ONU

Guerra e diritto

di Gianni Giovannelli

Quest’epoca rumorosa che rimbomba
della spaventevole sinfonia di fatti
che producono cronache
e di cronache che causano fatti

Karl Kraus
(In questa grande epoca, Marsilio, 2018, pag.51, trad. Irene Fantappiè)

L’impianto teorico su cui si fondano ancora oggi le norme del diritto internazionale che dovrebbero regolare e disciplinare lo scontro bellico (dichiarato o di fatto) è incompatibile con quella che ormai – pacificamente – è diventata la forma dominante assunta, sul campo, dalla guerra. La comunicazione, tramite ambasciatori, della tradizionale “dichiarazione di guerra” è caduta in disuso: nel corso del terzo millennio, per una ragione o per l’altra, nessun governo di stati esistenti (riconosciuti o meno) ha ritenuto necessario notificare un avviso formale di apertura delle ostilità prima di dar corso a bombardamenti, ad attacchi navali o ad operazioni di conquista armata del territorio. L’effetto sorpresa, le notizie false spacciate per vere e l’aggressione improvvisa a tradimento sono anzi ormai entrati a far parte dell’istruzione militare nelle accademie, dei programmi di addestramento delle truppe, dei piani elaborati per aprire o gestire il conflitto.

Le strutture faticosamente costruite dopo la seconda guerra mondiale per garantire il rispetto delle regole, aiutare i deboli e comporre i conflitti (dalla Corte Internazionale di Giustizia alla Corte Penale Internazionale, dall’ONU all’Organizzazione Mondiale della Sanità) sono ormai considerate un fastidioso ostacolo all’esercizio della forza da parte degli stati nazionali e/o delle alleanze formatesi intorno alle potenze guida. Di fatto gli ordini di carcerazione emessi dalla CPI (per esempio nei confronti di Putin e Netanyahu o del libico Almasri) sono apertamente disattesi non solo da chi non aderisce al Trattato istitutivo (Cina, Usa, Russia) ma anche da chi come l’Italia ha ospitato a Roma la sottoscrizione del documento fondante. L’ONU non può prendere, ormai da molti anni, alcuna decisione sulle guerre in corso per via del diritto di veto che possono opporre le cinque nazioni (solo loro!) con questo potere; e poiché Cina, Russia, Stati Uniti, Francia, Inghilterra sono sempre coinvolte sul campo di battaglia l’ONU rimane svuotata di qualsiasi capacità di intervento, inutile, inerme, a prescindere dalla pronuncia, a maggioranza, dei 193 paesi che partecipano all’Organizzazione. Ne abbiamo una conferma proprio in questi giorni, in occasione della discussione sul genocidio in corso a Gaza.

L’ONU: Palestina e Israele

Il 9 settembre 2025, a New York, si è aperta l’ottantesima sessione dell’assemblea generale delle nazioni unite sul tema della pace; a partire dal 23 settembre è prevista la discussione che affronterà la questione del genocidio in corso a Gaza e del riconoscimento della Palestina. Ma i palestinesi non potranno essere presenti, neppure come osservatori (questa l’attuale posizione tecnico-giuridica), perché gli Stati Uniti si rifiutano di concedere il visto d’ingresso. Attualmente 147 paesi su 193 hanno già provveduto a formale riconoscimento; altri (ma non l’Italia) lo hanno fatto proprio in questa occasione. Ma il veto americano, come sempre, paralizzerà qualsiasi decisione dell’assemblea, pur se presa a grandissima maggioranza. Israele, con la consueta arroganza degli impuniti, ha già chiarito che proseguirà il massacro, che la distruzione non si fermerà e che la terra di Palestina viene considerata una pura semplice invenzione. Il programma del governo israeliano prescinde da qualsiasi trattato e viola apertamente perfino i pochissimi accordi firmati in precedenza: genocidio e annessione. Sostituiscono il diritto con la forza delle armi, ogni crimine di guerra viene legalizzato sul campo di battaglia; chi si oppone viene aggredito, bombardato, annientato, contando sul silenzio intimorito degli stati arabi, sul sostegno economico occidentale e sulla aperta complicità degli USA.

La Corte Internazionale di Giustizia è un organo dell’ONU. In data 19 luglio 2024 ha depositato il proprio parere consultivo bollando come illecita l’occupazione israeliana sia in Cisgiordania sia nella striscia e denunciando il genocidio in atto (cfr. A/HRC/60/CRP.3). Tuttavia lo stato d’Israele – che pure mantiene ben saldo il suo seggio nelle Nazioni Unite – non tiene conto del severo inequivocabile giudizio della commissione indipendente, equiparata dalla stampa di regime a un covo antisemita al soldo di Hamas. I giuristi del governo Netanyahu continuano a sostenere che l’intera Cisgiordania va considerata un territorio conteso, come tale soggetto ad azioni di occupazione o rastrellamento, con possibile annessione a breve termine; naturalmente questi giuristi (a loro confronto Carl Schmitt pare un pacifista hippie) negano qualsiasi adesione alla Corte Penale, in generale alle strutture di limitazione bellica e in particolare al TNP (trattato di non proliferazione nucleare). Il marchingegno della  non firma consente di bombardare l’Iran (che aderisce al TNP e si sottopone a controlli) ma al tempo stesso di accumulare armi atomiche in siti segreti. Un bel tipo come il ministro delle finanze Smotrich non solo abita con la sua famiglia in una porzione di terra palestinese (che l’ONU considera insediamento illegale dell’occupante), ma dispone anche di (pare circa) 90 bombe nucleari. Siamo in buone mani e possiamo dormire sonni tranquilli.

