Infiltrato – La mia vita in Al Qaeda

Di Omar Nasiri – Ed. Piemme

Un dubbio attanaglia il lettore fin dalla prima pagina: è veramente l’esperienza di un infiltrato in al Qaeda ciò che si legge in questo tomo di 450 pagine e più? Come è possibile che i servizi segreti francese, inglese e tedesco sapessero tutte queste cose fin dalla metà degli anni Novanta? E come è possibile che la CIA non abbia utilizzato tutte queste informazioni solo parlando con i servizi segreti europei? Si è detto che la CIA non sia stata in grado di utilizzare tante informazioni prima dell’11 Settembre perché queste erano in lingua araba e impossibili da tradurre: ma qui si parla di servizi segreti americano ed europei!

Omar Nasiri è uno pseudonimo dietro cui si cela una spia sui generis perché arriva a questa attività direttamente sul campo. Parla dei suoi anni in Belgio, dove entra in contatto con uomini del GIA che transitano a casa dei suoi fratelli e di sua madre e per il GIA compra armi ed esplosivi. Racconta poi del suo addestramento in un campo in Afghanistan, a Khaldan, dove impara tutto sugli esplosivi e su come costruirne partendo da zero; su come uccidere una persona a mani nude; sulle tecniche di guerriglia urbana; sulle armi. Vede con i suoi occhi che spesso, nel campo e non solo, si usano manuali del governo degli Stati Uniti, eredità di quando i mujahidin combattevano contro i sovietici.
Nasiri spiega che il jihad è un concetto universale (di qui il ruolo niente affatto primario di Osama bin-Laden, p. 390) e che i luoghi in cui deve essere portato avanti sono diversi: l’Algeria, la Cecenia, il Medio Oriente, la Serbia. Dure sono le parole con cui i mujahidin di ritorno dalla Bosnia parlano dell’eccidio di Srebrenica: <<I serbi violentavano migliaia e migliaia di donne bosniache e molte restavano incinte. Gli uomini bosniaci non toccavano quelle donne (…). Ma gli arabi ritenevano fosse loro dovere sposare quelle donne e allevare i loro figli come mujahidin che sarebbero potuti andare a massacrare i serbi di cui condividevano il sangue>> (p. 243).
Interessante è la descrizione del ruolo di Ibn al-Sheikh al-Libi: arrestato e “interrogato” dagli Stati Uniti, avrebbe confessato che Saddam Hussein aveva addestrato e sostenuto al Qaeda fin dal 2000. Da lì, la decisione degli Stati Uniti di attaccare Saddam e l’IRAQ. Nel libro si sostiene che al-Libi non avrebbe confessato, ma avrebbe condotto gli uomini che lo interrogavano esattamente dove voleva lui stesso (odiando Saddam come gli USA) perché addestrato a resistere a ogni forma di tortura fisica e psicologica. In effetti le armi di distruzione di massa non c’erano in IRAQ e i legami di Saddam con al Qaeda non sono mai stati provati.
Le domande aumentano pagina dopo pagina. Ancor più quando Nasiri parla dei suoi anni a Londra. Viene incaricato di tenere sotto controllo la moschea di Finsbury Park dove parla Abu Hamza, mentre gli viene ordinato di lasciar perdere il centro giovanile dei Four Feathers, dove agivano Abu Qatada e Abu Walid. Mentre il primo era apparentemente pericoloso, ma in realtà piuttosto rozzo dal punto di vista teorico e quindi non poteva essere seguito da chiveramente seguiva l’Islam, i secondi erano realmente pericolosi perché le loro parole entravano nella testa degli ascoltatori e quindi penetravano nelle loro coscienze, più in profondità (p. 382-3). I capi di Nasiri non percepiscono questa sostanziale differenza e gli chiedono insistentemente se sono previsti attentati a Londra: a loro sembra interessare solo questo. E i rapporti si irrigidiscono tra i servizi segreti inglesi e quelli francesi, che gestiscono “in comune” Nasiri.
Le parole di Nasiri ci mettono davanti a un chiaro dilemma: credere alla loro veridicità e disperarsi perché la realtà che ci viene raccontata non esiste oppure respingere tutto come una immensa fandonia e pensare che il mondo è esattamente come ci viene detto che sia. La risposta dipende dal grado di insonnia che vogliamo raggiungere.

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