NATO

No a Zelensky a Sanremo

di Pressenza redazione Italia

Professori universitari, giornalisti, economisti, artisti e giuristi lanciano una petizione per contestare la partecipazione del presidente ucraino al Festival di Sanremo e promuovono una manifestazione sabato 11 febbraio dalle 10 alle 20 a Pian di Nave a Sanremo.

Testo della petizione:

Fin dagli albori della televisione pubblica, il Festival di Sanremo si è accreditato come la più seguita manifestazione popolare italiana. Milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival rappresenta anche sul piano internazionale un aspetto dell’identità culturale del Bel Paese. L’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore.
Abbiamo appreso perciò con incredulità che, in una delle serate clou dell’evento, presumibilmente sabato 11 febbraio, interverrà Vladimir Zelensky, capo di Stato di uno dei due paesi che oggi combattono la sanguinosa guerra del Donbass. Una guerra terribile, fomentata da irresponsabili invii di armi e da interessi economici e geostrategici inconfessabili, che ha portato il mondo sull’orlo di un olocausto nucleare per la prima volta dopo la crisi dei missili di Cuba. Una guerra che ha ragioni complesse, tra cui il fatto che la Nato sia andata ad “abbaiare ai confini della Russia” (utilizzando le parole di Papa Francesco), oltre alle conseguenze della brutale repressione del governo nazionalista di Zelensky contro la popolazione russofona, soprattutto in Donbass. Una guerra che come italiani abbiamo il dovere costituzionale di “ripudiare”, non soltanto di rifiutare, nel rispetto dell’ Art. 11 Costituzione, ma che invece continuiamo a finanziare, favorendone così in modo diretto e indiretto la letale escalation.
L’Italia non solo invia armi (ed aumenta il budget militare in una fase economica difficilissima per la maggioranza degli italiani), ma lascia che la NATO e gli Stati Uniti utilizzino a loro piacimento il suo territorio, in assenza di qualsiasi forma di controllo governativo, parlamentare e popolare. A causa di questa posizione acritica e supina, l’Italia ha rinunciato a svolgere l’importante ruolo di mediazione geopolitica che corrisponde alla sua vocazione storica, abdicando al contempo al proprio interesse nazionale e al proprio ruolo di fondatrice del processo di unificazione europea, come struttura per assicurare la pace fra le nazioni.
Proprio in queste settimane, mentre la propaganda infuria sui giornali controllati dagli interessi del blocco finanziario che si riconosce nella NATO, è in corso da parte americana la sostituzione dei precedenti ordigni nucleari. Questi già da anni collocati sul suolo italiano (in violazione del Trattato sulla non proliferazione nucleare a suo tempo sottoscritto sia dagli USA che dall’Italia) saranno ora sostituiti con dispositivi di ultimissima generazione, dotati di intelligenza artificiale e piena manovrabilità a distanza. Un’operazione pericolosissima anche nell’immediato, di cui il popolo italiano, che più volte si è espresso contro il rischio nucleare anche civile, è tenuto all’oscuro.
Riteniamo dunque tragicamente ridicolo e profondamente irrispettoso di un’ampia fetta dell’opinione pubblica che non si riconosce nelle politiche militari dei governi Draghi e Meloni il fatto che Zelensky sia invitato a Sanremo. Il dramma oggi in corso nel suo Paese non è altro, infatti, che l’epilogo di un conflitto ben più lungo, quale quello del Donbass, che i maggiori Stati della NATO (quegli stessi cui oggi l’Italia è accodata!) hanno contribuito ampiamente a fomentare, limitandosi ad appoggiare militarmente l’Ucraina, nel corso degli anni.
Come intellettuali abbiamo il dovere di comprendere ciò che avviene dietro le quinte, e ci mettiamo perciò a disposizione per parlare al popolo italiano, che a tal fine invitiamo alla mobilitazione sabato 11 febbraio a Sanremo, per partecipare ad una grande assemblea popolare di piazza. L’Italia deve uscire subito dalla guerra interrompendo ogni aiuto diretto o indiretto a una delle parti in conflitto. L’ Italia non può rassegnarsi a restare un deposito di ordigni nucleari micidiali sotto controllo americano, né luogo di laboratori e centri di ricerca bellici. È necessario liberare il nostro territorio da questa presenza.
Saremo a Sanremo l’11 febbraio per dire al mondo in modo motivato e razionale ma forte e chiaro: Il ripudio della guerra significa ripudio senza se e senza ma. La sovranità può essere limitata solo per assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni (Art. 11 Cost.).

UGO Mattei (Generazioni Future/CLN; giurista, professore universitario)
Manlio Dinucci (Comitato NO NATO NO WAR; giornalista)
Germana Leoni (Comitato NO NATO NO WAR/CLN; giornalista)
Alberto Bradanini (ex ambasciatore)
Franco Cardini (storico, professore universitario)
Carlo Freccero (massmediologo)
Joseph Halevi (economista, professore universitario)
Moni Ovadia (regista, drammaturgo)
Paolo Cappellini (storico del diritto, professore universitario)
Franco Guarino (reporter)
Geminello Preterossi (filosofo del diritto, professore universitario)
Roberto Michelangelo Giordi (scrittore, cantautore)
Alessandro Somma (giurista, professore universitario)
Savino Balzano (sindacalista, saggista)
Anna Cavaliere (giurista, professore universitario)
Thomas Fazi (economista, saggista)
Carlo Magnani (giurista, ricercatore)
Pasquale De Sena (giurista, professore universitario)
Alessandra Camaiani (giurista, ricercatrice)
Gabriele Guzzi (economista, presidente de L’Indispensabile)
Giovanni Messina (giurista, ricercatore)
Giulio Di Donato (filosofo del diritto, ricercatore)
Sara Gandini (epidemiologa, biostatistica, professore universitario)
Simone Luciani (editore)
Sirio Zolea (giurista, ricercatore)
Giorgio Bianchi (giornalista, attivista)
Alessandro Di Battista (politico, giornalista)
Giuseppe Mastruzzo (direttore International University College of Turin)

Link per firmare la petizione.

L’aricolo è stato pubblicato su Pressenza il 27 gennaio 2023

Il futuro della guerra

di Guido Viale

Le guerre non bisognerebbe mai iniziarle. Una volta “scoppiate”, bisognerebbe adoperarsi per farle cessare il più presto possibile. Ma soprattutto bisognerebbe evitare tutte le iniziative che possono portare al loro “scoppio”. Non per una astratta pretesa di armonia tra i popoli, ma per evitare il costo che le guerre comportano sia per chi le “vince” che per chi le “perde” – se parliamo di popoli e non di governi – sia in termini di distruzione degli habitat che di danni agli uomini e alle donne che ci vivono.

