Gianni Giovannelli

Per Gianfranco Sanguinetti

di Gianni Giovannelli

Nel 1948 in Italia non esisteva il divorzio; Bruno Sanguinetti, il padre di Gianfranco era sposato, ma non con la sua compagna, Teresa (Chicchi) Mattei. Tuttavia erano in attesa che nascesse il primo figlio della loro relazione. Bruno era un iscritto importante del Partito Comunista, Teresa la più giovane deputata all’Assemblea Costituente, sempre con il Partito Comunista. In quegli anni un rapporto stabile fra una nubile e un coniugato veniva definito nel linguaggio dei penalisti tresca, un delitto punito con la reclusione fino a un anno (lui) o fino a due anni (lei). I nati da queste unioni erano definiti adulterini, era vietato riconoscerli, chi lo faceva andava incontro a una condanna, finiva in carcere. Per questo la coppia prese la residenza a Budapest, nell’Ungheria del blocco sovietico, ben disposta ad accoglierla per ragion politiche.

La gravidanza procedeva a dispetto delle leggi italiane e nel mese di luglio non si poteva aspettare oltre. Ad evitare problemi burocratici, escluse Italia e Ungheria, la scelta cadde sulla Svizzera. Noleggiarono un piccolo velivolo per passare la cortina di ferro. Ma… le autorità ungheresi misero una condizione per consentire il decollo, i Sanguinetti avrebbero dovuto portare a bordo un singolare passeggero, un pazzo conclamato da consegnare alle autorità elvetiche. In dotazione ebbero una siringa per iniettare un calmante nel caso in cui il malato di mente avesse avuto una crisi. L’apparecchio atterrò a Zurigo senza problemi durante il volo; lo strano equipaggio fu perquisito a fondo dai diffidenti doganieri della Confederazione, ma andò tutto bene. Teresa, straordinaria donna di spirito, mi raccontò che dichiararono allo sbarco tre pazzi e mezzo. Conoscendola è probabile che abbia detto proprio così!

Il mezzo era Gianfranco Sanguinetti; nacque il 16 luglio 1948 nella Clinique de Chamblades, a Pully (Lausanne), nel bel mezzo delle sommosse che scuotevano l’Italia dopo l’attentato a Togliatti avvenuto due giorni prima, il 14. Qualche mese dopo fu contrabbandato clandestinamente in Italia, con un passaporto ungherese. In seguito, si sa che la burocrazia ha le sue falle, fu riconosciuto grazie ai sapienti consigli di abili avvocati. Questa nascita avventurosa fu il primo atto di una esistenza condotta, coerentemente, sempre fuori da ogni regola e da ogni ragionevole previsione. Poi arrivarono l’Internazionale Situazionista, l’amicizia con Guy Debord, l’espulsione dalla Francia come sovversivo, la pubblicazione della grande beffa siglata Censor; svelava in anticipo quel che sarebbe stato il compromesso storico fra comunisti e democristiani, fingendosi potente eminenza di Palazzo e ci cascarono tutti i geniali giornalisti, professori, sociologi, scrivendo tonnellate di sciocchezze e così coprendosi di ridicolo non appena uscì il pamphlet Prove dell’inesistenza di Censor enunciate dal suo autore. Anche dopo lo scioglimento dell’Internazionale Situazionista non ha mai smesso di criticare il potere, la società dello spettacolo. Effimera ha pubblicato qualche suo intervento, sulla guerra in Ucraina e sul crescente affermarsi di un nuovo dispotismo. I suoi scritti erano rari nelle apparizioni, curati in ogni dettaglio, mai banali. Il suo archivio personale è collocato, grazie al gran lavoro del suo amico Kevin Repp, presso la Beinecke Library, presso l’Università di Yale. È consultabile: in quelle carte (foto, libri, manoscritti) c’è la sua storia, la sua vita.

In questi cinquant’anni di amicizia, cominciati litigando, si sono susseguiti accordi e disaccordi, ma finiva sempre per reggere il legame. Una volta mi disse (citando Montaigne) che era mio amico perché lui era lui e io ero io. Mi mancherà, anzi mancherà. Se ne è andato di notte, in un ospedale di Praga, la città in cui aveva scelto di vivere, lasciando Milano, incuriosito dal come le comunità sorte durante il regno del socialismo reale si sarebbero comportate dopo la caduta del muro. Magari stava dormendo, giusto per non dare alla malattia la soddisfazione di aver vinto. D’altra parte lo si sa: quello dei situazionisti era e rimane un estremismo coerente.


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 5 ottobre 2025

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Guerra e diritto

di Gianni Giovannelli

Quest’epoca rumorosa che rimbomba
della spaventevole sinfonia di fatti
che producono cronache
e di cronache che causano fatti

Karl Kraus
(In questa grande epoca, Marsilio, 2018, pag.51, trad. Irene Fantappiè)

L’impianto teorico su cui si fondano ancora oggi le norme del diritto internazionale che dovrebbero regolare e disciplinare lo scontro bellico (dichiarato o di fatto) è incompatibile con quella che ormai – pacificamente – è diventata la forma dominante assunta, sul campo, dalla guerra. La comunicazione, tramite ambasciatori, della tradizionale “dichiarazione di guerra” è caduta in disuso: nel corso del terzo millennio, per una ragione o per l’altra, nessun governo di stati esistenti (riconosciuti o meno) ha ritenuto necessario notificare un avviso formale di apertura delle ostilità prima di dar corso a bombardamenti, ad attacchi navali o ad operazioni di conquista armata del territorio. L’effetto sorpresa, le notizie false spacciate per vere e l’aggressione improvvisa a tradimento sono anzi ormai entrati a far parte dell’istruzione militare nelle accademie, dei programmi di addestramento delle truppe, dei piani elaborati per aprire o gestire il conflitto.

Le strutture faticosamente costruite dopo la seconda guerra mondiale per garantire il rispetto delle regole, aiutare i deboli e comporre i conflitti (dalla Corte Internazionale di Giustizia alla Corte Penale Internazionale, dall’ONU all’Organizzazione Mondiale della Sanità) sono ormai considerate un fastidioso ostacolo all’esercizio della forza da parte degli stati nazionali e/o delle alleanze formatesi intorno alle potenze guida. Di fatto gli ordini di carcerazione emessi dalla CPI (per esempio nei confronti di Putin e Netanyahu o del libico Almasri) sono apertamente disattesi non solo da chi non aderisce al Trattato istitutivo (Cina, Usa, Russia) ma anche da chi come l’Italia ha ospitato a Roma la sottoscrizione del documento fondante. L’ONU non può prendere, ormai da molti anni, alcuna decisione sulle guerre in corso per via del diritto di veto che possono opporre le cinque nazioni (solo loro!) con questo potere; e poiché Cina, Russia, Stati Uniti, Francia, Inghilterra sono sempre coinvolte sul campo di battaglia l’ONU rimane svuotata di qualsiasi capacità di intervento, inutile, inerme, a prescindere dalla pronuncia, a maggioranza, dei 193 paesi che partecipano all’Organizzazione. Ne abbiamo una conferma proprio in questi giorni, in occasione della discussione sul genocidio in corso a Gaza.

L’ONU: Palestina e Israele

Il 9 settembre 2025, a New York, si è aperta l’ottantesima sessione dell’assemblea generale delle nazioni unite sul tema della pace; a partire dal 23 settembre è prevista la discussione che affronterà la questione del genocidio in corso a Gaza e del riconoscimento della Palestina. Ma i palestinesi non potranno essere presenti, neppure come osservatori (questa l’attuale posizione tecnico-giuridica), perché gli Stati Uniti si rifiutano di concedere il visto d’ingresso. Attualmente 147 paesi su 193 hanno già provveduto a formale riconoscimento; altri (ma non l’Italia) lo hanno fatto proprio in questa occasione. Ma il veto americano, come sempre, paralizzerà qualsiasi decisione dell’assemblea, pur se presa a grandissima maggioranza. Israele, con la consueta arroganza degli impuniti, ha già chiarito che proseguirà il massacro, che la distruzione non si fermerà e che la terra di Palestina viene considerata una pura semplice invenzione. Il programma del governo israeliano prescinde da qualsiasi trattato e viola apertamente perfino i pochissimi accordi firmati in precedenza: genocidio e annessione. Sostituiscono il diritto con la forza delle armi, ogni crimine di guerra viene legalizzato sul campo di battaglia; chi si oppone viene aggredito, bombardato, annientato, contando sul silenzio intimorito degli stati arabi, sul sostegno economico occidentale e sulla aperta complicità degli USA.