Francesca Albanese

Funzionaria dell’ONU è la ormai nota dottoressa Francesca Albanese, eletta dal consesso il 1 maggio 2022 con funzioni di relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1977. Il suo rapporto (depositato il 25 marzo 2024) circolava prima in bozza. Infatti già in febbraio Israele le ha negato la possibilità d’ingresso in tutta la Cisgiordania. A seguire sono arrivate le sanzioni americane, con il blocco perfino dei contratti bancari e delle carte di credito in ogni paese del democratico occidente, prontamente piegatosi al comando del padrone senza neppure un sussurro di protesta. L’inserimento in lista americana di proscrizione è ostacolo all’apertura di conti correnti in Italia[1]. Impedire l’accesso agli uffici americani dell’ONU e al territorio occupato nella Cisgiordania, quello da esaminare, equivale all’abrogazione del ruolo di relatore speciale: ma l’ONU ha incassato silente. Non basta. Il marito di Albanese, che per sua fortuna venne assegnato alla filiale di Tunisi, ma è comunque un dipendente della Banca Mondiale con sede in America; dunque è sanzionabile (come pure la loro figlia, cittadina americana) nel caso in cui venisse in mente di prestare un “soccorso bancario”. Questa persecuzione è scattata per aver scritto nel rapporto ONU la verità sulla costante persecuzione razzista e colonialista in danno della popolazione palestinese per mano di coloni illegalmente insediati nei territori e di soldati dell’IDF. Queste norme presidenziali prevalgono di fatto su quelle che dovrebbero assicurare protezione e indipendenza agli operatori delle Nazioni Unite. Perfino la Croce Rossa e l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono oggetto di attacco militare e mediatico, lasciando sul terreno numerosi cadaveri. I soldati dell’IDF uccidono medici, giornalisti, infermieri, contadini, operai, bambini, malati, a centinaia ogni giorno, certi dell’impunità. Questo è il necrologio del diritto internazionale costruito dopo il 1945. Le conseguenze dobbiamo ancora conoscerle.

La guerra asimmetrica produce nuove codificazioni internazionali

La guerra segna questo tempo in cui ci troviamo a vivere, domina, prevale su ogni altra esigenza, è l’architrave che sostiene il nuovo edificio del diritto in costruzione. Dopo la sistematica vanificazione, per fatti concludenti, del complessivo corpo normativo internazionale (che si proponeva di rimuovere in via preventiva lo scontro armato con una coesistenza pacifica fra diverse strutture istituzionali) gli eserciti hanno il compito di rappresentanza non più solo militare, ma anche politica, economica, sociale. E’ vero che il programma di delegificazione nei rapporti fra stati non si è ancora concluso, ma del vecchio edificio risalente al compromesso di Jalta fra Stalin, Roosvelt e Churchill in piedi è rimasto ben poco; in sostituzione, più che un nuovo diverso ordine mondiale, si va delineando ogni giorno di più un conflitto endemico generalizzato senza regole ove ogni crimine contro l’umanità, se non proprio consentito o tollerato, rimane però una possibile opzione, a disposizione delle milizie in campo, sulla base dei rapporti di forza. A ben vedere quel che accade a Gaza non è un imprevisto stato di eccezione (come sperano i nostalgici del liberalismo e della socialdemocrazia) ma è invece la conseguenza concatenata della scelta di guerra asimmetrica per mantenere o conquistare il potere. Non a caso il progetto israeliano di deportazione (o alternativamente di eliminazione) fisica della popolazione poggia sia sulla conquista statuale nazionale (in forma di annessione) sia sul coinvolgimento del sistema d’impresa globale e autonomo da ogni legame politico-affettivo con il territorio (un sistema nato e cresciuto, consolidandosi, dentro il processo di finanziarizzazione).

Si sta modificando anche il sistema legislativo delle singole nazioni

Nel 1748 Montesquieu pubblicò a Ginevra, come anonimo, il suo celebre Esprit des lois. Percepiva la rivoluzione francese in arrivo, viveva nella transizione, sentiva come inevitabile la fine dell’assolutismo e fissò il principio cardine dello stato liberale: la separazione dei tre poteri. Lo aveva ben chiaro: il venir meno dell’autonomia della funzione legislativa rispetto a quella esecutiva o giudiziaria, mediante fusione in una sola mano, conduceva a una forma diversa, da lui chiamata dispotismo (nel capitolo primo del libro secondo scrive: nel dispotico uno solo senza legge e senza regole trascina tutto con la sua volontà) La tripartizione separata dei poteri si contrapponeva sia all’assolutismo orientale sia a quello occidentale; in particolare incrinava teoricamente, mirando ad abbatterlo in concreto, il sistema normativo del diritto giustinianeo allora dominante nella vecchia Europa. Una annotazione curiosa di Montesquieu compare nel libro XI, a proposito del nuovo assetto liberale: siccome le cose umane hanno una fine lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà …. Perirà quando il potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo …

