l’artista vuole inviare.
In un angolo ci accoglie una grande nera scultura di ferro: un buco che attira e, contemporaneamente, fa emergere due figure che non sono rivolte a noi, ma sono assorte nell’azione.
Una, la donna, è intenta nel “fare”. L’altro, il monaco, cammina verso il buio e, volgendo le spalle, mostra uno strumento di preghiera e noi possiamo seguirlo o sostare a nutrirci del testo impresso al di sopra della donna.
Al limite, due Angeli Neri sono posti a cornice: custodi e contenitori del “mondo” creato dall’artista. Sentinelle, guerrieri e annunciatori del tempo del pericolo, del tempo del cambiamento, del tempo dell’azione, del tempo dell’osare. Esseri di luce impressi nel ferro, figure simmetriche e complementari a ricreare, con il prolungare immaginario delle loro ali, il cerchio, l’armonia che non si deve rompere e che non si deve perdere.

Dalla creta al Tibet, attraverso gli angeli

Dalla creta al Tibet, attraverso gli angeli” può rappresentare metaforicamente, la ricerca, il percorso creativo di Teresa Mangiacapra che, come artista, nasce attraverso la creta, amorevolmente accarezzata e plasmata in un contatto diretto. Le sue mani lavorano il proprio sogno interiore e trasformano la materia in sogno, ma è la peculiarità della materia che vince sul sogno e l’artista dice: “Io non posso vincere sulla creta”. L’interesse per la trasformazione la induce a cercare altri materiali e altre forme artistiche, ma ciò che accomuna la sua produzione è la tridimensionalità, il sogno, l’armonia e il superamento nell’arte del dolore del mondo. Il sogno di bambina materializzato.
Dalla manipolazione di una sostanza primordiale, la creta, legata, nella nostra simbologia all’atto creativo primigenio, Teresa Mangiacapra giunge al rispecchiamento in una cultura altra, caratterizzata dall’autenticità e dall’essenzialità della sussistenza. L’approdo è in una dimensione di armonia, pace, spiritualità, resa con la verticalità  e la triangolarizzazione del segno estetico.
Nota anche con lo pseudonimo di Niobe, la mitica figura che rappresenta la pietrificazione del dolore, ma rivisitata in virtù della sua capacità metamorfica, Teresa Mangiacapra è una scultrice ed è una donna.
Forte e delicata. Complessa e pacata. Integra e fragile.
Con un’ossessione poetica: gli angeli.
Niobe plasma, incide, scolpisce e forgia materiali naturali e la sua azione possente ed energica è tesa ad  esprimere un pensiero delicato, evanescente, spirituale. E materializza nella creta, nella pietra, nel legno e nel ferro ciò che, nel nostro immaginario, rappresenta il massimo della spiritualità: gli angeli.
Soggetto da sempre nell’arte non solo occidentale, dai geni della tipologia precristiana e dalla Nike alata dell’arte classica – una delle sculture di Niobe è proprio una Nike alata, nera, Nike-altalena da sospendere per il proprio sogno-volo –  queste figure hanno esercitato grande fascino fino ai nostri tempi, caratterizzati da una profonda crisi dei valori religiosi, ma forse ancor più per questo, da un grande, profondo e rimosso bisogno di sacro e di spirituale.
Nell’arte moderna e contemporanea, la figura dell’angelo si confonde, perde contorni certi, viene dissacrata, rivisitata, recuperata nella sua dimensione enigmatica o riscoperta nella forma e funzione originaria. E ci riferiamo all’astrattismo di Klee ed Emilio Vedova, alla pop art di Haring, al pensiero New Age, al citazionismo di Kostabi per dire solo di qualche autore o movimento artistico e culturale.
Troviamo spesso gli angeli in Dalì, ma è in Chagall che possiamo rilevare una sorta di leitmotiv, al punto tale che Picasso disse una volta di lui che, quando dipingeva, doveva avere un angelo dentro la sua testa.
Per Niobe, la figura dell’angelo è:“Una dimensione totale e personale: gli angeli siamo noi e dobbiamo tendere ad uno stato di armonia”; essa ci sfugge perché è una nostra intima pulsione, la materializzazione di un’idea, di un sogno. L’artista ama crearli, gli angeli, e non importa con quali materiali: creta, legno, tufo, marmo, ferro; ama cercarli nel ricordo del passato, nella consapevolezza del presente, nella progettazione di un futuro; ama averli accanto a difesa e sostegno, muse ispiratrici per rappresentare una dimensione di armonia, anche nella tristezza e nella consapevolezza del dolore, soprattutto quello della separazione.
E allora il Tibet per Niobe è il Grande Angelo, portatore di un messaggio di pace, armonia, autenticità, annunciatore del tempo del fare e dell’osare, ma è anche la massima materializzazione del sogno e dell’espressione della sua capacità creativa.
Dopo il Tibet, dove approderà Niobe, la plasmatrice, la trasformatrice?