La Corte Internazionale di Giustizia è un organo dell’ONU. In data 19 luglio 2024 ha depositato il proprio parere consultivo bollando come illecita l’occupazione israeliana sia in Cisgiordania sia nella striscia e denunciando il genocidio in atto (cfr. A/HRC/60/CRP.3). Tuttavia lo stato d’Israele – che pure mantiene ben saldo il suo seggio nelle Nazioni Unite – non tiene conto del severo inequivocabile giudizio della commissione indipendente, equiparata dalla stampa di regime a un covo antisemita al soldo di Hamas. I giuristi del governo Netanyahu continuano a sostenere che l’intera Cisgiordania va considerata un territorio conteso, come tale soggetto ad azioni di occupazione o rastrellamento, con possibile annessione a breve termine; naturalmente questi giuristi (a loro confronto Carl Schmitt pare un pacifista hippie) negano qualsiasi adesione alla Corte Penale, in generale alle strutture di limitazione bellica e in particolare al TNP (trattato di non proliferazione nucleare). Il marchingegno della  non firma consente di bombardare l’Iran (che aderisce al TNP e si sottopone a controlli) ma al tempo stesso di accumulare armi atomiche in siti segreti. Un bel tipo come il ministro delle finanze Smotrich non solo abita con la sua famiglia in una porzione di terra palestinese (che l’ONU considera insediamento illegale dell’occupante), ma dispone anche di (pare circa) 90 bombe nucleari. Siamo in buone mani e possiamo dormire sonni tranquilli.

Francesca Albanese

Funzionaria dell’ONU è la ormai nota dottoressa Francesca Albanese, eletta dal consesso il 1 maggio 2022 con funzioni di relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1977. Il suo rapporto (depositato il 25 marzo 2024) circolava prima in bozza. Infatti già in febbraio Israele le ha negato la possibilità d’ingresso in tutta la Cisgiordania. A seguire sono arrivate le sanzioni americane, con il blocco perfino dei contratti bancari e delle carte di credito in ogni paese del democratico occidente, prontamente piegatosi al comando del padrone senza neppure un sussurro di protesta. L’inserimento in lista americana di proscrizione è ostacolo all’apertura di conti correnti in Italia[1]. Impedire l’accesso agli uffici americani dell’ONU e al territorio occupato nella Cisgiordania, quello da esaminare, equivale all’abrogazione del ruolo di relatore speciale: ma l’ONU ha incassato silente. Non basta. Il marito di Albanese, che per sua fortuna venne assegnato alla filiale di Tunisi, ma è comunque un dipendente della Banca Mondiale con sede in America; dunque è sanzionabile (come pure la loro figlia, cittadina americana) nel caso in cui venisse in mente di prestare un “soccorso bancario”. Questa persecuzione è scattata per aver scritto nel rapporto ONU la verità sulla costante persecuzione razzista e colonialista in danno della popolazione palestinese per mano di coloni illegalmente insediati nei territori e di soldati dell’IDF. Queste norme presidenziali prevalgono di fatto su quelle che dovrebbero assicurare protezione e indipendenza agli operatori delle Nazioni Unite. Perfino la Croce Rossa e l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono oggetto di attacco militare e mediatico, lasciando sul terreno numerosi cadaveri. I soldati dell’IDF uccidono medici, giornalisti, infermieri, contadini, operai, bambini, malati, a centinaia ogni giorno, certi dell’impunità. Questo è il necrologio del diritto internazionale costruito dopo il 1945. Le conseguenze dobbiamo ancora conoscerle.

La guerra asimmetrica produce nuove codificazioni internazionali

La guerra segna questo tempo in cui ci troviamo a vivere, domina, prevale su ogni altra esigenza, è l’architrave che sostiene il nuovo edificio del diritto in costruzione. Dopo la sistematica vanificazione, per fatti concludenti, del complessivo corpo normativo internazionale (che si proponeva di rimuovere in via preventiva lo scontro armato con una coesistenza pacifica fra diverse strutture istituzionali) gli eserciti hanno il compito di rappresentanza non più solo militare, ma anche politica, economica, sociale. E’ vero che il programma di delegificazione nei rapporti fra stati non si è ancora concluso, ma del vecchio edificio risalente al compromesso di Jalta fra Stalin, Roosvelt e Churchill in piedi è rimasto ben poco; in sostituzione, più che un nuovo diverso ordine mondiale, si va delineando ogni giorno di più un conflitto endemico generalizzato senza regole ove ogni crimine contro l’umanità, se non proprio consentito o tollerato, rimane però una possibile opzione, a disposizione delle milizie in campo, sulla base dei rapporti di forza. A ben vedere quel che accade a Gaza non è un imprevisto stato di eccezione (come sperano i nostalgici del liberalismo e della socialdemocrazia) ma è invece la conseguenza concatenata della scelta di guerra asimmetrica per mantenere o conquistare il potere. Non a caso il progetto israeliano di deportazione (o alternativamente di eliminazione) fisica della popolazione poggia sia sulla conquista statuale nazionale (in forma di annessione) sia sul coinvolgimento del sistema d’impresa globale e autonomo da ogni legame politico-affettivo con il territorio (un sistema nato e cresciuto, consolidandosi, dentro il processo di finanziarizzazione).

Si sta modificando anche il sistema legislativo delle singole nazioni

Nel 1748 Montesquieu pubblicò a Ginevra, come anonimo, il suo celebre Esprit des lois. Percepiva la rivoluzione francese in arrivo, viveva nella transizione, sentiva come inevitabile la fine dell’assolutismo e fissò il principio cardine dello stato liberale: la separazione dei tre poteri. Lo aveva ben chiaro: il venir meno dell’autonomia della funzione legislativa rispetto a quella esecutiva o giudiziaria, mediante fusione in una sola mano, conduceva a una forma diversa, da lui chiamata dispotismo (nel capitolo primo del libro secondo scrive: nel dispotico uno solo senza legge e senza regole trascina tutto con la sua volontà) La tripartizione separata dei poteri si contrapponeva sia all’assolutismo orientale sia a quello occidentale; in particolare incrinava teoricamente, mirando ad abbatterlo in concreto, il sistema normativo del diritto giustinianeo allora dominante nella vecchia Europa. Una annotazione curiosa di Montesquieu compare nel libro XI, a proposito del nuovo assetto liberale: siccome le cose umane hanno una fine lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà …. Perirà quando il potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo …

Negli stati nazionali la corruzione domina nelle assemblee legislative, senza conoscere confini di territorio, di religione, di linea politica. È un problema diffuso. Al tempo stesso, ovunque, la tendenza istituzionale dentro la transizione è quella di unificare nell’esecutivo (non solo quello di governo, anche quello d’impresa, pubblica o privata) la modifica delle leggi. La forma decreto (decreto legge o, mediante delega, decreto legislativo) prevale da tempo in Italia; si salda con il mosaico dei decreti ministeriali apparsi rumorosamente durante l’emergenza pandemica come una sorta di necessario intervento straordinario e rimasti poi in uso assumendo un carattere ordinario. Dopo la pandemia ogni decisione dell’apparato di comando si va liberando del tradizionale percorso parlamentare (tacciato di essere burocratico e dannoso), trovando invece giustificazione nell’interesse nazionale e soprattutto nella difesa dal nemico mediante le armi e la guerra. Il nuovo pilastro teorico del diritto (o meglio: della delegificazione) che il potere va costruendo dentro l’odierna transizione viene ripetuto in modo quasi ossessivo, latineggiando senza spiegazioni ulteriori e un po’ stravolgendo il testo di Vegezio: si vis pacem para bellum 

Mediante fatti concludenti lo stato italiano ha eluso perfino le norme del vigente codice militare di guerra (Regio Decreto 20.2.1941 n. 303) che si applica (art. 9) anche ai corpi di spedizione in tempo di pace. L’art. 191 sanziona con reclusione non inferiore a 10 anni chiunque spari contro autombulanze; l’art. 192 impone la pena di morte (ora l’ergastolo) contro chi causa la morte di un naufrago. Come la mettiamo con le truppe israeliane che in Palestina e Libano vanno sparando contro il corpo di spedizione italiano e contro gli ospedali o con le motovedette libiche cha annegano i migranti a pochi passi dalla nostra Marina militare? Le regole d’ingaggio (tenute segrete) impongono di reagire e impedire i crimini oppure le norme valgono solo per i droni russi nel cielo polacco?