Negli stati nazionali la corruzione domina nelle assemblee legislative, senza conoscere confini di territorio, di religione, di linea politica. È un problema diffuso. Al tempo stesso, ovunque, la tendenza istituzionale dentro la transizione è quella di unificare nell’esecutivo (non solo quello di governo, anche quello d’impresa, pubblica o privata) la modifica delle leggi. La forma decreto (decreto legge o, mediante delega, decreto legislativo) prevale da tempo in Italia; si salda con il mosaico dei decreti ministeriali apparsi rumorosamente durante l’emergenza pandemica come una sorta di necessario intervento straordinario e rimasti poi in uso assumendo un carattere ordinario. Dopo la pandemia ogni decisione dell’apparato di comando si va liberando del tradizionale percorso parlamentare (tacciato di essere burocratico e dannoso), trovando invece giustificazione nell’interesse nazionale e soprattutto nella difesa dal nemico mediante le armi e la guerra. Il nuovo pilastro teorico del diritto (o meglio: della delegificazione) che il potere va costruendo dentro l’odierna transizione viene ripetuto in modo quasi ossessivo, latineggiando senza spiegazioni ulteriori e un po’ stravolgendo il testo di Vegezio: si vis pacem para bellum 

Mediante fatti concludenti lo stato italiano ha eluso perfino le norme del vigente codice militare di guerra (Regio Decreto 20.2.1941 n. 303) che si applica (art. 9) anche ai corpi di spedizione in tempo di pace. L’art. 191 sanziona con reclusione non inferiore a 10 anni chiunque spari contro autombulanze; l’art. 192 impone la pena di morte (ora l’ergastolo) contro chi causa la morte di un naufrago. Come la mettiamo con le truppe israeliane che in Palestina e Libano vanno sparando contro il corpo di spedizione italiano e contro gli ospedali o con le motovedette libiche cha annegano i migranti a pochi passi dalla nostra Marina militare? Le regole d’ingaggio (tenute segrete) impongono di reagire e impedire i crimini oppure le norme valgono solo per i droni russi nel cielo polacco?

I continui interventi dell’esecutivo nella legislazione italiana hanno creato una situazione di incertezza quasi totale, rendendo quasi impossibile distinguere ciò che è lecito, ciò che è tollerato, ciò che è vietato. I delitti possono diventare comportamento non punibile (per esempio l’abuso d’ufficio) o punibile solo quando la vittima chiede l’azione penale (ma a proprie spese, per lesioni subite o per un borseggio). Può di contro diventare un crimine ciò che prima era permesso, come la commercializzazione di cannabis light. La comunicazione di regime (per mezzo di stampa, social o TV) detta la linea d’intervento giudiziario; quando la magistratura non esegue viene attaccata. Aveva ragione Montesquieu: il principio cardine del dispotismo è la paura, senza incutere timore lo stato dispotico sarebbe imperfetto. L’evocazione della guerra e il bisogno costante di un nemico trovano spiegazione logica.

Le varie articolazioni del dispotismo moderno

La caratteristica comune delle varie articolazioni del moderno dispotismo si coglie naturalmente nel superamento e/o nel ripudio della separazione dei poteri, piegando invece sia la funzione legislativa sia quella giudiziaria ai precetti imposti dall’esecutivo, in pace e in guerra. Sulla scena compaiono dispotismi a carattere teocratico, o fondati sul c.d. socialismo di stato, poi ci sono dispotismi di mera rapina delle risorse nelle regioni più povere, e ancora quelli che impongono il razzismo di stampo coloniale o etnico, tutti accanto al nuovo dispotismo democratico che si profila come l’approdo naturale del variopinto blocco occidentale. Il tramonto del fordismo, la caduta del muro, le continue innovazioni tecnologiche, l’intelligenza artificiale, la finanziarizzazione e la precarizzazione hanno accelerato il processo di trasformazione in modo così radicale da cogliere a volte di sorpresa non solo le vittime ma anche i carnefici. Permane il conflitto fra le varie forme di dispotismo, sorgono nuove alleanze anomale, del tutto asimmetriche, a volte perfino quasi illogiche. Per una sorta di contraddizione politica dispotismo e multipolarismo convivono dentro il mosaico di tasselli in guerra, si nutrono l’uno dell’altro, in un quadro complessivo mutevole, liberato da ogni principio umanitario, tenendo conto soltanto del risultato di breve periodo, del profitto immediato, senza programmi a lunga scadenza o progetti di futuro.

