Gianni Giovannelli

Guerra e pace

di Gianni Giovannelli

Giorno per giorno

Si sgozza e si sbuzza,
si sbudella e si sbrana,
si spezza e si fracassa,
si fucila e si mitraglia,
si brucia e si bombarda.

Giovanni Papini
(Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai, Lacerba, 1 ottobre 1914)

Per sostenere l’intervento italiano nella Grande Guerra il fiorentino Giovanni Papini utilizzò un vocabolario assai colorito, provocatorio, nello stile futurista di Marinetti. Nell’articolo, da cui è tratta la citazione in esergo, si annuncia con entusiasmo che poteva considerarsi finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia, della pacioseria. Pace e coesistenza venivano bollate come caratteristiche di spiriti meschini, di persone codarde, come disvalori contrapposti all’audacia e al coraggio di chi puntava invece a combattere, a cancellare il nemico.  A differenza di Marinetti, tuttavia, Papini fu riformato, inabile al combattimento per via di una fortissima miopia. Il fronte rimase per lui soltanto un palcoscenico, nel quale si recitava uno spettacolo che non comportava conseguenze concrete sulla vita quotidiana e che anzi gli assicurava una gratificante visibilità, il consenso della pubblica opinione, il successo. Mentre i soldati crepavano nelle trincee questo celebre scrittore si nutriva di morte senza correre rischi. Poco importa che abbia poco dopo mutato questa sua percezione del conflitto, divenuto per lui, a posteriori, sulla scia di papa Benedetto XV, inutile strage; la conversione al cattolicesimo non fu infatti di ostacolo ad un convinto sostegno del fascismo, alla sottoscrizione dell’ignobile manifesto degli scienziati che preparò le leggi razziali, all’ingresso nell’Accademia d’Italia, l’istituzione che raccoglieva i più illustri sostenitori del regime mussoliniano. Non esiste contraddizione, per chi è avvezzo a comportamenti disinvolti, fra l’elogio della carneficina e il dichiararsi devoto al binomio Dio&Patria. L’importante è mantenere la certezza della propria superiorità.

La trascorsa vicenda umana di Papini ci consente di comprendere, qui e oggi, il complessivo comportamento dei parlamentari eletti in Italia e in Europa. Durante il governo Draghi una larga maggioranza (Forza Italia, Partito Democratico, Lega e Cinque Stelle), con il pieno appoggio della destra neofascista oggi al comando del nuovo esecutivo, ha brutalmente criminalizzato ogni tentativo volto a ricercare un ambito di trattativa, a trovare una qualche via di compromesso. La parola d’ordine valida per tutti era quella di combattere fino alla sicura sconfitta militare russa, sognando di processare Putin in un Tribunale Internazionale dopo aver spezzato le reni alle orde nemiche.  L’insediamento di Giorgia Meloni – con la prudentissima isolata critica dell’opposizione pentastellata – non ha mutato il quadro: la spedizione di armi all’Ucraina prosegue a tempo indeterminato, ogni forma di eventuale diplomazia viene considerata diserzione, il pacifismo equivale alla resa incondizionata, dunque al tradimento. Questi sono i guerrafondai del terzo millennio: agiscono nascosti nelle retrovie, ben protetti, ben pagati, con l’arrogante sicurezza di essere insostituibili, tecnici esperti del moderno nepotismo dentro una struttura economica fondata sul clan, giocolieri della comunicazione in ogni tornata elettorale, indifferenti di fronte a qualsiasi tragedia umana. Di Papini non hanno certo mutuato il fascino di una cultura sapientemente coltivata, si limitano a ereditare il peggio di quel mondo tramontato. Manca perfino, dentro la cabina di comando, una compiuta teoria della guerra nel terzo millennio. La chiamata alle armi si risolve in una sequenza di mosse disordinate, di programmi con un respiro, nella migliore delle ipotesi, soltanto trimestrale; nonostante il rischio concreto di uso sul campo delle bombe atomiche, con ogni imprevedibile conseguenza, quel che interessa davvero l’apparato che gestisce il potere è l’incremento di fatturato, nell’anno fiscale, dell’industria bellica, sia essa pubblica o privata. Il futuro non esiste.

Gaza e l’antisemitismo.

Mentre la guerra in Ucraina proseguiva incessante, prendendo tuttavia una piega non gradita o quantomeno difforme da quella indicata nelle previsioni, si è aperto un nuovo fronte, questa volta in Palestina e con caratteristiche diverse. Il ceto politico israeliano e palestinese, a differenza di quello che governa i paesi del G7, ha una consolidata dimestichezza con l’uso delle armi; non si limita, come fanno gli atlantisti, a ordinare e gestire sfracelli da comode postazioni ben protette, combatte proprio. I dirigenti politici di Gaza e Tel Aviv sparano, e, quando possono, si uccidono a vicenda. Se si comportassero diversamente, perderebbero credibilità, capacità di comando. Non possono non combattere; dunque non hanno alcuna intenzione di ascoltare inviti alla moderazione o, tanto meno, di cessare le ostilità. Gli uni e gli altri sono perfettamente consapevoli che ogni tregua è solo simulata: per imporla occorre una forza economico-militare superiore a quella di cui dispone Israele, ma non esiste alleanza disposta ad usarla sul campo. Anzi: prevale, per varie ragioni, la scelta di alzare ulteriormente il livello di scontro, senza badare a ciò che questo comporta per le vite umane e per l’ambiente nel suo complesso. Ucraina e Gaza determinano, giorno dopo giorno, effetti sinergici, soprattutto considerando la comparsa di nuovi focolai caratterizzati anch’essi da sviluppi imprevedibili. La propaganda si adegua: quel che in Ucraina veniva bollato quale complotto putiniano ora, con riferimento alle vicende di Gaza, si pretende di ricondurlo all’antisemitismo. In un caso il punto di partenza lo si individua nell’attacco russo del 24 febbraio 2022, nell’altro il riferimento è il  7 ottobre. Non esiste un prima, ogni spiegazione diviene giustificazione, chi non appoggia la risposta , o chiede pace, o, peggio, pretende di essere neutrale, deve essere considerato un alleato oggettivo dell’aggressore (o dell’antisemita) e trattato come tale.  In Germania quello che era già un pericoloso nervo scoperto ora è diventato una vera isteria collettiva: la deriva militarista dei Grunen, pronti a cogliere ogni occasione per alzare il livello di scontro armato senza curarsi delle vittime, si è saldata con il sostegno indiscriminato alla strage dei palestinesi di Gaza, concretandosi in una sorta di processo, pubblico e politico, contro chiunque sia sospettato di criticare il comportamento sul campo del governo israeliano o anche soltanto di invocare un cessate il fuoco.

Schierarsi per proteggere la vita dei palestinesi assediati a Gaza è un crimine da punire in quanto “oggettivo” antisemitismo. Anche la semantica lessicale cede, travolta dalla foga degli accusatori. Come gli ebrei anche i palestinesi sono, senza ombra di dubbio, semiti. Dunque sia i filo-israeliani, sia i filo-palestinesi (in quanto tali e a prescindere perfino dalla collocazione politica) sono filosemiti, definirli “antisemiti” è una evidente contraddizione; arabo ed ebraico sono lingue tipicamente semite. Turchi, russi, iraniani ed europei (compresi i tedeschi) sono invece giapetiti (qualcuno preferisce chiamarli japetingi, comunque si tratta di ceppo linguistico indoeuropeo). Ecco: i tedeschi antipalestinesi di oggi sono di nuovo “antisemiti”, pur con una variante etnica rispetto ai loro nonni antigiudaici. L’area territoriale in cui vivono – e muoiono – ebrei e palestinesi è una miccia accesa dentro una polveriera; invece di spegnerla gli esponenti del pensiero neocolonialista occidentale provvedono a tener viva la fiamma con ogni mezzo, con profondo disprezzo del futuro collettivo, pensando solo all’incasso nel trimestre successivo.

Migrazione e guerra

Il conflitto tende a diffondersi, quasi fosse in atto una sorta di contagio inarrestabile. Investe di nuovo Libano e Siria, non conosce tregua neppure nelle acque del Mar Rosso ove gli Houthi resistono agli attacchi e rendono poco sicura la navigazione verso il canale di Suez, con inevitabili contraccolpi sul commercio e sui costi della merce. Le conseguenze, mai prese in considerazione come possibili dagli arroganti uomini politici della vecchia Europa, si cominciano a far sentire. La carneficina prosegue da oltre un anno nel vastissimo Sudan (grande sette volte l’Italia, poco popolato, i 40 milioni di abitanti sono ormai allo stremo); centomila soldati RSF sostenuti da russi ed etiopi si battono contro trecentomila militi inquadrati nel SAF appoggiato dagli Emirati e dall’Egitto. Entrambi gli eserciti fanno strage di civili. Martin Braaksme, di Medici senza frontiere, riferisce sconsolato che nell’indifferenza generale si contano oltre 30 mila morti e che i profughi sono calcolati in circa otto milioni. Un quarto di loro ha varcato il confine dello stato, verso la Libia, il Centrafrica e soprattutto il Ciad. Due milioni di esseri umani, disperati e affamati, hanno superato una frontiera lunga oltre duemila chilometri, priva di strutture, incontrollata e incontrollabile; non hanno altra scelta, si dirigono verso la costa mediterranea, migrano per sopravvivere. Sotto la pressione degli sfollati scricchiola anche il Ciad, ultimo avamposto del colonialismo francese, ricco di oro e uranio, costantemente depredato; il governo militare mantiene ancora i mille soldati del contingente imposto da Parigi, ma la tentazione di svincolarsi si fa ogni giorno più forte, il ruolo di gendarme residuale di un ormai disciolto G5 africano sta diventando scomodo. Le truppe di Macron, nel frattempo, sono state estromesse dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso, dal Mali.

Nella storica base collocata a lato dell’aeroporto di Niamey, da tre settimane, accanto al contingente italiano (250 uomini) e tedesco, i russi hanno sostituito i francesi; e il Niger ha molto uranio che fa gola a tutti.  I mercenari della Wagner sono insediati stabilmente nel Sahel, addestrano gli eserciti nazionali, gestiscono le miniere. Per giunta la rendita francese connessa alla valuta di origine coloniale (il CFA) è ormai prossima all’archiviazione definitiva. Il 16 settembre 2023 è stata sottoscritta la carta di Liptako Gourma che prevede una nuova moneta autonoma nel Sahel (Eco e/o Afrik) e la chiusura degli accordi fiscali con la Francia (verrebbe meno l’obbligo di versare il 50% della riserva statale alla banca centrale francese e il redditizio passaggio forzato per Parigi della convertibilità CFA/Euro).