Questo non vuol dire rinunciare a difendersi, anche con le armi, ma convenire sul fatto che tra le opzioni possibili non c’è solo la guerra e nient’altro che la guerra. Prima, durante e oltre la guerra ci sono tregua, diplomazia, mediazione, costruzione di alternative politiche e sociali, difesa delle vite e delle condizioni di esistenza delle popolazioni, convivenza tra etnie, lingue e “culture” diverse. L’autodifesa armata del Rojava ha il suo presupposto nel confederalismo democratico promosso da Ocalan. Nessuna di quelle esigenze è stata invece rispettata dalle parti coinvolte nella guerra in Ucraina.

Putin non pensava a una guerra quando ha invaso l’Ucraina. Pensava a una soluzione come quella che oltre cinquant’anni prima era riuscita a Breznev in Cecoslovacchia: molti carri armati, poco sangue e un cambio di regime imposto con la forza per arrestare e riequilibrare la marcia verso est della Nato. La resistenza dell’Ucraina, del suo esercito e delle sue milizie lo ha costretto a cambiare i piani: non a ritirarsi e chiedere scusa, ma a ripiegare su una vera guerra, a cui con tutta evidenza non era preparato. La sua devastante vittoria in Cecenia gli aveva fatto credere di poter risolvere la questione con un altro massacro.

Dall’altro lato del fronte si è puntato fin dall’inizio sulla temporanea superiorità ucraina, supportata dal sostegno politico, ma soprattutto militare, della Nato, degli Usa e dell’Unione Europea, per sferrare un colpo decisivo. Ben sapendo che questo avrebbe innescato un confitto molto lungo, che nelle dichiarazioni iniziali di Biden (poi corrette) avrebbe dovuto portare alla destituzione di Putin o addirittura alla dissoluzione della Federazione Russa.

Non si è messo in conto quanto una guerra prolungata e combattuta con sempre più uomini e armi (fino al limite della minaccia e del sempre possibile ricorso a quelle nucleari) sarebbe costata alle popolazioni dell’Ucraina e alla gioventù della Federazione Russa mobilitata a partire dalle sue periferie. La mobilitazione di entrambe le parti (e dei loro fan, soprattutto in Occidente) ha offuscato finora lo sguardo sulla devastazione del territorio, a est e a ovest del fronte e sul futuro di quel Paese. Ancora oggi si pensa – qualcuno pensa, e si mette in viaggio per prenotarne una quota – al business della ricostruzione, mentre la distruzione dell’Ucraina è ancora in pieno corso. E questo senza mettere in conto il suo indebitamento presente e futuro, pagabile solo in parte con la svendita delle sue risorse. E immemori del passato, si progetta di farne pagare i danni alla Russia, come a Versailles, dopo la Prima Guerra Mondiale, si era pensato di farli pagare alla Germania…

L’ostinazione della Russia non ha provocato, come forse sperava Putin, una crisi dell’Unione Europea e meno che mai la sua “nazificazione”, come ritiene il generale Mini, ma i regimi dispotici di molti suoi membri ne sono stati rafforzati, grazie soprattutto alla militarizzazione imposta dalla Nato. Un dominio in cui è facile entrare, ma da cui molto difficile uscire, o anche solo disobbedirgli, come insegna la sorte toccata ad Aldo Moro. Ma che il più democratico regime europeo abbia scambiato la sua adesione alla Nato con la consegna dei dissidenti curdi al tiranno Erdogan è cosa da non sottovalutare.

La guerra in Ucraina è un esito scontato dell’allargamento passato, in corso e futuro della Nato, un processo di cui l’Ucraina è una componente essenziale: il come e il quando erano (in parte) ignoti. Ma l’Ucraina era già membro di fatto della Nato, con le esercitazioni congiunte (“L’abbaiare ai confini della Russia”), il suo potenziamento bellico e il ruolo affidato, dopo Maidan, alle sue milizie (naziste? Sì) nel fare una vera e propria guerra alle aspirazioni autonomistiche delle sue province orientali.

È vero che nel confronto tra Ucraina e Federazione Russa non contano solo le armi, la loro potenza, la loro precisione, la loro quantità. Conta anche il “fattore umano”: il fatto che molti dei combattenti ucraini considerino ora una questione vitale la riconquista dei territori sottratti – anche se avevano fatto ben poco per fermare il bombardamento di otto anni del Donbass e la discriminazione dei loro concittadini russofoni – mentre uno spirito analogo non anima certo i coscritti a forza delle forze armate russe. Ma fino a che punto si potrà evitare di mettere in conto anche il “fattore disumano”: le centinaia di migliaia (ormai) di morti da entrambe le parti, la distruzione, in gran parte irreversibile, dei territori contesi, a qualsiasi delle due parti rimangano poi in mano. E un futuro non di prosperità (che l’Unione Europea non fornisce più nemmeno ai suoi membri), ma di miseria, di debiti, di rancore e di soggezione.

L’Ucraina non uscirà da questa guerra, se mai ne uscirà, più democratica e “denazificata”, ma più autoritaria e militarizzata, come già è ora e con partiti di opposizione e sindacati fuorilegge, scioperi proibiti, informazione controllata, giornalisti indipendenti perseguitati, servizi segreti e ambasciate straniere onnipotenti.

Quanto alla Russia, l’esito perseguito, se è la caduta di Putin, non consegnerà il potere a un’élite più conciliante e aperta, bensì a figure ancora più feroci e guerrafondaie. Se è la dissoluzione della Federazione, essa lascerà il campo a una “grande Libia”, con le nazioni del dissolto impero contese tra le potenze vicine e lontane, e anche ubique, come il mai dissolto Isis. Qualcuno ha forse pensato di poter parare il colpo senza adoperarsi da subito per la pace? E non sarebbe forse l’Unione Europea l’attore più adatto a proporre una mediazione, se non fosse anch’essa parte del conflitto? Ma non si può mediare partecipando alla guerra: questo, almeno, bisognerebbe saperlo.