L’opzione dispotica non è compatibile con la mediazione, con la trattativa, con il compromesso, con il patto sociale, con la pacifica convivenza dei diversi. Muore e tramonta l’idea tradizionale del centro politico quale ago della bilancia decisivo capace di comporre le divergenze fra progressisti riformatori e conservatori restauratori; i partiti moderati, nel vecchio occidente democratico, hanno imboccato il viale del tramonto, sono ormai ovunque minoranza irrilevante che sopravvive mediante cooptazione o sparisce. Dunque ogni rivendicazione e qualsiasi richiesta di riconoscimento di un diritto negato dal potere  si pongono, immediatamente e inevitabilmente, come un atto eversivo passibile di repressione, condanna, sanzione. Lo vediamo, sul campo, con sempre maggiore frequenza. Nel dispotismo non c’è spazio per la certezza del diritto; solo l’apparato di comando (l’esecutivo) è depositario esclusivo della nozione di lecito o illecito senza consentire intrusioni di un terzo quale arbitro. Il sovrano (non a caso l’ideologia viene detta sovranista) è sciolto dai limiti della legge (da ogni charta dei diritti, sia dei singoli sia delle collettività). L’abrogazione di fatto del sistema normativo, oggi perseguita dall’apparato di comando, nulla ha in sé di anarchico o di libertario; semplicemente pone ogni esistenza nelle mani del potere.

Azione e istigazione: repressione del dissenso

L’azione è una manifestazione di volontà, a volte generica, più spesso diretta a conseguire un fine preciso, a raggiungere un risultato; rende concreto il pensiero, realizza la speranza, si contrappone alla passività. L’azione connessa al dissenso è per questo osteggiata dai governi che cercano in ogni modo di ostacolarla, di impedirla. Giacomo Leopardi (Zibaldone, 2381) ci offre questa riflessione: distingue il vivo dal morto; la vita consiste nell’azione. Per agevolare la criminalizzazione del dissenso i governi, nel tempo del dispotismo, sanzionano non solo il comportamento disobbediente (appunto l’azione) ma anche l’istigazione, quella che il dizionario definisce esortazione, consiglio, influsso esercitato in modo insistente perché venga presa una decisione o un’iniziativa. Quando è lo Stato (specie se dispotico) a istigare una comunità, un gruppo, una popolazione, tutto è consentito, ricondotto ad funzione stimolatrice, a incentivo del bene. Si può perfino mentire (le c.d. fake news). Quando invece l’istigazione proviene dall’area dei disobbedienti, mira a modificare lo stato di cose oppressivo, invoca diritti (esistenti ma disattesi oppure nuovi) allora diviene sobillazione, incitamento a commettere delitti e per conseguenza essa stesso un crimine.  Ecco: questa norma, inserita nel codice fascista in vigore, quello elaborato da Alfredo Rocco (414 c.p.) prevede da 1 a 5 anni di carcere per il solo fatto dell’istigazione. Le istituzioni democratiche l’hanno ereditata volentieri; la Corte Costituzionale (sentenza n. 65 del 4 maggio 1970) ha ritenuto conforme ai principi della Carta l’ipotesi delittuosa perché non sono concepibili libertà e democrazia se non sotto forma di obbedienza alle leggi così che sussiste la necessità di prevenire e far cessare i turbamenti della sicurezza pubblica. Già allora per questa necessità fu arrestato, il 15 novembre 1969, il direttore di Potere Operaio Francesco Tolin, responsabile di un articolo che chiamava alla lotta gli operai di tutta Italia; il processo per direttissima a Roma si concluse con la condanna (senza condizionale) a 17 mesi di galera. Dopo 5 mesi ebbe la libertà provvisoria e sull’onda delle lotte in fabbrica usufruì dell’amnistia. La norma piace al governo Meloni, che non l’ha toccata.

Sopruso odio e transizione

La paura è il principio su cui poggia ogni dispotismo. Il sopruso impunito alimenta la paura. A chi subisce il sopruso viene sottratto il ruolo di vittima sia perché in qualche modo una vittima evoca potenziali diritti negati sia per legittimare sul campo la violenza dell’organizzazione statuale dispotica. I coloni israeliani che bruciano gli ulivi dei contadini palestinesi si stanno difendendo, gli attaccanti sono gli arabi in quanto terroristi, anzi (per usare il vocabolario di Smotrich e di Ben Gvir) animali. In questi giorni la destra usa l’attentato mortale a Charlie Kirk come pretesto per attribuire agli oppositori del governo italiano il ruolo di mandanti, di potenziali assassini accecati dall’odio.

