Gianni Giovannelli

Chi ha paura del migrante?

di Gianni Giovannelli

Gli uomini sopportano
più agevolmente e con minor
pena il presente se nutrono
buone speranze per il futuro.

Procopio di Cesarea
(Carte segrete, VII, Garzanti, 1981, pag. 40)

Qualche giorno addietro Roberto Faure mi ha segnalato un volume scritto da un naturalista (genovese come lui), Alfredo Lucifredi, sul tema della sovrappopolazione umana nel pianeta: Troppi, Codice Edizioni, Torino, agosto 2024. Contiene molti dati statistici, non sempre scontati, e si avvale di una bibliografia assai corposa: senza tuttavia indicare soluzioni, limitandosi piuttosto a porre una serie di problemi irrisolti con i quali, quasi quotidianamente, tutti noi ci troviamo a fare i conti, sia nella vita sociale, sia nello scorrere dell’esistenza personale. Una lunga sequenza di numeri si accompagna ad alcune interviste rilasciate da tecnici, studiosi, attivisti, diversi fra loro per età anagrafica, posizione politica, lingua e nazionalità. Un mosaico composto da tasselli difformi, che tuttavia costruiscono un’immagine non priva di logica armonia. Il decimo capitolo, Niente più figli?, mi ha riportato alla mente il tema dell’estinzione, che Franco Bifo Berardi ha più volte sollevato perché secondo lui deve essere posto al centro delle nostre riflessioni; io, per via di una certa mia resistenza ad una simile ipotesi, mi sono guadagnato qualche affettuosa frecciata ma lo scambio di vedute fra noi non ha minimamente incrinato il nostro rapporto di oltre mezzo secolo. Ebbene, nel decimo capitolo, troviamo l’intervista a Les U. Knight, fondatore nell’ormai lontano 1991 del movimento per l’estinzione umana volontaria, o VHEMT, oggi un tranquillo signore sulla settantina, con modi gradevoli e un tono di voce pacato.

Knight osserva che ci sono due posizioni: ecologia sociale ed ecologia profonda. Lui dichiara di avere scarso interesse per la prima, e di essere orientato verso la seconda, la biosfera terrestre nel suo complesso. E conclude: noi esseri umani siamo il pericolo maggiore e per questo motivo mi sembrò chiaro che la risoluzione del problema passasse attraverso un azzeramento complessivo della crescita della popolazione umana….smettiamo di aggiungere altre persone al nostro totale e andiamo infine all’estinzione. Lasciando da parte un facile sarcasmo o una scontata ironia le questioni che hanno originato un movimento che ha compiuto l’età del Cristo (33 anni) rimangono. Ma, al tempo stesso, non c’è dubbio che nel nostro pianeta, ad oggi, il numero di viventi rimane caratterizzato da crescita costante: 4 miliardi nel 1974, 8 miliardi nel 2022 (erano 7 miliardi nel 2011, in 10 anni un miliardo di nuovi nati!). Le previsioni ritengono che saremo circa 10 miliardi nel 2080 (ulteriore incremento) ma, personalmente, alle previsioni credo poco, specie in questo tempo caratterizzato da progetti sempre più a breve termine; tuttavia l’aumento complessivo degli umani, giorno dopo giorno, è un dato di fatto. E questo neppure il mio amico Bifo può negarlo; e infatti non lo nega, propone invece un altro approccio, che muove dalla constatazione di un calo (pure questo oggettivo) delle nascite nei paesi caratterizzati da maggior sviluppo.

Popolazione che cala, popolazione che cresce

In Italia la popolazione diminuisce e ogni anno la comparazione fra decessi e nascite porta un segno negativo. Gli appelli in favore della procreazione nazionale bianca e cristiana diffusi dal governo neofascista sono rimasti inascoltati; le uniche famiglie con elevato tasso di natalità sono proprio quelle che la coalizione al potere vorrebbe cacciare oltre confine, accentuando in questo modo il calo demografico già inarrestabile. La maggioranza parlamentare non riesce a cogliere la contraddizione in cui si è impantanata, prigioniera di vuote parole d’ordine, incapace di saldare i segmenti separati delle popolazioni metropolitane e rurali e fomentando invece la divisione dentro le comunità. La composizione attuale di una qualsiasi scuola elementare milanese, torinese o romana dovrebbe far comprendere la tendenza; invece prevalgono il rancore ostinato, la nostalgia irrazionale per un mai esistito fascismo di operoso ordine sociale, il sogno irrealizzabile di poter dominare il mondo con prepotenza. Calo demografico e xenofobia, razzismo e fondamentalismo religioso, questi sono gli ingredienti che vanno alimentando in quasi tutti i paesi della vecchia Europa il sostegno alle formazioni di estrema destra; avviene in Spagna, in Austria, in Francia, in Germania, in Ungheria, in Polonia, ovunque disagio (anche psichico) e malessere (non solo sociale) si sono andati radicando, grazie al diffondersi della condizione precaria e alla continuità dei conflitti armati. Il debito statale aumenta, per farvi fronte la scelta è stata (sia a destra sia a sinistra) quella di tagliare la spesa pubblica, così che si è allargata la forbice ricchi/poveri, dilatando la platea degli indigenti. Crisi, guerra e calo demografico non sono prerogativa del vecchio continente; anche Corea del Sud e Giappone hanno intrapreso la medesima via. Gli Stati Uniti, per ora, non ne risentono per via del flusso migratorio, ma Donald Trump sta provvedendo con raffiche di decreti a rimuovere questa anomalia nel mondo sviluppato, segando l’albero su cui sta seduto.

Mentre gli abitanti calano e invecchiano nei paesi ricchi l’incremento demografico prosegue incessante nel resto del pianeta. In Africa il fenomeno dilaga: attualmente il paese più prolifico è il Niger (7,1 figli per donna), seguito dalla Somalia (6,20), e, via via, dalla repubblica Democratica del Congo, dal Sud Sudan, Angola, Tanzania, Zambia. Ma anche alcuni paesi dell’Asia, soprattutto il Bangladesh (da 50 milioni del 1960 ai 180 di oggi), l’Indonesia (da 90 a 280) e il Pakistan (da 33 milioni nel 1947 ai 240 milioni di oggi) non accennano a diminuire il ritmo delle nuove nascite.

Incremento demografico, risorse, migrazione

Specialmente in Africa, ma anche negli altri continenti, l’incremento della popolazione si accompagna ad una diminuzione delle risorse alimentari. In Madagascar (grande il doppio dell’Italia, con 28 milioni circa di abitanti) (erano 7 milioni nel 1970), la carenza di mezzi spinge la popolazione rurale (20 milioni) a deforestare in forme incontrollate, per procurare legna necessaria a cucinare, o allevare zebù, o coltivare riso; l’agricoltura slash and burn rende il terreno argilloso, procurando danni permanenti e causando una sorta di pseudonomadismo (cfr. Kate Thompson, Tavy: slash and burn, Safina Center, aprile 2019). Non deve stupire allora che la contestualità del picco demografico e del dilagare della povertà (spesso vera e propria fame), in un quadro di guerra, epidemie e colonialismo, produca esodi di massa, fuga dalla miseria, conseguentemente flusso migratorio verso le terre che dispongono di risorse. Il conflitto nel Sudan (provocato e gestito da contrapposti stati civili tramite milizie locali) ha determinato uno spostamento (a piedi) di un numero incerto, indicativamente fra 8 e 10 milioni di persone, intenzionate a raggiungere cibo e tetto; più di recente sono ripresi gli scontri militari nella Repubblica Democratica del Congo, fra i ribelli filo Rwanda del Movimento M23 e l’esercito regolare, e, secondo l’ISPI, gli sfollati interni vanno calcolati fra 6 e 7 milioni, privi di mezzi e di prospettive, in balia delle numerose soldatesche regionali. Il territorio al centro della battaglia, quello del lago Kiwu, è ricco di Coltan, materiale necessario per le comunicazioni telematiche e conteso dalle grandi imprese multinazionali. Infatti la situazione è a dir poco ingarbugliata. Il governo della Repubblica Democratica del Congo (paese cristiano per oltre il 90%) è, oggi, uno degli alleati più stretti di Israele, cui vende appunto il coltan, tanto da perorare una sorta di amnistia liberatoria in favore del miliardario Dan Gertler, monopolista storico nel commercio dei prodotti minerari congolesi (dal diamante al coltan), posto sotto sanzione economica americana per scalzarlo dalla posizione e sottrargli l’affare. In questo intrigo di commerci, corruzioni, complotti e stragi si inserisce la tratta dei migranti, in forma di deportazione: il Regno Unito aveva deciso di sistemare in qualche lager del Rwanda gli irregolari espulsi mentre la Repubblica Democratica del Congo, in anticipo su Donald Trump, si era detta disponibile ad ospitare profughi volontari sfollati dalla striscia di Gaza. Entrambi i disegni non si sono realizzati, ma rimangono pur sempre il segnale di quanto intrecciati siano i percorsi di guerra, finanziarizzazione, migrazione, clima, fame, valore.