A fronte di questo disastro diplomatico militare Macron, che a differenza dei capi di governo africani non conosce la guerra e non sa neppure sparare, si è spinto fino a minacciare un intervento in Ucraina contro la Russia, colpevole di averlo sconfitto in Africa! Guerra, colonialismo e flussi migratori si confermano strettamente legati, ma i governanti europei faticano a comprenderlo. Giocano con il fuoco, con presuntuosa tracotanza, convinti che tutto sia loro consentito, sicuri di vincere sul campo perché vincono le elezioni. Ma la guerra e le urne poggiano su regole diverse. La certezza dell’impunità viene trasmessa dai funzionari del potere ai sudditi, con perverse conseguenze che cadranno proprio sui più deboli. Machiavelli, citando Lorenzo il Magnifico, osserva che i guai dei popoli provengono dai loro governanti: E quel che fa ‘l signor fanno poi molti, Che nel signor son tutti gli occhi volti. Grazie anche alla forza della comunicazione si è radicata la convinzione che non abbia ricadute sociali trasferire la spesa pubblica destinata all’antico welfare in armamenti destinati al fronte ucraino, reprimere la protesta studentesca e popolare contro i massacri in Palestina, criminalizzare i migranti e rinchiudere inutilmente nei CPR una quota di sbarcati, affamare le popolazioni africane e rapinarle di ogni risorsa. Non è così. Gli errori nell’agire provocano, prima o poi, inevitabili reazioni, e queste possono essere dolorose.

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò trionfante l’entrata in guerra, ricevendo gli applausi di una folla che correva incosciente verso il baratro, incontro al disastro. Il Duce sosteneva che il combattimento era necessario per proteggere il popolo italiano da chi voleva insidiare l’esistenza stessa della nazione; come la sua nipotina Giorgia Meloni prometteva di colpire il nemico in terra, in mare, nell’aria (il c.d. orbe terracqueo) con una parola d’ordine (vinceremo!) che ci ricorda molto da vicino la retorica odierna. L’irresponsabilità è la medesima.

Nuove caratteristiche della guerra

Nel 1999 Qiao Liang e Wang Xiangsui pubblicarono la prima edizione del loro trattato con una definizione, guerra asimmetrica, che costituiva una vera novità nell’ambito degli studi militari moderni. Il testo è ormai divenuto un classico e indica nella prima guerra del golfo (17 gennaio 1991) il punto di svolta. Negli ultimi trent’anni i conflitti sono proseguiti in modo strisciante, tuttavia senza mai una sosta. Anzi l’ampiezza dei territori insicuri o pericolosi va crescendo, sempre e costantemente, giorno dopo giorno; l’area in cui vige il tempo di pace si è assai ristretta, comunque coltivando al proprio interno contraddizioni di non poco conto (scontri etnici, attentati terroristici, discriminazioni razziali o legate alla religione). La deterrenza tradizionale, fondata sul timore dell’arsenale atomico, ha perso la forza originaria (quella che aveva risolto la crisi cubana, ad esempio). Nuovi paesi possiedono la bomba (Israele, Corea del Nord, Pakistan), altri si apprestano ad acquisirla; comunque l’accesso all’ordigno atomico appare meno difficile rispetto al secolo scorso. Durante la prima guerra del golfo furono i giganteschi costosissimi velivoli americani a fare la differenza; distruggevano dall’alto, irraggiungibili. Ancora oggi consentono una sostanziale supremazia, sono ad esempio il punto di forza dello stato d’Israele.

Ma con il passare degli anni si sono rivelati insufficienti; gli americani hanno ugualmente perso la guerra in Afghanistan, si sono dovuti ritirare insieme ai loro alleati lasciando il campo ai talebani che, almeno sulla carta, non avevano alcuna possibilità di spuntarla. Rastrellamenti, danneggiamenti e stragi non sono bastati, hanno ritardato ma non evitato la sconfitta. A ben vedere, dopo la guerra del golfo nel 1991, gli americani non hanno più vinto in nessun posto. Dunque non basta avere armi moderne e potenti; esistono altre variabili e possono, in determinate circostanze, risultare decisive. E’ un segno di come sia mutata l’essenza stessa del conflitto, divenuto davvero asimmetrico, soggetto a eventi imprevisti.

Il capo di stato maggiore russo, Valerj Vasilievic Gerasimov, pubblicò sul numero 8 del Corriere militare-industriale (27.2.2013) un articolo che conteneva riflessioni di notevole interesse sulla guerra moderna, osservando: nel XXI secolo c’è una tendenza a sfumare la distinzione fra guerra e pace. Le guerre non vengono più dichiarate e una volta iniziate non seguono più il modello a cui siamo abituati. E ancora: l’uso palese della forza, spesso sotto le mentite spoglie del mantenimento della pace o della gestione delle crisi, viene utilizzato solo fino a un certo punto, principalmente per ottenere il successo finale nel conflitto.

In effetti sono in corso solo guerre non dichiarate, ma non per questo meno sanguinose. Accanto allo spettro dell’ordigno atomico (magari solo tattico in via di sinistra mediazione filologica), ai missili e alle difese per neutralizzarli, ai carri e ai bombardieri d’alta quota, il combattimento riguarda i corpi, uno di fronte all’altro  in divisa, o tanti civili inermi in attesa della morte. Ma in Ucraina ha conquistato un ruolo da protagonista il drone, non quello di grandi dimensioni, quello piccolo invece, economico, maneggevole. Un mezzo destinato a utilizzi sempre più massicci, introducendo nello scontro quotidiano un elemento inatteso, a volte di sorpresa.

Un missile, peraltro spesso intercettato durante il volo, costa decine di milioni; di recente Ali Baba ha venduto (non si sa a chi) per 57.000 dollari un UAU ad ala fissa H250, adatto ad uso militare (poi si sono scusati). Peraltro con solo 179,99 dollari si compra su Amazon il Potensik 2,7K, con 60 minuti di autonomia, apparentemente innocuo ma (come le rivoltelle giocattolo) modificabile da mani esperte. Bande di mercenari possono partecipare a guerre non dichiarate con armamenti low cost; questo è un fatto, ed è anche un fatto nuovo. Giovani tecnici ucraini, in laboratori semiartigianali, servendosi di alta tecnologia, hanno creato software trasformando un drone di fabbricazione turca, il Bayraktar TB2, in un’arma efficace contro i russi. Ora funziona a pieno ritmo una variegata industria bellica nazionale, come la Aerozozvidka del colonnello Yaroslav Honchar, che non riesce a soddisfare l’ordinazione crescente. I droni ucraini si servono di radar e intelligenza artificiale forniti dall’americana Forte Technologies, sono fonte  di profitti in crescita; il drone UJ22 Airborne (a elica e benzina) ha un’autonomia di 800 chilometri, tocca 120 Km/h, è lungo 3 metri, pesa solo 85 Kg, economico, facilmente trasportabile con un furgone. Con 50 mila dollari si acquista anche l’ucraino Bober (castoro), velocità 200 km/h; porta un discreto carico esplosivo e non è semplice da intercettare per via del tragitto modificabile da remoto.

I russi, dopo i primi colpi subiti, hanno imparato presto la lezione sotto i colpi del nemico e preparato la risposta. L’Iran ha fornito il drone Shahed-136 (testimone 136), disponibile in grande quantità, a buon prezzo (probabilmente assai  meno dei 50 mila dollari di base, pagati magari in oro, comunque vanificando le sanzioni); si tratta di un vecchio modello già sperimentato con successo dai combattenti talebani e ora, nel Mar Rosso, anche dai militanti Houthi.  Con ala a delta di circa 2,5 metri, pesa 200 kg, raggiunge 185 km/h, basta un camioncino per il trasporto, monta un  motore a 4 cilindri copiato dalla tedesca Limbach, lo si guida a distanza con una semplice SIM per cellulari 4G. L’Iran ha aperto una fabbrica di droni in Tagikistan, hanno richieste da ogni fronte nel mondo. L’esame di uno Shahed abbattuto rivela le contraddizioni dell’economia globale di guerra: processore americano, pompa anglo-polacca, convertitore cinese.

Dal novembre 2023 si è evoluto nel modello Shahed-238, un turbo difficile da intercettare ma con il difetto di essere assai più costoso e per giunta esposto ai missili che lo tracciano. Si è affiancato poi il nuovo Lancet 3, prodotto dalla mitica Kalashnikov, con motore elettrico (il che impedisce le rilevazioni acustiche e termiche) ma con una limitata autonomia (solo 80 chilometri). La scelta del comando politico-militare russo è stata infine quella di produrre in casa una sorta di Shahed nazionale, chiamato Geran 2, reso più efficiente dell’originale grazie all’applicazione di tecnologie occidentali (e schegge di tungsteno in testata). La fabbrica di Alabuga (Tatarstan), aperta nel luglio 2023, impiega ora 2400 operai; entro l’estate del 2025 (fra meno di un anno) saranno pronti seimila droni, a basso costo, da lanciare, in lotti da 5,  svolazzando come farfalle senza linee rette, diretti contro le postazioni ucraine. Ancora una volta l’analisi del prodotto scopre i veli, emergono le contraddizioni del mercato globale: il Geran 2 prodotto in Russia, su licenza iraniana, contiene 55 parti americane, 15 cinesi, 13 svizzere, 6 giapponesi. In ogni caso si tratta di un affare di straordinarie proporzioni!

Solo dieci anni or sono i droni con scopo offensivo, e non soltanto ricognitivo, venivano prodotti a centinaia, non certo a migliaia; Alabuga segna un cambio di passo destinato a mutare il modo di fare la guerra. Una guerra non dichiarata ma potenzialmente diffusa, quasi endemica. Il drone trasportabile messo a punto nei laboratori ucraini e iraniani, a prescindere dalla differenza di modello, una volta prodotto in serie è idoneo a rimuovere i vincoli tradizionali, ad aggirare i limiti di azione; inserisce l’inatteso, pone le condizioni di una dialettica forza/sorpresa che si traduce inevitabilmente in innovazione bellica. Vedremo quali ricadute ci saranno negli altri focolai, Palestina compresa; non si può controllare ogni zolla di territorio, ogni insediamento, ogni vita umana.