L’articolo è stato pubblicato su COMUNEinfo l’8 gennaio 2023

Piersanti Mattarella e Aldo Moro: scomodi per tanti

di Giuseppe Salamone

Poi quando racconti queste cose, esce il classico genio che ti dice che sei antiamericano, ossessionato dalla Nato e che quindi devi filare via in Russia ed in Cina.
E quando leggo che le risposte sono queste, non ottengo altro che conferme su ciò che scrivo e che quindi non potendole smentire nel merito, cercano di buttarla in caciara.
Il 6 gennaio del 1980 veniva ammazzato Piersanti Mattarella. Era candidato alla segreteria della democrazia Cristiana; ma la cosa più importante sta nel fatto che condivideva la linea di Aldo Moro per quanto riguarda il compromesso storico.
Quella linea prevedeva di portare al governo il Partito Comunista Italiano, e tutto ciò non andava giù ai padroni a stelle e strisce i quali temevano che con il PCI al governo, molti dei loro desiderata sarebbero potuti rimanere inattesi. In sostanza, per farla breve, gli USA vedevano il PCI come un ostacolo e quindi un pericolo per i loro sporchi affari.
La moglie di Piersanti, Irma Chiazzese, ha riconosciuto Giuseppe Valerio Fioravanti come l’assassino di suo marito e lo ha anche testimoniato in tribunale.
Fioravanti è anche tra gli esecutori della strage di Bologna, assieme a Mambro, Cavallini, Ciavardini e Paolo Bellini, il quale nel 92 partecipò anche ad una riunione ad Enna dove si decise l’attentato a Falcone.
Scavando tra le varie testimonianze e sentenze che riguardano il periodo delle stragi italiane, si può tranquillamente ricostruire la piramide che mise in atto la più grande azione di destabilizzazione dello Stato Italiano.
In basso ci stavano la mafia ed i terroristi legati a movimenti fascisti di estrema destra. Questi esecutori erano “protetti” e finanziati dalla P2 di Licio Gelli che a sua volta aveva dietro la CIA e la NATO.
Girando e rigirando, la verità va a schiantarsi sempre allo stesso punto, ed è per questo che fino ad oggi, queste stragi continuano a rimanere impunite e prive di verità “ufficiali”. E continuano a rimanere impunite anche perché testimonianze come la moglie di Piersanti Mattarella, diventano inattendibili. Una roba incredibile!
Siamo veramente una Repubblica delle banane, e nonostante tutto quello che è successo alla nostra martoriata Repubblica, ad oggi siamo costretti a veder ricevere al Quirinale gente che ha fondato un partito assieme a cosa nostra e a sorbirci Presidenti della Repubblica che rivendicano con orgoglio un Atlantismo compulsivo che da sempre attenta allo Stato italiano, miete vittime, ci nega la verità e gli si consente financo di depistare le proprie malefatte.
Sarà un giorno migliore in Italia quando da Washington non potranno più permettersi di imporci cosa possiamo e non possiamo fare. Questa è una conclusione che si basa sui fatti storici, e non sulla propaganda Hollywoodiana che ha annebbiato milioni di cervelli Italiani. Quel giorno sarà un altro 25 Aprile per noi… Yankee go home!

L’articolo è stato pubblicato su Osservatorio della legalità e dei diritti il 6 gennaio 2023

Le voci della ragione: conversazione con Vittorio Agnoletto

di Laura Tussi

Tussi. Il tema della pace è ora più che mai urgente, sia per la guerra russo-ucraina, sia per le tensioni internazionali sempre più pericolose. Immagino che per un medico come lei, che si occupa di salute, cioè di vita, questa situazione deve costituire un grave allarme. Il pericolo riguarda anche il nostro ecosistema che le guerre e gli esperimenti nucleari aggravano. Un motivo in più perché gli ecopacifisti facciano sentire la loro voce di condanna.

Agnoletto. La guerra, oltre che morti, feriti e distruzione, porta anche inquinamento disastri ambientali e malattie. Si ragiona poco sul fatto che l’uso di armi esplosive, per esempio nelle aree urbane, crea grandi quantità di detriti e di macerie che possono causare un inquinamento dell’aria e del suolo. L’inquinamento provocato dalle guerre può provocare tanti e tanti problemi, per esempio, dal punto di vista ambientale, anche nelle falde acquifere: sono i cosiddetti danni collaterali della guerra, ma come impatto sono tutt’altro che collaterali. E poi non dimentichiamoci che le emissioni di CO2 di alcuni grandi eserciti possono addirittura essere maggiori di quelle emesse da intere nazioni. Esiste una ricerca della Lancaster University che dimostra quanto l’esercito degli Stati Uniti sia uno dei maggiori inquinatori. È l’istituzione che consuma più petrolio ed è uno dei principali emettitori di gas serra. L’esercito statunitense se fosse una nazione si collocherebbe tra il Perù e il Portogallo nella classifica globale degli acquisti di carburante. Si può fare anche un esempio purtroppo molto attuale: un F35 per percorrere 100 km consuma circa 400 litri di carburante che corrispondono all’emissione di 27.800 kg di Co2. L’aviazione tra le varie armi è quella che detiene la percentuale più alta di emissione all’interno del sistema di difesa USA. È necessario non dimenticare le malattie, le ricadute sull’ambiente e l’inquinamento ambientale che possono derivare da un conflitto. Rifacciamoci a un’esperienza storica che purtroppo conosciamo e della quale abbiamo parlato tante volte: le conseguenze della guerra in Iraq sono state, dal punto di vista sanitario, tremende. Pensiamo ai tumori, ai bambini nati deformi e a tante altre gravi condizioni di salute degli abitanti di quella regione, tutto questo non viene considerato. Va inoltre valutato anche un altro aspetto. I danni provocati dalla guerra sono anche collegati ad altri disastri sociali: pensiamo per esempio al fatto che intere popolazioni, migliaia, talvolta decine o centinaia di migliaia di persone sono obbligate ad abbandonare le loro case e finiscono nei campi per rifugiati, nei quali vivono una condizione molte volte ai limiti della dignità umana: mancano i servizi essenziali, sussiste una scarsità d’acqua e non ci sono, oppure sono assolutamente insufficienti, i servizi igienici. Senza contare la gestione dei rifiuti di simili aggregati umani e l’impatto ambientale che ne deriva. E quindi il risultato di una guerra – anche limitandosi ad osservare quello che accade nei territori coinvolti, senza analizzarne le conseguenze ad ampio raggio sull’economia globale – non si ferma “solo” ai morti e ai feriti ma è molto più ampio e devastante.