Il flusso migratorio è inarrestabile, con buona pace di chi sostiene il contrario

Nella città di San Paolo, in Brasile, circa 6 milioni di residenti hanno almeno un ascendente italiano; e nello stato di Espirito Santo gli italiani sono circa 2 milioni, il 60% della popolazione. A New York l’ultimo censimento ne ha contati 3.372.512: sono molti di più di quelli che vivono a Milano o a Roma. Sono il risultato della grande migrazione del XIX secolo.

Ma gli spostamenti di intere comunità sono ben presenti anche nel secolo scorso nella nostra vecchia Europa, causati dall’instabilità politica o dalla guerra mondiale in arrivo. Con la pace di Losanna, nel 1923, oltre un milione di greci ortodossi furono obbligati a lasciare l’Anatolia e a trasferirsi nelle regioni elleniche; percorso inverso fu imposto a circa 350.000 musulmani turchi che abbandonarono le loro case sotto minaccia delle armi. La composizione dei due paesi, sociale e culturale, mutò profondamente per una ragion di stato. Nel biennio 1930-31 l’intera etnia coreana che abitava nella parte orientale dell’Unione Sovietica ricevette ordine di andare a vivere in Kazakistan, al fine di spezzare il legame con il Giappone, che governava la Corea come un proprio dominio. E il mitico Laurent Berija, in vista della guerra contro la Germania nazista, organizzò un gigantesco esodo dei c.d. Tedeschi del Volga (minoranza etnica con radici antiche) nelle repubbliche asiatiche dell’URSS. Toccò poi a ceceni e ingusci, nel 1944, con i soggetti più refrattari al socialismo improvvisamente trasferiti dal Caucaso al Kirghizistan; nella notte fra il 17 e il 18 maggio 1944 i tatari della Crimea vennero accompagnati con grande dispiego di mezzi in Uzbekistan e in Tagikistan, rifondando le singole esistenze in luoghi sconosciuti.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale le potenze vincitrici organizzarono alcuni riposizionamenti etnici. Polonia e Ucraina si scambiarono le rispettive minoranze linguistiche (qualche milione, 400/500 mila morirono durante l’operazione, ma pazienza, sono incidenti che capitano); nelle file degli sconfitti i tedeschi di Boemia, Moravia, Romania e Polonia furono rialloggiati in Germania (anche se l’avevano vista solo in cartolina) mentre gli italiani dell’Istria o della Dalmazia pagarono salato il conto lasciato aperto dal fascismo in quelle zone. Nel 1949, ed è storia ormai recente con ricaduta contemporanea, possiamo ricordare, quali ulteriori esempi, lo sgombero dei palestinesi dall’odierno Israele o la ricollocazione di intere popolazioni nell’India a seguito della nascita di Pakistan e Bangladesh

Queste furono deportazioni, di natura geopolitica, che affiancarono e integrarono il permanere di flussi migratori più tradizionali, ovvero legati alla richiesta di manodopera a buon prezzo da parte delle imprese operanti nel cuore dell’impero: gli operai maghrebini dell’auto in Francia, i messicani in California e in tutti gli USA, i filippini, i cingalesi, gli slavi ….. l’intero pianeta, nel XX secolo, ha registrato un movimento ininterrotto di esseri umani che ha cambiato il volto delle metropoli, non soltanto di quelle occidentali, ridisegnando la nuova composizione sociale. Il vecchio mondo, che i partiti reazionari vorrebbero far rivivere, trasformando il loro sogno in una impossibile realtà, è irrimediabilmente defunto, anche se in molti non lo hanno ancora capito.

Conseguenze della attuale tendenza demografica. Guerra o pace?

In questo primo quarto del XXI secolo gli abitanti della vecchia Terra (dell’orbe terraqueo in cui Meloni nei suoi deliri insegue frotte di scafisti) sono cresciuti a dismisura, fino a superare il traguardo degli otto miliardi. Con l’interessante e significativa eccezione degli Stati Uniti (in piccola parte anche della Francia) nei paesi ricchi il calo delle nascite è assai elevato, tanto che le formazioni elettorali nazionaliste e sovraniste si caratterizzano per una ferma opposizione alla legalizzazione dell’aborto e per le proposte di incentivare a suon di bonus la procreazione (nelle famiglie di bianchi nativi ovviamente). Contraddittoriamente queste posizioni ideologiche raccolgono consenso nelle urne, ma si rivelano fallimentari nei comportamenti concreti: anche nella comunità indigena italiana il numero dei morti continua a superare quello dei partoriti, proseguono dunque la diminuzione e l’invecchiamento. Ma l’ultradestra non demorde.

Negli Stati Uniti l’ultimo censimento decennale del 2020 conferma invece la crescita in termini assoluti, ma al tempo stesso muta la composizione etnica interna. Nel 1945 i bianchi erano il 77,7%, i neri 8,4%, gli ispanici 10,7%, gli asiatici 2,7%; ma nel 2020 i nati dopo il 2012 sono bianchi solo per il 49,6% (per la prima volta non la maggioranza), gli ispanici il 25,9%, gli asiatici il 20,4%, i neri il 13,7%. Fra luglio 2023 e luglio 2024 la popolazione è aumentata di 1% (in Italia -0,3%), 3,3 milioni; nello stesso periodo il saldo migratorio (differenza fra insediati più o meno regolari ed espulsi) risulta essere circa 2,79 milioni. In buona sostanza i vecchi americani calano, la curva demografica rimane in salita per il permanere di una rilevante quota di arrivi dalle più diverse parti del mondo. In questo quadro si inserisce il progetto di Trump, deciso a mettere in esecuzione una gigantesca cacciata degli stranieri irregolari dal paese, rimuovendo ogni residua forma di assistenza o di pacifica convivenza. Suona il corno di guerra.

L’incremento demografico non accenna invece a diminuire proprio dove non solo mancano risorse, ma vengono pure bruciate senza tregua le possibilità di utilizzarle. In America ogni singolo cittadino consuma in media 150 chilogrammi di carne all’anno, ma anche i 75 chilogrammi pro capite dell’europeo non sono sostenibili dal punto di vista ambientale (cfr. Mauro Mandrioli, Nove miliardi a tavola, Zanichelli, 2020). In Africa invece si muore di fame, manca l’acqua e dilaga la siccità, l’agricoltura non riesce a far fronte alle più elementari necessità di sussistenza, milizie di soldati predoni rubano quel che trovano e terrorizzano i popoli, una minoranza di faccendieri al governo viene pagata dalle imprese multinazionali per consentire l’esproprio di ogni bene comune. La comunicazione si cala in questa realtà, cancella il segreto, ogni povero affamato africano sa che altrove vivono esseri umani che mangiano, bevono, si vestono, hanno un tetto, consumano. E sognano di muoversi, di partecipare alla spartizione, in mancanza di cibo o medicinali si nutrono di speranza. In queste comunità l’invito ad estinguersi di Les U. Knight non riuscirà mai ad attecchire, sono i moderni barbari, non vogliono estinguersi, vogliono migrare, migliorare la loro sorte: non temono la morte, sono disponibili ad affrontarla, mirano a un futuro che si colloca in una dimensione ultra-generazionale.