Macron minaccia la Russia vaneggiando interventi militari; per il momento, nonostante l’atomica nei magazzini, si è però fatto cacciare dal Niger. Pochi giorni fa se ne è andato alla chetichella anche Biden, dopo l’intimazione di sfratto e l’arrivo di Wagner. Accanto a russi e iraniani, autocrati in sintonia con il governo insediato con il golpe anti-occidentale, rimane solo una piccola pattuglia italiana, al comando del generale Figliuolo, quello del Covid. Difficile comprendere a far che cosa!  Il Niger è grande 4 volte l’Italia, ma ha solo 26 milioni di abitanti e il tasso di natalità più alto del mondo (6,82 per donna), una popolazione giovanissima con una consolidata abitudine al combattimento e una gran voglia di futuro. Fermare il flusso migrante dal Sahel all’Europa, nonostante le urla neo-papiniane di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non pare cosa facile da realizzare in concreto. Infatti il numero degli sbarcati, provenienti dal Sudan e dai paesi del G5, non accenna a diminuire. Ma gli apprendisti stregoni, insediati nei governi europei, continuano a provocare, senza mai davvero riflettere sul significato sostanziale della guerra e della pace.

The scene dissolves, is succeded by a grinning gap, a growth of nothing pervaded by vaguerness [1].

NOTE

[1] La scena si dissolve, le succede un sorridente precipizio, una crescita del nulla pervaso d’incertezza

Immagine di apertura: Angelus Novus di Paul Klee, 1920

«Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l’angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso»

(Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, Tesi IX, in Gesammelte Schriften (Opere complete), a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp Frankfurt a. M. 1980, Volume I.2, p. 697)

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 13 maggio 2024

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Tempesta e bonaccia

Sea in the moonlight” (1827-1828) di Caspar David Friedrich

di Gianni Giovannelli

Open pathway trough the slow sad sail
Trough wide to the wind the gates to the wandering boat
For my voyage to begin to the end of my wound
(Dylan Thomas)

(Apri un varco nella lenta, nella lugubre vela
Schiudi al vento le porte del vascello vagante
Perché inizi il mio viaggio verso la fine delle mie ferite)
(trad. Ariodante Marianni)

La guerra prende piede, cresce giorno dopo giorno, una vera e propria tempesta che non lascia intravedere momenti di tregua. In Ucraina non è solo un conflitto di trincea, uno scontro fra soldati per la conquista di aree territoriali e per la distruzione delle risorse del nemico. Non c’è dubbio che sia anche questo, come non c’è dubbio che al fronte muoiano, accanto ai militari di professione,  migliaia e migliaia di soggetti rastrellati, costretti ad indossare la divisa, o, anche, volontari vittime della propaganda nazionalista. Però non basta. Piovono bombe lanciate dai droni, cadono missili, la strage di civili prosegue senza sosta. I fabbricanti di armi si arricchiscono, godono di scandalose agevolazioni fiscali, vengono lautamente pagati con il denaro sottratto alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, ai resti di welfare eroso. L’opposizione alla guerra, anche se proposta senza foga o quasi sottovoce, viene immediatamente equiparata a tradimento, diserzione, crimine contro le istituzioni. La chiamata alle armi è contagiosa. A Gaza ha preso la forma del massacro. Poco importa la qualificazione tecnico-giuridica, se si tratti di genocidio o meno. Rimane una carneficina, con le immagini di soldati felici di uccidere, consuete durante ogni strage della popolazione consumata da un esercito occupante, incitato dai comandanti a rimuovere ogni forma di scrupolo morale. La guerra si è allargata al Mar Rosso per colpire il popolo yemenita, tramite consapevoli provocazioni lambisce le coste cinesi rischiando di aprire un nuovo focolaio, non cessa di mietere cadaveri in molti paesi africani già piegati dalla fame e dagli espropri, cova sotto la cenere in America Latina e nell’area asiatica. La tempesta infuria nel pianeta, indifferente alle crisi energetiche o al disastro ecologico, l’avidità è arrogante, la cupio dissolvi  è accettata o rimossa.

A pochi chilometri dalla tempesta, nei territori dell’occidente europeo e nordamericano, anche in Italia, domina invece la bonaccia. C’è un clima di imperturbabile insensibilità, rotto, ma per brevi periodi, da proteste circoscritte (da ultimo quella di coltivatori e allevatori) che non riescono mai a coinvolgere davvero l’intera comunità e poco a poco inaridiscono, lasciando fra i protagonisti un senso di impotenza e un sentimento di rassegnazione che rafforza il potere e favorisce il dispotismo. Dentro la bonaccia si allarga la forbice fra ricchi e poveri, aumenta il disagio; l’apatia non è speranza nel futuro, ma immotivata illusione di poter essere risparmiati, di sfangarla senza troppi danni. Significativa di questo tempo di bonaccia è l’indifferenza che ha accompagnato l’insabbiamento della rivendicazione di un salario minimo a tutela dei lavoratori adibiti alle prestazioni più pesanti, espropriati del loro diritto ad esistenza dignitosa, inchiodati allo sfruttamento intensivo. Eppure, nonostante l’apatia che si riscontra nella bonaccia, è impossibile non cogliere nella nostra esistenza quotidiana i segnali, dentro le comunità, di un rancore diffuso, di una rabbia repressa ma pronta ad esplodere, di una disponibilità alla prevaricazione, al conflitto con altri sventurati, dimenticando come, storicamente, la solidarietà sia l’unica via d’uscita dalla servitù. In questi ultimi anni è accaduto che i tagli alla sanità abbiano arricchito le c.d. Big Pharma e l’erosione costante del welfare si accompagni all’incremento delle spese militari a vantaggio di chi costruisce armi: grazie alla coerente continuità dei diversi governi emersi dalle elezioni sui punti fondamentali che non prevedono dissenso (e non lo consentono neppure, a costo di usare minaccia, ricatto, perfino la forza bruta). La tempesta in atto, questo tempo di guerra, serve a ricordare a coloro che vivono nella bonaccia quel che li aspetta in caso di ammutinamento o di attacco al profitto. La domanda di pace viene percepita dal potere politico e dalle imprese dominanti come una rivendicazione eversiva, comunque come azione di contrasto alla c.d. economia di mercato.

Dentro la bonaccia prosegue intanto il processo di transizione, con introduzione di norme che accompagnano la trasformazione del vecchio stato-nazione a carattere socialdemocratico-liberale in un nuovo organismo istituzionale attrezzato per piegare le residue resistenze del precariato, dunque necessariamente e inevitabilmente autoritario. Il meccanismo di governo chiamato pilota automatico (per usare la suggestiva definizione che diede a un tale sistema Mario Draghi, l’amerikano per antonomasia) sembra funzionare anche dopo la vittoria elettorale dei neofascisti e dei loro alleati: Giorgia Meloni non abbandona, laddove opera il vincolo, la via tracciata da chi l’aveva preceduta, proseguendo anzi nella medesima direzione. I titolari dei tre ministeri-chiave (economia, esteri, difesa: Giorgetti, Tajani, Crosetto) hanno mantenuto gli impegni di spesa militare, l’appoggio incondizionato agli Stati Uniti del “democratico” Biden, le politiche di austerità, i tagli alla spesa sociale, la rinuncia a colpire i profitti delle strutture di grande impresa finanziarizzata con l’imposizione fiscale. L’istruzione, la ricerca e l’università, privi di fondi e risorse, sono facile preda delle privatizzazioni,  incoraggiate ora come prima; l’unica differenza, ideologica e spettacolare, consentita alla destra sta in un maggior uso dei gendarmi, dei giudici e delle sanzioni disciplinari contro gli studenti riottosi che occupano o scioperano. Il messaggio trasmesso dal ministro Valditara è che il rigore o l’ordine possano essere il fondamento della scienza e del sapere; una bubbola diffusa a reti unificate e spacciata per verità a suon di botte! La continuità in tema di salute è assicurata da un brillante ordinario e primario, il professor Schillaci: maggioranza e opposizione sono tranquille, la medicina pubblica, con lui al dicastero, non sarà di ostacolo ai progetti di quella privata, farà il possibile anzi per agevolare la conquista del mercato italiano.

Spicchi di autonomia consentita

Ai governi nazionali, siano essi democratici liberali o populisti, viene consentita  una libertà di azione assai limitata, dentro segmenti precisi e all’interno di confini non valicabili. Possono certamente legiferare sul c.d. fine vita, vietando o consentendo il suicidio assistito, varando norme sempre più complicate per regolare l’accanimento terapeutico. Fermo una vaga generica proibizione di operare discriminazioni  possono consentire o meno matrimoni non tradizionali, riconoscimenti di prole, intervenire sugli affetti in occasione di visite ospedaliere, disporre corsi obbligatori di nozioni sulle materie più svariate, ostacolare o meno l’acquisizione della cittadinanza, limitare o meno l’ingresso, il soggiorno, gli studi. Quel che ha in mente la reazionaria bigotta Eugenia Maria Roccella, titolare di un dicastero per la famiglia (qualunque cosa voglia dire oggi), lascia nella totale indifferenza i consigli di amministrazione delle multinazionali e infiamma soltanto associazioni di quartiere ospiti di una qualche redazione televisiva.