Il caso Charlie Kirk

Charlie Kirk era totalmente sconosciuto in Europa, nessuno ha tradotto i suoi libri, pochissimi sapevano chi era. Certamente nessuno lo odiava. Non c’è dubbio che fosse un evangelico radicale (bianco), sostenitore di Trump, avverso all’Islam, un tipo che sarebbe piaciuto, nel XIX secolo, al cardinal Ruffo e a Monaldo Leopardi. Considerava il Civil Rights Act un grave errore e Martin Luther King non gli pareva una brava persona. Non è certo il solo a pensarla così negli stati dell’Unione. Aveva comunque vasto seguito popolare e molto successo; del resto negli USA non è questo un fenomeno isolato, numerosi sono gli aspiranti alla successione, lo si è visto al funerale che ha raccolto una folla oceanica. Chi lo ha (con ogni probabilità e salvo sorprese) assassinato, il giovane Tyler Robinson, sembra inventato apposta per eccitare il pubblico nordamericano. Ha sempre vissuto a Orem (Ohio), una cittadina ordinata composta di case sparse, i cui abitanti sono per 88% di religione cristiano-mormone e per 88% bianchi; come tutti a Orem era stato educato secondo i principi piuttosto rigidi della Chiesa dei Santi del Settimo Giorno, che frequentava come tutta la sua famiglia. Possiamo solo immaginare la reazione della mamma assistente sociale e del babbo piccolo imprenditore, repubblicani dichiarati (come il governatore mormone dell’Ohio James Spencer Cox) quando hanno avuto notizia che il ragazzo aveva un(a) fidanzat& transgender e ci conviveva. Tara Westover, nata mormone nell’Idaho (confina con l’Ohio) ha scritto una straordinaria autobiografia romanzata (trad. it: L’educazione, Feltrinelli) in cui descrive come vive quella comunità, collocata geograficamente nel ventre profondo dell’America rurale, e come i singoli soggetti reagiscano di fronte a novità inattese che contrastano i principi della loro religione. Satana è costantemente in agguato! Tara Westover spiega, nel suo libro, meglio di mille sociologi, il gesto folle di questo ragazzo; e ci permette di comprendere la pressione esercitata dai genitori e dalla comunità per spingere Tyler a costituirsi, i conoscenti a collaborare, il peccatore a cercare la salvezza eterna, di fronte alla quale anche la pena di morte è un incidente di modesto rilievo. Ebbe a scrivere Tara il 25.6.2020 su BBCNews: siamo un solo popolo, costruiamo un mondo in cui possiamo essere un solo popolo. Come in un romanzo russo dell’Ottocento, in un clima di eccitazione celebrativa, entra pure il pentimento del(la) fidanzat& e l’invito a giustiziare il reo, mescolati al perdono (della vedova in lacrime), alla vendetta (del governatore), all’odio (Trump). Nessuno conoscerà mai davvero il movente, ma possiamo star certi che gli editori di bestseller sono già al lavoro!

Odio in salsa italiana

Si va scatenando in questi giorni una campagna pubblicitaria che attribuisce ad una imprecisata sinistra il disegno criminoso: istigare una turba estremista di menti fragili (terroristi, abortisti, gay, trangender, islamisti e dintorni) e riesumare così il terrore del decennio brigatista (quello nero rimane in sordina, sullo sfondo). La turba estremista non ha nome; i mandanti pro Brigata Rossa sarebbero nientemeno che Conte, Schlein, Fratoianni, Bonelli e perfino Renzi. I loro complici sono gli ecologisti, i centri sociali e gli intellettuali radical chic. Questa è propaganda di guerra; in Ucraina o a Gaza non importa, basta che il clima rimanga di incertezza e paura, senza regole certe, invocando il potere come unica difesa, per la pubblica sicurezza e l’obbedienza generalizzata.

A Roma il Centro Sociale La Strada ha ricevuto un ordigno esplosivo per mano della Brigata Ebraica Dario Vitali, come punizione per il sostegno al popolo palestinese. Questo Dario Vitali, toscano, ebreo fascista della prima ora (fondò a Livorno L’intrepido, organo degli squadristi), fu mantenuto nei ranghi dell’esercito mussoliniano, nonostante le leggi razziali, perché decorato di guerra; stava nelle colonie e fu catturato dagli inglesi nel 1941, evitando guai peggiori. Per la gioia del generale Vannacci a Dario Vitali il 19 settembre 2023 venne intitolata la nuova base del Comando Forze Speciali (la Folgore a San Pietro a Grado nei pressi di Pisa); i dinamitardi della Brigata Ebraica hanno gli stessi ispiratori del celebre corpo militare dei parà. Ma costoro non odiano, sono patrioti; come nel caso dei contadini palestinesi i veri aggressori sono gli aggrediti del Centro Sociale, istigano, sobillano, minacciano.

La campagna volta a far passare l’intero governo per vittima degli oppositori è uno strumento per guadagnare consenso e per criminalizzare chi, per qualsiasi ragione, cerchi la strada per poter dissentire. Richiamo ancora Tara Westover: lascia ciò che è tossico, che sia un lavoro, una casa, una relazione, una famiglia, non importa, quel che importa è staccarsi da ciò che fa male. Anche dalla rete, aggiungo. Di fronte ad una campagna grottesca, assurda, bugiarda fin dalla radice meglio disertare, disconnettersi, lasciarli gridare nel deserto. E’ solo un trucco, un gioco delle tre carte per mantenerci soli, intimoriti, ansiosi, per farci vivere continuamente nella guerra, senza diritti.

Per chiudere

L’attacco è spietato. Ma la partita non è conclusa, è aperta. Vogliono cancellare i diritti conquistati. Anche resistere al tiranno è un diritto. Anche lottare. Sono diritto costituente.

NOTE

[1] Non solo a Francesca Albanese sono stati sottratti conti correnti e carte di credito in Usa ma non può aprire neanche un nuovo conto in Italia. Nel corso delle verifiche necessarie previste dalla normativa italiana ed europea in materia di antiriciclaggio e contrasto al finanziamento al terrorismo è emerso che Albanese risulta inserita nelle liste sanzionatorie statunitensi. Si tratta dell’ASDN list dell’OFAC (https://sanctionssearch.ofac.treas.gov/) e secondo la normativa italiana, sancita dal decreto legislativo 109 del 2007 che recepisce i regolamenti comunitari, le banche non possono accettare di aprire conti correnti  per le persone inserite in tale lista, pena gravi sanzioni. In altre parole, le sanzioni USA hanno valore in tutto il mondo, almeno quello che poggia sul sistema SWIFT (ovvero il dollaro).