Certo. Non hanno mezzi, soldi, armi. Ma sono in molti e, direbbe il nostro Karl Marx, hanno da perdere solo le catene. Pensiamo alla marcia, straordinaria, incredibile, di oltre duecentomila gazawi (gli abitanti di Gaza, ndr.) decisi a riprendersi un cumulo di rovine perché è l’unica cosa che hanno. Forse Donald Trump riuscirà a deportarli o a ucciderli tutti; ma non avrà risolto il problema, lo avrà solo aggravato. Sono i bianchi ad invecchiare, a rischiare l’estinzione, non gli africani, giovani, in crescita. Non esistono bombe atomiche o minacce nucleari capaci di fermare il cammino che miliardi di affamati saranno costretti ad intraprendere, spinti dalla necessità di sopravvivere, decisi a non soccombere, refrattari all’ipotesi di estinguersi.

Ancora esitano, incerti, spaventati. Lasciano al centro dell’impero ancora una residua possibilità di costruire un’alternativa: ecologica per salvare il pianeta danneggiato, etnica mediante la fusione in luogo di guerra e sostituzione violenta, sociale con più giustizia, politica proteggendo il comune. Il centro dell’impero sembra, oggi, preferire le barriere, i muri, i confini, l’emarginazione, la supremazia, la violenza; si tratta di una scelta destinata ad una cocente sconfitta perché i numeri non lasciano scampo. Il futuro sarà, piaccia o no, inevitabilmente meticcio.

 

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 17 febbraio 2025

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Tempi di Equalize

di Gianni Giovannelli

Bisognerebbe anzitutto che le masse europee
decidessero di svegliarsi, si scuotessero
il cervello e cessassero di giocare
al gioco irresponsabile della
bella addormentata nel bosco

Francesco Fanon
(I dannati della terra)

Associazione per delinquere, ovvero l’accordo fra più soggetti per costituire una struttura organizzata stabilmente con il preciso scopo di commettere crimini in sequenza (in genere con un occhio rivolto al ricavarne vantaggi personali). Questa è l’ipotesi di reato in base alla quale si è mossa la Direzione Distrettuale Antimafia a Milano e su cui la Procura ha dato corso alle indagini del caso Equalize; la magistratura inquirente ha ottenuto l’autorizzazione alle intercettazioni, anche ambientali, proprio in ragione del contestato delitto associativo. L’inchiesta si caratterizza fin da subito per una sorta di paradosso: ad essere spiata questa volta è un’impresa capitalistica legale di spioni! Equalize srl emetteva infatti regolari fatture e raccoglieva, senza nasconderlo e contabilizzando gli incassi a fini fiscali, informazioni sul conto di persone ignare per conto della clientela. Una polizia privata in buona sostanza.

La proprietà di Equalize srl

Per aggiunta Enrico Pazzali, ovvero l’indagato imprenditore dedito, come socio di maggioranza, al commercio dei dati acquisiti, ricopre una carica pubblica di non piccola importanza: nel 2019 divenne presidente, ora al secondo mandato con scadenza nel 2025, della Fondazione Fiera Milano, per nomina congiunta del Comune (centrosinistra) e della Regione (centrodestra). I ricavi della Fiera di Milano (si vede il bilancio consolidato), nel 2023, ammontano a circa 300 milioni di Euro; la Fondazione gioca un ruolo di primo piano nella realizzazione del gigantesco affare legato alle Olimpiadi Invernali e possiede un enorme patrimonio immobiliare, in continua crescita. Il socio (di minoranza) incaricato della gestione operativa, Carmine Gallo, è invece un brillante ex funzionario di polizia, con esperienza acquisita sul campo quale addetto ad operazioni importanti e delicate, prima di optare per il pensionamento, ben inserito nel cuore dell’apparato e dunque a conoscenza di ogni segreto meccanismo inquisitorio. Gente nata e cresciuta dentro le istituzioni, capace di tessere una fitta rete di relazioni e di usarle.

L’ordinanza del 28 ottobre 2024

L’ordinanza di custodia cautelare (nella forma attenuata degli arresti domiciliari, negati peraltro nel caso di Pazzali) è davvero voluminosa: 516 pagine! Vi risparmiamo, dunque, il testo integrale. Il GIP, dottor Fabrizio Filice, si è mosso con una certa prudenza, ha limitato per quanto poteva l’uso delle manette, ma era inimmaginabile evitare il clamore mediatico provocato da una vicenda oggettivamente atta a suscitare scandalo e scalpore, vuoi per il ruolo dei protagonisti vuoi per la gravità (anche quantitativa) degli elementi emersi in oltre un anno di indagini. Infatti la Procura ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame invocando maggiore severità; vedremo a breve che cosa ne verrà fuori.

Emerge tuttavia, già ora, un quadro davvero impressionante. La piattaforma Beyond, utilizzata da Equalize, non basta certo a spiegare l’afflusso di informazioni, al più consente di comprendere la loro elaborazione proposta al mercato. Fra i clienti abituali di questa piccola società con due soli dipendenti (ma con tanti fidati collaboratori piuttosto efficienti) spiccano, oltre a colossi di settore, quali ERG BARILLA o ENI, anche il Mossad e il Vaticano. Il mitico servizio segreto israeliano, in particolare, chiedeva una mappatura delle risorse finanziarie cui attinge la struttura militare della compagnia mercenaria Wagner, un report rilevante negli equilibri di guerra nel pianeta. Per fornire i servizi richiesti dai committenti Equalize attingeva non solo a banche dati quali Serpico (Agenzia delle Entrate) o SIVA 2 (operazioni valutarie, sospette incluse), ma aveva accesso perfino a quelle di massima sensibilità a disposizione dei servizi di sicurezza: gli archivi di AISE e AISI (le Agenzie Informazioni di Sicurezza Interna ed Esterna) e quella connessa del DIS (il Dipartimento Informazioni Sicurezza). Lo Stato italiano non ha segreti per Equalize! Una giornalista disinvolta quale Claudia Fusani (Repubblica, l’Unità, Il Riformista) propone perfino una possibile ardita congiunzione con i miliardari russi Toporov e Khatovin nell’ambito di quella che definisce asimmetria informatica. Avvalendosi di IAB (Initial Access Broker), ovvero operatori (s)pregiudicati nel settore delle informazioni acquisite illegalmente, venne costruita una rete diffusa e capace, composta di tecnici (per esempio Samuele Colamucci di Mercury Advisor), agenti (per esempio Giuliano Schiano, in forza alla DIA di Lecce) o manager (per esempio l’ex socio Pier Francesco Barletta, vicepresidente di SEA, indagato e ora autosospeso dalla carica pubblica). L’intreccio fra attività imprenditoriale privata criminale e gestione degli enti pubblici caratterizza il paesaggio dell’inchiesta giudiziaria, ma, al tempo stesso, viene in genere tralasciato dai commentatori e dai media in generale.

Da notare per incidere tre cose

Uno dei principali clienti di Equalize, la Fenice srl, opera nel settore dell’edilizia, lo stesso in cui è attivo Pazzali, quale presidente della Fondazione Fiera Milano. Fenice è una società romana, attiva anche in Veneto (partecipa al Mose); il GIP ha negato alla procura l’arresto, ma il nesso fra pubblico e privato appare qui piuttosto evidente, almeno nella formulazione dell’accusa.