Autonomia differenziata

Il governo Meloni concentra la propria visibilità e identità sull’attacco radicale a minoranze percepite come tali, disarmate e adatte al ruolo di capro espiatorio. Il varo di norme repressive caratterizzate da una severità spropositata colpisce aggregazioni giovanili in luoghi abbandonati (musica e/o sballo), proteste dimostrative di ecologisti che cercano (purtroppo invano) di attirare l’impegno collettivo, in difesa dell’ambiente, colorando un monumento, immigrati rinchiusi in lager sovraffollati pronti per l’espulsione o per il lavoro irregolare sottopagato. Le morti recenti nel cantiere Esselunga di Firenze confermano ciò che già era noto: il carattere ordinario e istituzionale della manodopera ingaggiata in nero capace di assicurare maggior profitto. La sceneggiata di un lager ulteriore in terra albanese non cambia il quadro: sono (anzi: saranno… e chi sa quando!) poche centinaia di deportati nel gran mare di arrivi. Per quanto la propaganda si impegni è davvero troppo poco, si tratta di qualche centinaio di potenziali condanne per episodi secondari, senza ricadute di effettiva portata nelle comunità territoriali. Occorreva introdurre un cambio di passo, promettere un cambiamento istituzionale capace di aprire la strada verso un futuro migliore. L’elezione diretta del presidente del consiglio risponde ad una prima esigenza, quella di accompagnare la svolta dispotica necessaria alla transizione alla figura dell’uomo forte, nemico della burocrazia, pronto a sistemare ogni cosa. Difficile prevedere l’esito di un simile tentativo che esige non solo una doppia lettura ma con ogni probabilità anche un referendum confermativo che potrebbe trasformarsi in una trappola. Prudentemente Giorgia Meloni si guarda bene dal legare il proprio destino politico al risultato della consultazione, si accontenta di agitare la questione per rafforzare innanzitutto se stessa; non vuole commettere l’errore dell’arrogante Matteo Renzi.  In ogni caso chiunque sia eletto e a prescindere dal metodo di elezione il programma rimane lo stesso. Più gravida di conseguenze concrete appare invece la seconda riforma istituzionale, quella volta a modificare il rapporto fra stato centrale e regione, la c.d. autonomia differenziataBenché contenga una sostanziale modifica costituzionale, con notevole disinvoltura, la maggioranza ha portato il testo davanti alle due camere in forma di legge ordinaria; nella seduta del 23 gennaio 2024 il Senato (sulla carta il passaggio meno facile) ha approvato l’impianto elaborato (con alcuni significativi ritocchi) in commissione e ora è spianata la definitiva approvazione ad opera dei deputati. Nelle pieghe di una accresciuta (allo stato solo potenziale) signoria nel governo delle singole regioni si cela un meccanismo potente di controllo centralizzato, di dominio sulle comunità territoriali. L’art. 116, terzo comma, della Costituzione consente su alcune importanti materie ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale; qui si viene a disciplinare il come e anche il se ci si possa arrivare, in modo però differenziato a discrezione della maggioranza in carica. L’articolo 2 (testo del Senato) rimette alla singola Regione l’elaborazione, approvazione e presentazione di una richiesta di autonomia che viene rimessa (non al Parlamento ma) al Consiglio dei Ministri, che provvede ad acquisire pareri della Conferenza Stato Regioni e delle Commissioni presso le Camere, conformandosi o meno a detti pareri non vincolanti. Poi (commi 6-8) elabora unilateralmente la proposta di intesa con la regione richiedente, e la trasmette alle due Camere, per approvazione o rigetto: prendere o lasciare. Il C. dei M. si riserva  di limitare l’intesa a una parte soltanto della richiesta di autonomia. Dunque: senza il consenso espresso (non del Parlamento ma) dell’esecutivo in carica nessuna intesa sull’autonomia è possibile. E non basta! Mediante le modifiche al testo “leghista” originario introdotte in commissione il controllo del governo è letteralmente blindato con un trucco del mestiere già utilizzato da Renzi per i Jobs Act del 2015: la legge delega. L’intesa con la singola Regione poggia necessariamente sui c.d. LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni. L’articolo 3 del testo approvato in Senato conferisce al Governo la delega per definire l’ambito dei LEP con riferimento a lavoro, ambiente, comunicazioni, trasporti, energia, beni culturali, tutto ciò che possa essere oggetto di autonomia, anche differenziando, comunque senza dover passare attraverso il dibattito parlamentare. Non basta ancora! Costi e fabbisogni sono definiti, con cadenza triennale, a mezzo di DPCM, quelli entrati in uso durante la pandemia come eccezione e subito diventati regola costante di governo, come, già allora, facili profeti, avevamo previsto. L’intesa ha una durata massima di dieci anni, ma nulla vieta di porre una scadenza più ravvicinata. La Regione propone, il governo dispone.

Il meccanismo della c.d. autonomia differenziata consente dunque all’esecutivo di punire, negando intese, i territori riottosi; al tempo stesso è lo strumento tecnico-politico per assegnare risorse solo a chi è fedele, sottraendole a chi invece si oppone. Realizza, sotto la veste di un apparente decentramento, il controllo sulla popolazione, accompagnando per via legislativa, la transizione, legittimando privatizzazioni, sottrazione di risorse comuni, precarizzazione, allargamento della forbice ricchi/poveri. Costruire questo passaggio con legge ordinaria abbatte il rischio referendario: a differenza di quello “costituzionale”, che non ha quorum per la validità della consultazione, questo  sull’autonomia differenziata (già di ammissibilità dubbia) impone (in tempi di crescente abbandono delle urne) la partecipazione del 50% dell’intero corpo elettorale, italiano o estero che sia.

Probabilmente le reali conseguenze di questo provvedimento non sono ben chiare neppure a chi le sta varando: FdI le considera strumento di controllo e pressione (o magari di ricatto), la Lega sogna di fare un trampolino per il rilancio dei consensi nel nord Italia. Sono miopi, rischiano entrambi la sorte dell’apprendista stregone, agiscono sereni per via della bonaccia. Ma, dopo la bonaccia, prima o poi, arriva la tempesta. Può passare a volte un tempo infinito, è vero; ma altre volte basta un attimo e arriva, imprevisto, un tifone. Specie durante le guerre e le transizioni.

L’articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2024 su Effimera 

Immagine in apertura: “Sea in the moonlight” (1827-1828) di Caspar David Friedrich

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Un colpo di genio

(Si fanno delegare e pagare dalle vittime)

di Gianni Giovannelli

O si deve , invece, accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell’assurdo?

(Albert Camus, Il mito di Sisifo)

Il sostituto procuratore di Milano, dottor Paolo Storari, con provvedimento cautelare urgente, affidato per l’esecuzione alla Guardia di Finanza, ha disposto il commissariamento della società Mondialpol, fra le principali strutture d’impresa nel settore della vigilanza, con migliaia di dipendenti. L’iniziativa segue, a brevissima distanza, quella analoga nei confronti di un altro colosso che opera nel medesimo segmento, Servizi Fiduciari, del gruppo Sicuritalia.

L’indagine parte da un dato oggettivo, ovvero la ridottissima retribuzione corrisposta ai dipendenti, assunti per svolgere compiti di sorveglianza su committenza di importanti aziende, quali ad esempio Banca Intesa San Paolo o Poste Italiane, per citarne due che in questo periodo di declamata crisi economica si sono distinte sia per il notevolissimo incremento del profitto sia per la decisa ferma opposizione a qualsiasi aumento dell’imposizione fiscale a loro carico (la cosiddetta tassa sugli extra profitti qualunque sia il significato di questa espressione gergale, oggetto di molto sproloquio e di nessuna pratica applicazione). Il crimine contestato è lo sfruttamento di prestazione lavorative abusando di una posizione dominante, dunque con un sostanziale violento ricatto. L’indagine è a modo suo semplicissima, proprio perché fondata su fatti noti e documentali: orario e salario non sono per nulla occulti o occultati, ma costituiscono l’applicazione di patti stipulati fra imprese e sindacato.

Tre sono i contratti collettivi applicati al personale ingaggiato – non in nero o comunque di nascosto – in questa vasta area che è funzionale al controllo e alla tutela dell’attività terziaria, arretrata e/o avanzata, pubblica e/o privata. Il CCNL conosciuto come servizi fiduciari è quello caratterizzato dai minimi più bassi, 980 euro lordi mensili per la categoria più diffusa (la D), detratte le ritenute fiscali e previdenziali diventano 685 euro netti per 13 mensilità, a fronte di 173 ore mensili di lavoro (tempo pieno). Lo hanno firmato CGIL e CISL, senza la UIL. Come ben spiega la sentenza 21 febbraio 2023 del Tribunale di Milano anche gli altri due contratti collettivi di categoria (firmati da UIL e UGL), pur discostandosi sul quanto non lo fanno in misura significativa e comunque sono ben lontani dal quel minimo vitale che secondo l’articolo 36 della Costituzione italiana deve ritenersi assolutamente inderogabile. L’estensore della sentenza è un magistrato con una certa esperienza sul campo (il dottor Tullio Perillo) e soprattutto con una giurisprudenza personale assai prudente, attenta a non sconfinare in affermazioni troppo radicali, sempre misurata. Non siamo di fronte ad una iniziativa clamorosa di un Giudice comunista che strappa le regole in vigore con lo scopo di fornire le basi a una rivoluzione sociale; prevale anzi il richiamo di precedenti consolidati in tema, di principi costantemente recepiti anche dalla Corte di Casazione. La conclusione cui perviene il Giudice con questa sentenza non consente equivoci: tutti e tre i contratti collettivi prevedono compensi per il lavoro svolto inaccettabili e illeciti, dunque nulli e privi di effetto vincolante, perché non consentono al prestatore, in violazione della norma costituzionale, di vivere un’esistenza qualificabile (almeno economicamente) come dignitosa (per quanto modesta).

Tutte le organizzazione sindacali, sottoscrivendo le tre diverse stesure, hanno firmato – afferma il Tribunale – un patto illecito con le imprese: la quantificazione deve essere rimossa e sostituita con un parametro conforme a diritto, che la sentenza poi quantifica in un aumento di (circa) 300 euro lordi mensili, onde collocare più in alto l’assicella del corrispettivo, tenendo conto della soglia di povertà. A conferma del taglio prudente di esame fatto proprio dal Tribunale il minimo vitale individuato da ISTAT viene invece ritenuto troppo elevato, in ragione delle retribuzioni medie percepite dal precariato italiano, che sappiamo essere il peggio pagato e per giunta in costante peggioramento.

La procura di Milano, disponendo il commissariamento  di Mondialpol e Servizi Fiduciari mediante controllo giudiziario, ha preso in considerazione innanzitutto gli accordi economici che tutte le organizzazioni sindacali (escluse naturalmente quelle c.d. di base che non hanno accesso alla trattativa nazionale); sono dati oggettivi, sotto gli occhi di tutti, mai messi in discussione dai servizi ispettivi ministeriali, dalle istituzioni pubbliche in occasione delle gare d’appalto, dagli economisti e dai giuslavoristi di regime che offrono consulenza al governo e alle autorità territoriali. La prova del crimine è la stipula di un contratto collettivo firmato dalle organizzazioni dei lavoratori più rappresentative, quelle ammesse al CNEL. A fronte di paghe così basse, tali da non consentire neppure vitto e alloggio, i dipendenti – afferma la procura dopo averli sentiti e interrogati in una sorta di anomala conricerca – sono di fatto costretti con violenza ad accettare lo straordinario in misura esagerata, a starsene zitti per evitare ritorsioni, a piegarsi ad ogni richiesta datoriale. Il commissariamento dell’amministrazione d’impresa viene indicato quale unico strumento tecnico possibile per imporre l’adeguamento del percepito da molte migliaia di lavoratori, sottraendoli allo sfruttamento intensivo che i loro rappresentanti sindacali si ostinano a considerare giusto.