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 2 ottobre 2025

La Foto è di Enrique da Pixabay


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Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio

Free public domain CC0 photo.

Il 3 luglio, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite (ONU) sui Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese, ha presentato un rapporto intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, in cui accusa oltre sessanta multinazionali di trarre profitto dal genocidio a Gaza e dall’occupazione di altri territori palestinesi (From economy of occupation to economy of genocide).

Il rapporto indaga i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. Mentre i leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi, troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e ora genocidio. La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg; porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigenti. Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ognuno dei quali richiede esame e accertamento delle responsabilità, in particolare in questo caso, in cui sono in gioco l’autodeterminazione e l’esistenza stessa di un popolo. Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso.

Qui per Leggere il rapporto


Da Comune-info pubblicato il 12 luglio 2025

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Gaza e la clementina Orri


di Gianni Giovannelli

L’arma che uccide, da quando è diventata
un prodotto industriale, si rivolta contro l’umanità,
e il soldato di professione non sa più
di quali aspirazioni egli sia lo strumento.

Karl Kraus
(Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, 1980, pag.184)

Mercoledì 14 maggio 2025, Milano, Piazza Martini: è giorno di mercato, frotte di persone camminano fra le bancarelle guardano, parlano, chiedono, esitano, a volte comprano. In quello stesso giorno l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Jabalya, il più grande degli otto esistenti nella striscia. In 1400 metri quadrati, dentro tende e baracche, ai margini della città, ci abitano in 116.011, registrati da UNRWA nel 2023; la città vicina ne conta invece 82.877. L’area del campo, già nel XIV secolo, era celebre per la fertilità della terra e per gli agrumeti. Senza difesa, colpiti dalle armi che piovevano dal cielo, sono morti almeno in settanta, di cui 22 bambini. Il giorno prima era stato distrutto l’ospedale del campo di Khan Younis (6 morti); il giorno dopo sarebbe toccato ad altri 115, uccisi dall’alto, all’alba. Nella striscia l’esercito israeliano ha distrutto il cibo, cancellato ogni traccia di agrumeto insieme alle case.

La frutta al mercato

Mentre i palestinesi senza cibo muoiono sotto i colpi dell’occupante, ormai privo di qualsiasi remora o pietà per le vittime, nelle bancarelle di Piazza Martini si vendono molte varietà di frutta o verdura. Molti fra i lavoratori che servono i clienti vengono dai paesi del sud mediterraneo, sono tunisini, egiziani, marocchini, sono nati e cresciuti accanto ai palestinesi, non possono non fraternizzare, condividono, come è naturale, la loro sofferenza. In maggio la stagione dei mandarini (con i semi) e delle clementine (senza semi) può dirsi giunta a conclusione, inizia a novembre, dopo i primi giorni di aprile anche la specie tardiva non si trova più. Eppure tutti i banchi hanno in bella vista le clementine, con un bel colore, una buccia invitante, il pezzo aperto in mostra appare morbido, succoso, senza semi; il prezzo è tuttavia più alto, per quanto si sia al mercato mai sotto i quattro euro al chilo, spesso di più. Viene spontaneo chiedere e così imparo che il paese di origine è Israele.

La Clementina Orri

Dopo essermi documentato spiego l’arcano. Si tratta di un ibrido che la genetista Aliza Vardi (1935-2014) ha creato nei laboratori dell’Istituto di Ricerca Agricola Volcani. Si chiama Cultivar Orah (oppure Orri in commercio), il Ministero dell’agricoltura israeliano lo ha brevettato negli USA il 4 marzo 2003 (PP13616) e ha ottenuto la certificazione UE nel 2013, ottenendo la licenza in esclusiva per questo prodotto di laboratorio e natura. La caratteristica di Orri è proprio quella di essere disponibile quando gli agrumi similari hanno chiuso il ciclo; Israele condivide l’affare con la multinazionale spagnola Genesis Innovation Group (AM Fresh Group) e chiunque si mettesse in mente di piantarlo altrove deve pagare i diritti. La legge spagnola (a garanzia dell’accordo) punisce con il carcere chi non rispetta l’esclusiva; un contadino valenciano si è beccato una multa oltre a 31 giorni di carcere per coltivazione abusiva di Orri. Di fatto Israele (con la multinazionale spagnola) ha il monopolio; usa le leggi europee per conservare l’esclusiva ma al tempo stesso distrugge gli agrumi palestinesi infischiandosene della normativa internazionale che dichiara di non riconoscere. Per uno strano scherzo della storia l’Istituto Volcani fu creato nel 1921 da Itzhak Elazari Volcani, un sionista nato in Lituania, emigrato in Palestina nel 1908 per sfuggire ai pogrom, socialista e collettivista, morto nel 1955, avversario fierissimo della destra nazionalista israeliana. Torniamo ora in Piazza Martini.

