Sorveglianza. Privacy. Piattaforme. Educazione. Consapevolezza. (Appunti per una ricerca)
Non cito il terapeuta e tantomeno il paziente. Si tratta del caso di una persona che aveva avuto un’infanzia particolarmente controllata dalla madre. Ogni momento dei primi anni della vita di quella persona era stato vissuto sotto gli occhi della genitrice. Ne era venuta fuori una personalità turbata, bisognosa di cure. Un dramma che si può solo immaginare: una persona priva del senso dell’io. E la terapia è stata tutta orientata alla ricostruzione della consapevolezza di quella persona di essere una persona. Una situazione estrema. Ma che quel terapeuta richiama alla memoria quando pensa alle conseguenze psicologiche di una condizione umana caratterizzata da un eccesso di sorveglianza, come quella che sta emergendo in relazione alle nuove forme di registrazione dei comportamenti individuali nel mondo digitalizzato.
L’io è il luogo della privacy e la sua salvaguardia è il motivo per il quale la privacy ha un senso. E d’altra parte la salvaguardia della consapevolezza della differenza tra l’io e la collettività è una condizione della creatività, della felicità, della sicurezza di una persona, per lo meno per il modo in cui queste questioni sono poste in Occidente.
La massa omogeneizzante è stata in passato una forma di spersonalizzazione; oggi lo è la sorveglianza eccessiva. La rete e l’accumulazione di dati personali o comunque di dati che riescono a ricostruire i comportamenti delle persone provocando conseguenze sulla loro vita è una forma di sorveglianza. La consapevolezza di questa dinamica è la prima difesa. Ma non basta.
Il problema è che non si riesce a immaginare un modo in cui una popolazione piuttosto vasta, dotata degli strumenti offerti dalla rete digitale, possa salvaguardarsi da forme crescenti di sorveglianza, da parte dei poteri politici, amministrativi, economici. Siamo abituati a conferire molti dati fondamentali alle banche e alle compagnie telefoniche, ci stupiamo di quanti dati regaliamo alle piattaforme per l’interazione sociale, reagiamo negativamente alla quantità di dati che gli stati si accingono ad accumulare a loro volta sulle vite di ciascuno. Sta di fatto che i singoli dispongono di pochi dati in confronto dell’enormità di dati che si accumulano nelle grandi organizzazioni e piattaforme.
Non si torna facilmente indietro, probabilmente. Si può e si deve riflettere su tutto questo. Per esempio si può riflettere sulla possibilità di correggere la condizione strutturale di asimmetria nella disponibilità di dati che favorisce i poteri economici, prima di tutto, e poi politici. A sfavore dei cittadini.
Per quanto riguarda questi ultimi, peraltro, c’è da dire che le amministrazioni pubbliche registrano più i certificati delle tracce che lasciano, nascendo, sposandosi, divorziando, morendo: mentre le loro vite e i loro corpi sono registrati in casi particolari, per motivi giudiziari di solito. Le impronte digitali per esempio sono vissute dagli stati come strumenti necessari quando non è soltanto necessario “certificare” gli eventi che capitano alle persone o il loro diritto ad avere certi servizi, ma anche per controllare i “corpi” delle persone quando queste vengono considerate per qualche motivo pericolose.
C’è anche da dire che la registrazione può essere vista come una forma di salvaguadia della sicurezza: per esempio, una forma di password soltanto digitale può essere una garanzia inferiore a quella che si può avere usando le impronte digitali, o l’iride o altro, ed essere in quel caso preferita dagli utenti, diciamo, di una banca. In quel caso, sono le persone a chiedere certezza, per salvaguardare i propri diritti. E accettano anche che i loro movimenti di denaro siano tracciati se questo serve per garantirsi da furti e truffe.
C’è un vantaggio nella sorveglianza degli attori sociali o economici. E c’è uno svantaggio per le persone, dal punto di vista psicologico o, in senso lato, politica. Non a caso, sono i loro dati sensibili ad essere più salvaguardati dalle leggi sulla privacy.
Si torna alla consapevolezza. Dunque all’educazione. Una nuova educazione adatta a un’epoca nella quale l’intelligenza collettiva funziona se e solo se ciascuno è parte attiva della vita sociale e non passivo elemento fungibile di una massa. La diversità, del resto, è condizione necessaria perché la saggezza dei gruppi sia maggiore di quella degli individui (James Surowiecki, The Wisdom of Crowds, 2004). E senza individualità consapevole non c’è diversità.
Inoltre, si qualifica un percorso tutto da sviluppare per il quale il diritto alla privacy non è soltanto una barriera in difesa dell’io ma anche un equilibrio del potere dell’io nei confronti della collettività. Le informazioni degli individui dovrebbero poter pareggiare quelle delle piattaforme. C’è bisogno anche di nuove piattaforme, per questo. Capaci di avere conseguenze educative, nel senso descritto: per ricostruire nuovi e più attivi individui, finalmente capaci di una migliore socializzazione. Imho.