I continui interventi dell’esecutivo nella legislazione italiana hanno creato una situazione di incertezza quasi totale, rendendo quasi impossibile distinguere ciò che è lecito, ciò che è tollerato, ciò che è vietato. I delitti possono diventare comportamento non punibile (per esempio l’abuso d’ufficio) o punibile solo quando la vittima chiede l’azione penale (ma a proprie spese, per lesioni subite o per un borseggio). Può di contro diventare un crimine ciò che prima era permesso, come la commercializzazione di cannabis light. La comunicazione di regime (per mezzo di stampa, social o TV) detta la linea d’intervento giudiziario; quando la magistratura non esegue viene attaccata. Aveva ragione Montesquieu: il principio cardine del dispotismo è la paura, senza incutere timore lo stato dispotico sarebbe imperfetto. L’evocazione della guerra e il bisogno costante di un nemico trovano spiegazione logica.

Le varie articolazioni del dispotismo moderno

La caratteristica comune delle varie articolazioni del moderno dispotismo si coglie naturalmente nel superamento e/o nel ripudio della separazione dei poteri, piegando invece sia la funzione legislativa sia quella giudiziaria ai precetti imposti dall’esecutivo, in pace e in guerra. Sulla scena compaiono dispotismi a carattere teocratico, o fondati sul c.d. socialismo di stato, poi ci sono dispotismi di mera rapina delle risorse nelle regioni più povere, e ancora quelli che impongono il razzismo di stampo coloniale o etnico, tutti accanto al nuovo dispotismo democratico che si profila come l’approdo naturale del variopinto blocco occidentale. Il tramonto del fordismo, la caduta del muro, le continue innovazioni tecnologiche, l’intelligenza artificiale, la finanziarizzazione e la precarizzazione hanno accelerato il processo di trasformazione in modo così radicale da cogliere a volte di sorpresa non solo le vittime ma anche i carnefici. Permane il conflitto fra le varie forme di dispotismo, sorgono nuove alleanze anomale, del tutto asimmetriche, a volte perfino quasi illogiche. Per una sorta di contraddizione politica dispotismo e multipolarismo convivono dentro il mosaico di tasselli in guerra, si nutrono l’uno dell’altro, in un quadro complessivo mutevole, liberato da ogni principio umanitario, tenendo conto soltanto del risultato di breve periodo, del profitto immediato, senza programmi a lunga scadenza o progetti di futuro.

L’opzione dispotica non è compatibile con la mediazione, con la trattativa, con il compromesso, con il patto sociale, con la pacifica convivenza dei diversi. Muore e tramonta l’idea tradizionale del centro politico quale ago della bilancia decisivo capace di comporre le divergenze fra progressisti riformatori e conservatori restauratori; i partiti moderati, nel vecchio occidente democratico, hanno imboccato il viale del tramonto, sono ormai ovunque minoranza irrilevante che sopravvive mediante cooptazione o sparisce. Dunque ogni rivendicazione e qualsiasi richiesta di riconoscimento di un diritto negato dal potere  si pongono, immediatamente e inevitabilmente, come un atto eversivo passibile di repressione, condanna, sanzione. Lo vediamo, sul campo, con sempre maggiore frequenza. Nel dispotismo non c’è spazio per la certezza del diritto; solo l’apparato di comando (l’esecutivo) è depositario esclusivo della nozione di lecito o illecito senza consentire intrusioni di un terzo quale arbitro. Il sovrano (non a caso l’ideologia viene detta sovranista) è sciolto dai limiti della legge (da ogni charta dei diritti, sia dei singoli sia delle collettività). L’abrogazione di fatto del sistema normativo, oggi perseguita dall’apparato di comando, nulla ha in sé di anarchico o di libertario; semplicemente pone ogni esistenza nelle mani del potere.

Azione e istigazione: repressione del dissenso

L’azione è una manifestazione di volontà, a volte generica, più spesso diretta a conseguire un fine preciso, a raggiungere un risultato; rende concreto il pensiero, realizza la speranza, si contrappone alla passività. L’azione connessa al dissenso è per questo osteggiata dai governi che cercano in ogni modo di ostacolarla, di impedirla. Giacomo Leopardi (Zibaldone, 2381) ci offre questa riflessione: distingue il vivo dal morto; la vita consiste nell’azione. Per agevolare la criminalizzazione del dissenso i governi, nel tempo del dispotismo, sanzionano non solo il comportamento disobbediente (appunto l’azione) ma anche l’istigazione, quella che il dizionario definisce esortazione, consiglio, influsso esercitato in modo insistente perché venga presa una decisione o un’iniziativa. Quando è lo Stato (specie se dispotico) a istigare una comunità, un gruppo, una popolazione, tutto è consentito, ricondotto ad funzione stimolatrice, a incentivo del bene. Si può perfino mentire (le c.d. fake news). Quando invece l’istigazione proviene dall’area dei disobbedienti, mira a modificare lo stato di cose oppressivo, invoca diritti (esistenti ma disattesi oppure nuovi) allora diviene sobillazione, incitamento a commettere delitti e per conseguenza essa stesso un crimine.  Ecco: questa norma, inserita nel codice fascista in vigore, quello elaborato da Alfredo Rocco (414 c.p.) prevede da 1 a 5 anni di carcere per il solo fatto dell’istigazione. Le istituzioni democratiche l’hanno ereditata volentieri; la Corte Costituzionale (sentenza n. 65 del 4 maggio 1970) ha ritenuto conforme ai principi della Carta l’ipotesi delittuosa perché non sono concepibili libertà e democrazia se non sotto forma di obbedienza alle leggi così che sussiste la necessità di prevenire e far cessare i turbamenti della sicurezza pubblica. Già allora per questa necessità fu arrestato, il 15 novembre 1969, il direttore di Potere Operaio Francesco Tolin, responsabile di un articolo che chiamava alla lotta gli operai di tutta Italia; il processo per direttissima a Roma si concluse con la condanna (senza condizionale) a 17 mesi di galera. Dopo 5 mesi ebbe la libertà provvisoria e sull’onda delle lotte in fabbrica usufruì dell’amnistia. La norma piace al governo Meloni, che non l’ha toccata.

Sopruso odio e transizione

La paura è il principio su cui poggia ogni dispotismo. Il sopruso impunito alimenta la paura. A chi subisce il sopruso viene sottratto il ruolo di vittima sia perché in qualche modo una vittima evoca potenziali diritti negati sia per legittimare sul campo la violenza dell’organizzazione statuale dispotica. I coloni israeliani che bruciano gli ulivi dei contadini palestinesi si stanno difendendo, gli attaccanti sono gli arabi in quanto terroristi, anzi (per usare il vocabolario di Smotrich e di Ben Gvir) animali. In questi giorni la destra usa l’attentato mortale a Charlie Kirk come pretesto per attribuire agli oppositori del governo italiano il ruolo di mandanti, di potenziali assassini accecati dall’odio.

Il caso Charlie Kirk

Charlie Kirk era totalmente sconosciuto in Europa, nessuno ha tradotto i suoi libri, pochissimi sapevano chi era. Certamente nessuno lo odiava. Non c’è dubbio che fosse un evangelico radicale (bianco), sostenitore di Trump, avverso all’Islam, un tipo che sarebbe piaciuto, nel XIX secolo, al cardinal Ruffo e a Monaldo Leopardi. Considerava il Civil Rights Act un grave errore e Martin Luther King non gli pareva una brava persona. Non è certo il solo a pensarla così negli stati dell’Unione. Aveva comunque vasto seguito popolare e molto successo; del resto negli USA non è questo un fenomeno isolato, numerosi sono gli aspiranti alla successione, lo si è visto al funerale che ha raccolto una folla oceanica. Chi lo ha (con ogni probabilità e salvo sorprese) assassinato, il giovane Tyler Robinson, sembra inventato apposta per eccitare il pubblico nordamericano. Ha sempre vissuto a Orem (Ohio), una cittadina ordinata composta di case sparse, i cui abitanti sono per 88% di religione cristiano-mormone e per 88% bianchi; come tutti a Orem era stato educato secondo i principi piuttosto rigidi della Chiesa dei Santi del Settimo Giorno, che frequentava come tutta la sua famiglia. Possiamo solo immaginare la reazione della mamma assistente sociale e del babbo piccolo imprenditore, repubblicani dichiarati (come il governatore mormone dell’Ohio James Spencer Cox) quando hanno avuto notizia che il ragazzo aveva un(a) fidanzat& transgender e ci conviveva. Tara Westover, nata mormone nell’Idaho (confina con l’Ohio) ha scritto una straordinaria autobiografia romanzata (trad. it: L’educazione, Feltrinelli) in cui descrive come vive quella comunità, collocata geograficamente nel ventre profondo dell’America rurale, e come i singoli soggetti reagiscano di fronte a novità inattese che contrastano i principi della loro religione. Satana è costantemente in agguato! Tara Westover spiega, nel suo libro, meglio di mille sociologi, il gesto folle di questo ragazzo; e ci permette di comprendere la pressione esercitata dai genitori e dalla comunità per spingere Tyler a costituirsi, i conoscenti a collaborare, il peccatore a cercare la salvezza eterna, di fronte alla quale anche la pena di morte è un incidente di modesto rilievo. Ebbe a scrivere Tara il 25.6.2020 su BBCNews: siamo un solo popolo, costruiamo un mondo in cui possiamo essere un solo popolo. Come in un romanzo russo dell’Ottocento, in un clima di eccitazione celebrativa, entra pure il pentimento del(la) fidanzat& e l’invito a giustiziare il reo, mescolati al perdono (della vedova in lacrime), alla vendetta (del governatore), all’odio (Trump). Nessuno conoscerà mai davvero il movente, ma possiamo star certi che gli editori di bestseller sono già al lavoro!

