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Secondo arriva il Papa

di Ettore Masina

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Il più geniale e reazionario degli intellettuali italiani, Leo Longanesi, scrisse nel 1948, se ricordo bene, un pamphlet intitolato “Ci salveranno le vecchie zie”. In quel dopoguerra fibrillante di vitalità nuove e di antichissimi vizi italiani, consolidati da vent’anni di fascismo, Longanesi guardava con orrore a certi suoi coetanei campioni di trasformismo politico, ai giovani che gli parevano sciocchi iconoclasti del passato, al femminismo che cominciava a tentare di farsi strada – e a questo rivolgimento di costumi e di sentimenti contrapponeva le “vecchie zie” della “buona” borghesia italiana. Egli le indicava come capisaldi di virtù familiari e civiche. Per lo più zitelle (spesso nostalgiche di antichi amori fantasticati), erano gli angeli custodi di molte case: assistevano vecchi e malati, governavano la servitù (se c’era), erano tenere con i nipotini, ferme con gli adolescenti, irremovibili con i giovani scapestrati, comprensive con gli innamo-rati;  abilissime a diminuire tensioni e ricomporre litigi; e infine, devotissime al Re, alla Patria e al Parroco, erano esempi di fedeltà alle autorità civili e religiose.
Sarà perché sono vecchio, ma sempre più spesso ho anch’io, come Longanesi, la sensazione che il “mio” mondo sia entrato in una pericolosa fibrillazione. Parlo della Chiesa cattolica, la comunità che ho scelto come patria delle mie speranze, e dico che mi sembra vadano aprendosi in essa, continuamente, sotto questo pontificato, nuove ferite, e moltiplicandosi le silenziose e spesso amare diser-zioni di credenti. L’immagine, così suggestiva, della Chiesa come di una navicella che percorre intrepidamente l’oceano della storia, oggi pare scricchiolare, colpita non più  soltanto dall’odio di crudeli persecutori (penso all’India, all’Iraq, alla Cina…) ma anche dai devastanti marosi di ideologie talvolta contrastanti, ma, di fatto, concomitanti.  È perciò evidente, nei vertici vaticani, la sensazione di un’agonia del sacro, di una civiltà in cui la fede in Dio si ammanta di superstizioni o si offusca di relativismo, di una comunità cui un’inedita maturazione del valore della laicità sembra imprimere spinte centrifughe, di un Islam che appare tanto più forte quanto più l’antica prevalenza numerica dei cristiani va diminuendo a livello planetario. Ed è ormai evidente (e del resto confermato da sondaggi, per quel che valgono)  che fra i pronunziamenti della Gerarchia ecclesiastica e l’opinione pubblica dei “fedeli” si va creando un paradosso: tanto più gli insegnamenti e gli ammonimenti vengono moltiplicati ed estesi a ogni evento ed argomento, tanto più molti credenti li ascoltano distrattamente, quasi chiacchiere rituali o addirittura folkloristiche mentre i cosiddetti “lontani”, piuttosto che sentirsi chiamati a conversione si convincono sempre più che la Chiesa è una società sorpassata, incapace di fornire ai suoi fedeli una qualità di vita superiore a quella degli increduli.  (Per inciso:  in questo processo di banalizzazione, la televisione ha in Italia un ruolo nefasto. Invadendo ogni giorno i notiziari con  le attività e le allocuzioni, anche le meno importanti, di Benedetto XVI, finisce per mostrare che non sempre è possibile fornire pensieri originali, sentimenti vivi, capacità empatiche).
In questa burrasca la navicella del Pescatore appare, sempre più spesso, ridotta a usare una bussola tarata dalla paura. In una situazione assai simile,  Kirke-gaard osava scrivere: “Ormai la nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che egli trasmette dal megafono del comandante non è più la rotta da seguire ma il menù di domani”. Non siamo a quello, oggi, grazie al Cielo, ma l’immagine è suggestiva. Non c’è dubbio che valgano per questi nostri tempi le parole che Urs von Balthasar, teologo caro  a Joseph Ratzinger, scriveva poco più di vent’anni fa: “Può accadere talvolta che le compagini delle istituzioni temporali si allentino; esse sono veramente temporali, il tempo le divora e le logora, molte cose arrug-giniscono, marciscono, devono essere sostituite; addentellati in apparenza solidi si staccano, lasciano intravedere la luce o anche il buio. Gli Atti degli apostoli si concludono con un naufragio, raccontato in modo diffuso e quasi divertito: il naufragio della nave di Paolo. Luca è perfettamente cosciente del simbolismo del suo racconto. […] La situazione  è esattamente escatologica: la struttura come forma esterna va in frantumi, ci si può salvare solo guadagnando terra sui rottami…”.