Inoltre, dopo l’autosospensione di Pazzali dalla carica in Fiera, il suo posto è stato preso dal vicepresidente vicario, Davide Corritore, già direttore del Comune durante la giunta Pisapia e già al vertice di MM (che pure di immobili ne ha molti); un manager di area PD che gode tuttavia della piena fiducia sia dell’indagato (che pur sospeso rimane in carica) sia della destra al governo regionale. Del resto l’altro vicepresidente in Fiera, Vasiliki Pierrakea, indicato da Confcommercio, è ottima cuoca (ha un suo locale di cucina greca a Milano) ma non è figura politica adatta a condurre la nave durante una tempesta. La scelta bipartisan del ceto politico è stata quella del silenzio operativo e della continuità verso il business delle Olimpiadi Invernali attualmente in esecuzione.

Infine notiamo l’assenza di commenti governativi di fronte alla notizia di un costante saccheggio di dati sensibili nel cuore del sistema difensivo: DIS, AISE e AISI. Il 19 aprile scorso Giorgia Meloni ha collocato al vertice di AISI il dottor Bruno Valensise; nomina assai controversa e di rottura con la tradizionale assegnazione della carica a un militare. Valensise non ha mai portato la divisa, è un funzionario d’apparato; era in precedenza vicedirettore del DIS (dal 2019) e già aveva guidato la scuola per addestrare il personale alla segretezza, oltre all’Ufficio Centrale per la Segretezza. La direzione DIS (Elisabetta Belloni) scade a maggio 2025; quella dell’AISE (generale Giovanni Caravelli) nel maggio 2026 (nomina di Draghi, poco prima di andarsene, per il periodo massimo consentito: 4 anni). Nessuno ha chiesto conto al trio dirigente delle falle riscontrate; e loro, d’altra parte, si sono ben guardati dal fornire spiegazioni o dall’azzardare ipotesi. Ognuno, sia al governo sia ai servizi, sta zitto e muto, o, meglio, come diceva Totò, si muove tomo tomo cacchio cacchio. Ove mai venissero interrogati dai magistrati milanesi possono sempre opporre il segreto di stato!

Prosegue la transizione e si modifica l’impianto del diritto

Non sarà facile per gli inquirenti, e a maggior ragione per i giudicanti, sbrogliare la matassa del caso Equalize. Per ora non sono riusciti a trovare il bottino, la refurtiva (i dati acquisiti) è al riparo, manca il cd habeas corpus (la famosa pistola fumante). Dicono che il server si trova in Lituania, oppure in Gran Bretagna, o forse in entrambi i paesi. Ammesso e non concesso che i governi di Vilnius e Londra decidano di aiutare la magistratura italiana (ma mi si permetta, senza offesa per inglesi e lituani, di dubitarne) ora che arrivi l’autorizzazione il server risulterà trasferito altrove, magari nello stato non riconosciuto del Puntland, magari su un satellite di Elon Musk.

Il controllo sui comportamenti, sulle azioni di ogni singolo soggetto, sulla vita delle persone marcia spedito e crea diritto consentendo di fatto ciò che solo in apparenza sembra non consentito dagli ordinamenti nazionali; mettere a valore ogni corpo e ogni esistenza significa legittimare l’intrusione nella sfera privata. Questo comporta certamente il sorgere di contraddizioni (contrazioni in seno al moderno capitalismo direbbe il compagno Mao), ma non arrestare certo la transizione il fatto che si diffonda lo spionaggio ostile fra imprenditori; il potere può sopportare le guerre interne senza farne un dramma, ci è abituato.

Nella Cina Popolare è stato approvato il codice civile, in vigore dal 1 gennaio 2021, quasi in contemporanea con l’arrivo della pandemia, per uno strano gioco del destino (per chi ne volesse prendere visione: Pisa, 2021, Pacini Giuridica, a cura di Di Liberto, Dursi e Masi). La cosa curiosa sta nel fatto che il codice cinese (1260 articoli, noi ne abbiamo 2969) riprende la ripartizione di Giustiniano, si connette al diritto romano. Con una differenza rispetto alla nostra legislazione (non la sola differenza, naturalmente) annota, acuto, Oliviero Di Liberto nell’introduzione: fra il diritto civile cinese ora vigente e quello romano imperiale manca la mediazione dei codici napoleonici.

Il varo dei codici napoleonici fu la conseguenza della rivoluzione francese. La borghesia del capitalismo industriale voleva liberarsi dell’assolutismo, e l’assolutismo poggiava, nella sua concezione logico-giuridica, proprio sul diritto romano codificato nel corpo giustinianeo. Le nuove leggi concepite nella Francia giacobina sostituirono le norme applicate nel sacro impero della vecchia Europa, introducendo costituzioni, diritti individuali, proprietà privata. La restaurazione progettata a Vienna fallì, travolta dal quarantotto, dalle rivoluzioni nazionali e dalle lotte sociali di emancipazione; nuovi diritti furono elaborati e codificati, conquistarono vigore con innesto rigenerante nel vecchio ordine normativo. Non so se abbia prevalso la mediazione o si trattasse piuttosto del risultato di uno scontro dialettico, di certo fu un mutamento radicale.

Oggi, sotto i nostri occhi, l’assetto legislativo ordinario e costituzionale, costruito nel capitalismo occidentale e consolidato nel secolo scorso, si va sgretolando; assistiamo al processo di dissoluzione della democrazia rappresentativa, un processo che pare ormai inarrestabile. Il capitalismo del XXI secolo non si riconosce nel radicamento territoriale di lungo periodo e rifiuta la tradizionale ripartizione tempo libero/tempo lavorato. Le merci immateriali non hanno sede, il loro possesso esige invece, per essere mantenuto, controllo, comando, potere, armi, guerra. L’organizzazione del lavoro punta all’acquisizione dell’esistenza umana complessiva, non di un segmento orario delle singole vite. Il diritto alla privacy trova una limitazione, un muro invalicabile, nelle necessità connesse al valore; viene consentito e mantenuto all’interno dei rapporti affettivi o personali, ma quando entra in scena l’attività mercantile connessa al flusso di informazioni muore d’infarto, travolto dalla realtà. Così cadono anche gli altri diritti che hanno caratterizzato la vecchia democrazia liberalsocialista al tramonto, compresa quella colonna portante che è la certezza della norma. Per il moderno dispotismo occidentale (poco assimilabile al fascismo storico, perché privo di valori e miti, nobili o ignobili) conta solo l’interesse in quell’attimo, in quella circostanza.  Il governo incorpora la norma, il governo è la legge; ogni opposizione a questo principio assolutistico viene percepito come un crimine e come tale perseguito. La pioggia incessante delle più svariate disposizioni, spesso in contraddizione fra loro, mira ad una generale cancellazione della certezza: il trigger warning si impone come il nocciolo delle regole, nel momento in cui la vita viene messa a valore il corpo diviene esso stesso merce, le merci non hanno diritti propri. Sei costretto continuamente a scegliere, ma non sai mai, a priori, se la scelta sia giusta o sbagliata; devi vivere nell’ansia, in attesa del verdetto.

Il caso Equalize ci mette dinnanzi all’evidenza di un quadro economico, sociale, produttivo, politico profondamente mutato. L’innovazione tecnologica costante ha rotto ogni argine. Hanno ormai privatizzato, di fatto, perfino la polizia; questo non deve stupirci visto che avevano già privatizzato perfino lo spazio. Inutile cercare il bottino in un server a Vilnius o a Londra; i satelliti di Musk sono proprietà privata e possono guardare dall’alto il pianeta, indispensabili per la guerra, per gli affari, per i governi. Il commercio dei dati posto in essere da Equalize rubando i dati al ministero lo gestiscono uomini delle istituzioni; al vertice dei governi non ci stanno più funzionari di fiducia dei capitalisti, sempre più spesso ci vanno loro direttamente, perdono meno tempo e rimuovono più facilmente gli ostacoli. Il primo passo è compiuto: la banca dati dei servizi segreti italiani è già sul mercato, a disposizione di chi paga l’opera prestata. Per sconsigliare l’uso delle informazioni in danno di alcuni soggetti da non intercettare (pochissimi), ferma restando la schedatura generalizzata delle merci-corpo quando renda commercialmente, bastano le armi convenzionali.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 novembre 2024

L’immagine è di geralt da pixabay

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Nuove forme di guerra

di Gianni Giovannelli  

A un nemico accerchiato
devi lasciare una via d’uscita.

