Ucraina

La NATO in guerra

di Gianni Giovannelli

Aut si inaniter timemus certe vel timor ipse malum est quo incassum stimulatur et excruciatur cor et tanto gravius malum quanto non est quod timeamus et timemus

(anche se abbiamo paura senza motivo il male è la paura stessa
che punge e disturba invano il cuore: un male tanto più grave in quanto ciò che temiamo non esiste davvero eppure ci spaventa lo stesso).

Agostino
(Confessioni, VII, 5.7)

Il generale Fabio Mini è nato nel 1942; quando, nel 1963, dopo l’Accademia Militare a Modena, è entrato stabilmente nelle file dell’esercito italiano, erano gli anni del c.d. boom economico e della guerra fredda fra i due blocchi. Il primo esperimento di un governo di destra (quello di Tambroni) era fallito dopo soli tre mesi di vita, travolto dalle manifestazioni popolari che avevano riempito le piazze di tutto il paese, da nord a sud; a Genova quasi ci fu un’insurrezione per impedire il congresso del MSI, a Reggio Emilia in cinque caddero il 7 luglio sotto i colpi della polizia di stato, entrando stabilmente nella leggenda. La resistenza di massa della classe operaia alla svolta reazionaria contribuì non poco a rafforzare la ripresa delle lotte in fabbrica, sempre più efficaci fino al celebre Autunno Caldo che modificò l’assetto sociale italiano e spinse l’apparato di governo al varo della strategia della tensione. La caduta di Tambroni aveva aperto le porte agli esecutivi di centro-sinistra, alla presidenza di Saragat e all’ingresso dei socialisti nell’apparato di governo.

Un soldato colto, sensibile e intelligente quale è (e certamente era) il generale Mini non poteva certo evitare la percezione del clima politico che lo circondava e dentro il quale andava costruendo una carriera prestigiosa, fino a diventare capo di stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa (nel 2001 al vertice militare nei Balcani e nel 2002/2003 alla testa della missione KFOR in Kossovo). Solo considerando appieno il percorso politico-militare complessivo dell’autore sarà possibile intendere l’ultimo volume dato alle stampe, di cui con queste note ci stiamo occupando: La NATO in guerra, dal patto di difesa alla frenesia bellica, Edizioni Dedalo, maggio 2025, pagine 174. Il testo è pubblicato nella collana Orwell diretta da Luciano Canfora, che vi ha inserito una breve gustosa prefazione nella quale si bolla la NATO come uno “sgangherato organismo atlantico che ci ha regalato la guerra in Ucraina”. E sulle ceneri della vecchia alleanza egli intravede la nascita (effetto imprevisto e tragicomico) di una para-NATO a trazione franco-inglese che “ha gettato rapidamente alle ortiche il fantoccio ormai afflosciato su sé stesso dell’Unione Europea. Il professor Canfora (solido intellettuale costantemente collocato in area democratico-progressista) e il generale Mini (per oltre 40 anni ufficiale dell’esercito con funzioni apicali) si presentano in perfetta sintonia e appaiono molto (ma molto) più lucidi dei leader politici alla guida di maggioranza e opposizione. L’esame spietato delle scelte, tattiche e strategiche, che accomunano oggi il Partito Democratico e Fratelli d’Italia sul tema della collocazione italiana nel quadro bellico è probabilmente più una critica preoccupata (al confine con un rassegnato timore del disastro che ci si para davanti) che un programma politico. D’altro canto se non riescono a costruire una credibile barricata, capace di frenare la frenesia bellica in crescita, le strutture politiche dei partiti presenti in Parlamento, non si può pretendere che provvedano in supplenza due pur lucidi ottantenni estromessi da ogni ruolo di comando e trattati come un peso fastidioso.

In chiusura del suo saggio, documentato preciso convincente, il generale Mini osserva (ed è difficile non convenire con questa oggettiva descrizione della realtà): si sono trovati mille pretesti falsi per fare la guerra, mai uno, vero o falso, per fare la pace. E aggiunge: in realtà la guerra è diventata l’idea prevalente nelle menti di molti responsabili di governo eletti nelle nazioni o di quei funzionari designati a gestire la NATO o l’Unione Europea. Uomini e donne che non sanno governare, che non conoscono gli strumenti di cui dispongono, che non si curano dei sacrifici che impongono, che non sanno stabilire le priorità dei propri fini e mezzi. Di questa ignoranza la guerra si pasce e compiace. Io aggiungo che le medesime considerazioni valgono per l’opposizione che non sa opporsi, che si dissocia costantemente da ogni ribellione o anche dal semplice dissenso, elogiando e sostenendo la repressione giudiziaria, poliziesca, politica, amministrativa delle voci fuori dal coro.