Tussi. Gli scienziati continuano a mettere in guardia i governi e gli Stati e parlano di baratro nucleare. Secondo molte autorevoli personalità ci stiamo incamminando su una via di non ritorno. Che cosa possiamo fare?

Agnoletto. Va precisato innanzitutto che non esiste un nucleare buono e un nucleare cattivo. È una tecnologia che prevede sempre un rischio. Un rischio che esiste, non eliminabile e che può avere delle conseguenze veramente pesantissime. Noto in questi giorni una contraddizione pazzesca da parte dell’establishment, sui giornali principali, sui grandi media, nelle parole dei portatori del pensiero unico in Italia come in tutta Europa. Viene lanciato un grande allarme per quello che può avvenire nella centrale nucleare di Zaporizhia – teniamo conto che 6 dei 15 reattori presenti in Ucraina sono collocati all’interno di questa centrale – ma contemporaneamente, per rispondere alla crisi energetica, quegli stessi paesi, quegli stessi protagonisti del pensiero unico spingono, attraverso i media mainstream, per un ritorno al nucleare. Questa è una contraddizione incredibile. Il ritornello di questi governi è: “Se il nucleare lo controlliamo noi, allora siamo sicuri. Incidenti non ci possono essere”. Proviamo, invece, a ipotizzare la possibilità che ci sia un incidente. Ci ritroveremmo in una situazione di stress collettivo ben superiore a quella che stiamo vivendo ora in relazione a quello che può accadere nelle centrali nucleari dell’Ucraina. Che cosa si può fare? Innanzitutto, dobbiamo valorizzare ulteriormente il grande impatto che ha avuto la campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari Ican che ha vinto anche il premio Nobel per la Pace nel 2017. Uno dei primi obiettivi è far sì che l’Italia firmi il Trattato voluto da Ican, il TPAN, Trattato Proibizione armi nucleari. Di questo il mondo politico non parla, ma è un obiettivo assolutamente fondamentale. Credo che i ragionamenti intorno alla guerra, in epoca nucleare, debbano modificarsi completamente. E non è un caso che la stessa chiesa cattolica abbia modificato totalmente la propria dottrina sulla guerra rispetto alla “guerra giusta”; ritengo che dovrebbe diventare senso comune la famosa affermazione di Einstein: “Non so con quali armi sarà combattuta la terza guerra mondiale. Ma la quarta sarà combattuta con pietre e bastoni”.

Tussi. In questi giorni ho letto il pamphlet dello scrittore disarmista Angelo Gaccione Scritti contro la guerra. Un discorso molto radicale e che considera tutti gli Stati armati – per la loro ricerca bellica, per gli ordigni di sterminio sempre più terribili di cui si dotano, e per la gigantesca spesa militare – responsabili di un sistema criminale ai danni degli esseri umani e della natura. Sostiene che in era nucleare è divenuta obsoleta qualsiasi tipo di difesa armata e che bisogna rinunciarvi. Se per difesa intendiamo la salvaguardia della vita e dei beni di una Nazione. Lei che ne pensa? Gaccione sostiene che bisogna avviare il disarmo unilaterale senza contropartita, come ha fatto lo Stato del Costa Rica che nel libro è citato come esempio. Procedere allo scioglimento dell’esercito e riconvertire a scopi sociali la spesa militare. Per esempio, investendo nella sanità pubblica, nella strumentazione e nella ricerca. Suggerisce di spostare i militari delle tre armi nei settori della tutela del territorio, e molte altre idee preziose.

Agnoletto. La riflessione dello scrittore Angelo Gaccione mi sembra estremamente importante e profonda. Il punto è che in questo momento siamo molto lontani dalla situazione auspicata. Nel 2020 sono stati spesi oltre 2000 miliardi di dollari per investimenti militari e vi ricorderete che alla COP26 è stato molto complicato lavorare attorno a un accordo per assicurare solo 100 miliardi per una transizione ecologica dei paesi del Sud del mondo. Si è in tal modo, resa evidente un’assenza di consapevolezza totale attorno a questo tema. Consideriamo che nel pianeta, in questo momento, ci sono circa 13.000 armi nucleari e consideriamo che noi siamo tra quei paesi che ospitano alcune decine di testate nucleari degli Usa. Credo che la garanzia di non utilizzare le bombe nucleari sia una garanzia che non ci può lasciare tranquilli. Perché quando due paesi sono in guerra, iniziano il conflitto con le armi convenzionali, ma se uno dei contendenti rischia di soccombere e ha a disposizione l’arma nucleare, è possibile e probabile che decida di farvi ricorso. D’altra parte, abbiamo già visto come, nonostante tutte le convenzioni internazionali, le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, non hanno mai avuto problemi a usare armi chimiche e gas tossici, che sono assolutamente vietati dalle convenzioni internazionali. Mi ha molto colpito in questi giorni come l’appello chiaro e durissimo di Papa Francesco sia stato totalmente ignorato dai grandi media. Le prime pagine sono andate tutte al discorso di Draghi al meeting di Comunione e Liberazione. Delle parole di Francesco non c’era praticamente traccia, al massimo qualche trafiletto nelle pagine interne. È una cosa inedita. Prima di Francesco, qualunque cosa diceva un papa diventava l’apertura dei telegiornali, addirittura esagerando, ignorando la laicità prevista dalla nostra Costituzione. Ora siamo invece di fronte a una cancellazione e a una vera e propria rimozione e censura. Sono rimasto anche colpito da come i giovani di CL, che in un’altra epoca e con altri Papi erano definiti i papaboys, hanno pressoché ignorato le parole di Francesco, anche se all’inizio della guerra, Comunione e Liberazione aveva fatto dichiarazioni orientate alla ricerca della pace. Ma questo è un papa scomodo perché non è disponibile a giustificare in nessun modo alcuna guerra e ha puntato il dito contro coloro che dalla guerra ricavano profitti. Francesco ha reso evidente come la guerra sia il risultato di grandi interessi economici interessati al controllo delle fonti energetiche e della logistica e non siano invece causate, come viene sostenuto, dalla difesa di grandi valori e ideali. Inoltre, ci dovrebbe preoccupare molto che lo schema della guerra, la logica amico/nemico, sia ormai applicata a qualunque settore della società. È quanto è avvenuto, ad esempio, in occasione della pandemia. In guerra si deve, tacere, obbedire e combattere. Non si può discutere, non si possono sollevare interrogativi. Questo rischia di essere il modello attorno al quale, oggi, viene costruita la nostra società. In questa condizione, credo che sia importante riprendere quelle tematiche che, per parlare della mia esperienza personale, stavano, ad esempio, alla base del movimento pacifista dei primi anni ’80. Penso alle grandi manifestazioni a Comiso alle quali ho partecipato nel 1983 contro l’installazione dei missili; un movimento pacifista in grado di praticare forme di disobbedienza civile. È necessario riprendere queste pratiche. In prospettiva, guardando ad un futuro purtroppo oggi lontano, dovremmo lavorare per una difesa civile nonviolenta – su questo mi sembra che ci sia un contributo interessante di Gaccione – che si fondi sull’attivismo e la difesa delle reti sociali presenti sul territorio. Alcune esperienze storiche possono esserci di riferimento, ma certamente è un percorso lungo, complesso che va attualizzato nella condizione odierna.