Odio in salsa italiana

Si va scatenando in questi giorni una campagna pubblicitaria che attribuisce ad una imprecisata sinistra il disegno criminoso: istigare una turba estremista di menti fragili (terroristi, abortisti, gay, trangender, islamisti e dintorni) e riesumare così il terrore del decennio brigatista (quello nero rimane in sordina, sullo sfondo). La turba estremista non ha nome; i mandanti pro Brigata Rossa sarebbero nientemeno che Conte, Schlein, Fratoianni, Bonelli e perfino Renzi. I loro complici sono gli ecologisti, i centri sociali e gli intellettuali radical chic. Questa è propaganda di guerra; in Ucraina o a Gaza non importa, basta che il clima rimanga di incertezza e paura, senza regole certe, invocando il potere come unica difesa, per la pubblica sicurezza e l’obbedienza generalizzata.

A Roma il Centro Sociale La Strada ha ricevuto un ordigno esplosivo per mano della Brigata Ebraica Dario Vitali, come punizione per il sostegno al popolo palestinese. Questo Dario Vitali, toscano, ebreo fascista della prima ora (fondò a Livorno L’intrepido, organo degli squadristi), fu mantenuto nei ranghi dell’esercito mussoliniano, nonostante le leggi razziali, perché decorato di guerra; stava nelle colonie e fu catturato dagli inglesi nel 1941, evitando guai peggiori. Per la gioia del generale Vannacci a Dario Vitali il 19 settembre 2023 venne intitolata la nuova base del Comando Forze Speciali (la Folgore a San Pietro a Grado nei pressi di Pisa); i dinamitardi della Brigata Ebraica hanno gli stessi ispiratori del celebre corpo militare dei parà. Ma costoro non odiano, sono patrioti; come nel caso dei contadini palestinesi i veri aggressori sono gli aggrediti del Centro Sociale, istigano, sobillano, minacciano.

La campagna volta a far passare l’intero governo per vittima degli oppositori è uno strumento per guadagnare consenso e per criminalizzare chi, per qualsiasi ragione, cerchi la strada per poter dissentire. Richiamo ancora Tara Westover: lascia ciò che è tossico, che sia un lavoro, una casa, una relazione, una famiglia, non importa, quel che importa è staccarsi da ciò che fa male. Anche dalla rete, aggiungo. Di fronte ad una campagna grottesca, assurda, bugiarda fin dalla radice meglio disertare, disconnettersi, lasciarli gridare nel deserto. E’ solo un trucco, un gioco delle tre carte per mantenerci soli, intimoriti, ansiosi, per farci vivere continuamente nella guerra, senza diritti.

Per chiudere

L’attacco è spietato. Ma la partita non è conclusa, è aperta. Vogliono cancellare i diritti conquistati. Anche resistere al tiranno è un diritto. Anche lottare. Sono diritto costituente.

NOTE

[1] Non solo a Francesca Albanese sono stati sottratti conti correnti e carte di credito in Usa ma non può aprire neanche un nuovo conto in Italia. Nel corso delle verifiche necessarie previste dalla normativa italiana ed europea in materia di antiriciclaggio e contrasto al finanziamento al terrorismo è emerso che Albanese risulta inserita nelle liste sanzionatorie statunitensi. Si tratta dell’ASDN list dell’OFAC (https://sanctionssearch.ofac.treas.gov/) e secondo la normativa italiana, sancita dal decreto legislativo 109 del 2007 che recepisce i regolamenti comunitari, le banche non possono accettare di aprire conti correnti  per le persone inserite in tale lista, pena gravi sanzioni. In altre parole, le sanzioni USA hanno valore in tutto il mondo, almeno quello che poggia sul sistema SWIFT (ovvero il dollaro).


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 2 ottobre 2025

La Foto è di Enrique da Pixabay


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La NATO in guerra

di Gianni Giovannelli

Aut si inaniter timemus certe vel timor ipse malum est quo incassum stimulatur et excruciatur cor et tanto gravius malum quanto non est quod timeamus et timemus

(anche se abbiamo paura senza motivo il male è la paura stessa
che punge e disturba invano il cuore: un male tanto più grave in quanto ciò che temiamo non esiste davvero eppure ci spaventa lo stesso).

Agostino
(Confessioni, VII, 5.7)

Il generale Fabio Mini è nato nel 1942; quando, nel 1963, dopo l’Accademia Militare a Modena, è entrato stabilmente nelle file dell’esercito italiano, erano gli anni del c.d. boom economico e della guerra fredda fra i due blocchi. Il primo esperimento di un governo di destra (quello di Tambroni) era fallito dopo soli tre mesi di vita, travolto dalle manifestazioni popolari che avevano riempito le piazze di tutto il paese, da nord a sud; a Genova quasi ci fu un’insurrezione per impedire il congresso del MSI, a Reggio Emilia in cinque caddero il 7 luglio sotto i colpi della polizia di stato, entrando stabilmente nella leggenda. La resistenza di massa della classe operaia alla svolta reazionaria contribuì non poco a rafforzare la ripresa delle lotte in fabbrica, sempre più efficaci fino al celebre Autunno Caldo che modificò l’assetto sociale italiano e spinse l’apparato di governo al varo della strategia della tensione. La caduta di Tambroni aveva aperto le porte agli esecutivi di centro-sinistra, alla presidenza di Saragat e all’ingresso dei socialisti nell’apparato di governo.

Un soldato colto, sensibile e intelligente quale è (e certamente era) il generale Mini non poteva certo evitare la percezione del clima politico che lo circondava e dentro il quale andava costruendo una carriera prestigiosa, fino a diventare capo di stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa (nel 2001 al vertice militare nei Balcani e nel 2002/2003 alla testa della missione KFOR in Kossovo). Solo considerando appieno il percorso politico-militare complessivo dell’autore sarà possibile intendere l’ultimo volume dato alle stampe, di cui con queste note ci stiamo occupando: La NATO in guerra, dal patto di difesa alla frenesia bellica, Edizioni Dedalo, maggio 2025, pagine 174. Il testo è pubblicato nella collana Orwell diretta da Luciano Canfora, che vi ha inserito una breve gustosa prefazione nella quale si bolla la NATO come uno “sgangherato organismo atlantico che ci ha regalato la guerra in Ucraina”. E sulle ceneri della vecchia alleanza egli intravede la nascita (effetto imprevisto e tragicomico) di una para-NATO a trazione franco-inglese che “ha gettato rapidamente alle ortiche il fantoccio ormai afflosciato su sé stesso dell’Unione Europea. Il professor Canfora (solido intellettuale costantemente collocato in area democratico-progressista) e il generale Mini (per oltre 40 anni ufficiale dell’esercito con funzioni apicali) si presentano in perfetta sintonia e appaiono molto (ma molto) più lucidi dei leader politici alla guida di maggioranza e opposizione. L’esame spietato delle scelte, tattiche e strategiche, che accomunano oggi il Partito Democratico e Fratelli d’Italia sul tema della collocazione italiana nel quadro bellico è probabilmente più una critica preoccupata (al confine con un rassegnato timore del disastro che ci si para davanti) che un programma politico. D’altro canto se non riescono a costruire una credibile barricata, capace di frenare la frenesia bellica in crescita, le strutture politiche dei partiti presenti in Parlamento, non si può pretendere che provvedano in supplenza due pur lucidi ottantenni estromessi da ogni ruolo di comando e trattati come un peso fastidioso.