Ci troviamo di fronte ad un contrasto inusuale. La procura inquirente ritiene che i minimi salariali applicati nel settore della vigilanza siano un crimine da perseguire; i sindacati confederali (e con loro UGL) resistono sulle loro posizioni e hanno firmato, di recente, il 30 maggio 2023, il rinnovo, con l’adesione pure di Lega Coop, ottenendo nelle assemblee l’approvazione delle vittime del reato, con una larghissima maggioranza (80% dei votanti), come sempre avviene nelle dittature. Eppure l’aumento previsto nel rinnovo mantiene le retribuzioni molto al di sotto della quota ritenuta in giurisprudenza come limite possibile non valicabile in peggio. Si tratta nei segmenti più fortunati di circa 140 euro lordi (meno di 100 euro netti), spalmati in cinque tranche da oggi al 2026. Ma la prima tranche (50 euro lordi) mangia i 20 euro di copertura anticipata già in provvisorio vigore, mentre la più bassa categoria F vale come ingresso e dura 18 mesi. Ove prima di delitto effettivamente si trattasse (come sostiene la procura) il delitto anche oggi permane e le organizzazioni sindacali con l’accordo contribuiscono attivamente a perpetrarlo.

Abbiamo citato un precedente, significativo, della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano, condiviso nei suoi presupposti dalla procura inquirente che agisce contro Mondialpol e Servizi Fiduciari. Non è l’unico. La Corte d’Appello milanese (riformando una precedente decisione negativa del Tribunale) con sentenza n. 580/2022 ha sancito i medesimi principi, ordinando anzi l’applicazione d’imperio del contratto c.d. multiservizi , ancora più oneroso per le imprese; e la Terza Sezione del TAR Campania con sentenza n. 1488 del 7 marzo 2023 ha stabilito che le gare d’appalto pubbliche debbano recepire questo indirizzo nei bandi. Ma, va detto, l’orientamento non è per nulla univoco, esistono decisioni di segno contrario, anche a Milano. Tre sentenze (1495/2023, 1924/2023, 1495/2023) hanno respinto le domande dei lavoratori sul presupposto che la firma sindacale legittimi in ogni caso il quanto previsto negli accordi, inteso come giusto per sua stessa natura, a prescindere dalla Costituzione. I lavoratori, intimoriti dalle conseguenze di un cammino giudiziario incerto costoso lungo e zeppo di pericoli, si tengono in disparte rinunziando ad ogni pretesa per non rischiare di perdere quel poco che hanno. In parlamento si preparano del resto al rigetto della proposta di salario minimo a 9 euro lordi orari, con larghi settori del PD apertamente contrari e un segmento di opposizione (Italia Viva) che sostiene la maggioranza meloniana. L’argomento più utilizzato per negare il varo di un salario minimo orario (fatto proprio pure da molti sindacalisti di parte lavoratrice) di cui usufruirebbero bel 4,5 milioni di dipendenti oggi sotto la soglia si articola in duplice aspetto: il salario minimo incoraggia il lavoro nero e sottrae forza alle organizzazioni dei lavoratori. Sono considerazioni non solo arroganti e infondate, ma anche segnale di un cinismo grottesco e disgustoso.

Le organizzazioni sindacali firmatarie del rinnovo (CGIL, CISL, UIL, UGL) ricevono dalle loro vittime una quota mensile per l’iscrizione e delega a rappresentarle; le aziende provvedono alla trattenuta in busta paga versando il prelievo nelle casse sociali. Non sono semplicemente degli sprovveduti, sono complici. Per uno strano gioco del destino il carnefice viene eletto e finanziato dai precari perseguitati, li rappresenta, si serve di loro per sedere alla tavola del potere; bisogna riconoscere che c’è del talento, forse anche del genio, in tanta spietata efferatezza.

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Crisi, transizione e accumulazione

(Il fantasma di Elisabeth Sutherland)

di Gianni Giovannelli

Fury, rage madness in a wind
sweet through America

(William Blake, America, X)

Dentro l’attuale transizione – durante il passaggio, cioè, dal vecchio modo di produzione fordista all’attuale struttura economica finanziarizzata – assistiamo, in sequenza, variegata ma continua,  all’attuazione di scelte istituzionali e di decisioni imprenditoriali che concretano un progetto di accumulazione originaria, naturalmente aggiornato e contestualizzato, così da poter essere lo strumento con il quale il nuovo assetto capitalistico intende ottenere un dominio pieno e incontrastato, piegando alle proprie esigenze di profitto gli abitanti di ogni territorio. Come nel passato anche questa nuova accumulazione deve caratterizzarsi necessariamente in una acquisizione coattiva e violenta delle risorse monetarie (ma non solo monetarie) da mettere in circolazione, per impiegarle e trasformarle in (plus)valore. L’evento eccezionale consente, direbbe Carl Schmitt, l’uso dello stato di eccezione da parte dell’istituzione politica; in effetti tutti i governi, compreso quello italiano, non esitano ad invocare come inevitabili misure qualificate straordinarie  nel momento della loro introduzione, ma concepite invece fin da subito come permanenti. La moderna forma stato, in tutte le sue concrete sedimentazioni e pur con indubbie differenze, vive in simbiosi con la crisi, di essa si nutre, tanto che, quando tarda a manifestarsi o si presenta troppo tenue, viene sollecitata, provocata, stimolata, accresciuta rimuovendo i freni. Per sottomettere la moltitudine precaria e meticcia, e vincere lo scontro aperto in questa transizione, la violenza assume un ruolo strategico, il capitale non può non usarla che a piene mani; il ricorso a metodi tipici dell’accumulazione originaria non è affatto un ritorno al passato o, tanto meno, una rievocazione del fascismo inteso come riproposizione di un sistema ormai consegnato alla storia del secolo scorso. Le suggestioni nostalgiche proposte da segmenti reazionari e/o razzisti nei parlamenti europei vengono usate, in congiunzione o in contrapposizione controllata, insieme alle istanze liberal(i) volte ad ottenere trattamenti paritari nelle società civili. È dunque l’invenzione di un moderno dispotismo, assai articolato nella sua formale veste giuridico-statuale, molto simile nei suoi interventi di gestione politico-economica a breve termine. Il vecchio fordismo era un sistema dotato di una sua stabilità, a patto che si salvaguardasse la permanenza dell’aumento di produttività, per consentire l’incremento contemporaneo del salario reale e del profitto. Tuttavia, a partire dagli Anni Ottanta, si è consolidato il capitalismo cognitivo e finanziarizzato, poi evoluto in un capitalismo delle piattaforme; ma ciò ha comportato anche una instabilità strutturale, non rimuovibile con i provvedimenti di tipo fordista. È la crisi che alimenta il capitalismo, non viceversa: per questo proprio durante l’insorgere di una crisi il capitalismo si rivitalizza, cresce e non soffre.

Questo spiega la mobilità contraddittoria delle alleanze, il continuo mutamento delle ideologie rivendicate (sovranismo, monarchia, parlamentarismo, presidenzialismo e così via), la coerenza nell’incrementare la spesa militare e nell’attaccare il sistema di diritti sociali, ogni forma di residuo welfare (per quanto attenuato). Neppure vi è contraddizione fra un alto livello di sviluppo scientifico-tecnologico e l’utilizzo, dentro la transizione, di meccanismi tipici dell’accumulazione originaria, per accelerare il processo di trasformazione e/o incrementare il profitto. Anzi. Per riuscire a mettere a valore l’intera esistenza della generalità degli abitanti di un territorio è utile togliere loro ogni risorsa, sottrarre qualsiasi diversa alternativa, perfino quella di autarchica autonomia mediante piccole collettività insediate in luoghi appartati. Il capitale del XXI secolo è più feroce di quello che lo ha preceduto, non concede tregua, non tollera diserzioni  e resistenze, in nessuna forma e di nessun genere.

La duchessa di Sutherland

Il 21 gennaio 1853 uscì sul diffuso quotidiano New York Daily Tribune, espressione della linea politica antischiavista, un articolo di Karl Marx, al solito irriverente e ironico, che poneva all’attenzione del pubblico la figura della (defunta) duchessa scozzese Elisabeth Sutherland (1765-1839) e, sia pure indirettamente, del marito George, esponente del movimento Whig in cui pure si riconosceva il foglio che ospitava il pezzo (nota 1). C’era clima di crisi in quei giorni; dopo le elezioni la maggioranza si reggeva per soli sei voti, il tasso di sconto era cresciuto, i cereali scarseggiavano per via del cattivo raccolto, montava la speculazione su ferro e ghisa scozzese con crescita esponenziale del prezzo di mercato, non si placava la polemica sulla schiavitù avvicinando il tempo della ormai inevitabile guerra civile americana. Il liberalismo inglese era schierato per l’abolizione, con molta foga, senza tuttavia concedere nulla ai “liberi operai” del Regno Unito, che, in patria, subivano una costante repressione e angherie di ogni sorta. Marx non perse una ghiotta occasione per mettere i democratici europei alla berlina, rievocando quanto era accaduto, fra il 1814 e il 1820, nelle Highlands grazie alla sua duchessa, Elisabeth. L’articolo spiega come funziona in concreto il meccanismo di accumulazione originaria, dalla teoria alla pratica; e per questo rimane utilissimo anche oggi.

Pecore al posto di umani

Nel 1814 la duchessa di Sutherland ereditò i vasti territori delle isole; ci vivevano 3.000 famiglie, per un totale di circa 15.000 anime, e la terra era in uso comune, non del singolo agricoltore ma della collettività che abitava il territorio, nel suo insieme. Nessuno pativa la fame, il costo dell’affitto era modesto, sostenibile. Un illuminista scozzese, Dugald Stewart (1753-1828), calcolò che un campo coltivato nelle Highlands forniva sostentamento a un numero di persone dieci volte superiore rispetto ad uno di grandezza identica situato nelle province più ricche del Regno Unito (opere, volume 1^, capitolo XVI).