Tussi. Sarebbe favorevole allo scioglimento della Nato? Gaccione scrive che dopo la fine del Patto di Varsavia, della Cortina di Ferro e con la caduta del Muro di Berlino, la Nato non ha più senso ed è divenuta un grave pericolo per la pace. Va eliminata, secondo lui. L’Italia dovrebbe uscire unilateralmente dalla Nato e chiudere le basi dove sono ospitate testate nucleari.

Agnoletto. Posso solo dire che sono totalmente d’accordo sullo scioglimento della Nato. L’azione che la Nato sta portando avanti in questi anni è addirittura in contrasto con il motivo stesso che ne giustificò la nascita. La Nato, infatti, era stata presentata come uno strumento di difesa dei territori europei all’epoca della guerra fredda. La situazione è totalmente cambiata: credo che si sia persa una grande opportunità, cioè la Nato andava sciolta contestualmente alla fine del Patto di Varsavia. Il non aver fatto questo, ne ha permesso la trasformazione in uno strumento militare in mano agli USA per intervenire in qualunque parte del mondo, tanto è vero che, proprio in questi ultimi mesi, sta potenziando la sua presenza nel Pacifico, seppure sotto una diversa sigla. Inoltre, il mancato scioglimento della Nato rende impossibile la formazione di un protagonismo autonomo sulla scena mondiale da parte dell’Unione Europea. Ha bloccato un’emancipazione dell’Unione Europea da una condizione di dipendenza dagli Stati Uniti, ad un soggetto capace di svolgere una propria azione autonoma e indipendente, che sappia pesare nel mondo a cominciare per esempio del Medioriente, dove l’Unione Europea, nonostante la vicinanza geografica, è totalmente priva di una propria strategia. Sono d’accordo che dobbiamo uscire dalla Nato – meglio sarebbe scioglierla – e che vanno chiuse tutte le sue basi militari presenti sul nostro territorio a cominciare da quelle che ospitano le testate nucleari…
Segue su ODISSEA

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 23 settembre 2022

Mario Draghi: il massacro delle illusioni

Immagine: Regno Unito, 1915, operaie impiegate nella lavorazione del TNT, trinitrotoluene o tritolo

di Joe Vannelli

Là dove si trova un esercito i prezzi sono alti,
là dove i prezzi salgono la ricchezza del popolo
si esaurisce. Quando la ricchezza è esaurita il
popolo sarà afflitto da richieste fiscali pressanti.

Sun Zu, L’arte della guerra
(Milano, 1965, II, XII, pag. 119)

In occasione del 1 maggio 2022 è stato reso noto l’annuale rapporto Censis-Ugl e non è difficile scorgere nell’elaborazione e nella ricchezza di dati sostanziali l’insegnamento di Giuseppe De Rita, fondatore dell’Istituto nel 1964 e dal 2021 membro del Consiglio d’Indirizzo presso Palazzo Chigi. A dispetto dei suoi novant’anni al governo sentono ancora il bisogno di questo inossidabile grand commis formatosi, come Mario Draghi, presso i gesuiti, nel liceo romano Massimiliano Massimo.

I dati oggettivi degli studi statistici

Lo studio pone questioni oggettivamente ineludibili che, tuttavia, i nostri parlamentari si ostinano a non ritenere tali. In dieci anni, ovvero da quando un mediocre economista, Mario Monti, ebbe a varare una disastrosa riforma delle norme che regolano il rapporto di lavoro e il trattamento pensionistico (2012), invece della promessa ripresa, abbiamo registrato un crollo. La retribuzione di fatto è diminuita in modo assai consistente, la misura individuata dalla ricerca è pari ad 8,3%; questo dato, già significativo, risente ora, di giorno in giorno, degli effetti connessi all’inflazione, e in particolare all’andamento dei prezzi nel settore energetico. Oggi, dopo la cura elaborata da pretesi esperti, il 13% della popolazione italiana si colloca sotto la soglia di povertà, proprio mentre una canea di analfabeti, spacciati per studiosi e/o giornalisti, non si fa scrupolo di invocare il taglio del reddito di cittadinanza e perfino degli ammortizzatori sociali. Il rapporto del Censis pubblicato il 3 dicembre 2021 (prima della guerra in Ucraina) è implacabile: l’Italia è l’unico fra i 38 paesi che aderiscono all’OCSE – organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – in cui la retribuzione dei lavoratori è diminuita nel trentennio 1990/2020, nella misura del 2,9%. Nello stesso arco temporale si è registrato un aumento salariale del 31,1% in Francia e del 33,7% in Germania. Dunque l’alternanza dei governi di centrodestra, di centrosinistra e di tecnici non ha comportato mutamenti di rotta, con malvagia coerenza ha sempre trovato conferma l’esproprio sistematico dei salariati.

Con l’inflazione il dispotismo attacca

Nel corso dell’audizione alla Camera in data 27 luglio 2021 il presidente di ISTAT, Gian Carlo Blangiardo, ha confermato (pagina 12) che è in forte crescita la povertà assoluta e non solo nelle regioni arretrate: nel nord ovest si è passati dal 5,8% al 7,9% mentre nel nord est dal 6% al 7,1%. L’allargamento della forbice caratterizza, sia pure in forma meno accentuata, anche i paesi del nord, Belgio e Olanda compresi.

