di Ghismunda
Di parricidi, reali o metaforici, è piena la letteratura del Novecento. Di matricidi, invece, niente o quasi. Gli Edipi abbondano, le Elettre scarseggiano. Troppo sgradevole, forse, l’argomento, percepito quasi come sacrilego, indegno del rapporto più intimo, dolce e consolatorio che ci sia; e troppo irriverente verso una figura, la Madre, i cui significati affondano nel mito e assumono, nel tempo, connotazioni simbolico-religiose sempre più profonde, fino a farne oggetto di venerazione e indiscutibile amore. Ma la realtà profana, quella che si consuma tra le quattro pareti domestiche giorno dopo giorno, anno dopo anno, è spesso diversa. In particolare, la relazione tra madre e figlia è una delle più complesse e ambivalenti che esistano e l’amore, se c’è, quando c’è, può arrivare ad assumere le forme più diverse e contraddittorie, spesso compresenti: attaccamento morboso, dipendenza, oppressione, invidia, rivalità, gelosia, emulazione, ma anche tanta cura, attenzione, premure, pietà. Fino a non farcela più. Fino all’odio. E a pulsioni liberatrici inconfessabili. Raccontare tutto ciò, districare tali grumi emotivi ed esistenziali, è difficile. Ma Alice Sebold c’è riuscita. Ne “La quasi luna” eguaglia, e forse supera, il precedente successo di “Amabili resti” e scrive un romanzo impegnativo, sgradevole a tratti, sconvolgente, eppure ironico, delicato, struggente; sempre, comunque, lucidissimo, asciutto, teso. Fino all’ultima pagina.Non voglio qui raccontare come Helen, che ha 49 anni ed è l’io narrante, uccide sua madre, che ne ha 88 e che è ormai arrivata al capolinea. In fondo, come dice nell’incipit, ammazzarla le è venuto più facile di quanto avrebbe pensato (se mai l’avesse consapevolmente pensato). Preferisco parlare della struttura del racconto, che procede per flash-back, intermittenze della memoria, squarci di luce su momenti della vita passata, alternati ai gesti prima della morte inflitta, poi di ciò che ne resta, di un corpo da pulire, accudire ancora (spogliare? vestire? nascondere? recuperarne un pezzetto, per sé?). E il lettore scopre pian piano una figura totemica di madre, “malata di mente”, chiusa in casa per paura del mondo di fuori, una donna un tempo bellissima, una sorta di Garbo, di musa ispiratrice, in gioventù modella di lingerie, fasciata in sottovesti di seta, come dimostrano le foto sparse per tutta la casa, che tanto ammaliavano la sua bambina trascurata, colpevole forse di ricordarle la delusione di una vita spentasi sui binari di un’anonima routine di provincia: “A casa nostra si faceva l’elenco delle delusioni di mia madre e io me le vedevo davanti tutti i giorni come fossero appiccicate sul frigorifero, un elenco statico che la mia presenza non riusciva a mitigare”. Una presenza, quella della madre, divorante, asfissiante, al centro delle attenzioni di un marito buono e vanamente innamorato, solo, sempre più solo, che finirà coll’ “andarsene” e lasciare alla figlia tutta la pesante eredità di cure e protezione che richiedeva la moglie. Per Helen sarà una vita dura, sospesa tra senso del dovere, bisogno d’amore e desiderio spasmodico di libertà, di autonomia (un matrimonio – fallito – dei figli, un lavoro). Ma è questo il punto: riuscirà mai, Helen, a “liberarsi” dalla Madre? E noi, ci riusciamo? Qualcuno potrebbe obiettare: e perché dovremmo? Forse per non riprodurre in noi i modelli genitoriali, per non ripetere di loro quello che più detestiamo, che non accettiamo, in fatto di carattere e di relazioni umane; per non essere (non dover essere) come loro, come lei; per essere, come figlie femmine, noi stesse, uniche e libere. Ma, scrive la Sebold, “quand’è che una persona arriva a capire che nel DNA portiamo intessuti tanto il diabete o la densità ossea dei nostri consanguinei quanto le loro deformità relazionali?”. Checché se ne dica, ancora oggi per una figlia è più difficile avere una vita propria: in genere, quando c’è, è una conquista strappata con i denti e sottoposta a continui “ritorni”; è una parentesi o una fuga. Condivido in pieno queste parole della Sebold: “Oggi, nel XXI secolo, a chi viene ancora attribuito il dovere di sacrificare la propria vita per badare agli altri? Alla figlia femmina. E in questo stesso XXI secolo le conquiste raggiunte in campo medico fanno sì che gli anziani vivano sempre più a lungo, per cui la figlia femmina rischia di arrivare a settant’anni continuando ancora a occuparsi dei genitori. Mi dispiace, ma questa è una specie di prigione per chi non ha un rapporto assolutamente meraviglioso e idilliaco con la madre o il padre (e a quanti capita davvero?). Ho visto centinaia di donne portare il peso di un fardello che con i progressi della medicina e dell’antica convinzione che il ruolo di una donna sia quello della balia e della badante, non ha fatto altro che aumentare”. E quanti sensi di colpa, quanta solitudine, nelle desolate province della nostra opulenta società, accompagnano oggi questo ruolo antico? “nessuno sapeva com’era diventata la mia vita con mia madre”. Una vita destinata a non finire mai, nemmeno “dopo”, anzi, come Helen intuisce, soprattutto “dopo”:
“… non riuscivo a cancellare l’immagine di mia madre che si decomponeva strato per strato, finché anche lei non diventava tutta ossa. In quell’idea, in quella lenta muta verso un ammasso di calcio ingiallito che bisognava tenere unito per evitare il crollo, c’era qualcosa di spaventoso e di consolante a un tempo. L’idea che mia madre fosse eterna come la luna. In quella posa goffa, la realtà ineluttabile mi ha fatto venire voglia di ridere. Viva o morta che fosse, una madre, o la sua assenza, ti plasma la vita. Mi ero illusa che fosse semplice? Che il disfacimento della sua sostanza mi avrebbe restituito una me stessa vendicata? L’avevo fatta ridere facendo il giullare. Le avevo raccontato storie. Avevo sfilato come un buffone alla mercé di altri buffoni e così facendo mi ero sincerata che quella donna non si perdesse nulla, anche se aveva deciso di voltare le spalle al mondo. Sacrificando a lei tutta la mia vita, compravo in cambio dei brevi momenti per me: potevo leggere i libri che mi piacevano; potevo coltivare i fiori che volevo… Solo quando ho creduto di aver raggiunto la libertà sono riuscita a capire fino a che punto fossi imprigionata”.
Alice Sebold
La quasi luna
Edizioni e/o, 2007
La voce di Ghismunda, 27 febbraio 2008