Discussione in piazza

La reazione nasce spontanea dopo aver saputo la provenienza del frutto: se viene da Israele non compro le clementine! Nasce subito una discussione animata davanti alla bancarella. Una signora interviene per prima: non ti piacciono perché ci sono i pesticidi velenosi? No! Non è per quello, non riuscirei a mangiare sapendo che è merce sporca di sangue. Il ragazzo al banco guarda sorpreso, non se lo aspettava, si sente coinvolto, pare quasi commosso. Vi capisco, avete ragione, dice, io sono qui per lavorare, vendo quello che mi dicono di vendere, ma avete ragione, non bisogna dare soldi a Israele, li usano per uccidere, per rubare la terra ai palestinesi. Si guarda intorno, teme orecchie ostili, ha paura di essere mandato via, poi sorride, approva. Intorno a Piazza Martini ci sono caseggiati popolari in cui abitano molte famiglie di immigrati, la solidarietà per il popolo di Gaza si respira nell’aria. Ci saranno sicuramente nel crocchio che si è formato sostenitori di Israele, o magari anche razzisti e perfino popolani resi ciechi dal rancore, dal bisogno, dal malessere sociale. Tuttavia tacciono vergognosi, consapevoli di essere in minoranza. Diventa un coro di voci indignate, di protesta convinta, di condanna della strage quotidiana di cui si stanno macchiando le truppe israeliane. Cade il silenzio indifferente, si incrina, sia pure (purtroppo) per poco, l’omertà complice che consente l’attuazione sistematica del genocidio a poca distanza dalle nostre abitazioni, sull’altra costa del Mediterraneo.

Un massacro finanziato

Il governo italiano manda/vende (poco cambia) armi usate per la strage continua. Il governo israeliano distrugge gli agrumeti dei palestinesi e coltiva, anche nei campi espropriati illegalmente, i frutti che vende nei paesi europei, usando il profitto (e i proventi di licenze concesse) per finanziare il massacro. I coloni che incassano il corrispettivo della Clementina Orri sono gli stessi che, protetti dall’esercito, bruciano case e campi dei contadini palestinesi. Intanto ai profughi della striscia viene tolto ogni sostegno alimentare, si impedisce con le armi l’arrivo di acqua, energia, medicine, vestiti. I paesi dell’Unione Europea, pronti a riarmarsi e a sottrarre fondi al welfare per costruire la guerra, assistono senza reagire. Non solo mandano strumenti di morte, non solo evitano sanzioni economiche, si guardano bene perfino dal disporre misure diplomatiche dissuasive, anche minime, come l’espulsione degli ambasciatori del genocidio. L’attuale ambasciatore israeliano a Roma, l’ufficiale dell’aeronautica Jonathan Peled, si dichiara assai soddisfatto della posizione assunta dal governo italiano e sostiene (come in fondo naturale) l’operato del governo in carica, compreso il blocco degli aiuti umanitari a Gaza. Un governo presieduto da chi dovrebbe essere arrestato, in quanto criminale di guerra, ove decidesse di visitare il paese amico!

Reagir bisogna

La specialista addetta alla comunicazione per UNICEF, Tess Ingram, nell’intervista rilasciata il 19 gennaio 2024, aveva rilevato che nei 105 giorni precedenti, durante l’invasione e il quotidiano bombardamento della popolazione nella striscia di Gaza, erano nate/i oltre 20.000 bambine/i. Il 2 aprile 2025 l’associazione Save the Children ha riferito che in media, senza ospedali e senza aiuti, nascono ogni giorno a Gaza 130 nuove creature (sono oltre 47.000 in un anno). Una resistenza e una resilienza incomprensibili per chi, come Trump, vorrebbe trasformare Gaza in una seconda Sharm El Sheikh. Tuttavia i soldati israeliani non desistono, perseguono il loro disegno omicida. È giunto il tempo di rompere il muro del silenzio, di fermare la strage. Di restituire la Clementina Orri al mittente rifiutando ogni complicità.

Cantava Rudi Assuntino: o forse si aspetta/la rossa provvidenza/per cui gli altri decidono/e noi portiam pazienza.


NOTA
Si veda, a questo proposito, la rete BDS – Boicotta, Disinvesti, Sanziona.




L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 22 maggio 2025


Gaza e la clementina Orri Leggi tutto »

Rabbini americani entrano nel Palazzo di Vetro per chiedere il cessate il fuoco a Gaza

di Pressenza – Redazione Italia

Il 9 gennaio trentasei rabbini americani sono entrati nell’aula del Consiglio di sicurezza e in quella dell’Assemblea Generale al Palazzo di Vetro, sede delle Nazioni Unite, chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza e invitando Joe Biden a “smettere di porre il veto alla pace”.

Siamo qui all’ONU per ricordare a Biden che tutto il mondo dice: Cessate il fuoco. Smettete di porre il veto alla pace” si legge nei post di Rabbis 4 Ceasefire.

Siamo qui per dire: Non c’è soluzione militare a questa violenza. L’ONU è il luogo in cui è possibile intraprendere un’azione diplomatica significativa per fermare la violenza. Siamo qui per sostenere l’ONU e respingere l’iniziativa della delegazione degli Stati Uniti e rifiutare il suo veto. Siamo qui per sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite verso un cessate il fuoco.

L’ONU può svolgere un ruolo chiave nel fermare questa guerra, nel salvare vite umane e nel portare la pace. Siamo qui per sostenere le Nazioni Unite in questo senso. Siamo qui per dare voce al nostro sostegno per ottenere assistenza umanitaria ai palestinesi sfollati, affamati e senza un posto sicuro dove andare.