Secondo le sostanzialmente unanimi diverse rilevazioni economiche già nell’ottobre del 2021 – dunque prima della guerra – l’inflazione si è posta come elemento costante, tanto da determinare un aumento dei costi di produzione industriale prossimo al 20%, con inevitabili effetti a cascata. In particolare vi è stato un incremento, clamoroso e inarrestabile, dei prezzi nel settore energetico: elettricità, gas, petrolio sono raddoppiati e le stime meno inquietanti si collocano comunque almeno sulla soglia di 80%. Nonostante il taglio drastico delle retribuzioni percepite sia dai subordinati sia dagli autonomi la rete industriale italiana fatica a mantenere il passo, così che, per la prima volta dopo molti anni, gli analisti cominciano a considerare l’eventualità, in alcuni casi, di possibile stagflazione.

L’erosione del reddito esistenziale di fatto subisce inoltre un aumento sinergico a causa del contestuale taglio degli ammortizzatori sociali, che durante la pandemia si è rilevato soprattutto in ambito sanitario, con una palese contrazione dell’assistenza. Mentre i profitti delle società farmaceutiche crescevano in progressione geometrica, sottratti già in origine al fisco e al patrimonio dei singoli stati nazionali, la privatizzazione della salute proseguiva, anche con il quotidiano ricatto di versare una tangente legalizzata o di attendere tempi biblici, con il rischio di morire prima dell’accesso al servizio.

L’attacco al precariato si pone come obiettivo quello di cancellare ogni forma di contrasto e di ribellione alla conquista dell’intera esistenza di ogni suddito, reso precario sul piano contrattuale e impaurito sul piano psicologico; il moderno capitalismo finanziarizzato si articola in forme diverse per esercitare un pieno dominio, ma ciascuna forma ha quale caratteristica comune il dispotismo politico, economico, giuridico, sociale. La guerra e la prevaricazione, la paura diffusa e l’incertezza costante, sono intrinsecamente legate, tutte, all’esercizio del comando, ne sono anzi elementi costitutivi; l’autocrazia del XXI secolo prescinde, a ben vedere, dal tiranno quale soggetto titolare di una propria autonomia, e ormai anche dalla forma stato contingente. Il potere, sempre più sganciato dall’ideologia e dalla religione, si fonda piuttosto sulla menzogna spettacolare, è capace di trasformare il falso oggettivo in vero reale, con le armi, con la comunicazione, con il denaro, con il terrore.

L’attuale governo italiano di larga intesa intende completare il percorso intrapreso colpendo le due ultime roccaforti di resistenza popolare: la casa e il risparmio della famiglia.

La casa. Il recentissimo dibattito sulla revisione degli estimi catastali si prefigge di aumentare il prelievo statale e solo un ingenuo può fidarsi della parola di un banchiere abituato, fin da giovanissimo, ad esercitare l’arte della speculazione, mentendo ai mercati. Mario Draghi non riusciva a trattenere un sorriso divertito mentre spiegava ai membri delle due Camere che la rivalutazione del valore degli immobili non si sarebbe in nessun caso concretata in un maggior costo per la vasta platea dei piccoli proprietari: non si capacitava di essere creduto! Già. In Italia, negli anni trascorsi, grazie soprattutto alla forza del movimento operaio e contadino, i meno abbienti avevano ottenuto il mattone, percepito come un bene rifugio in cui ripararsi durante i tempi grami. Come noto il nostro è il paese europeo in cui i ceti popolari hanno, in percentuale, la maggior quota immobiliare, non solo di prime case, ma anche di laboratori artigianali, abitazioni rurali o di secondo soggiorno.

Il risparmio di famiglia è un’altra caratteristica peculiare italiana. Difficile calcolarlo esattamente – gli italiani sono gente che diffida dei potenti e dello stato – ma con gli strumenti informatici nascondersi diventa ogni giorno più difficile: richiede una professionalità che solo gli speculatori finanziari possiedono in pieno. Secondo il Censis il risparmio/patrimonio si è ridotto del 5,3% negli ultimi dieci anni; i depositi ammontano comunque a 967 miliardi, una somma considerevole. I dati offerti presentano tuttavia contraddizioni evidenti, generati probabilmente dalla diversa modalità di acquisizione. Secondo ABI (la struttura bancaria) il risparmio complessivo sarebbe cresciuto del 10% fra il 2019 e il 2020, calcolandolo in 1.737 miliardi; Eurostat rileva invece un calo del 4,6% nel 2021 in confronto ai trimestri precedenti, con un taglio che non ha determinato aumento di consumi (questo vorrebbe dire che l’uso delle somme accantonate è servito per far fronte a debiti già accumulati, non per investimento).

Necessiterebbe una lettura più ragionata per comprendere meglio il significato esatto di questi numeri, apparentemente in contrasto logico, e lascio volentieri il compito a chi possiede maggiore professionalità e competenza. Rimane tuttavia – e questa è una valutazione politica più che strettamente tecnica – che si prospetta assai probabile un programma di aggressione alla quota di risparmio, nella migliore delle ipotesi per trasformare risorse inutilizzate in investimenti produttivi (magari speculativi), nella peggiore per sanare il deficit senza toccare le grandi imprese. O, forse, nell’ottica a breve termine che caratterizza il progetto neoliberista negli ultimi anni, solo per sopravvivere un altro semestre, senza curarsi della prossima generazione, magari sperando in una qualche neo-hegeliana astuzia della storia.

Il dispotismo di Mario Draghi

Alberto Quadrio Curzio, un valtellinese sempre attento alle cose del mondo, fu tra i primi a cogliere l’importanza della riunione romana in cui fu presentato il rapporto elaborato da Mario Draghi e Raghuram Rajan su richiesta del Gruppo dei Trenta. Il titolo era assai suggestivo: Reviving and Restructuring the Corporate Sector post Covid. Rajan era stato il governatore della banca indiana di stato fra il 2013 e il 2016; di lui ricordiamo un saggio scritto a quattro mani con Luigi Zingales, Saving Capitalism from the Capitalists, elogio senza remore del più bieco liberalismo finanziario, privo di qualsivoglia tentazione pacifista o anche solo solidaristica. Dopo la rottura con il leader nazionalista indiano Narendra Modi, Rajan era rientrato a Chicago, accompagnato dall’accusa di aver utilizzato e trasmesso, per fini propri, informazioni riservate. A Roma era presente Janet Yellen, attuale segretario del tesoro nell’amministrazione Biden; l’Italia sarebbe stato il laboratorio politico economico del nuovo corso americano, con il conferimento dell’incarico di governo a Mario Draghi. Quando il Gruppo dei Trenta propone – la sede è a Washington – e il governo USA approva, i parlamentari italiani debbono eseguire, limitandosi di volta in volta a ripartire i voti fra una maggioranza richiesta e un’opposizione che, per decoro istituzionale, deve, almeno apparentemente, esistere. Il presidente emerito dell’Accademia dei Lincei, professor Quadrio Curzio, nel suo acuto commento del 16 dicembre 2020, mostrò di aver perfettamente compreso l’ormai prossimo procedere degli avvenimenti politici, in Italia e in Europa. Neppure due mesi dopo, il 13 febbraio 2021, il nuovo esecutivo prestava giuramento preparandosi a realizzare quanto deliberato out there. I rappresentanti dei lavoratori italiani, nelle due Camere, negli enti territoriali, nei sindacati, si guardarono bene dal lottare contro e perfino dal protestare con troppa energia. Un po’ per interesse, un po’ per codardia, ma soprattutto per mancanza di prospettive concrete e di seguito nel territorio. Si sono guadagnati sul campo il disprezzo con cui vengono trattati.

