«È un ritorno indietro alla scuola per analfabeti, che era quella del “leggere scrivere e far di conto”. Mentre invece abbiamo bisogno, nella complessità del mondo di oggi, di conoscere un po’ di più. Io non ho mai applicato il voto, non ho mai pensato di immaginare un numero al posto della cultura di un bambino. Ho sempre usato la valutazione su quello che sapeva fare. Ma erano gli stessi bambini che capivano cosa avevano imparato e cosa non avevano imparato. Già quarant’anni fa sceglievamo insieme i libri da leggere. E quei libri sono ancora validi oggi, appassionano ancora i bambini. Mi domnando, allora, se i bambini di oggi siano diversi da quelli di allora o non siano cambiati affatto. Sono cambiati nei bisogni ma sono gli stessi negli affetti. Hanno bisogno di affetto, di ascolto. Infatti ho fondato tutto sulla parola. Pensate che cosa grande sia la capacità di parlare. Quando i bambini vengono a scuola sanno già parlare. Ma non gliel’ha insegnato nessuno, hanno fatto da soli. Tutti i bambini, di tutte le lingue fanno da soli. Hanno quindi una pedagogia, ricavano dal loro ambiente gli elementi culturali. E noi cosa dobbiamo fare con questi bambini che sanno già parlare? Li facciamo parlare, e facendo questo impostiamo le fondamenta della società democratica: dove c’è il rispetto di chi parla. Che deve essere ascoltato e non interrotto come invece fanno in televisione. Ma far questo è faticoso, perché i bambini non ci stanno, si interrompono continuamente. Si può fare invece. Perché i bambini vivono otto anni nella scuola e, in questo lungo percorso, piano piano, possiamo arrivare alla democrazia perfetta nella scuola».
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