Sun Zu, 7.31

Non c’è dubbio alcuno. Con l’esplosione sincronizzata, a migliaia, di cercapersone acquistati dalla struttura dirigente Hezbollah e distribuiti ai militanti per i necessari contatti, il governo israeliano ha colto di sorpresa e stupito il mondo intero, seminando il panico nella popolazione, non solo in Palestina occupata ma anche in Libano e Siria. Il giorno successivo, quando i primi commenti si incrociavano incerti, alla stessa ora, le 15, la strage si è ripetuta: questa volta si trattava di walkie talkie o altre apparecchiature comandate a distanza. Ogni oggetto di uso comune diviene potenzialmente uno strumento di morte, l’insidia produce inevitabilmente terrore, intacca qualsiasi rete di rapporti sociali. Questa è la risposta del governo israeliano all’indignazione sollevata dai massacri quotidianamente perpetrati nella striscia di Gaza, al crescere delle critiche, alle accorate richieste di tregua; una risposta che prelude all’esecuzione di un programmato sterminio.

Ci troviamo di fronte a un cambio di passo. Funzionari anonimi, specializzati in singoli segmenti di attacco criminale, operano in equipe, ben celati agli occhi della popolazione, e colpiscono a distanza, senza partecipare al combattimento sul campo. Come gli addetti finanziari pigiano sulla tastiera le mosse di compravendita capaci di creare o distruggere patrimoni (al tempo stesso modificando l’esistenza di soggetti a loro sconosciuti per i quali provano solo indifferenza) così i tecnici del Mossad, segretamente, elaborano, su commissione politico-militare proveniente dall’estrema destra colonialista al potere, progetti idonei a sopprimere vite umane. Probabilmente questi assassini in camice bianco neppure odiano i loro bersagli; semplicemente cercano di fare al meglio il lavoro che viene loro assegnato, evitando inutili domande. Certamente la deriva teocratica (con la crescita costante di Hamas e della estrema destra sionista) ha giocato un ruolo importante nel conflitto; o forse, al contrario, è stato il sabotaggio della pace, pervicacemente messo in opera dall’occidente democratico in questo secolo, a creare le condizioni che hanno consentito il successo dei fondamentalisti in entrambi i fronti. Se sia nato prima l’uovo o la gallina non lo sapremo mai, dunque poco importa. Quel che conta è la scelta del governo israeliano, oggi: vogliono imporsi con la forza, prendersi i territori, allargare i confini. A qualsiasi costo. Disposti a tutto, sordi a qualunque richiamo da parte di chi invita al buon senso.

Israele probabilmente non ha avvisato gli Stati Uniti di quel che aveva in mente di fare, così ha evitato sia discussioni fastidiose sia di mettere in imbarazzo il principale sostenitore. Comunque vadano le elezioni americane di novembre possono contare sull’appoggio di entrambi i candidati, sulla continuità del veto sempre apposto nel Consiglio di Sicurezza a qualunque deliberazione non gradita. La mossa preparata e attuata dal Mossad presuppone una rete spionistica in grado di superare i confini degli stati senza interferenze ostruzionistiche; l’uso della tecnologia insieme all’elaborazione dei complotti non ha (per lo meno: non ha ancora) alcun equivalente paragonabile negli stati e nei movimenti politico-militari di parte araba. Ove mai ci fosse una risposta bellica che facesse prevalere la supremazia dei corpi lo Stato d’Israele appare pronto ad usare la bomba atomica (quella c.d. tattica). A fianco del ricatto atomico si cala oggi la strage mediante cercapersone. Il soldato nemico viene trasformato in una sorta di mina umana che colpisce proprio la comunità che lo ha spinto ad indossare la divisa, a combattere per la propria terra; una mina pronta ad esplodere alle 15,30 in un mercato, in una scuola, in un ospedale, in autobus, sulla strada, alla partita di calcio. Chi vive nei territori occupati vede ora come potenziale pericolo lo scaldabagno, il televisore, la piastra per cucinare; dunque riceve il messaggio di andarsene per non essere annientato. I commenti della stampa europea e occidentale a questo cambio di passo, a questa nuova forma di guerra mai usata prima di oggi e vietata dalle norme internazionali lasciano intravedere un misto di ipocrisia (lasciare il dubbio che l’autore sia il Mossad) e di riduzione della strage a un semplice colpo inflitto all’avversario con indubbia maestria. Fingono tutti di non capire la portata di questa vicenda, l’innovazione bellica che una volta introdotta farà inevitabilmente scuola, negli anni a venire, provocando conseguenze che oggi nessuno si azzarda ad esaminare; sembrano non rendersi conto del fatto che le conseguenze ad Israele oggi semplicemente non interessano perché sono concentrati solo sulla vittoria, sull’annientamento di tutti coloro che si oppongono all’annientamento dei palestinesi (o al loro definitivo esodo). Tutti parlano della bomba atomica in mano a Putin (che non vuole usarla) e incautamente lo provocano (perché la usi); al tempo stesso tacciono delle bombe atomiche in mano alla coppia Netanyahu-Ben Gvir, pur consapevoli che costoro (specie il secondo) non si farebbero scrupoli a trasformare Beirut o San’a’ in una novella Hiroshima, pur di raggiungere il loro scopo.

Un filo sottile lega l’esplosivo nascosto dal Mossad nei cercapersone acquistati da Hezbollah e l’arsenale atomico distribuito nel pianeta; è il legame fra l’uso del terrore quotidiano, capace di esasperare le comunità, e l’esplosione nucleare, capace di eliminare una comunità. Non solo Israele, fra i piccoli, possiede l’arma atomica; per giunta si possono anche vendere a terzi, in caso di bisogno. La rinunzia americana al ruolo di gendarme innanzitutto del proprio alleato non è segno di forza, ma di debolezza; se non mostra di essere capace di tenere a bada un Ben-Gvir qualunque finisce con il promuovere un rivoltoso malumore fra i propri sudditi. E che spesso sia un malumore di destra non dovrebbe rassicurare né Harris né Trump.

La tecnologia è poco capace di custodire a lungo i propri segreti; è fragile, è per sua natura esposta alla riproduzione. Questo vale sia per l’uso tradizionalmente commerciale, sia per il suo detournement militare-terroristico. Mi si perdoni un inciso commemorativo: come ci manca Guy Debord a commento di questo complotto israeliano di guerra! In tempo di Intelligenza Artificiale l’esplosione sincronizzata di cercapersone potrà essere acquisita prima dagli apparati statali (grandi o piccoli), poi dalla criminalità, e ancora dalle organizzazioni per qualsiasi motivo ribelli (di qualunque etnia o tendenza). Le metropoli sono bucate, piene di falle; la globalizzazione ha travolto i confini, non bastano i nazionalismi a identica riedificazione, ci sono ancora, ci saranno, ma diversi. Soprattutto non fermano la tecnologia. Israele ha scoperchiato il vaso di Pandora; l’uso del micro-esplosivo può essere esportato non solo a mezzo di droni, ma in qualunque oggetto. E la conseguente disarticolazione sociale avvicina la tentazione di ricorrere all’atomica. L’errore strategico di Israele (accecato dal nazionalismo colonialista e dalla frenesia di potere) è di non indicare alcuna via d’uscita, continuando solo a massacrare. Così però prima o poi si va a sbattere, come osservava Sun Zu nell’esergo.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 22 settembre 2024

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Novelle dal precariato in fiamme

Dalla quarta di copertina

Dodici storie, dodici vite, dodici volti capaci di raccontare le forme sfuggenti del precariato di oggi, un tempo di transizione, di incertezza, di attesa, fra il già e il non ancora.
I protagonisti, di differenti provenienze ed età, si muovono in un universo lavorativo incerto, spesso alla ricerca di un riscatto biografico e identitario, sempre in bilico tra la speranza del successo e la paura del disastro. Le Novelle dal precariato in fiamme nascono tutte nel cuore di Milano, dentro l’architettura urbanistica con le sue suggestioni e le sue miserie. Una metropoli in continua trasformazione, che accoglie e insieme affonda. Dietro le dodici storie, come un’eco, la grande creazione poetica dell’Apocalisse, con i quattro cavalieri che segnano i passaggi trasformativi, fino alla rimozione dei veli oscuranti, fino alla rivelazione.