La strage delle illusioni

In un breve saggio scritto nel 1824 (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani) Giacomo Leopardi notava che l’ambizione può aver varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica e dallo stato politico della società … e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni.

Da ormai tre mesi il tema della guerra è dominante. Prima dell’invasione russa in Ucraina lo scontro epocale che caratterizzava la cronaca italiana era fra presunti sì vax e presunti no vax; ora la contesa riguarda i difensori della libertà democratica (la NATO) e i paladini dell’autocrazia (Putin). A ogni facchino/a precario/a del settore logistico e a ogni addetto/a all’inserimento dati nel gran mare telematico immateriale viene chiesto di schierarsi; il quesito è presentato con tale impeto che riesce difficile evitare una risposta, e molto spesso, pur di farla finita, si risponde con la pancia, magari a casaccio, in ogni caso senza convinzione.

La resistenza presuppone la caduta del governo e la sua sostituzione con altra struttura istituzionale controllata dall’occupante; sicuramente fu il caso francese durante la seconda guerra mondiale, quando i ribelli guidati da De Gaulle si unirono all’opposizione socialcomunista per rovesciare il governo di Vichy. E sicuramente non è il caso della repubblica Ucraina, visto che il governo rimane in carica. La Russia è attaccante, dunque l’Ucraina è resistente: non c’è dubbio. Ma si tratta di uno scontro fra due eserciti di mestiere, entrambi con una quota di coscritti arruolati a forza e con un supporto di mercenari (chiamati con eufemismo volontari); i rispettivi comandanti non hanno mai inteso mettere in discussione la fedeltà ai rispettivi presidenti. I russi, a differenza del nostro Manzoni, non coltivano il vero per soggetto e chiamano liberazione quella che gli ucraini denunciano come invasione; non c’è dubbio che in base alle vigenti norme del diritto internazionale gli invasi abbiano sempre ragione. Ma insurrezioni, rivoluzioni e conquiste tendono, per loro natura, a rifiutare le regole, preferiscono senza dubbio sottrarsi ad esse; non per caso Russia, America e Ucraina si sono rifiutate fino ad oggi di riconoscere le decisioni del TPI, il Tribunale Penale Internazionale. Usando le norme internazionali vigenti (peraltro spesso disconosciute dagli Stati) quale criterio tecnico giuridico per la risoluzione delle controversie territoriali, dovremmo ri-disegnare la geografia politica del pianeta, cosa per nulla agevole e anzi probabilmente impossibile. Israele dovrebbe restituire il Golan alla Siria? In Somalia a chi assegnare territori vasti come Puntland o Galmudugh?

In realtà Israele sostiene, ad esempio, la piena legittimità della presenza in Golan sulla base di una articolata sequenza di ragioni politiche (la cui validità è negata dalla Siria) così come il Puntland fonda la propria, non riconosciuta, autonomia su una sorta di diritto naturale. Il conflitto fra giusnaturalismo e positivismo giuridico dura fin dalla notte dei tempi. La distinzione fra aggredito e aggressore è certamente suggestiva, e altrettanto certamente non priva di importanza; ma non risolve il problema connesso alla guerra e le grandi potenze non hanno mai deciso, in concreto, chi sostenere sul solo rilievo di chi avesse preso l’iniziativa. La letteratura militare è ricca di testi sulla guerra preventiva intesa come guerra difensiva; una giustificazione teorica si trova sempre per ogni azione.

Ucraina e Russia vogliono entrambe il possesso e il controllo sulla Crimea e sul Donbass; la prima per la posizione strategica, il secondo per i giacimenti di gas, petrolio e altre ricchezze del sottosuolo. Non intendono rinunziare a questa formidabile opportunità, e si trascinano dietro i rispettivi oligarchi (più banalmente: imprenditori avventurosi e avventurieri) i quali, negli anni, hanno accumulato fortune immense sfruttando la manodopera e depredando le comunità. La messa in scena spettacolare dei princìpi universali più diversi è solo un espediente per nascondere la realtà di una guerra per le risorse e per il controllo di un mare.

Mario Draghi è schierato con gli Stati Uniti, con la NATO, con le banche occidentali, con i suoi amici di sempre. Non cerca gloria e non cerca libertà; il suo interesse è rivolto esclusivamente al bottino, l’unico fascino cui, fin dall’infanzia, si mostra costantemente sensibile, con lodevole coerenza. Quest’uomo è andato oltre l’ormai superata etica protestante descritta da Max Weber; l’ha rinnovata con il cattolicesimo meticcio di Biden, un misto di liberismo e di Santa Inquisizione, forgiato nelle parrocchie del Delaware. Il capitalismo di Putin si prefigge lo stesso obiettivo. Per mettere le mani sul medesimo bottino non esita ad invocare i sacri valori del cristianesimo ortodosso, la tradizione imperiale zarista, perfino le imprese dell’Armata Rossa.

Nella incessante ricerca del profitto, inteso come bene Supremo, Putin, Biden, Draghi e Zelensky hanno ucciso i valori; piegando alla moneta democrazia e libertà si sono macchiati di un crimine, la strage delle illusioni.