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Deifobe di Marisa Lepore

Tracce di Silvana Liotti 4 -18 maggio 2005

Deifobe tecnica mista su carton gesso 2 pezzi cm 70 x 200    2005
Virago I tecnica mista su carta cm 70 x 160            2005
Virago II tecnica mista su carta cm 70 x 160            2005

Tra letteratura, antropologia e storia, il mito della Sibilla giunge a noi sotto il peso di un femminino arcano, misterioso e misterico. In origine connesse con Dioniso e l’orfismo, poi con l’ambiente di Delphi, le Sibille, sacerdotesse di Apollo con il dono del vaticinio, ne hanno diffuso il culto oltre l’ambiente orientale.
Presumibilmente nata a Jonia, nell’Asia Minore, appartenente ai Cimmeri, popolazione scitica delle steppe eurasiche a nord del Mar Morto, la Sibilla Cumana, giunta in Italia prima della guerra di Troia, è qui conosciuta anche con il nome di Deifobe, di virgiliana memoria.
La leggenda la vuole concupita da Apollo per la sua avvenenza e, superba, a lui concessasi inavvedutamente in cambio di un’immortalità divenuta poi, crudelmente, vecchiezza fino alla consunzione, fino alla riduzione alla sola voce, metafora della sua stessa funzione profetante.
Tra oriente e occidente, tra umano e divino, tra passato e futuro, la “Deifobe” di Silvana Liotti è assunta a donna possente e misteriosa, moderna e futurista, androgina e bivalente, stratificata e complessa, divisa fino alla frattura. Il mito, percorso nella memoria, viene introiettato, attualizzato e proiettato indiscindibilmente verso il futuro.
L’artista dà corpo e possanza alla metafora e alla leggenda. Protegge, difende e rafforza la frattura, raddoppiando l’immagine della Sibilla in due parti asimmetriche, in una dominante il pube e nell’altra il torace. Il potere dell’istinto-passione-natura e quello del logos-gesto-azione, simbologia di quel rosso e quel blu, che ancora una volta ritornano nel segno estetico dell’artista.
Silvana/Sibilla, forza e fragilità, pensiero e passione, logos e pathos.
Alla complessità concettuale fanno riscontro, in “Deifobe”, la complessità del supporto dell’opera e la tecnica utilizzata: due carton gesso di cm 70 x 200, sui quali altra carta è impastata con acqua e vinavil. La materia è già segnata dalla qualità della propria composizione e il colore si adatta al substrato, ne segue le tracce. La gocce del colore seguono un percorso che si emancipa a tratti dal gesto dell’artista, seguendo una strada che è, in parte, aleatoria. L’artista cede alla tirannide del subtrato materico, ma, contemporaneamente, lo domina incanalando e circoscrivendo il colore con altra materia. Stratifica il substrato via via che al suo estro giungono, sommandosi, immagini delle vestigia del passato arcano, misterioso e magico della sua Sibilla, tracce impresse sulla propria femminilità.
Altera, conscia del potere femminile, divisa tra superbia e mercificazione, la Sibilla ha posto ad Apollo la sua condizione: “Fammi vivere tanti anni, quanti granelli di sabbia può contenere il palmo della mia mano.” e, dimentica di chiedere al dio anche l’eterna giovinezza, è condannata ad una funzione profetante per il tempo non più umano della sua vita.
Deifobe”, eroina moderna, insoddisfatta, si misura ed è schiacciata da una potenza superiore, più forte dei propri limiti e delle proprie aspirazioni, immagine di un bovarismo arcaico dove il potere divino ha la medesima valenza degli schemi sociali.
Silvana/Deifobe: essere e voler essere, potenza e fragilità della creazione artistica, estro e insoddisfazione, urgenza e limitazione.
La “Deifobe”, spezzata nelle due metà,  è posta, protetta in una cavità degli ambienti esterni di Batis, struttura al limite tra lo spazio contemporaneo e quello archeologico del parco di Baia. Non solo operazione didascalica: la grotta-di-tufo, cisterna, antro, diviene la soglia di un tempo e uno spazio sincronico: una voce della memoria.
Le due “Virago” sono poste una a destra, una a sinistra, a guardia di un luogo, di un’identità, di un tempo che stratifica e sovrappone. Tempo di compresenza, circolare, sincrono, dove tutto è già stato detto e tutto ancora si dice e si ridice. Custodi della memoria, anch’esse “tracce” di un tempo attualizzato. Forti, guerriere di sguardo e possanza, dipinte su carta, “pergamena-vestigia”, ma fragilmente esposte, per la durata della mostra, all’alterazione del vento, della pioggia, dell’umidità della terra e del tufo, la pietra che idealmente ne assorbirà le tracce, per conservarle e stratificarle nella sua memoria.
Tracce” rappresenta per l’artista l’autoriflessività, il doppio, la frattura, ma anche il riconoscimento di sé nell’altro. L’unità, tradita dalla reiterazione di figure e attributi, deve passare attraverso sdoppiamenti e gemmazioni, perché venga ricostruita l’identità originaria.

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