In questo quadro fosco l’autore inserisce quella che definisce “utopia”, ovvero la prospettiva di “ricondurre” la NATO alle regole del suo trattato fondativo, liberandosi mediante “espulsione” degli stati che minacciano la sicurezza di altri stati o comunità, membri o meno della NATO. L’autore riconosce che le possibilità realizzative sono “scarse”; a me pare che l’uso dell’aggettivo “scarse” pecchi di ottimismo, e la speranza sia piuttosto riconducibile alla nostalgia per gli anni giovanili di servizio durante la guerra fredda, quando non era ancora arrivata la guerra asimmetrica che seguì il venir meno del fronteggiarsi di due blocchi, entrambi a modo loro attenti agli equilibri del welfare acquisito dalle rispettive popolazioni.

Il generale Mini traccia la storia della NATO, dividendo il periodo 1949-1989 da quello successivo alla caduta del Muro. Sostiene che nel periodo successivo le regole del Trattato siano state stravolte, trasformando un’alleanza difensiva in uno strumento offensivo, aggressivo, in qualche modo neo-imperialista. A mio avviso qui l’autore tralascia qualche passaggio, offre una lettura in qualche modo pro domo sua. La NATO già nel momento della sua fondazione (4 aprile 1949, 12 paesi) fu estesa al Portogallo fascista di Salazar con aperta protezione della dittatura da ogni attacco interno o esterno; e quando la Grecia fu ammessa nel 1952 gli americani non persero l’occasione di preparare le basi per il colpo di stato dei colonnelli, che certo non trovò ostacoli in ambito militare. Dunque l’Alleanza non fu solo “difensiva”, ma decisamente anticomunista, ponendosi al tempo stesso quale argine rispetto al socialismo reale, all’URSS, e più in generale all’ala più radicale del movimento operaio dei paesi occidentali. Non a caso l’autore evita ogni riferimento a Stay-Behind (Gladio), che pur essendo organizzazione diversa e segreta (promossa da CIA e Servizi Segreti italiani) si affiancava alla NATO di fatto (vari paesi dell’Alleanza infatti ne fecero parte).

Bisogna pur tuttavia riconoscere che nei suoi primi 40 anni la NATO non mosse guerre, ebbe un ruolo importante nel risolvere la crisi cubana del 1962, evitò di includere la Spagna prima del 1982, ovvero prima che terminasse il franchismo (l’adesione arrivò, guarda caso, con il primo governo socialista, che in campagna elettorale si diceva contrario). In buona sostanza la “prima” NATO fu costantemente parte attiva dello schieramento “occidentale” contro quello “sovietico” a difesa del “blocco”; la dialettica era aspra, spesso molto aspra, ma alcune regole non vennero mai infrante. Questo aspetto, di non poco rilievo, il generale Mini lo descrive in modo chiaro, puntuale, storicamente ineccepibile. La trattazione costituisce l’ossatura della prima parte del volume, indispensabile per la seconda, attuale, utilissima per comprendere la crisi bellica che ci si para davanti, e che lascia intravedere terribili conseguenze.

I capitoli di grande interesse sono naturalmente quelli che affrontano, nei presupposti e nella successiva sequenza degli avvenimenti, la guerra in Ucraina. L’autore spiega, con citazioni testuali di accordi e di decisioni che reggono l’argomentazione in modo assai convincente, come dopo la fine dell’URSS i paesi aderenti al Trattato abbiano abbandonato le linee guida sulle cui basi venne costituito nel 1949, cambiando pelle all’Alleanza, trasformata in un apparato minaccioso piegato all’esclusivo interesse degli Stati Uniti e all’ingerenza per nulla difensiva nella vita sociale-politica-militare di altri paesi, nella ex Iugoslavia, nei territori ex socialisti dell’est europeo, fino alla Georgia o all’Ucraina. Il programma era e rimane quello di creare instabilità, incrementare l’industria bellica, drenare risorse, indebolire chiunque rifiuti il vassallaggio nordamericano. Mentre la tela tessuta dagli Stati Uniti, pur se si tratta di evidente prevaricazione aggressiva, ha una logica (perversa ma logica), del tutto idiote e autolesioniste appaiono tattica e strategia dell’Unione Europea e degli altri paesi NATO.