La legislatura si avvia a conclusione

Piuttosto in sordina la legislatura si avvia verso la naturale conclusione e nelle file dei partiti monta un sordo rancore, si moltiplicano i complotti, si preparano le risse. Il taglio al numero di parlamentari alimenta il clima di sospetto e di congiura, senza che ad oggi sia stato possibile risolvere la questione della legge elettorale, fra le due ipotesi del maggioritario e del proporzionale. Le ormai vicine elezioni amministrative non sembrano sufficienti, comunque vadano, a determinare la scelta. Nel frattempo i due rami del Parlamento vivacchiano rassegnati alla loro irrilevanza, chiamati solo a ratificare le decisioni del Gruppo dei Trenta e della Commissione, trasmesse con arroganza da Mario Draghi senza consentire modifiche o, tantomeno, rifiuti. Quando una forza di maggioranza abbozza forme di protesta provvede la cosiddetta opposizione al salvataggio dell’Esecutivo; davvero la cabina di comando può contare su larghe intese.

I risultati del 2018 erano stati, in una certa misura, sorprendenti. Il primo governo Conte, definito gialloverde, si chiuse con una rottura, ma, a differenza di quanto sperava il gruppo dirigente leghista, non portò ad elezioni anticipate. Seguì invece il secondo governo Conte, definito giallorosso, con maggioranza nuovamente risicata, ma unita grazie al collante di un imprevisto, la pandemia. E si caratterizzò per l’introduzione del meccanismo tecnico giuridico di leggi delega, decreti legge convertiti mediante apposizione della fiducia e decreti ministeriali. Questo metodo di governo, a modo suo innovativo, ha creato un precedente che sarà nel prossimo futuro difficile rimuovere. Mario Draghi lo ha ereditato e ben volentieri confermato, esautorando le Camere nonostante l’ampiezza del consenso.

Dopo la pandemia anche la guerra non è sfuggita alla regolamentazione sganciata dal dibattito parlamentare, sottraendo ad ogni verifica di merito la scelta di appoggio militare alla NATO e agli USA. In assenza di voto parlamentare il Governo Draghi ha varato, a distanza di pochi giorni (25 e 28 febbraio 2022), due decreti legge di immediata attuazione (n. 14 e n. 16). Il primo disponeva (articolo 2) la cessione gratuita di mezzi non letali di protezione per le autorità governative ucraine con scadenza 30 settembreIl secondo, tre giorni dopo, modificava radicalmente il quadro. Senza alcuna limitazione – e in assenza di riferimenti al costo o alla gratuità – il primo comma dell’art. 1 disponeva: fino al 31.12.2022 previo atto di indirizzo delle Camere è autorizzata la cessione di mezzi, materiali, equipaggiamenti militari. Una vera e propria delega in bianco, da esercitarsi a mezzo di decreti ministeriali che non necessitano più del voto parlamentare. Decide dunque il ministro della difesa, Lorenzo Guerini (PD, corrente moderata), di concerto con Luigi Di Maio (esteri, 5 Stelle) e Daniele Franco (economia, Banca d’Italia), senza rendere conto a nessuno; per aggiunta, con ulteriore innovazione, il testo con l’elenco delle armi è secretato. Quattro giorni dopo l’invasione si prevedeva dunque non una guerra lampo (come cianciano i commentatori) ma un conflitto presumibile fino al 31 dicembre (almeno dieci mesi) con impiego illimitato di forniture militari alla repubblica ucraina per la difesa del territorio nazionale. Il decreto legge n. 14 è stato poi convertito nella legge 5 aprile 2022 n. 28, assorbendo il contenuto del decreto n. 16, lasciato decadere, con salvezza dei provvedimenti adottati (l’invio di armi). Non è vero pertanto che esistano limiti, qualitativi e quantitativi, all’invio di forniture belliche in Ucraina; è vero invece che le due Camere (contro il volere dei cittadini italiani, almeno secondo tutti i sondaggi) hanno rimesso ogni decisione al ministro Lorenzo Guerini, rendendolo libero di fare quel che vuole fino al 31 dicembre 2022, quale che sia la spesa. A prescindere direbbe Totò.

In questo caotico svolgersi degli eventi non si possono neppure escludere del tutto sorprese, con elezioni anticipate entro l’anno. Ma, con maggiore probabilità, la gestione affidata dal Gruppo dei Trenta a Mario Draghi proseguirà senza incontrare altro ostacolo che il mugugno. Questo, dal punto di vista precario, è un vero peccato.

La caduta del governo sarebbe un fatto positivo

Il precariato italiano nulla avrebbe da perdere, anche se poco da guadagnare, in caso di inattesa crisi del governo Draghi.

La composizione attuale regge su un compromesso elaborato dal neocapitalismo finanziario, per necessità contingente: per poter completare l’opera di precarizzazione e sottomissione ai danni di un’intera popolazione lascia vivere il vecchio apparato di funzionari, di faccendieri, di gendarmi, quando occorre perfino di criminali (questi ultimi con maggiore prudenza, naturalmente). Le cariche e le provvigioni servono anche a questo; il ceto imprenditoriale emergente si è dimostrato capace di aspettare con pazienza il concludersi della transizione, si accontenta per ora del denaro senza rinunziare al sogno del potere anche formale.

L’insieme dell’apparato è ancora necessario per rendere inoffensiva l’opposizione, distribuendo con sapienza qualche buona occasione ai ribelli più utili mediante cooptazione oppure estromettendo le menti potenzialmente più pericolose. L’opera di bonifica procede con metodo; l’arruolamento dei rappresentanti eletti nel territorio, in sede nazionale o europea, sembra rassicurare la cabina di comando. Bisogna saper cogliere l’occasione, magari con maggior utile di un Bobby Seale o di una Angela Davis. Mario Draghi è un esempio, quanto a proficua riservatezza. Dal matrimonio con la discendente di Bianca Cappello (la moglie di Francesco de’ Medici) sono nati due figli: Giacomo si occupa dal 2017 di investimenti speculativi (i famosi hedge funds) per LMR Partners (2,5 miliardi) e Federica, dirigente di Genextra, attende il via libera per il fondo farmaceutico X Gen (il programma è quello di guadagnare investendo in farmaci e vaccini). Qualcuno ritiene che possa sussistere un conflitto di interesse, ma il fedele bracco ungherese conosce bene l’intera famiglia e giura che non esiste alcun pericolo; a Città della Pieve è rigorosamente vietato parlare di affari. L’unico a protestare, abbaiando, è un altro cane, ma totalmente inaffidabile: si tratta di Vernyi, il molosso turcomanno di Putin, discendente di una razza abituata ad accompagnare i mongoli durante l’invasione dell’Europa centrale.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 30 maggio 2022