Gianni GiovannelliNovelle dal precariato in fiamme, Mimesis Edizioni, 2024.

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Guerra e pace

di Gianni Giovannelli

Giorno per giorno

Si sgozza e si sbuzza,
si sbudella e si sbrana,
si spezza e si fracassa,
si fucila e si mitraglia,
si brucia e si bombarda.

Giovanni Papini
(Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai, Lacerba, 1 ottobre 1914)

Per sostenere l’intervento italiano nella Grande Guerra il fiorentino Giovanni Papini utilizzò un vocabolario assai colorito, provocatorio, nello stile futurista di Marinetti. Nell’articolo, da cui è tratta la citazione in esergo, si annuncia con entusiasmo che poteva considerarsi finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia, della pacioseria. Pace e coesistenza venivano bollate come caratteristiche di spiriti meschini, di persone codarde, come disvalori contrapposti all’audacia e al coraggio di chi puntava invece a combattere, a cancellare il nemico.  A differenza di Marinetti, tuttavia, Papini fu riformato, inabile al combattimento per via di una fortissima miopia. Il fronte rimase per lui soltanto un palcoscenico, nel quale si recitava uno spettacolo che non comportava conseguenze concrete sulla vita quotidiana e che anzi gli assicurava una gratificante visibilità, il consenso della pubblica opinione, il successo. Mentre i soldati crepavano nelle trincee questo celebre scrittore si nutriva di morte senza correre rischi. Poco importa che abbia poco dopo mutato questa sua percezione del conflitto, divenuto per lui, a posteriori, sulla scia di papa Benedetto XV, inutile strage; la conversione al cattolicesimo non fu infatti di ostacolo ad un convinto sostegno del fascismo, alla sottoscrizione dell’ignobile manifesto degli scienziati che preparò le leggi razziali, all’ingresso nell’Accademia d’Italia, l’istituzione che raccoglieva i più illustri sostenitori del regime mussoliniano. Non esiste contraddizione, per chi è avvezzo a comportamenti disinvolti, fra l’elogio della carneficina e il dichiararsi devoto al binomio Dio&Patria. L’importante è mantenere la certezza della propria superiorità.

La trascorsa vicenda umana di Papini ci consente di comprendere, qui e oggi, il complessivo comportamento dei parlamentari eletti in Italia e in Europa. Durante il governo Draghi una larga maggioranza (Forza Italia, Partito Democratico, Lega e Cinque Stelle), con il pieno appoggio della destra neofascista oggi al comando del nuovo esecutivo, ha brutalmente criminalizzato ogni tentativo volto a ricercare un ambito di trattativa, a trovare una qualche via di compromesso. La parola d’ordine valida per tutti era quella di combattere fino alla sicura sconfitta militare russa, sognando di processare Putin in un Tribunale Internazionale dopo aver spezzato le reni alle orde nemiche.  L’insediamento di Giorgia Meloni – con la prudentissima isolata critica dell’opposizione pentastellata – non ha mutato il quadro: la spedizione di armi all’Ucraina prosegue a tempo indeterminato, ogni forma di eventuale diplomazia viene considerata diserzione, il pacifismo equivale alla resa incondizionata, dunque al tradimento. Questi sono i guerrafondai del terzo millennio: agiscono nascosti nelle retrovie, ben protetti, ben pagati, con l’arrogante sicurezza di essere insostituibili, tecnici esperti del moderno nepotismo dentro una struttura economica fondata sul clan, giocolieri della comunicazione in ogni tornata elettorale, indifferenti di fronte a qualsiasi tragedia umana. Di Papini non hanno certo mutuato il fascino di una cultura sapientemente coltivata, si limitano a ereditare il peggio di quel mondo tramontato. Manca perfino, dentro la cabina di comando, una compiuta teoria della guerra nel terzo millennio. La chiamata alle armi si risolve in una sequenza di mosse disordinate, di programmi con un respiro, nella migliore delle ipotesi, soltanto trimestrale; nonostante il rischio concreto di uso sul campo delle bombe atomiche, con ogni imprevedibile conseguenza, quel che interessa davvero l’apparato che gestisce il potere è l’incremento di fatturato, nell’anno fiscale, dell’industria bellica, sia essa pubblica o privata. Il futuro non esiste.

Gaza e l’antisemitismo.

Mentre la guerra in Ucraina proseguiva incessante, prendendo tuttavia una piega non gradita o quantomeno difforme da quella indicata nelle previsioni, si è aperto un nuovo fronte, questa volta in Palestina e con caratteristiche diverse. Il ceto politico israeliano e palestinese, a differenza di quello che governa i paesi del G7, ha una consolidata dimestichezza con l’uso delle armi; non si limita, come fanno gli atlantisti, a ordinare e gestire sfracelli da comode postazioni ben protette, combatte proprio. I dirigenti politici di Gaza e Tel Aviv sparano, e, quando possono, si uccidono a vicenda. Se si comportassero diversamente, perderebbero credibilità, capacità di comando. Non possono non combattere; dunque non hanno alcuna intenzione di ascoltare inviti alla moderazione o, tanto meno, di cessare le ostilità. Gli uni e gli altri sono perfettamente consapevoli che ogni tregua è solo simulata: per imporla occorre una forza economico-militare superiore a quella di cui dispone Israele, ma non esiste alleanza disposta ad usarla sul campo. Anzi: prevale, per varie ragioni, la scelta di alzare ulteriormente il livello di scontro, senza badare a ciò che questo comporta per le vite umane e per l’ambiente nel suo complesso. Ucraina e Gaza determinano, giorno dopo giorno, effetti sinergici, soprattutto considerando la comparsa di nuovi focolai caratterizzati anch’essi da sviluppi imprevedibili. La propaganda si adegua: quel che in Ucraina veniva bollato quale complotto putiniano ora, con riferimento alle vicende di Gaza, si pretende di ricondurlo all’antisemitismo. In un caso il punto di partenza lo si individua nell’attacco russo del 24 febbraio 2022, nell’altro il riferimento è il  7 ottobre. Non esiste un prima, ogni spiegazione diviene giustificazione, chi non appoggia la risposta , o chiede pace, o, peggio, pretende di essere neutrale, deve essere considerato un alleato oggettivo dell’aggressore (o dell’antisemita) e trattato come tale.  In Germania quello che era già un pericoloso nervo scoperto ora è diventato una vera isteria collettiva: la deriva militarista dei Grunen, pronti a cogliere ogni occasione per alzare il livello di scontro armato senza curarsi delle vittime, si è saldata con il sostegno indiscriminato alla strage dei palestinesi di Gaza, concretandosi in una sorta di processo, pubblico e politico, contro chiunque sia sospettato di criticare il comportamento sul campo del governo israeliano o anche soltanto di invocare un cessate il fuoco.