L’ONU è stata creata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto, proprio per dire “Mai più”. Siamo qui come ebrei, come rabbini, per esortare le Nazioni Unite a portare avanti questa nobile missione. Mai più significa mai più per nessuno di noi.

L’Assemblea Generale ha già votato a stragrande maggioranza a favore del cessate il fuoco, ma la delegazione americana sta ostacolando gli sforzi del Consiglio di Sicurezza per intraprendere un’azione significativa per il cessate il fuoco. Gli Stati Uniti stanno ostacolando l’azione della comunità internazionale per salvare vite umane”.

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 10 gennaio 2024

La foto è di Rabbis for Ceasefire 

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L’ONU compie 78 anni: esaudiamo il suo desiderio?

di Miriam Rossi

78 anni… e sentirli tutti! L’Organizzazione delle Nazioni Unite soffia le candeline ed è circondata da Stati membri sorridenti e che si scambiano auguri e buoni propositi ma, inconcludente, continua a esprimere un desiderio, quello della pace, che da 78 anni continua a non avverarsi. Le future generazioni non sono state salvate dal flagello della guerra, come si erano ripromessi gli Stati che nel 1945 avevano sconfitto l’alleanza nazi-fascista della seconda guerra mondiale e avevano deciso di creare una nuova governance mondiale volta “a riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale e un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà” (dal preambolo dello Statuto dell’ONU).

Solo recentemente, la comunità internazionale ha condiviso la preoccupazione per la minaccia atomica di Mosca nel conflitto combattuto in Ucraina dal febbraio dello scorso anno e la possibile escalation nell’instabile scenario internazionale del conflitto israelo-palestinese dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Questo senza passare in rassegna le molte violazioni dei diritti umani, delle minoranze, della democrazia in corso in tanti luoghi del mondo, di quelle stesse Nazioni che si sono Unite nell’Organizzazione. Dall’Iran all’Afghanistan, dall’Armenia alla Somalia, dalla Siria alla Libia. E oltre.

Che senso ha dunque celebrare oggi la Giornata delle Nazioni UniteIl Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, lancia uno stringato videomessaggio in cui riconosce che “siamo un mondo diviso. Possiamo e dobbiamo essere nazioni unite”. Se, infatti, “le Nazioni Unite sono un riflesso del mondo così com’è – e un’aspirazione al mondo che sappiamo possa essere” occorre impegnarsi per continuare a costruire un mondo migliore. “Secondo le nostre aspirazioni”, sicuramente quelle dello Statuto sottoscritto direbbe Guterres, ma soprattutto secondo regole di civiltà che precludono la sua stessa autodistruzione.

Dobbiamo quindi essere davvero “Nazioni Unite” e impegnarci in tal senso, coordinando parole e azioni. Ma questo non accade tanto spesso.

“Equality, Freedom and Justice for All” è il tema centrale della celebrazione 2023 per la Giornata delle Nazioni Unite indetta negli Stati Uniti. Quindi “Uguaglianza, Libertà e Giustizia per Tutti”. Tuttavia gli stessi Stati Uniti continuano a bloccare con il proprio veto la decisione del Consiglio di Sicurezza di una risoluzione per imporre una pausa umanitaria per consentire un accesso pieno, sicuro e senza ostacoli alle Agenzie delle Nazioni Unite e ai loro partner a sostegno dei civili nella striscia di Gaza. Se adottata, la risoluzione avrebbe condannato ogni violenza e ostilità contro i civili e ogni atto di terrorismo, e avrebbe respinto e condannato inequivocabilmente gli attacchi terroristici di Hamas avvenuti in Israele a partire dal 7 ottobre. Nel rispetto dei principi del diritto umanitario internazionale, avrebbe inoltre chiesto il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi e la protezione del personale medico e umanitario, nonché degli ospedali e delle strutture mediche. Dove sta in questo veto la Giustizia per tutti, anche solo quella di vedere rispettato l’obbligo di adottare ogni misura possibile per proteggere la popolazione e i beni civili coinvolti in un conflitto?

In Italia da alcuni anni la ricorrenza non incontra grandi cerimonie. Anche questa è probabilmente la Libertà a cui si ispira l’azione del governo Meloni, la stessa che induce peraltro a sostenere con forza la lotta per la libertà degli ucraini ma che incontra un limite nei soggetti ai quali tale libertà è negata. Ai detenuti e ai richiedenti asilo in primis. Recentemente è giunta la condanna all’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani per le condizioni di vita e la detenzione nell’hotspot di Lampedusa tra il 2017 e il 2019 di tre migranti della Tunisia “privati arbitrariamente della loro libertà”. Di trattamento disumano e degradante parlano ancora altre sentenze che periodicamente colpiscono, e multano, l’Italia per il trattamento dei detenuti in carcere. Dove sta in queste condotte governative, non solo del governo attualmente in carica, il rispetto dei valori dello Statuto ONU?

Un’ipocrita cecità governa troppe Nazioni.

Uniti, cerchiamo di condurle tutte a dare una veste migliore a questo mondo.

Se lo merita a 78 anni dal primo desiderio espresso soffiando le candeline…

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 24 ottobre 2023

La foto è tratta da wikimedia

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