In chiusura del suo saggio, documentato preciso convincente, il generale Mini osserva (ed è difficile non convenire con questa oggettiva descrizione della realtà): si sono trovati mille pretesti falsi per fare la guerra, mai uno, vero o falso, per fare la pace. E aggiunge: in realtà la guerra è diventata l’idea prevalente nelle menti di molti responsabili di governo eletti nelle nazioni o di quei funzionari designati a gestire la NATO o l’Unione Europea. Uomini e donne che non sanno governare, che non conoscono gli strumenti di cui dispongono, che non si curano dei sacrifici che impongono, che non sanno stabilire le priorità dei propri fini e mezzi. Di questa ignoranza la guerra si pasce e compiace. Io aggiungo che le medesime considerazioni valgono per l’opposizione che non sa opporsi, che si dissocia costantemente da ogni ribellione o anche dal semplice dissenso, elogiando e sostenendo la repressione giudiziaria, poliziesca, politica, amministrativa delle voci fuori dal coro.

In questo quadro fosco l’autore inserisce quella che definisce “utopia”, ovvero la prospettiva di “ricondurre” la NATO alle regole del suo trattato fondativo, liberandosi mediante “espulsione” degli stati che minacciano la sicurezza di altri stati o comunità, membri o meno della NATO. L’autore riconosce che le possibilità realizzative sono “scarse”; a me pare che l’uso dell’aggettivo “scarse” pecchi di ottimismo, e la speranza sia piuttosto riconducibile alla nostalgia per gli anni giovanili di servizio durante la guerra fredda, quando non era ancora arrivata la guerra asimmetrica che seguì il venir meno del fronteggiarsi di due blocchi, entrambi a modo loro attenti agli equilibri del welfare acquisito dalle rispettive popolazioni.

Il generale Mini traccia la storia della NATO, dividendo il periodo 1949-1989 da quello successivo alla caduta del Muro. Sostiene che nel periodo successivo le regole del Trattato siano state stravolte, trasformando un’alleanza difensiva in uno strumento offensivo, aggressivo, in qualche modo neo-imperialista. A mio avviso qui l’autore tralascia qualche passaggio, offre una lettura in qualche modo pro domo sua. La NATO già nel momento della sua fondazione (4 aprile 1949, 12 paesi) fu estesa al Portogallo fascista di Salazar con aperta protezione della dittatura da ogni attacco interno o esterno; e quando la Grecia fu ammessa nel 1952 gli americani non persero l’occasione di preparare le basi per il colpo di stato dei colonnelli, che certo non trovò ostacoli in ambito militare. Dunque l’Alleanza non fu solo “difensiva”, ma decisamente anticomunista, ponendosi al tempo stesso quale argine rispetto al socialismo reale, all’URSS, e più in generale all’ala più radicale del movimento operaio dei paesi occidentali. Non a caso l’autore evita ogni riferimento a Stay-Behind (Gladio), che pur essendo organizzazione diversa e segreta (promossa da CIA e Servizi Segreti italiani) si affiancava alla NATO di fatto (vari paesi dell’Alleanza infatti ne fecero parte).

Bisogna pur tuttavia riconoscere che nei suoi primi 40 anni la NATO non mosse guerre, ebbe un ruolo importante nel risolvere la crisi cubana del 1962, evitò di includere la Spagna prima del 1982, ovvero prima che terminasse il franchismo (l’adesione arrivò, guarda caso, con il primo governo socialista, che in campagna elettorale si diceva contrario). In buona sostanza la “prima” NATO fu costantemente parte attiva dello schieramento “occidentale” contro quello “sovietico” a difesa del “blocco”; la dialettica era aspra, spesso molto aspra, ma alcune regole non vennero mai infrante. Questo aspetto, di non poco rilievo, il generale Mini lo descrive in modo chiaro, puntuale, storicamente ineccepibile. La trattazione costituisce l’ossatura della prima parte del volume, indispensabile per la seconda, attuale, utilissima per comprendere la crisi bellica che ci si para davanti, e che lascia intravedere terribili conseguenze.

I capitoli di grande interesse sono naturalmente quelli che affrontano, nei presupposti e nella successiva sequenza degli avvenimenti, la guerra in Ucraina. L’autore spiega, con citazioni testuali di accordi e di decisioni che reggono l’argomentazione in modo assai convincente, come dopo la fine dell’URSS i paesi aderenti al Trattato abbiano abbandonato le linee guida sulle cui basi venne costituito nel 1949, cambiando pelle all’Alleanza, trasformata in un apparato minaccioso piegato all’esclusivo interesse degli Stati Uniti e all’ingerenza per nulla difensiva nella vita sociale-politica-militare di altri paesi, nella ex Iugoslavia, nei territori ex socialisti dell’est europeo, fino alla Georgia o all’Ucraina. Il programma era e rimane quello di creare instabilità, incrementare l’industria bellica, drenare risorse, indebolire chiunque rifiuti il vassallaggio nordamericano. Mentre la tela tessuta dagli Stati Uniti, pur se si tratta di evidente prevaricazione aggressiva, ha una logica (perversa ma logica), del tutto idiote e autolesioniste appaiono tattica e strategia dell’Unione Europea e degli altri paesi NATO.

Citavo sopra gli anni in cui il militare-militante Fabio Mini si era formato e aveva raggiunto i vertici del comando; insieme agli studi nelle accademie (non solo italiane) e alla lettura dei testi migliori d’arte bellica l’aver vissuto quel periodo storico gli consente di leggere, dentro i segmenti di conflitto e le decisioni politiche, l’impatto che colpisce pesantemente la vita dei popoli europei, la lesione violentissima del tessuto sociale consolidato negli anni precedenti, l’incrinarsi dei diritti delle comunità. Lo scenario si presenta agli occhi dell’autore maledettamente chiaro. In Ucraina guidano il gioco USA e Russia: concordano su due punti fondamentali, entrambi devono vincere, l’Europa deve pagare per tutti, il resto è negoziabile. Mostrano di non averlo compreso Meloni e Schlein, dovrebbero leggere questo volume, comprendere la legge bronzea dei numeri (armi e armati), cambiare passo, allontanandosi dal burrone verso il quale si sono incamminate prima che sia troppo tardi. Le considerazioni tecniche versate nel volume, nella loro cruda oggettività, sorprendono. L’unica alternativa è il rifiuto della guerra. Inutile attardarsi in barocchi distinguo, fare radiografie critiche sul passato di chi ci invece ci chiarisce lo stato delle cose. Prendiamo esempio dal professor Canfora e dal generale Mini, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare questo impazzimento simile a quello con cui si conclude la montagna incantata di Thomas Mann.


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 15 luglio 2025

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Gaza e la clementina Orri


di Gianni Giovannelli

L’arma che uccide, da quando è diventata
un prodotto industriale, si rivolta contro l’umanità,
e il soldato di professione non sa più
di quali aspirazioni egli sia lo strumento.

Karl Kraus
(Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, 1980, pag.184)

Mercoledì 14 maggio 2025, Milano, Piazza Martini: è giorno di mercato, frotte di persone camminano fra le bancarelle guardano, parlano, chiedono, esitano, a volte comprano. In quello stesso giorno l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Jabalya, il più grande degli otto esistenti nella striscia. In 1400 metri quadrati, dentro tende e baracche, ai margini della città, ci abitano in 116.011, registrati da UNRWA nel 2023; la città vicina ne conta invece 82.877. L’area del campo, già nel XIV secolo, era celebre per la fertilità della terra e per gli agrumeti. Senza difesa, colpiti dalle armi che piovevano dal cielo, sono morti almeno in settanta, di cui 22 bambini. Il giorno prima era stato distrutto l’ospedale del campo di Khan Younis (6 morti); il giorno dopo sarebbe toccato ad altri 115, uccisi dall’alto, all’alba. Nella striscia l’esercito israeliano ha distrutto il cibo, cancellato ogni traccia di agrumeto insieme alle case.