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Hanno vinto, ancora una volta

di Ghismunda

[…]

Per onestà e franchezza, devo subito dire che se invece di insegnare nella scuola dove insegno, avessi insegnato alla Sapienza, avrei unito la mia umile firma a quella dei sessantasette docenti (tra essi tutti i più noti fisici dell’Ateneo), che si sono opposti al fatto che fosse il Pontefice ad inaugurare l’Anno Accademico della più grande Università pubblica d’Europa. Non ho timore di apparire né intollerante né una “talebana” del laicismo, secondo uno degli epiteti più colorati di queste ore. Si può benissimo invitare un Papa, come un qualsiasi altro intellettuale e studioso di fama mondiale, a tenere una lectio magistralis all’Università. Ma farlo per l’inaugurazione dell’anno accademico è fonte (voluta) di ambiguità, perché avrebbe inevitabilmente fatto di quella lezione un programma e un indirizzo per l’intero anno accademico. Cosa evidentemente inaccettabile “in primo luogo perché le università, per lo meno quelle pubbliche – scrive il prof. Marcello Cini, uno dei firmatari – sono, negli stati non confessionali, una comunità di studiosi, docenti e discenti, di tutte le discipline universalmente riconosciute, di tutte le scuole di pensiero, di tutte le culture e gli orientamenti politici e religiosi, scelti dai loro pari per i loro contributi scientifici e culturali. Nessuno di loro può però accettare che qualcuno, per quanto vanti investiture dall’Alto, possa loro prescrivere cosa debbano o possano dire, fare o pensare. Ognuno ha la propria coscienza e la propria deontologia professionale. In particolare possiamo tollerare che il papa possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin? Oppure ai nostri colleghi filosofi che è «inammissibile» – parole del professor Ratzinger a Ratisbona – «rifiutarsi di ascoltare le tradizioni della fede cristiana»?”

Ma c’è di più. Il Papa, come sappiamo e come non può essere altrimenti, si proclama depositario di una Verità assoluta che, in quanto tale, non può costituzionalmente, intrinsecamente ammettere dialogo. Si stanno capolvogendo i termini della questione e delle responsabilità: chi è veramente incapace di dialogo? Ogni di-alogo si fa in due, su un piano di parità culturale, ma si può logicamente dialogare con chi ritiene di possedere la Verità? Un dia-logo, che voglia essere veramente tale e non finto, deve presupporre scambi e modifiche reciproche sul piano delle conoscenze come dei comportamenti. Ma può un dogmatismo, quale quello religioso nella fattispecie, per sua natura fatto di ammissioni indimostrabili, credute per fede e derivate da un’autorità esterna indiscutibile, modificare se stesso? La verità, nelle Università che ne sono la sede deputata costituzionalmente alla sua ricerca, è necessariamente plurale, frammentaria, parziale, faticosa nel suo cammino e nella sua conquista: come la si può cercare con chi dice di averla già? La Verità assoluta può entrare nelle chiese, non nelle aule di una università. Può essere solo ascoltata, non dia-logata; può, tutt’al più, articolarsi nelle facoltà di teologia, non in un pubblico Ateneo. E’ una questione di competenze e di distinzione, di ambiti separati, non necessariamente ostili, ma nemmeno strumentalmente confusi.