Purtroppo per gli abitanti l’agricoltura rendeva meno del pascolo alla duchessa, che, fra il 1814 e il 1820, ordinò di bruciare e distruggere i villaggi scatenando l’esercito contro chi resisteva alla deportazione e non esitando a passare i ribelli per le armi. Quindicimila Gaeli furono sostituiti da 131.000 pecore, divise in 29 allevamenti affidati a 29 famiglie (per lo più inglesi) che sostituirono le tremila indigene. I superstiti si videro assegnare seimila acri (poco meno di 15.000 ettari) abbandonati e incolti, ma non più in gestione collettiva bensì dietro pagamento di un elevato compenso per uso solo singolo. Gli esseri umani erano impoveriti, ma i profitti invece risultavano assai cresciuti, con l’aggiunta anche di una rendita fondiaria. La duchessa Elisabeth era una convinta abolizionista, sosteneva le ragioni degli antischiavisti già nei primi anni del suo secolo; evidentemente la filantropia, come ai giorni nostri, cerca beneficiati il più possibile lontani da casa propria!

Dispotismo e accumulazione primitiva

In un arco di tempo ridotto (2020-2023) si sono susseguite e accavallate tre crisi diverse, tutte con effetti e conseguenze di notevole peso per i soggetti che le hanno subite e per l’economia nel suo complesso: pandemia/sindemia, guerra russo/ucraina, banche/moneta/inflazione. Il neo-capitalismo finanziarizzato ha colto l’occasione per forzare le tappe del processo di sussunzione già avviato, attaccando ogni resistenza, ogni possibile opposizione.

L’emergenza sanitaria ha consentito, nel biennio 2020-2021, di limitare il diritto di critica e di sciopero, di accelerare ulteriormente la compressione dei salari e la precarizzazione anche mediante provvedimenti per decreto, di introdurre la delazione (intesa quale dovere civico) nelle comunità territoriali, di aggredire la sanità pubblica consegnando a quella privata ingentissimi profitti con imposizione fiscale agevolata grazie agli accordi europei sul costo del vaccino e sulle modalità di pagamento (ma anche grazie alle convenzioni nazionali sulla cura e sul costo dei farmaci). L’ingerenza dell’autorità, imposta agitando il timore del contagio, si è consolidata in un accettato autoritarismo e questo va evolvendosi in un moderno dispotismo che non ammette forme di reale opposizione o resistenza. Il governo, dentro la pandemia, poteva decidere con totale discrezionalità quel che si era autorizzati a produrre e/o vendere; in quei giorni le imprese della logistica e delle armi non subirono alcun fermo o limitazione, benché depositi e fabbriche si trovassero in località epicentro del contagio, con incremento geometrico dei profitti di quei settori merceologici. Perfino i vaccini e gli autisti furono in qualche modo “militarizzati”.

A seguire, dal febbraio 2022, la guerra in Ucraina ha consentito (e giustificato ideologicamente nella comunicazione) un formidabile attacco alle condizioni di vita dei ceti popolari. L’aumento dei costi dell’energia elettrica è stato il pretesto per una crescita incontrollata del prezzo dei generi di prima necessità, quali pane, pasta e frutta; l’incremento del costo di gestione delle autovetture private e del riscaldamento domestico ha colpito soprattutto i redditi più bassi; in generale i maggiori oneri provocati dalle sanzioni antirusse hanno comportato, per naturale conseguenza, un prelievo a strascico di risorse, sottratte ai meno abbienti, che si è poi concretato in un rilevante allargamento della forbice ricchezza/povertà e, al tempo stesso, in profitti enormi sia per i monopolisti dell’energia sia per quelli dell’industria militare, che già godevano di posizioni privilegiate. Il costo del gas era pari ad Euro 0,084 nel terzo trimestre del 2020, poi era salito ad Euro 0,285 nel terzo trimestre del 2021 (ancora anteguerra), toccando il picco di 1,247 nel dicembre 2022 (dopo l’attentato alle condotte) per poi scendere ad Euro 0,608 nell’aprile 2023 (in regime di tutela). Al termine dell’operazione complessiva (che ha consentito guadagni immensi) il prezzo dell’erogazione rimane comunque almeno sette volte superiore a quello del 2020, ma non troppo dissimile da quello di inizio guerra, segno palese di una crisi fraudolenta. Il conflitto fra Russia e Stati Uniti, trasformato dalla propaganda dei due governi in guerra patriottica, si è risolto in una generalizzata riduzione del livello medio di vita, in un impoverimento complessivo che rende più debole la resistenza dei corpi messi a valore e più forte il dominio sulle esistenze dei subordinati.

Ed ora le conseguenze dei fallimenti bancari americani si vanno legando all’inflazione già in essere durante la guerra, al minor costo del lavoro, alle fluttuazioni monetarie, esaltando uno stato di crisi i cui costi sono risolti con il vistoso ulteriore calo della spesa pubblica, con il taglio di residue forme di Welfare, con sempre più diffuse forme di prelievo che invadono ormai l’area dei trattamenti previdenziali e perfino pensionistici.

Il susseguirsi delle crisi diviene, con sempre maggiore evidenza, lo strumento necessario per attuare il disegno neocapitalistico di finanziare il costo della transizione mediante forme moderne della storica accumulazione originaria. E poiché la violenza assume un ruolo strategico in ogni passaggio di accumulazione c.d. primitiva, non può stupire la scelta di usare la guerra su larga scala territoriale (non solo in Ucraina!) e la coazione come strumento di governo (il dispotismo: quello democratico, quello teocratico, quello liberista, quello del c.d. socialcomunismo reale). In veste nuova siamo di fronte alla formazione violenta del capitale nella transizione.

La questione del salario minimo

Il recente rapporto OIL (Organizzazione Internazionale Lavoro) presentato a Roma il 22 dicembre 2022 conferma il continuo processo di riduzione del salario in Italia; fra il 2019 e il 2022 la fascia di retribuzione più bassa è passata da 9,6% a 10,5%, certificando come anche all’interno degli occupati sia in aumento la povertà. Durante la doppia crisi pandemia-guerra, per la prima volta nel XXI secolo, nel corso del 2022 la diminuzione del salario reale è registrata su scala mondiale, sia pure in piccola percentuale; in Italia l’erosione del salario è stata di 6 punti percentuali (12 punti nel periodo 2008-2022). I dati forniti dall’OCSE nel 2021 (a pandemia in corso) confermano come l’Italia sia l’unico paese europeo in cui le retribuzioni di fatto siano diminuite nel trentennio 1990-2020 (2,9%); per contro la Lituania (che però partiva da una base assai contenuta) mostra una crescita del 276%, la Grecia del 30,5% e la Spagna del 6,2%. Sono in linea i dati ISTAT: fra il 2007 e il 2020 le entrate reali dei lavoratori sono scese almeno del 10%, mentre sono cresciute le imposte a loro carico del 2% e si è invece ridotto l’importo previdenziale a carico delle imprese (4%). Con poche eccezioni nel pianeta lavorare porta meno introiti e lo sciame precario -se si tiene conto del costo necessario per esistere- si avvia verso una povertà democratica (nel senso di ugualitaria) che pone all’ordine del giorno la questione del salario minimo come argine al peggio visibile osservando l’orizzonte.

Le organizzazioni sindacali, con sempre meno iscritti, mostrano segni di evidente debolezza e di propensione al cedimento inteso come male minore (a prescindere dai crescenti episodi di patrocinio infedele o di corruzione, che, per quanto ignobili, non spiegano tuttavia quanto sta avvenendo). La contrarietà del sindacato all’introduzione di una soglia di salvaguardia a tutela di chi vive lavorando viene motivata, in modo per la verità assai poco convincente, con la necessità di non rompere il fronte dei lavoratori uniti, difendendo l’istituto del contratto collettivo ed evitando l’atomizzazione delle retribuzioni. Ma sul campo un simile progetto è rimasto senza riscontro, è apparso senza gambe per camminare, mettendo solo a nudo l’incapacità di reagire al costante attacco del moderno capitale. Significativa appare la pronunzia della Corte d’Appello di Firenze (sentenza n. 68 del 28 marzo 2023) che ha dichiarato la nullità del CCNL sottoscritto da CGIL CISL e UIL per il settore dei Servizi Fiduciari, ravvisando nei minimi retributivi accettati dalle OO.SS. la violazione del precettivo articolo 36 della Costituzione in punto di un c.d. minimo vitale. Utilizzando quale parametro di adeguatezza la soglia di povertà individuata da ISTAT  e esigenze minime di un essere umano vivente in Toscana la Corte (una Corte peraltro tradizionalmente prudente nelle sue statuizioni) ha rilevato che il corrispettivo previsto dal contratto nazionale di settore si collocasse in una fascia inaccettabile secondo i principi della nostra Carta. E’ il segnale di una crisi operativa dell’istituzione-sindacato, di una abdicazione che lascia scoperta la casella di quel ruolo che nel secondo dopoguerra era stato tradizionalmente riconosciuto dai governi occidentali.

È ben vero che il limite dell’art. 36, almeno in astratto, dovrebbe garantire a tutti, senza bisogno di una norma specifica, il salario minimo; ma si tratta in realtà di pura ipocrisia, non è pensabile che per ottenere in concreto il risultato un lavoratore sottopagato debba ingaggiare un legale e rivolgersi, senza risultati certi, a un Tribunale! Dunque si pone come un obiettivo necessario e realistico quello di rivendicare una chiara legge, di poche righe, che imponga una soglia minima inderogabile a compenso dell’ora e della giornata di lavoro effettivo (in tempi di lavoro intermittente, di prestazione da remoto, di esecuzione spesso discontinua il riferimento non può essere solo orario, ma in alternativa anche giornaliero). Non è certamente un programma rivoluzionario, ma, in una situazione di debolezza e di trincea difensiva, pare oggi anche l’unico che può trovare gambe per camminare e conquistare vasta adesione.

La povertà in aumento è una scelta lucida del potere, non un incidente di percorso.

Le crisi che caratterizzano questo terzo decennio del secolo hanno accelerato sia l’allargamento della forbice fra ricchezza e miseria sia l’incremento al momento inarrestabile della quota di soggetti costretti ad un’esistenza indigente. La fascia di povertà assoluta (629,29 Euro mensili, ISTAT, 2021) toccava già 1,9 milioni di famiglie, 5,6 milioni di persone, il 7,5% degli abitanti in quella che Giorgia Meloni chiama nazione italiana (CENSIS, 2 dicembre 2022)La povertà relativa (qui il parametro varia, possiamo collocarla intorno a 826,7 Euro) comprende 2,9 milioni di famiglie, 8,8 milioni di persone, 11,1% del paese. Entrambe crescono senza sosta, l’ISTAT valuta in 18 milioni i soggetti a rischio; il CENSIS (ultimo rapporto sulla situazione sociale in Italia) ritiene, in ragione dei dati acquisiti, che gli individui soggetti al rischio di povertà o di esclusione sociale o in condizioni di grave deprivazione sono ormai il 25,4% della popolazione (uno su quattro), e il 32,4 fra gli stranieri (uno su tre).