Citavo sopra gli anni in cui il militare-militante Fabio Mini si era formato e aveva raggiunto i vertici del comando; insieme agli studi nelle accademie (non solo italiane) e alla lettura dei testi migliori d’arte bellica l’aver vissuto quel periodo storico gli consente di leggere, dentro i segmenti di conflitto e le decisioni politiche, l’impatto che colpisce pesantemente la vita dei popoli europei, la lesione violentissima del tessuto sociale consolidato negli anni precedenti, l’incrinarsi dei diritti delle comunità. Lo scenario si presenta agli occhi dell’autore maledettamente chiaro. In Ucraina guidano il gioco USA e Russia: concordano su due punti fondamentali, entrambi devono vincere, l’Europa deve pagare per tutti, il resto è negoziabile. Mostrano di non averlo compreso Meloni e Schlein, dovrebbero leggere questo volume, comprendere la legge bronzea dei numeri (armi e armati), cambiare passo, allontanandosi dal burrone verso il quale si sono incamminate prima che sia troppo tardi. Le considerazioni tecniche versate nel volume, nella loro cruda oggettività, sorprendono. L’unica alternativa è il rifiuto della guerra. Inutile attardarsi in barocchi distinguo, fare radiografie critiche sul passato di chi ci invece ci chiarisce lo stato delle cose. Prendiamo esempio dal professor Canfora e dal generale Mini, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare questo impazzimento simile a quello con cui si conclude la montagna incantata di Thomas Mann.


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 15 luglio 2025

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Arrivati al dunque. Verso il punto di non ritorno nel crimine supremo della guerra

Immagine generata dall’intelligenza artificiale

di  Pasquale Pugliese

“L’idea di una guerra legale o, addirittura, giusta si basa sulla possibilità di controllare gli strumenti di distruzione, ma poiché l’incontrollabilità è parte di quella stessa capacità di distruzione non c’è guerra che non finisca per commettere un crimine contro l’umanità come la distruzione della vita civile”, scriveva la filosofa Judith Butler nel libro Regimi di guerra, del 2009 ma recentemente pubblicato in Italia da Castelvecchi. La guerra dunque è criminogena in quanto tale o, per dirla con le parole di Butler, “le guerre diventano forme permissibili di criminalità, ma non possono mai essere considerate non-criminali”. Il crimine della guerra sta subendo, nel tempo oscuro che attraversiamo, un salto di qualità negativa che – se non interrotto con un estremo sussulto di consapevolezza e responsabilità – porterà presto l’umanità ad un punto catastrofico di non ritorno, non solo a Gaza. Rispetto al quale i governi in carica delle cosiddette “democrazie liberali”, anziché moderare e frenare il processo distruttivo, costruendone le alternative nonviolente per risolvere i conflitti, pigiano sull’acceleratore dell’escalation. Che porta alla catastrofe etica, oltre che umanitaria.

A cominciare dal doppio standard con il quale, mentre contribuiscono ad alimentare una guerra senza quartiere né prospettiva in Europa, se non quella nucleare come segnaliamo fin dall’inizio – anziché promuovere un serio negoziato di pace con il presidente russo Putin, nei confronti del quale la Corte penale internazionale ha emanato un ordine di cattura per crimini di guerra – supportano con l’invio di armi mai interrotto il presidente israeliano Netanyahu, al quale, dopo oltre 45.000 vittime civili, il Tribunale dell’Aja ha riservato lo stesso trattamento, per crimini contro l’umanità. Ma in questo secondo caso, la reazione di gran parte di politica e stampa occidentali, alla notizia del mandato di cattura internazionale per Netanyahu, è risultata intrisa di comprensione e complicità con il criminale, anziché con le vittime palestinesi, con tratti di vero e proprio suprematismo di stampo colonialista. Che, peraltro, rinnega gli stessi valori della civiltà giuridica occidentale: che la legge sia uguale per tutti; che nessuno è al di sopra della legge; che i diritti umani sono universali; che non si risponde alla barbarie con una barbarie infinitamente superiore…Ma la coerenza è nemica di ogni fondamentalismo.