L’occasione per riflettere filosoficamente sulla natura del dialogo ed in particolare sull’effettiva possibilità e sincerità di quello tra credenti e non credenti, mi è stata data da un articolo, per me profondissimo e illuminante, pubblicato da Zagrebelsky circa un anno fa sulle pagine di Repubblica. Ne riporto degli stralci: “Il dialogo, anche quello così frequentemente auspicato tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in negativo, come i non-cattolici), presuppone una condizione: che le parti si riconoscano pari, in razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto che l´altro non è solo uno che pensa diversamente, ma è uno da meno o, addirittura, è un mentecatto o un immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile; sarà tempo perduto, adescamento o simulazione. Dove vige questo pregiudizio, ci si ignora o ci si combatte. Si potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega che procrastina lo scontro e rafforza intanto le posizioni. Ma dialogare onestamente, no, non si potrà. Il maestro del dialogo è quel Socrate che giungeva perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi è colto in errore, si libera di un male e quindi riceve un bene). Ma non occorre essere Socrate per comprendere che se non c´è reciproca disponibilità e apertura, tanto vale andarsene ognuno per la sua strada, sempre che non si voglia prendere a bastonate. Onde, se sinceramente si dice: “Il dialogo, così necessario, tra laici e cattolici” (J. Ratzinger, L´Europa nella crisi delle culture, Il Regno – documenti, 9/2005), si dovrebbe supporre che questo riconoscimento di razionalità e moralità sia acquisito. Ma è così?… Il magistero cattolico segue scoscesi percorsi con l´intento di proporre un Dio avente natura razionale (logos) e sostenere che, nella concezione cristiano-cattolica attuale, fede e ragione coincidono. L´essere umano “di ragione” è tale perché è anche “di fede”, onde chi è senza o contro la fede, è anche senza o contro la ragione. Queste proposizioni rappresentano una svolta. Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova filogenesi greco-cristiana propone l´innesto del Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale ordine del mondo corrispondente alla ragione regolatrice sovrana. La “natura”, poiché nessuno può pretendere di alterarla, diventa “diritto naturale”; logos e nomos finiscono per coincidere. Proclamandosi custode dell´ordine natural-razionale, la Chiesa può proporsi come custode dell´ortodossia della ragione; non solo della ragione filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali. Gli uomini di Chiesa diventano scienziati; anzi, scienziati accreditati più di tutti gli altri, perché la loro “ragione” onnicomprensiva, che si abbevera alla scienza di Dio, la teologia, può vantare un´esclusiva garanzia di verità. Per qualche misterioso ricorso storico, riappare il volto del cardinale Bellarmino, con la sola differenza che oggi, invece d´invocare l´autorità delle Scritture contro Galileo, si invoca il logos divino. Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che si auspicava all´inizio è impossibile. L´interlocutore non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno…”

E per questo, quindi, che rispedisco al mittente le accuse di intolleranza e chiusura. Ma i mittenti sono davvero tanti in queste ore in cui le anime belle della politica si stracciano trasversalmente e strumentalmente le vesti in nome della libertà conculcata, del dialogo negato, della tolleranza rinnegata. Gli esponenti della Curia vaticana hanno riportato un’importante vittoria politica: l’astuto rifiuto ad accogliere un invito già fatto e spedito è riuscito a trasformare la libertà di una protesta, e la richiesta di una sacrosanta distinzione, nella negazione di una libertà di parola, che fa del Pontefice un martire ed una vittima dell’intolleranza. Lui che, paradossalmente, parla sempre, tutti i giorni, a tutte le ore, in tutte le Tv. Hanno vinto, ancora una volta.

La voce di Ghismunda, 16 gennaio 2008

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