Contribuisce all’impoverimento complessivo il costo di un bene necessario quale è la luce elettrica per uso domestico. Le fonti statistiche ARERA evidenziano un costo pari a 18,84 Euro per KW/H nel 2016, sceso a 16,08 nel 2020, poi impennato a 46,3 Euro e a 66,01 Euro nel 2022 (crisi di guerra) per poi assestarsi nel 2023, dopo il prelievo forzato, a 23,75 Euro. Dopo il referendum lo stato, per una sorta di vendicativa ritorsione, ha deliberatamente omesso di investire sulla manutenzione della rete idrica; per conseguenza le perdite aumentano e (in piena crisi di siccità) si collocano ora ben oltre la soglia del 40% (almeno 42% secondo ISTAT) e almeno 18 milioni di residenti non hanno collegamento con la rete. L’Istituto di Statistica segnala che il 28,4% della popolazione non beve acqua di rubinetto perché “non si fida” consentendo all’industria legata a quella minerale un aumento quasi geometrico del profitto, godendo di concessioni scandalosamente a buon prezzo, senza alcuna concorrenza del pubblico. L’impoverimento genera profitto, l’impoverimento crea valore.

Casa e risparmio: il cerchio si chiude

Il rapporto Federproprietari-Censis del 12 dicembre 2022 indica una percentuale di chi vive nella casa di proprietà pari al 70,8%, mentre il 20,5% abita in locazione (la parte residua in usufrutto o per diverse ragioni senza versare corrispettivo). Fra il 2010 e il 2019 il prezzo medio degli immobili è cresciuto del 19,4%, mentre in Italia, proprio per la maggior diffusione della proprietà, è salito meno, del 16,6%. Al tempo stesso, nelle metropoli italiane (e non solo nelle metropoli) cresce la propensione all’investimento immobiliare, attirando capitale estero. Con l’inflazione, e dentro la crisi degli istituti bancari privati americani, il capitalismo contemporaneo aggredisce il risparmio di famiglia (caratteristica molto italiana, per qualità e quantità); con l’aumento dei costi di gestione delle case in concreto abitate e il contemporaneo disegno europeo di ristrutturazione energetica coattiva si prepara l’aggressione a questa ulteriore sacca di resistenza popolare.

La spesa militare – cresciuta fino a 28,7 miliardi, ovvero 1,54% del PIL – assorbe ogni investimento e lo sottrae sia alla sanità, sia alla ricerca, sia ovviamente al c.d. sociale. La crisi di guerra viene evocata per legittimare come inevitabile una scelta che invece la precede, con una continuità incontestabile fra governo Draghi e governo Meloni. La soppressione di quel che residuava del modesto reddito di cittadinanza si colloca con assoluta coerenza nel piano generale in via di attuazione.

Sussunzione formale e sussunzione reale si intrecciano, in attesa che il mosaico del dispotismo che caratterizza questo susseguirsi di crisi dentro la transizione consenta alla seconda di inglobare la prima. La rimozione di ogni sicurezza e il costante incremento dell’area di povertà (relativa e assoluta) sono la via violenta per mettere l’esistenza a valore; ancora una volta la violenza si rivela una forza produttiva. Il fantasma della duchessa Elisabeth Sutherland si aggira in Europa, anzi nel pianeta.

NOTE
1. Marx Karl, “La duchessa di Sutherland e la schiavitù”, in Opere, 2021, volume 11, pag. 511, traduzione di Elsa Fubini.

L’articolo è stato pubblicato il 2 maggio 2023 su Effimera e in contemporanea su Machina-DeriveApprodi e su El Salto tradotto in spagnolo.

Foto di RMN da wikimedia

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Appunti per una critica del diritto prossimo venturo

Sciopero alla Fiat, Torino 1943

di Gianni Giovannelli

Fu un linguaggio del dispotismo e della tirannia il dire che la sola regola della legislazione è la volontà
del legislatore.
Gaetano Filangieri
(La scienza della legislazione, I, III Napoli, Raimondi, 1780)

Costituisce un dato di fatto, oggettivo e incontestabile, che siano in corso mutamenti profondi nella legislazione italiana e che questi mutamenti trovino un puntuale riscontro anche negli altri territori del pianeta, perfino a prescindere dalle diverse strutture politico-istituzionali. Non si tratta di una generica stretta repressiva limitata al diritto penale, come un esame soltanto superficiale potrebbe indurre a credere; la trasformazione – di questo si tratta come ogni giorno appare sempre più evidente – si estende all’insieme complessivo delle norme ordinamentali, civili, amministrative, lavoristiche, marittime, militari, interstatuali.

Il mutamento

Scricchiola e vacilla il tradizionale riferimento ai codici e perfino alle costituzioni, ovvero a uno stabile quadro di regole dei rapporti contrattuali e sociali, dentro un orizzonte temporale tale da consentire una qualche programmazione esistenziale. Certo: le guerre, le catastrofi naturali o le epidemie potevano imporre il varo di provvedimenti eccezionali, ma con l’intesa che poi sarebbe tornata la normalità. Perfino la Seconda guerra mondiale non riuscì a cancellare questa concezione dei patti di convivenza, nata durante il terremoto napoleonico e articolatasi nel concreto in mille diverse versioni. L’attuale capitalismo, rinnovato e finanziarizzato, procede invece, con determinazione, nel perseguire questa radicale mutazione, ritenuta ormai necessaria al processo di valorizzazione; non intende rallentare e tantomeno fermarsi.

La pandemia, la guerra – ormai endemica e diffusa, non limitata alla punta ucraina – e la crisi, anch’essa a carattere permanente, sono un fattore di accelerazione, utilizzato con crescente professionalità nelle singole situazioni dagli addetti alla cabina di controllo e di comando. La pandemia ha generato ansia, timore, soprattutto un senso di rassegnazione servile, di accettazione della subordinazione quale unica possibile via di sopravvivenza. La guerra ha aggiunto una preoccupata insicurezza (per le fonti energetiche e per i rischi atomici) su cui viene coltivato sapientemente l’odio in luogo della solidarietà. Infine la crisi ha allargato la forbice fra ricchi e poveri, ha logorato il vecchio welfare e consentito tramite inflazione il prelievo del risparmio, così andando a indebolire la resistenza delle famiglie popolari, costrette ad accettare condizioni lavorative e retributive in costante peggioramento; le organizzazioni sindacali assistono, o impotenti o qualche volta complici, al disastro, comunque senza reagire.

La scelta del capitale

La scelta del capitale – e dei diversi esecutivi incaricati di mantenere l’ordine, pur variando il metodo per giungere allo scopo – par essere quella di un moderno dispotismo, adattato al territorio in cui si cala. Si tratta di una forma istituzionale adottata, per fatti concludenti, dalla teocrazia iraniana, dai laburisti australiani, dai nazionalisti indiani, dai comunisti cinesi e, ora, in continuità con Draghi, dai neofascisti italiani. Siamo in presenza di un concetto aggiornato di quella che viene definita come costituzione materiale. Come aveva intuito quasi duecentocinquant’anni or sono il nostro Filangieri, giurista geniale, il mezzo per imporre una sostanziale tirannia del più forte (economicamente e militarmente) consiste in una legislazione caratterizzata, in via principale, dalla sola volontà del legislatore insediato nelle sale del potere. Al tempo stesso un meccanismo di estrazione del valore (con esproprio dei frutti della cooperazione sociale) fondato sulla conquista dell’esistenza e dei corpi non può sopravvivere senza la sopraffazione che assicura il controllo; al cittadino della borghesia fordista subentra il suddito, diviso per separati segmenti (religione, ideologia, etnia, genere, nazione, censo).

Ricomposizione e repressione

Il nemico del capitale è la ricomposizione che si annida dentro la resistenza, dentro la protesta; la miscela di rivendicazioni, diritti certi, solidarietà, unità ed emancipazione rischia sempre di trasformarsi in rivolta e va disinnescata prima di esplodere, non dopo. La repressione del dissenso risponde dunque, nella fase attuale di transizione, al duplice scopo di assicurare il controllo e di incrementare la produzione sociale complessiva. Al tempo stesso l’attacco al welfare, il saccheggio del risparmio, l’esproprio di ricchezza collettiva consentono di recuperare risorse con cui far fronte ai costi delle singole crisi. Alla pianificazione del socialismo reale e del liberalismo fordista – fondata in entrambi i casi sul consenso, sul contratto e sulla certezza del diritto – si sostituisce, in ogni regime attuale, nessuno escluso, un orizzonte normativo di breve respiro, mobile, modificabile, piegato alle esigenze della crisi e a quelle del profitto. Un comportamento lecito può, per volontà del legislatore al comando, diventare illecito; le sanzioni possono essere cancellate, alleviate o aggravate per decreto di governo, secondo le oscillazioni della moneta o della carenza di materia prima; il patto o il contratto, anche fra privati, può essere rimosso, annullato, modificato dall’autorità.

Variazioni del diritto

Il sistema delle norme, dei diritti e delle obbligazioni diventa, nell’attuale assetto capitalistico, soggetto a sbalzi quotidiani come fosse una quotazione in borsa: il mercato si è impadronito della legislazione, rendendola fluttuante, abbattendo ogni certezza.

Dopo la manovra finanziaria, con il decreto governativo di fine anno (30 dicembre), perfino inquinare diventa opinabile: nella produzione di acciaio quel che si vieta come veleno a Catania o a Firenze lo si consente (e impone agli abitanti) a Taranto e Priolo. Il legislatore, nel tempo del dispotismo, giunge così ad arrogarsi il potere di colpire la salute pubblica, di favorire i tumori, statuendo pure uno scudo penale (così i media di regime chiamano l’impunità) ai funzionari incaricati del crimine legalizzato in nome della produzione d’interesse nazionale. Assolti gli inquinatori e presumibilmente condannati coloro che cercheranno di opporsi al loro avvelenamento; in questa vicenda potrebbe tornar buono il severissimo apparato sanzionatorio auspicato in forma di decreto punitivo dalla seconda carica dello Stato, avvocato Ignazio La Russa, contro i giovani verniciatori di Ultima Generazione.