Schierarsi per proteggere la vita dei palestinesi assediati a Gaza è un crimine da punire in quanto “oggettivo” antisemitismo. Anche la semantica lessicale cede, travolta dalla foga degli accusatori. Come gli ebrei anche i palestinesi sono, senza ombra di dubbio, semiti. Dunque sia i filo-israeliani, sia i filo-palestinesi (in quanto tali e a prescindere perfino dalla collocazione politica) sono filosemiti, definirli “antisemiti” è una evidente contraddizione; arabo ed ebraico sono lingue tipicamente semite. Turchi, russi, iraniani ed europei (compresi i tedeschi) sono invece giapetiti (qualcuno preferisce chiamarli japetingi, comunque si tratta di ceppo linguistico indoeuropeo). Ecco: i tedeschi antipalestinesi di oggi sono di nuovo “antisemiti”, pur con una variante etnica rispetto ai loro nonni antigiudaici. L’area territoriale in cui vivono – e muoiono – ebrei e palestinesi è una miccia accesa dentro una polveriera; invece di spegnerla gli esponenti del pensiero neocolonialista occidentale provvedono a tener viva la fiamma con ogni mezzo, con profondo disprezzo del futuro collettivo, pensando solo all’incasso nel trimestre successivo.

Migrazione e guerra

Il conflitto tende a diffondersi, quasi fosse in atto una sorta di contagio inarrestabile. Investe di nuovo Libano e Siria, non conosce tregua neppure nelle acque del Mar Rosso ove gli Houthi resistono agli attacchi e rendono poco sicura la navigazione verso il canale di Suez, con inevitabili contraccolpi sul commercio e sui costi della merce. Le conseguenze, mai prese in considerazione come possibili dagli arroganti uomini politici della vecchia Europa, si cominciano a far sentire. La carneficina prosegue da oltre un anno nel vastissimo Sudan (grande sette volte l’Italia, poco popolato, i 40 milioni di abitanti sono ormai allo stremo); centomila soldati RSF sostenuti da russi ed etiopi si battono contro trecentomila militi inquadrati nel SAF appoggiato dagli Emirati e dall’Egitto. Entrambi gli eserciti fanno strage di civili. Martin Braaksme, di Medici senza frontiere, riferisce sconsolato che nell’indifferenza generale si contano oltre 30 mila morti e che i profughi sono calcolati in circa otto milioni. Un quarto di loro ha varcato il confine dello stato, verso la Libia, il Centrafrica e soprattutto il Ciad. Due milioni di esseri umani, disperati e affamati, hanno superato una frontiera lunga oltre duemila chilometri, priva di strutture, incontrollata e incontrollabile; non hanno altra scelta, si dirigono verso la costa mediterranea, migrano per sopravvivere. Sotto la pressione degli sfollati scricchiola anche il Ciad, ultimo avamposto del colonialismo francese, ricco di oro e uranio, costantemente depredato; il governo militare mantiene ancora i mille soldati del contingente imposto da Parigi, ma la tentazione di svincolarsi si fa ogni giorno più forte, il ruolo di gendarme residuale di un ormai disciolto G5 africano sta diventando scomodo. Le truppe di Macron, nel frattempo, sono state estromesse dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso, dal Mali.

Nella storica base collocata a lato dell’aeroporto di Niamey, da tre settimane, accanto al contingente italiano (250 uomini) e tedesco, i russi hanno sostituito i francesi; e il Niger ha molto uranio che fa gola a tutti.  I mercenari della Wagner sono insediati stabilmente nel Sahel, addestrano gli eserciti nazionali, gestiscono le miniere. Per giunta la rendita francese connessa alla valuta di origine coloniale (il CFA) è ormai prossima all’archiviazione definitiva. Il 16 settembre 2023 è stata sottoscritta la carta di Liptako Gourma che prevede una nuova moneta autonoma nel Sahel (Eco e/o Afrik) e la chiusura degli accordi fiscali con la Francia (verrebbe meno l’obbligo di versare il 50% della riserva statale alla banca centrale francese e il redditizio passaggio forzato per Parigi della convertibilità CFA/Euro).

A fronte di questo disastro diplomatico militare Macron, che a differenza dei capi di governo africani non conosce la guerra e non sa neppure sparare, si è spinto fino a minacciare un intervento in Ucraina contro la Russia, colpevole di averlo sconfitto in Africa! Guerra, colonialismo e flussi migratori si confermano strettamente legati, ma i governanti europei faticano a comprenderlo. Giocano con il fuoco, con presuntuosa tracotanza, convinti che tutto sia loro consentito, sicuri di vincere sul campo perché vincono le elezioni. Ma la guerra e le urne poggiano su regole diverse. La certezza dell’impunità viene trasmessa dai funzionari del potere ai sudditi, con perverse conseguenze che cadranno proprio sui più deboli. Machiavelli, citando Lorenzo il Magnifico, osserva che i guai dei popoli provengono dai loro governanti: E quel che fa ‘l signor fanno poi molti, Che nel signor son tutti gli occhi volti. Grazie anche alla forza della comunicazione si è radicata la convinzione che non abbia ricadute sociali trasferire la spesa pubblica destinata all’antico welfare in armamenti destinati al fronte ucraino, reprimere la protesta studentesca e popolare contro i massacri in Palestina, criminalizzare i migranti e rinchiudere inutilmente nei CPR una quota di sbarcati, affamare le popolazioni africane e rapinarle di ogni risorsa. Non è così. Gli errori nell’agire provocano, prima o poi, inevitabili reazioni, e queste possono essere dolorose.

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò trionfante l’entrata in guerra, ricevendo gli applausi di una folla che correva incosciente verso il baratro, incontro al disastro. Il Duce sosteneva che il combattimento era necessario per proteggere il popolo italiano da chi voleva insidiare l’esistenza stessa della nazione; come la sua nipotina Giorgia Meloni prometteva di colpire il nemico in terra, in mare, nell’aria (il c.d. orbe terracqueo) con una parola d’ordine (vinceremo!) che ci ricorda molto da vicino la retorica odierna. L’irresponsabilità è la medesima.

Nuove caratteristiche della guerra

Nel 1999 Qiao Liang e Wang Xiangsui pubblicarono la prima edizione del loro trattato con una definizione, guerra asimmetrica, che costituiva una vera novità nell’ambito degli studi militari moderni. Il testo è ormai divenuto un classico e indica nella prima guerra del golfo (17 gennaio 1991) il punto di svolta. Negli ultimi trent’anni i conflitti sono proseguiti in modo strisciante, tuttavia senza mai una sosta. Anzi l’ampiezza dei territori insicuri o pericolosi va crescendo, sempre e costantemente, giorno dopo giorno; l’area in cui vige il tempo di pace si è assai ristretta, comunque coltivando al proprio interno contraddizioni di non poco conto (scontri etnici, attentati terroristici, discriminazioni razziali o legate alla religione). La deterrenza tradizionale, fondata sul timore dell’arsenale atomico, ha perso la forza originaria (quella che aveva risolto la crisi cubana, ad esempio). Nuovi paesi possiedono la bomba (Israele, Corea del Nord, Pakistan), altri si apprestano ad acquisirla; comunque l’accesso all’ordigno atomico appare meno difficile rispetto al secolo scorso. Durante la prima guerra del golfo furono i giganteschi costosissimi velivoli americani a fare la differenza; distruggevano dall’alto, irraggiungibili. Ancora oggi consentono una sostanziale supremazia, sono ad esempio il punto di forza dello stato d’Israele.

Ma con il passare degli anni si sono rivelati insufficienti; gli americani hanno ugualmente perso la guerra in Afghanistan, si sono dovuti ritirare insieme ai loro alleati lasciando il campo ai talebani che, almeno sulla carta, non avevano alcuna possibilità di spuntarla. Rastrellamenti, danneggiamenti e stragi non sono bastati, hanno ritardato ma non evitato la sconfitta. A ben vedere, dopo la guerra del golfo nel 1991, gli americani non hanno più vinto in nessun posto. Dunque non basta avere armi moderne e potenti; esistono altre variabili e possono, in determinate circostanze, risultare decisive. E’ un segno di come sia mutata l’essenza stessa del conflitto, divenuto davvero asimmetrico, soggetto a eventi imprevisti.