Del resto, fondamentalismo bellico è anche quello in corso nell’assurda guerra, sempre più globale, tra Nato e Russia – dopo oltre mille giorni dall’invasione russa dell’Ucraina e dieci anni di conflitto armato in Donbass, che ne è stato il presupposto – nella quale le vittime complessive (tra civili e militari, morti e feriti, russi e ucraini) sono stimate ormai in oltre un milione di persone. Guerra che l’Ucraina, che ne è l’avamposto, sta perdendo sul terreno, e che – invece di finire finalmente al tavolo delle trattative, dove ogni giorno che passa le potenziali condizioni per gli ucraini si aggravano – vede alzarsi l’asticella della follia con la discesa in campo dei missili statunitensi e franco-britannici a lunga gittata, che colpiscono fin dentro il territorio russo. E con l’uguale e contraria risposta russa con il missile ipersonico, per il momento armato in modalità convenzionale, ma che potrebbe evolvere nel nucleare e colpire – a sua volta – basi e città europee fornitrici di quei missili, ben oltre il territorio ucraino. Una corsa verso la catastrofe mondiale, che a parole nessuno vuole ma che tutti alimentano, secondo logiche non di diritto internazionale – che altrimenti varrebbero sia in Palestina che in Ucraina – ma volte a ribadire supremazie e aree di influenza planetarie, buttando sempre più benzina sul fuoco criminale della guerra.

E mentre la nuova “dottrina strategica” russa, appena varata, avvisa che potrebbe lanciare armi nucleari in risposta a un attacco sul suo territorio da parte di uno Stato non armato nuclearmente, se sostenuto da uno nucleare, dimostra che “la deterrenza nucleare, anziché garantire stabilità, alimenta insicurezze e tensioni crescenti proprie di una cultura di guerra” – come ribadisce Rete Italiana Pace e Disarmo – gli Stati Uniti, dopo i missili Atacms, hanno deciso di inviare in Ucraina anche le mine anti-persona. Ossia armi che mutilano e uccidono soprattutto i civili e per questo vietate dalla Convenzione di Ottawa fin dal 1997, sottoscritta anche dall’Ucraina, al contrario della Russia e degli USA. Il punto di non ritorno è, dunque, il ritorno agli orrori del passato, dall’uso delle mine alle armi nucleari, ma enormemente più distruttivi. Abbattendo progressivamente tutti i limiti al crimine supremo della guerra. “Nell’epoca delle armi nucleari, se non siamo noi ad abolire la guerra, sarà la guerra ad abolire la maggior parte di noi”, scriveva nel 1970 il politologo Karl Deutsch (Journal of the Conflict Resolution, 14): adesso siamo arrivati al dunque.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 29 novembre 2024

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L’UE può sopravvivere solo come progetto di pace e non come sussidiaria della NATO

Foto di worldbeyondwar.org

di Florina Tufescu – 
Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi. Revisione di Maria Sartori.

Dirigenti dell’Unione Europea, basta con il bellicismo!

L’ultimo sondaggio commissionato dal Consiglio Europeo per gli Affari Esteri (ECFR, un influente think tank in cui lavorano numerosi politici di spicco, funzionari dell’UE ed ex segretari generali della NATO) mostra che il 41% dei cittadini europei preferirebbe che l’Europa esercitasse pressioni sull’Ucraina affinché si impegni in negoziati con la Russia, rispetto al 31% che è favorevole a un continuo sostegno militare. Tuttavia, la conclusione dell’analisi del sondaggio, di cui è coautore il direttore dell’ECFR, è che i leader europei non debbano prestare attenzione alle opinioni dei cittadini, ma semplicemente riformulare e perfezionare il loro messaggio, sottolineando la preferenza per la “pace duratura” raggiungibile attraverso il proseguimento del conflitto, invece di una pace reale che potrebbe essere raggiunta già adesso mediante i negoziati.

Sappiamo dal capo della delegazione ucraina e leader del Partito al Servizio del Popolo, David Arahamiya, che i negoziatori russi “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo adottato – come fece una volta la Finlandia – la neutralità”. La proposta è stata respinta per la mancanza di garanzie di sicurezza e per il fatto che l’intenzione di aderire alla NATO era scritta nella Costituzione ucraina. Un successivo round di colloqui di pace nell’aprile 2022 è stato presumibilmente sabotato dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, secondo quanto riferito da più fonti, che includono ancora una volta il portavoce ucraino.