La frutta al mercato

Mentre i palestinesi senza cibo muoiono sotto i colpi dell’occupante, ormai privo di qualsiasi remora o pietà per le vittime, nelle bancarelle di Piazza Martini si vendono molte varietà di frutta o verdura. Molti fra i lavoratori che servono i clienti vengono dai paesi del sud mediterraneo, sono tunisini, egiziani, marocchini, sono nati e cresciuti accanto ai palestinesi, non possono non fraternizzare, condividono, come è naturale, la loro sofferenza. In maggio la stagione dei mandarini (con i semi) e delle clementine (senza semi) può dirsi giunta a conclusione, inizia a novembre, dopo i primi giorni di aprile anche la specie tardiva non si trova più. Eppure tutti i banchi hanno in bella vista le clementine, con un bel colore, una buccia invitante, il pezzo aperto in mostra appare morbido, succoso, senza semi; il prezzo è tuttavia più alto, per quanto si sia al mercato mai sotto i quattro euro al chilo, spesso di più. Viene spontaneo chiedere e così imparo che il paese di origine è Israele.

La Clementina Orri

Dopo essermi documentato spiego l’arcano. Si tratta di un ibrido che la genetista Aliza Vardi (1935-2014) ha creato nei laboratori dell’Istituto di Ricerca Agricola Volcani. Si chiama Cultivar Orah (oppure Orri in commercio), il Ministero dell’agricoltura israeliano lo ha brevettato negli USA il 4 marzo 2003 (PP13616) e ha ottenuto la certificazione UE nel 2013, ottenendo la licenza in esclusiva per questo prodotto di laboratorio e natura. La caratteristica di Orri è proprio quella di essere disponibile quando gli agrumi similari hanno chiuso il ciclo; Israele condivide l’affare con la multinazionale spagnola Genesis Innovation Group (AM Fresh Group) e chiunque si mettesse in mente di piantarlo altrove deve pagare i diritti. La legge spagnola (a garanzia dell’accordo) punisce con il carcere chi non rispetta l’esclusiva; un contadino valenciano si è beccato una multa oltre a 31 giorni di carcere per coltivazione abusiva di Orri. Di fatto Israele (con la multinazionale spagnola) ha il monopolio; usa le leggi europee per conservare l’esclusiva ma al tempo stesso distrugge gli agrumi palestinesi infischiandosene della normativa internazionale che dichiara di non riconoscere. Per uno strano scherzo della storia l’Istituto Volcani fu creato nel 1921 da Itzhak Elazari Volcani, un sionista nato in Lituania, emigrato in Palestina nel 1908 per sfuggire ai pogrom, socialista e collettivista, morto nel 1955, avversario fierissimo della destra nazionalista israeliana. Torniamo ora in Piazza Martini.

Discussione in piazza

La reazione nasce spontanea dopo aver saputo la provenienza del frutto: se viene da Israele non compro le clementine! Nasce subito una discussione animata davanti alla bancarella. Una signora interviene per prima: non ti piacciono perché ci sono i pesticidi velenosi? No! Non è per quello, non riuscirei a mangiare sapendo che è merce sporca di sangue. Il ragazzo al banco guarda sorpreso, non se lo aspettava, si sente coinvolto, pare quasi commosso. Vi capisco, avete ragione, dice, io sono qui per lavorare, vendo quello che mi dicono di vendere, ma avete ragione, non bisogna dare soldi a Israele, li usano per uccidere, per rubare la terra ai palestinesi. Si guarda intorno, teme orecchie ostili, ha paura di essere mandato via, poi sorride, approva. Intorno a Piazza Martini ci sono caseggiati popolari in cui abitano molte famiglie di immigrati, la solidarietà per il popolo di Gaza si respira nell’aria. Ci saranno sicuramente nel crocchio che si è formato sostenitori di Israele, o magari anche razzisti e perfino popolani resi ciechi dal rancore, dal bisogno, dal malessere sociale. Tuttavia tacciono vergognosi, consapevoli di essere in minoranza. Diventa un coro di voci indignate, di protesta convinta, di condanna della strage quotidiana di cui si stanno macchiando le truppe israeliane. Cade il silenzio indifferente, si incrina, sia pure (purtroppo) per poco, l’omertà complice che consente l’attuazione sistematica del genocidio a poca distanza dalle nostre abitazioni, sull’altra costa del Mediterraneo.

Un massacro finanziato

Il governo italiano manda/vende (poco cambia) armi usate per la strage continua. Il governo israeliano distrugge gli agrumeti dei palestinesi e coltiva, anche nei campi espropriati illegalmente, i frutti che vende nei paesi europei, usando il profitto (e i proventi di licenze concesse) per finanziare il massacro. I coloni che incassano il corrispettivo della Clementina Orri sono gli stessi che, protetti dall’esercito, bruciano case e campi dei contadini palestinesi. Intanto ai profughi della striscia viene tolto ogni sostegno alimentare, si impedisce con le armi l’arrivo di acqua, energia, medicine, vestiti. I paesi dell’Unione Europea, pronti a riarmarsi e a sottrarre fondi al welfare per costruire la guerra, assistono senza reagire. Non solo mandano strumenti di morte, non solo evitano sanzioni economiche, si guardano bene perfino dal disporre misure diplomatiche dissuasive, anche minime, come l’espulsione degli ambasciatori del genocidio. L’attuale ambasciatore israeliano a Roma, l’ufficiale dell’aeronautica Jonathan Peled, si dichiara assai soddisfatto della posizione assunta dal governo italiano e sostiene (come in fondo naturale) l’operato del governo in carica, compreso il blocco degli aiuti umanitari a Gaza. Un governo presieduto da chi dovrebbe essere arrestato, in quanto criminale di guerra, ove decidesse di visitare il paese amico!

Reagir bisogna

La specialista addetta alla comunicazione per UNICEF, Tess Ingram, nell’intervista rilasciata il 19 gennaio 2024, aveva rilevato che nei 105 giorni precedenti, durante l’invasione e il quotidiano bombardamento della popolazione nella striscia di Gaza, erano nate/i oltre 20.000 bambine/i. Il 2 aprile 2025 l’associazione Save the Children ha riferito che in media, senza ospedali e senza aiuti, nascono ogni giorno a Gaza 130 nuove creature (sono oltre 47.000 in un anno). Una resistenza e una resilienza incomprensibili per chi, come Trump, vorrebbe trasformare Gaza in una seconda Sharm El Sheikh. Tuttavia i soldati israeliani non desistono, perseguono il loro disegno omicida. È giunto il tempo di rompere il muro del silenzio, di fermare la strage. Di restituire la Clementina Orri al mittente rifiutando ogni complicità.

Cantava Rudi Assuntino: o forse si aspetta/la rossa provvidenza/per cui gli altri decidono/e noi portiam pazienza.


NOTA
Si veda, a questo proposito, la rete BDS – Boicotta, Disinvesti, Sanziona.




L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 22 maggio 2025


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Sicurezza per decreto: le nuove vie del diritto nel tempo del dispotismo europeo

La nobiltà, dicono i nobili
è l’intermediaria fra il re e il popolo.
Sì! Come il cane da caccia è l’intermediario
fra il cacciatore  e le lepri.

Chamfort

 (Prodotti della civiltà perfezionata, Boringhieri, 1961, pag.121)

di Gianni Giovannelli

Mancano dati precisi e censimenti puntuali, ma si calcola che in Italia gli immobili occupati siano circa 50.000, da suddividere in 30.000 pubblici e 20.000 privati. Questo almeno è il risultato di un sommario censimento di Federcasa e Nomisma, con una elaborazione dei rilievi disponibili nel 2021 e in qualche modo aggiornati per proiezione al 2024. Ovviamente non si possono appiattire in unico segmento realtà sociali molto diverse fra loro, ma, considerando i nuclei abitativi che di fatto si insediano in questi stabili riteniamo che oggi gli occupanti (italiani o stranieri, maggiorenni o minorenni, maschi o femmine) siano intorno a duecentomila unità. Bisogna aggiungere poi la vasta platea che, per vari motivi, ha ricevuto disdetta contrattuale, notifica di sfratto esecutivo, avviso di sloggio. Questa moltitudine di soggetti fragili, spesso privi di reddito e di risorse per sopravvivere dignitosamente, è destinataria di un provvedimento varato dal Governo Meloni ai sensi dell’art. 77 della Costituzione e dell’art. 15 L. 3.8.1988 n. 400: il requisito che consente il decreto consiste nella oggettiva necessità di intervenire senza approvazione delle due Camere per oggettiva e accertata urgenza, di carattere straordinario e improrogabile.
Stiamo parlando del c.d. decreto sicurezza (11 aprile 2025 n. 48), firmato dal Presidente Mattarella, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e già esecutivo (in attesa di ratifica successiva blindata dalla fiducia, entro il 10 giugno, ad opera di deputati e senatori che certo non porranno ostacoli alla conferma del provvedimento, disponendo l’esecutivo di una solida maggioranza). Come noto la medesima materia era in discussione nei due rami del Parlamento sotto forma di un – governativo – disegno di legge ordinaria (S 1236 – C 1660); dopo l’approvazione della Camera già il 18 settembre 2024 il testo era al vaglio del Senato, ma in stato di fermo sostanziale per via di un evidente rischio di anticostituzionalità che caratterizzava numerosi passaggi del testo in esame. Si veda il commento al disegno di legge pubblicato da Effimera nel gennaio 2025, cui rimandiamo  per brevità, posto che il contenuto del disegno assai poco si discosta dal decreto. Ci preme ora sottolineare tre questioni che a nostro avviso rivestono particolare importanza, senza tuttavia nasconderci la gravità complessiva del provvedimento, articolato in più passaggi dispotico-repressivi che richiederebbero trattazione ampia per ogni capo introdotto. La prima questione è di metodo (la forma di decreto urgente), ma di un metodo che si concreta in sostanza apertamente eversiva dell’ordinamento vigente. Le altre due  questioni toccano la vita quotidiana e sociale, criminalizzando minoranze che pur essendo indubbiamente tali sono pur sempre numericamente piuttosto consistenti e soprattutto politicamente deboli, prive di rappresentanza, fragili. Le due questioni sono l’occupazione di case (cui abbiamo accennato in apertura) e la c.d. cannabis light.