Il capo di stato maggiore russo, Valerj Vasilievic Gerasimov, pubblicò sul numero 8 del Corriere militare-industriale (27.2.2013) un articolo che conteneva riflessioni di notevole interesse sulla guerra moderna, osservando: nel XXI secolo c’è una tendenza a sfumare la distinzione fra guerra e pace. Le guerre non vengono più dichiarate e una volta iniziate non seguono più il modello a cui siamo abituati. E ancora: l’uso palese della forza, spesso sotto le mentite spoglie del mantenimento della pace o della gestione delle crisi, viene utilizzato solo fino a un certo punto, principalmente per ottenere il successo finale nel conflitto.

In effetti sono in corso solo guerre non dichiarate, ma non per questo meno sanguinose. Accanto allo spettro dell’ordigno atomico (magari solo tattico in via di sinistra mediazione filologica), ai missili e alle difese per neutralizzarli, ai carri e ai bombardieri d’alta quota, il combattimento riguarda i corpi, uno di fronte all’altro  in divisa, o tanti civili inermi in attesa della morte. Ma in Ucraina ha conquistato un ruolo da protagonista il drone, non quello di grandi dimensioni, quello piccolo invece, economico, maneggevole. Un mezzo destinato a utilizzi sempre più massicci, introducendo nello scontro quotidiano un elemento inatteso, a volte di sorpresa.

Un missile, peraltro spesso intercettato durante il volo, costa decine di milioni; di recente Ali Baba ha venduto (non si sa a chi) per 57.000 dollari un UAU ad ala fissa H250, adatto ad uso militare (poi si sono scusati). Peraltro con solo 179,99 dollari si compra su Amazon il Potensik 2,7K, con 60 minuti di autonomia, apparentemente innocuo ma (come le rivoltelle giocattolo) modificabile da mani esperte. Bande di mercenari possono partecipare a guerre non dichiarate con armamenti low cost; questo è un fatto, ed è anche un fatto nuovo. Giovani tecnici ucraini, in laboratori semiartigianali, servendosi di alta tecnologia, hanno creato software trasformando un drone di fabbricazione turca, il Bayraktar TB2, in un’arma efficace contro i russi. Ora funziona a pieno ritmo una variegata industria bellica nazionale, come la Aerozozvidka del colonnello Yaroslav Honchar, che non riesce a soddisfare l’ordinazione crescente. I droni ucraini si servono di radar e intelligenza artificiale forniti dall’americana Forte Technologies, sono fonte  di profitti in crescita; il drone UJ22 Airborne (a elica e benzina) ha un’autonomia di 800 chilometri, tocca 120 Km/h, è lungo 3 metri, pesa solo 85 Kg, economico, facilmente trasportabile con un furgone. Con 50 mila dollari si acquista anche l’ucraino Bober (castoro), velocità 200 km/h; porta un discreto carico esplosivo e non è semplice da intercettare per via del tragitto modificabile da remoto.

I russi, dopo i primi colpi subiti, hanno imparato presto la lezione sotto i colpi del nemico e preparato la risposta. L’Iran ha fornito il drone Shahed-136 (testimone 136), disponibile in grande quantità, a buon prezzo (probabilmente assai  meno dei 50 mila dollari di base, pagati magari in oro, comunque vanificando le sanzioni); si tratta di un vecchio modello già sperimentato con successo dai combattenti talebani e ora, nel Mar Rosso, anche dai militanti Houthi.  Con ala a delta di circa 2,5 metri, pesa 200 kg, raggiunge 185 km/h, basta un camioncino per il trasporto, monta un  motore a 4 cilindri copiato dalla tedesca Limbach, lo si guida a distanza con una semplice SIM per cellulari 4G. L’Iran ha aperto una fabbrica di droni in Tagikistan, hanno richieste da ogni fronte nel mondo. L’esame di uno Shahed abbattuto rivela le contraddizioni dell’economia globale di guerra: processore americano, pompa anglo-polacca, convertitore cinese.

Dal novembre 2023 si è evoluto nel modello Shahed-238, un turbo difficile da intercettare ma con il difetto di essere assai più costoso e per giunta esposto ai missili che lo tracciano. Si è affiancato poi il nuovo Lancet 3, prodotto dalla mitica Kalashnikov, con motore elettrico (il che impedisce le rilevazioni acustiche e termiche) ma con una limitata autonomia (solo 80 chilometri). La scelta del comando politico-militare russo è stata infine quella di produrre in casa una sorta di Shahed nazionale, chiamato Geran 2, reso più efficiente dell’originale grazie all’applicazione di tecnologie occidentali (e schegge di tungsteno in testata). La fabbrica di Alabuga (Tatarstan), aperta nel luglio 2023, impiega ora 2400 operai; entro l’estate del 2025 (fra meno di un anno) saranno pronti seimila droni, a basso costo, da lanciare, in lotti da 5,  svolazzando come farfalle senza linee rette, diretti contro le postazioni ucraine. Ancora una volta l’analisi del prodotto scopre i veli, emergono le contraddizioni del mercato globale: il Geran 2 prodotto in Russia, su licenza iraniana, contiene 55 parti americane, 15 cinesi, 13 svizzere, 6 giapponesi. In ogni caso si tratta di un affare di straordinarie proporzioni!

Solo dieci anni or sono i droni con scopo offensivo, e non soltanto ricognitivo, venivano prodotti a centinaia, non certo a migliaia; Alabuga segna un cambio di passo destinato a mutare il modo di fare la guerra. Una guerra non dichiarata ma potenzialmente diffusa, quasi endemica. Il drone trasportabile messo a punto nei laboratori ucraini e iraniani, a prescindere dalla differenza di modello, una volta prodotto in serie è idoneo a rimuovere i vincoli tradizionali, ad aggirare i limiti di azione; inserisce l’inatteso, pone le condizioni di una dialettica forza/sorpresa che si traduce inevitabilmente in innovazione bellica. Vedremo quali ricadute ci saranno negli altri focolai, Palestina compresa; non si può controllare ogni zolla di territorio, ogni insediamento, ogni vita umana.

Macron minaccia la Russia vaneggiando interventi militari; per il momento, nonostante l’atomica nei magazzini, si è però fatto cacciare dal Niger. Pochi giorni fa se ne è andato alla chetichella anche Biden, dopo l’intimazione di sfratto e l’arrivo di Wagner. Accanto a russi e iraniani, autocrati in sintonia con il governo insediato con il golpe anti-occidentale, rimane solo una piccola pattuglia italiana, al comando del generale Figliuolo, quello del Covid. Difficile comprendere a far che cosa!  Il Niger è grande 4 volte l’Italia, ma ha solo 26 milioni di abitanti e il tasso di natalità più alto del mondo (6,82 per donna), una popolazione giovanissima con una consolidata abitudine al combattimento e una gran voglia di futuro. Fermare il flusso migrante dal Sahel all’Europa, nonostante le urla neo-papiniane di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non pare cosa facile da realizzare in concreto. Infatti il numero degli sbarcati, provenienti dal Sudan e dai paesi del G5, non accenna a diminuire. Ma gli apprendisti stregoni, insediati nei governi europei, continuano a provocare, senza mai davvero riflettere sul significato sostanziale della guerra e della pace.

The scene dissolves, is succeded by a grinning gap, a growth of nothing pervaded by vaguerness [1].

NOTE

[1] La scena si dissolve, le succede un sorridente precipizio, una crescita del nulla pervaso d’incertezza

Immagine di apertura: Angelus Novus di Paul Klee, 1920

«Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l’angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso»

(Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, Tesi IX, in Gesammelte Schriften (Opere complete), a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp Frankfurt a. M. 1980, Volume I.2, p. 697)

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 13 maggio 2024

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