Da allora non è stato tentato alcun negoziato di pace, probabilmente perché il rischio di successo era troppo alto. La guerra deve continuare per giustificare l’espansione delle industrie militari degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. La spesa militare totale della NATO, che dovrebbe essere un’alleanza “difensiva”, ha raggiunto il massimo storico di 1.100 miliardi di dollari nel 2023. Secondo i dati forniti dal SIPRI, la spesa militare dei Paesi dell’Europa centrale e occidentale, che si sono auto dichiarati campioni della democrazia e della pace, è arrivata anch’essa al massimo storico, ovvero a 345 miliardi di dollari già nel 2022, in confronto alla Russia, una dittatura direttamente coinvolta nella guerra, che ha speso solo 86,4 miliardi di dollari per la difesa militare nel 2022, sempre secondo il SIPRI.

La guerra in Ucraina ha già causato centinaia di migliaia di vittime dal febbraio 2022, oltre ai milioni di rifugiati e il 30% del territorio ucraino contaminato dalle mine. Non si può permettere che questa tragedia continui solo per giustificare la crescita dell’industria delle armi, di cui i leader dell’UE sembrano ora decisi a fare uno dei punti chiave, con il commissario per il Mercato interno Thierry Breton che chiede altri 100 miliardi di euro di finanziamenti militari, in aggiunta a tutti gli impegni esistenti a livello UE e a livello nazionale da parte dei Paesi europei in quanto membri della NATO. Come il tricheco addolorato del poema di Lewis Carroll, i leader dell’UE e della NATO hanno mostrato la loro faccia più triste nel sottolineare l’inevitabilità dei preparativi per la guerra, pur non facendo nulla per ridurre il conflitto e mostrando la massima disinvoltura di fronte al rischio di escalation nucleare.

Le possibilità di porre fine alla guerra sono già note e sono state discusse negli accordi di Minsk e nei negoziati di pace di Istanbul. Gli accordi dovrebbero includere la neutralità dell’Ucraina e la garanzia dei diritti della minoranza russa in Ucraina, che sarebbe un modo molto più efficace di minare l’influenza di Putin invece di inviare altre armi.

Inoltre, l’UE dovrebbe sostenere gli obiettori di coscienza di Russia, Ucraina e Bielorussia. Il diritto all’obiezione di coscienza, sancito dall’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è attualmente riconosciuto dall’Ucraina e, sebbene sia legalmente riconosciuto in Russia per il personale non militare, secondo l’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza viene disatteso in circa il 50% dei casi.

Meno di 10.000 dei 250.000 russi che sono fuggiti dalla loro patria per evitare il servizio di leva, hanno ottenuto asilo nell’UE, nonostante l’appello lanciato da 60 organizzazioni già nel giugno 2022 (relazione annuale dell’EBCO, Agenzia Europea per l’Obiezione di Coscienza, pag. 3). Questa strada verso la pace non è stata dunque percorsa, presumibilmente perché i rifugiati pesano sull’economia senza alcun vantaggio per le cricche di potere, mentre l’industria militare è altamente redditizia per alcuni ed esercita un’influenza sempre più grandi sulle politiche dell’UE, come rivelano il rapporto Fanning the Flames pubblicato dal Transnational Institute e dall’European Network Against Arms Trade e il rapporto ENAAT (Rete Europea Contro il Commercio delle Armi“From war lobby to war economy” (Dalle lobby della guerra all’economia di guerra).

È giunto il momento per i leader dell’UE di recuperare un briciolo di credibilità dimostrando di essere disposti a fare almeno un modesto investimento nella pace e nei negoziati di pace, parallelamente all’investimento senza precedenti nei preparativi per la guerra. È ora che i leader dell’UE antepongano gli interessi dei cittadini europei e degli esseri umani in generale a quelli dell’industria bellica.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 9 aprile 2024 ed  è disponibile anche in: IngleseFranceseTedescoPortoghese

La foto è di Foto di worldbeyondwar.org 

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Noam Chomsky: “Il cambiamento può avvenire solo attraverso la protesta di massa della gente comune”

di Europe for Peace

Nel 2007, abbiamo chiesto a Chomsky di sottoscrivere la dichiarazione di Europa per la pace e di appoggiare la campagna per impedire la costruzione dello Scudo spaziale americano nella Repubblica Ceca, progetto fortemente contestato dalla stragrande maggioranza della popolazione. Chomsky ha subito aderito, citando nel suo messaggio l’appello che Russell ed Einstein avevano scritto a tutti i popoli del mondo “affinché affrontassero il fatto che siamo di fronte a una scelta rigida, terrificante e inevitabile: metteremo fine alla razza umana o l’umanità rinuncerà alla guerra?”.