Prima questione: l’uso consapevolmente abnorme del decreto legge in materia penale
In via eccezionale l’art. 77 della Costituzione consente al governo di emanare provvedimenti immediatamente esecutivi, senza approvazione del Parlamento, quando ci si trovi di fronte a casi davvero straordinari di necessità e di urgenza; l’art. 15 della legge 400/1988 regola (meglio: dovrebbe regolare e invece nessuno la prende in considerazione) l’istituto eccezionale del decreto. Il primo comma dell’art. 15 impone di indicare subito, già nel preambolo, e con chiarezza, quali siano esattamente le circostanze straordinarie di accertata necessità e urgenza che possano giustificare l’adozione del decreto. E, a seguire, la norma vuole che vi sia un contenuto specifico omogeneo corrispondente al titolo. L’arroganza del potere ha questa volta superato ogni limite di decenza: il preambolo, dopo un generico richiamo alla prevenzione del terrorismo (primo capo del decreto, senza che si comprenda dove stia l’urgenza contingente) propone (sinteticamente e senza spiegazioni) nuove disposizioni in materia di sicurezza urbana (articoli da 10 a 18, l’intero capo II che porta questo titolo)In questo capo secondo sono state inserite modifiche al codice penale, in particolare riferite alle sanzioni a carico di chi sia coinvolto nelle occupazioni di immobili (non solo case) e di chi faccia commercio o uso di prodotti c.d. cannabis light. Le pene, come vedremo più sotto, sono pesantemente aggravate (per gli occupanti) e perfino introdotte con previsione di un reato fino a poco prima inesistente: si prevedono anni di carcere! La Corte Costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988 (estensore Renato Dell’Andro, un cattolico moderato allievo di Aldo Moro e in passato anche sindaco di Bari) ha dichiarato non conforme alla Carta l’art. 5 del codice penale, ovvero la norma (fascista, codice Rocco) che escludeva quale esimente la mancata conoscenza di un divieto penalmente sanzionato; quando, per circostanze di tempo o per modalità di comunicazione, sia impossibile avere consapevolezza di commettere un reato o quali possano essere le sanzioni, l’articolo 5 non deve trovare ingresso o quanto meno non può essere di ostacolo a forme attenuate. Ogni legge ordinaria contiene un periodo (chiamato vacatio legis) di 15 giorni, successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, per rendere nota la disposizione; per questo l’uso del decreto (di immediata applicazione) in materia penale solo di rado è reperibile nel nostro ordinamento. Nel nostro caso poi, e questo davvero costituisce uno scandalo istituzionale, l’intero capo secondo era già contenuto, quasi identico, nel disegno di legge precedente. I deputati lo avevano approvato sei mesi or sono, il 18 settembre 2024; giaceva in Senato senza che nessuno (nessuno!) avesse sollevato questioni di urgenza improrogabile. In questi mesi non è accaduto nulla di nuovo: dunque la stessa maggioranza confessa con il proprio comportamento in aula che non c’erano i presupposti per la decretazione. Ma il governo, diviso in fazioni sul da farsi e timoroso di interventi imbarazzanti da parte della Consulta, ha rotto ogni indugio; con questo decreto sottrae a quel poco che resta del Parlamento l’esame e impone con azioni concludenti vie di fatto estranee al nostro normale funzionamento ordinamentale. Non solo mancano in concreto i necessari presupposti di urgenza improrogabile ma neppure si provvede a difendere la forma: il preambolo (in particolare quello del titolo secondo sulla sicurezza urbana) neppure sente il bisogno di inserire una qualunque giustificazione tecnica dello strumento, asfalta la norma costituzionale, avvisa i sudditi che il potere non intende accettare limiti e vara la transizione giuridica verso il dispotismo democratico, anche in Italia come già in Europa sul tema degli armamenti. La firma apposta dal Presidente Mattarella è di enorme gravità, è una coltellata inflitta alla schiena dello stato di diritto liberaldemocratico, non ancora mortale e tuttavia così profonda da lasciare certamente il segno. Colpisce, nella scelta di uno strumento apertamente in contrasto con l’art. 77 della Carta e con la legge attuativa, la evidente consapevolezza di porre in essere una violazione, insieme alla certezza di non incontrare ostacoli: sanno di colpire segmenti minoritari, di poter contare sulla complicità di buona parte dell’opposizione, di avere l’appoggio del rancore sociale e/o della rassegnazione. Hanno ben chiaro il nemico i funzionari del nuovo dispotismo occidentale: la solidarietà. E attaccano, per allargare la divisione fra gli oppressi, singoli segmenti da reprimere a titolo di esempio. Non dobbiamo nascondercelo: è un progetto in pieno percorso di attuazione. Solo riconquistando la solidarietà e l’unità, a qualsiasi costo, sarà possibile costruire forme di contrasto al regime.