Nel paese degli Acchiappacitrulli, del resto, funziona proprio così; infatti Maya Bossier, giovane ribelle No Tav piemontese, dopo aver denunciato alla magistratura il poliziotto che le aveva tirato un cazzotto in faccia nel corso del fermo, ne ebbe puntuale conferma. Infatti il Tribunale di Torino (Giudice la dottoressa Costanza Goria) ha assolto il bastonatore e inflitto quattro mesi alla bastonata. Ancora: nessun risarcimento Inail riconosce a Giuliano De Seta, morto schiacciato in fabbrica durante lo stage, perché lavorava senza essere ancora stato promosso lavoratore da certificazione idonea. Al tempo stesso, tuttavia, una buona dose di carcere preventivo per i quattro ribelli che manifestavano contro la pericolosa insicurezza della legge di alternanza scuola-lavoro, senza rispetto per la gerarchia.

La legge del capitale

Questi episodi sono significativi, ma rientrano, in fondo, nel tradizionale indirizzo della cattiva giustizia italiana, sempre lesta nel punire i deboli e salvare i potenti, a volte dietro compenso, più spesso per convinzione. Ma quel che accade in questa fase della crisi è diverso da quanto avveniva in passato: alla violazione delle regole si sostituisce la cancellazione di norme giuridiche certe, rimettendo alla volontà dell’esecutivo la decisione in ordine al confine fra lecito e illecito, alla scelta di assolvere o punire, secondo le convenienze contingenti di governance e produzione. Questo processo è articolato, non è univoco, viene attuato per segmenti: sia con decisioni della magistratura sia con disposizioni normative sia ancora con interventi di carattere amministrativo. C’è del metodo in tale confusa strategia legata a obiettivi contingenti di brevissimo periodo, ma al tempo stesso mirata ad annientare il dissenso prima che diventi un fatto, criminalizzando come antisociale ogni tentativo di opposizione al regime.

Criminalizzazione continua

Questa è la scelta del capitale dentro la crisi e dentro la transizione in corso: trasformare qualsiasi esperimento sul campo di ricomposizione, di solidarietà e di unità in una associazione per delinquere. Lo strumento tecnico giuridico per tale piano del capitale è, in Italia, l’art. 416 del vecchio codice penale fascista (Regio Decreto 19.10.1930 n. 1398), interpretato con la necessaria disinvoltura nella sua concreta applicazione, fino a innovarlo e stravolgerlo. Lo schema del 416 è semplice: prevede, a carico di promotori e organizzatori e per ciò solo, la sanzione da 3 a 7 anni (e dunque consente le intercettazioni, telefoniche o ambientali) quando 3 o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti. Per i semplici partecipanti all’associazione (per il solo fatto di partecipare) la pena oscilla fra 1 e 5 anni di carcere. Questo è il grimaldello con cui, qui e oggi, il dispotismo forza il contenitore dei diritti residui, per rimuoverli e affermare il proprio pieno dominio.

Precedente di rilievo per questo filone giuridico è la sentenza n. 607/21 del Tribunale di Locri (Presidente il dott. Fulvio Accursio), a carico di Mimmo Lucano e di molti altri imputati; il reato associativo fu riconosciuto sussistente in una ipotesi di gestione dei fondi per lo sciame migrante in Calabria da parte di organismi no profit con le conseguenti durissime condanne oggi al vaglio d’appello (13 anni e 6 mesi al sindaco di Riace). Soprattutto, anche a prescindere dal caso specifico, fu l’occasione politica per criminalizzare l’intera rete del volontariato, dal salvataggio in mare al supporto tecnico di sportello fornito ai richiedenti asilo, fino all’assistenza sindacale durante lo svolgimento di lavori necessariamente precari. Questa operazione, nata e cresciuta quando il governo contava su larghe intese, prosegue ancora più violenta e astiosa con l’esecutivo Meloni (si consideri da ultimo il recentissimo decreto Piantedosi per contrastare le navi Ong).

A Piacenza nella logistica

Assai significativa è, successivamente, l’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari di Piacenza, dottoressa Sonia Caravelli, nel procedimento penale radicato dal Pubblico Ministero già nel 2016 (R.G. 1827/2016), contro i dirigenti dei sindacati di base nel settore della logistica (Usb e Si Cobas) e su impulso delle grandi imprese di settore (da Amazon a Gls). Per quasi sette anni i quadri sindacali furono costantemente pedinati, intercettati, tenuti sotto sorveglianza occulta, proprio in ragione dell’ipotesi criminosa a carattere associativo; il numero di ruolo assegnato dal Gip (2023/2021 e 2019/2022) certifica l’indagine come secretata per almeno 5 anni, dal 2016 al 2021, in attesa dell’occasione storica per utilizzare un tale archivio ancora oggi sottratto nella sua interezza alla difesa degli indagati. Non ha remore la dottoressa Caravelli nell’esprimere il suo punto di vista sui militanti sindacali: alimentavano attorno alle loro persone reti clientelari di lavoratori interessati alla stabilizzazione e volevano poi sostenerli con la forza ricattatoria del sindacato di appartenenza (il corsivo è citazione testuale del provvedimento). L’organizzazione delle lotte salariali diviene dunque associazione per delinquere, volta a commettere i reati tipici del conflitto fra capitale e lavoro: il picchetto (610 c.p., violenza privata), l’occupazione dei piazzali e l’invasione dei reparti (508 c.p.), il mancato scioglimento dell’assembramento (650 c.p.), l’interruzione del servizio di recapito (340 c.p.), la resistenza alla forza pubblica (337 c.p.), il disservizio nelle linee (513 c.p.), l’oltraggio al pubblico ufficiale (341 c.p.), il blocco stradale (la legge Togliatti del 1948 modificata dal D.L. 113/2018 di Gentiloni), il danno al pubblico servizio in genere (331 c.p.). Neppure il ministro di polizia più anticomunista della prima repubblica, l’avvocato Mario Scelba, nel suo lungo mandato (1947-53) era giunto a concepire un simile quadro accusatorio in danno degli scioperanti; al più usava la mitica Celere o, per i più riottosi, il battaglione Padova che interveniva secondo necessità un po’ dappertutto. Ora, in questa nuova e aggiornata versione, l’associazione per delinquere è quella che raccoglie i lavoratori interessati alla stabilizzazione (intesi come reti clientelari!) e i delitti che costituiscono lo scopo della struttura criminale sono quelli dello sciopero e del picchetto, mentre le lotte salariali diventano la costruzione di una forza ricattatoria.

Il capitalismo contemporaneo (delle piattaforme e della finanza) si discosta ormai dalla separazione sociale fra tempo di lavoro e tempo libero; l’intera esistenza dei corpi precari può, dunque deve, essere produttiva, va ricondotta dentro il complessivo processo di valorizzazione. Per questo, specie nell’ambito della crisi (o delle crisi) tutte le forme di dissenso diventano immediatamente nemiche del capitale e, pertanto, criminali.

L’occupazione di case a Milano

La quarta sezione del Tribunale di Milano (Presidente il dott. Giuseppe Fazio) ha accolto la tesi accusatoria del Pubblico Ministero dott. Leonardo Lesti e qualificato associazione per delinquere l’attività di Solidarietà Popolare nel quartiere del Giambellino. In pratica questa struttura territoriale fungeva da supporto agli occupanti di case popolari pubbliche, sfitte e abbandonate dall’Istituto, nel contempo dando vita ad attività culturali gratuite in zona. Secondo il periodico Internazionale su 2667 alloggi circa 900 risultavano vuoti; ma sostenere l’occupazione di quelli inutilizzati concreta associazione per delinquere e comporta nove condanne da 1 anno e 7 mesi fino a 5 anni e 4 mesi.

E il Tav

Non potevano, naturalmente, mancare nel mazzo i militanti contrari al Tav in Val di Susa: fallito ormai il tentativo della procura piemontese di colpire con la più nobile associazione sovversiva, la P.M. dottoressa Manuela Pedrotta si è servita del 416 c.p. ottenendo, dopo quasi tre anni di intercettazioni e pedinamenti, alcuni arresti nel corso dell’inchiesta chiamata «Sovrano»Si collocano fiduciosi in lista d’attesa i verniciatori di Ultima Generazione consapevoli che non tarderà l’intervento di qualche parlamentare in cerca di notorietà o di qualche magistrato solerte nei compiti assegnati dai tempi.

Decreto Rave

In linea con il disegno complessivo si pone, a fine anno, la conversione in legge con modifiche del decreto legge 31.10 2022 (c.d. decreto Rave), all’ultimo giorno, con la fiducia e l’aggiunta della cosiddetta ghigliottina (il nome rende bene l’idea di questo meccanismo parlamentare volto a tagliar corto e ad approvare in fretta qualunque cosa, senza necessariamente sapere di che si tratta). Rimane la pena da 1 a 6 anni, il che consente le intercettazioni, telefoniche e ambientali; rimane pure una certa vaghezza nel delineare l’area disciplinata dal decreto, il «raduno musicale» si presta a letture molteplici. In aggiunta all’occupazione arbitraria di terreni o edifici potrebbe infatti bastare la (inevitabile per gruppi spontanei non imprenditoriali) violazione della normativa (anche di un solo comma poco significativo!) sulla sicurezza e l’igiene (sterminata!) per far scattare la trappola accusatoria; anche i locali d’impresa (per prime le discoteche) incorrono spesso nell’infrazione di norme sull’igiene e sulla sicurezza (una jungla di disposizioni, spesso contraddittorie, di non facile lettura), ma con conseguenze ben diverse (sono contravvenzioni e si prescrivono presto) e incassi ben più sostenuti! In ogni caso rileva la premessa associativa nell’articolo 5 del decreto (promuove organizza), via maestra che consente senza troppa fatica di giungere al 416 c.p. solo aggiungendo un qualche altro delitto al già criminalizzato raduno musicale (questi Torquemada in sedicesimo avrebbero incarcerato volentieri quelli di Woodstock o dell’isola di Wight). Dalla frode fiscale per la vendita dei prodotti con marchio Genuino Clandestino alla ricettazione di chitarre hanno solo l’imbarazzo della scelta. L’importante è dominare.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 16 gennaio 2023, su Machina e tradotto e pubblicato su El Salto

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