 Seconda questione: l’occupazione di case
Duecentomila persone circa vivono in immobili occupati; non sono gli unici a vivere una vita abitativa nella precarietà. I dati forniti dal Ministero e quelli elaborati da ASPESI (l’associazione delle immobiliari) attestano nel 2023 ben 39.373 sfratti (ogni giorno 107), di cui 21.345 eseguiti dalla forza pubblica (59 ogni giorno), cioè gettando letteralmente gli inquilini in strada e portando le loro cose nei depositi comunali (il costo di recupero è tale che le masserizie sono quasi sempre perse in via definitiva). Nello stesso anno le richieste di sloggio cui viene riconosciuta esecuzione coatta sono state 73. 809; inoltre, riferisce ASPESI, il 62% degli inquilini paga la pigione in ritardo (dunque si espone al rischio di disdetta per morosità). In sintesi il problema della casa riguarda circa centomila abitazioni e non meno di 3 o 4centomila esseri umani.
Nella sola Milano ci sono circa 80.000 case vuote, i proprietari pubblici o privati non le usano per i più svariati motivi, di speculazione o di cattiva manutenzione. Sempre a Milano, dopo l’assegnazione a MM della gestione case popolari, le occupazioni abusive sono scese da 1760 (anno 2014) a 511 (nel 2024). Eppure MM lascia sfitti e vuoti 6.059 appartamenti, per ora non occupati e comunque già difesi militarmente. Non basta. La Regione Lombardia con ALER (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale) ha acquisito, con la legge nazionale 142/1990 e regionale 13.1.1996 il patrimonio edilizio popolare; le 19.534 abitazioni sfitte e inutilizzate di ALER nel 2022 sono divenute 22.496 nel 2023, con aumento di 2962 unità in 12 mesi. Non è certo un segreto: hanno intenzione di svenderle, non certo di assegnarle ai bisognosi. Sfratti e abbandoni convivono, creando una emergenza abitativa che richiede risoluzione. Urgente sarebbe rimuovere ogni ostacolo burocratico e assegnare le case di edilizia popolare ai bisognosi, magari con impegno ad abitarle e a ristrutturarle, previa naturalmente la detrazione dei costi di riparazione dal canone agevolato. Le casse pubbliche non avrebbero oneri aggiuntivi e anzi ci guadagnerebbero. Invece no. Come viene risolta dal decreto questa emergenza? Mandando in malora gli immobili vuoti, sfitti, abbandonati per poi predisporre svendite. Invece di aiutare i poveracci (occupanti o sfrattati per morosità) il progetto è di metterli in strada e/o incarcerarli: questo prevede l’impianto urgente di sicurezza urbana entrato in vigore il 12 aprile 2025.
La pena introdotta dall’art. 10 varia da 2 a 7 anni di galera. Destinatari delle sanzioni carcerarie sono tutti coloro che occupano un immobile altrui (pubblico o privato) o le pertinenze (prati, cortili, casolari, tettoie: tutto!) e impediscono il rientro del proprietario o di chi ne abbia ricevuto legittimo possesso (dunque anche un terzo con un qualsiasi titolo contrattuale ricevuto dalla proprietà). La legge chiede solo che vi sia un domicilio del proprietario (o da lui designato), ipotesi assai più ampia del concreto uso abitativo; molto spesso si prende domicilio in luogo diverso da quello in cui si vive realmente. Non basta. Si vuole abbattere ogni possibile rete di sostegno politico, sindacale, associativo, mutualistico; la stessa pena (da 2 a 7 anni) si applica pure a chi in qualunque modo si intromette o coopera per favorire o agevolare l’occupazione. I comitati di quartiere a sostegno degli occupanti sono diventati dal 12 aprile 2025 strutture criminali, e per i singoli soggetti partecipanti si aprono processi penali e concrete prospettive di non breve reclusione. Per chi collabora e ottempera al rilascio (si arrende, si dissocia, si pente, desiste, si consegna) è prevista tuttavia l’impunità. Il procedimento prevede la querela di parte: questo fornisce alla proprietà un formidabile strumento di pressione per piegare le resistenze (ma si procede invece d’ufficio per gli immobili pubblici). La norma punisce non solo l’occupante ma più in generale chiunque detenga l’immobile senza titolo; una simile previsione consente di estendere l’applicazione in forme imprevedibilmente ampie (si può avere un titolo e poi perderlo per svariate ragioni, rimanendo senza, esposto al rischio del carcere). Inoltre, per rimuovere gli ostacoli dovuti ai tempi lunghi della burocrazia, si introduce la possibilità di intervento rapidissimo con liberazione dell’immobile e cacciata dell’abusivo; la norma vale per piccoli proprietari e grandi immobiliari, la si applica indipendentemente dalle condizioni sociali del colpevole. Per il governo, e con urgenza improrogabile, la sicurezza urbana non la si ottiene usando le case pubbliche vuote per dare un tetto a chi si trova in stato di bisogno ma incarcerando il segmento minoritario dei bisognosi, senza predisporre alcuna misura di sostegno, in attesa di lucrare sulla successiva svendita delle case pubbliche abbandonate all’incuria.

Terza questione: cannabis light
L’art. 18 del titolo secondo (sempre relativo alla sicurezza urbana) modifica la legge 242/2016, pure quella firmata dall’ineffabile giurista-presidente Mattarella, che non solo consentiva, ma intendeva pure fornire sostegno e promozione alla coltivazione in Italia di cannabis sativa utile fra l’altro per contribuire alla riduzione di consumo dei suoli e della desertificazione. La legge del 2016 si conformava, tardivamente, alla normativa comunitaria (in particolare all’elenco di cui all’art. 17 direttiva 2002/53/CE: percentuale da 0,2 a 0.6%) e prevedeva perfino il finanziamento di imprese di coltivazione della canapa (la c.d. cannabis light) da utilizzare per la produzione di alimenti, cosmetici e altri derivati da inserire nelle filiere commerciali. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 30.475 del 10 luglio 2019), pur con una certa prudenza e con molta circospezione, avevano confermato la legittimità di una lavorazione dei prodotti accertati come effettivamente light. Senza preavviso e senza concedere termini di adeguamento (incompatibili con la decretazione urgente) il 12 aprile 2025 è scattata la tagliola. In quel momento i magazzini erano pieni. Il settore comprende 800 aziende agricole di coltivazione, 1500 imprese di trasformazione, 10.000 addetti. Certamente non è Stellantis o Amazon, ma sono pur sempre circa 12.000 famiglie che hanno perso il reddito di sussistenza, da un giorno all’altro.
La promozione e il sostegno che caratterizzavano la prima firma di Mattarella sono venuti meno per motivi di sicurezza urbana che nessuno ha voluto chiarire; dopo il 12 aprile i prodotti derivati dalla cannabis sativa in percentuale light sono illegali, corpo di reato. Venditori, possessori, magazzinieri, commercianti, e acquirenti che cedano magari in regalo questi prodotti rischiano fino a sei anni di carcere, fino a 77.000 euro di multa, sanzioni amministrative (per esempio la patente), conseguenze nell’impiego lavorativo. Difficile censire esattamente quanti fossero i consumatori-clienti della filiera al momento dell’entrata in vigore del decreto; certamente in Italia le persone che magari occasionalmente consumano canapa non sono pochissime. Anche in questo caso una minoranza, senza dubbio; ma una minoranza numericamente di rilievo. Le imprese colpite contesteranno certamente la costituzionalità della abrogazione a mezzo di un simile decreto, per via della palese carenza della necessaria urgenza e per via della violazione di una direttiva europea vincolante. Non sono poche le probabilità di successo in un giudizio davanti alla Corte Costituzionale; ma i tempi non possono essere brevi e dunque il governo ha preferito attaccare subito, incurante del dopo. I despoti agiscono sempre con atti di breve respiro; per rimediare, con nuovi espedienti, c’è sempre tempo. L’importante è vendere l’immagine di un esecutivo capace di aggredire i drogati e di sbatterli dentro senza rispetto e senza pietà. Il dispotismo non coltiva cannabis sativa ma ansia collettiva, disagio sociale, divisione, sottomissione rassegnazione; la stessa semplice felicità viene vista con sospetto.

Concludendo
Nei giorni 8 e 9 giugno 2025 ci sarà la votazione per i cinque referendum. La maggioranza tace e punta al mancato raggiungimento del quorum, in effetti elevato. Sono 5 referendum che toccano la materia del licenziamento  (due), del contratto a termine (uno), del risarcimento danni da infortuni o morti sul lavoro esteso ai committenti (uno), il termine per conseguire la cittadinanza (da 10 anni attuali a 5). Non sono la rivoluzione che emancipa gli schiavi, sono quesiti piuttosto prudenti nella formulazione e nelle conseguenze che deriverebbero dalla vittoria del “si”. Riguardano tutti e cinque minoranze; nessun quesito riguarda direttamente la maggioranza numerica di chi abita il territorio della Repubblica Italiana. Eppure la scadenza è importante, specie in questo nostro tempo di transizione, politica e istituzionale. Non è per nulla scontato il mancato raggiungimento del quorum. La manifestazione contro il decreto sicurezza è stata assai partecipata; e anche il decreto sicurezza riguardava solo minoranze.
Per sua natura ogni maggioranza (intesa come blocco sociale) si compone inevitabilmente di una pluralità di minoranze unite da un patto di alleanza, di mutuo soccorso, di unità contro il medesimo avversario che vuole invece la divisione per imporre il proprio dominio. Contro i cinque referendum si schiera un fronte trasversale, per difendere l’interesse delle imprese e del dispotismo diffonde l’idea che sia inutile partecipare, schierarsi, mettere una scheda nell’urna. Semina in un terreno reso fertile dagli errori commessi dentro il movimento antagonista e soprattutto dai complotti di palazzo. Ma esiste la sorpresa. Avvenne con il referendum sull’acqua pubblica, vinto contro ogni previsione. Non è vero che quella vittoria non abbia prodotto nulla: ha rallentato i progetti di privatizzazione, ha sabotato il programma nemico, rimane ancora oggi un ostacolo, proprio come i due referendum sull’energia atomica che ancora quelli al comando non riescono a digerire. Bisogna provarci, mettendo da parte polemiche e divisioni. Anche una percentuale insufficiente e tuttavia massiccia può essere un segnale, contribuire alla riapertura dei giochi. Non è fiducia messianica nello strumento elettorale. Si tratta solo di prendere atto che nella società dello spettacolo ogni simbolo comunicativo possiede anche una sua materialità. Una vasta affluenza, una partecipazione capace di mettere per una volta da parte le divisioni in segmenti pronti per la sconfitta: sappiamo che non è facile ma che è possibile. Provarci sicuramente non può creare danno; forse potrebbe contribuire ad una ripresa dell’antagonismo, unificando i segmenti, archiviando la paura ancestrale del meticciato e dello straniero. E l’antagonismo, più delle urne, è una potenza economica. Per questo spaventa il palazzo.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 5 maggio 2025

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