Quel manifesto è il più importante documento di denuncia mai scritto sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari per il genere umano e ricorda che “qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe H non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra”.

“Le minacce – ci scrisse allora Chomsky – sono sempre più gravi e l’Europa è nella posizione ideale per intraprendere la missione storica di salvare la razza umana dall’autodistruzione”.

Ma ora che l’Europa si ritrova a vivere sul proprio suolo una guerra devastante, Noam sosterrebbe ancora quell’affermazione? Gli scriviamo quindi per chiedergli se è possibile che l’Europa cambi rotta o se l’Europa è ormai così sottomessa agli USA d’aver perso definitivamente la sua possibilità di salvare la razza umana dall’autodistruzione, per citare le sue parole.

“Come ho già detto recentemente – ci risponde Chomsky – Putin ha fatto a Washington il più grande regalo che gli USA potessero immaginare. L’Europa adesso è nelle mani di Washington e, per certi versi, è ancora più pazza degli Stati Uniti. L’opportunità di una “Casa Comune Europea” indipendente è ormai perduta? Per ora temo di sì, ma i vantaggi che l’Europa può trarne sono talmente enormi che la casa comune può forse risorgere nuovamente, con un’altra vittoria come quella che avete ottenuto voi con la base USA”.

La sua affermazione che una casa comune europea potrebbe risorgere getta una nuova luce sulla situazione. Gli chiediamo allora se pensa che il cambiamento possa partire dall’alto o se potrà avvenire soltanto attraverso una protesta di massa da parte della gente comune. Quali passi fare per porre fine a uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per tutte le parti? È ancora possibile trasformare il rifiuto della guerra in un movimento di massa, anche se le vecchie forme sono fallite e la disintegrazione del tessuto sociale sembra impedire ogni azione comune?

“Concordo sul fatto che il cambiamento possa avvenire solo attraverso la protesta di massa della gente comune. Piccoli gruppi di attivisti impegnati possono lavorare per aumentare la comprensione e ispirare l’attivismo, ma sono movimenti di massa che contano. Difficile pensare a un’eccezione. Potrà accadere? Non si sa mai. Possiamo solo provarci”.

Sì, vale la pena di provarci, perché c’è ancora tempo per un’inversione radicale di rotta.

Il 2 aprile, in tutta Europa e in tutto il mondo, spegniamo allora le televisioni e i social network, spegniamo la propaganda di guerra e le informazioni manipolate. Mettiamo da parte le nostre differenze e convergiamo in una miriade di attività differenti ma con un unico obiettivo –  la pace – e con una chiara metodologia – la nonviolenza attiva –  perché la guerra non si ferma con le armi, ma con la pace.

“Sono molto contento di sapere cosa state facendo. È molto importante” ci risponde Chomsky quando lo informiamo di quest’iniziativa, perché “se c’è la volontà, è possibile evitare la catastrofe e virare verso un mondo molto migliore”.

Europa per la Pace

Il 2 aprile spegniamo le guerre e accendiamo la pace

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 2 marzo 2023 ed è disponibile anche in Spagnolo
La Foto è di Andrew RusK da Wikipedia

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Movimento pacifista più che mai in crescita negli Stati Uniti

Foto di codepinkalert

di Daniela Bezzi

Nell’anniversario del 24 febbraio, con le tantissime manifestazioni che in Italia e in tutta Europa, da Londra a Palermo, hanno riempito le piazze nel week end appena trascorso, ecco la consolazione di veder rinascere il movimento pacifista, e persino negli Stati Uniti! Siamo lontani dalle manifestazioni oceaniche che il 15 febbraio del 2003 cercarono vanamente di impedire l’invasione dell’Iraq, nonostante la definizione di ‘seconda potenza mondiale’. Ma un dato che i nostri governi non potranno ignorare è il declinante consenso per l’ulteriore invio di armi in Ucraina, che oltre a sottrarre risorse a tutti i malandati welfare del ‘blocco’ occidentale, avrebbe il solo effetto di prolungare il conflitto all’infinito (che però è quello che l’Industria delle Armi convintamente vuole).

E insomma, contrariamente a quanto gli stanchi dibattiti nei talk show vorrebbero farci credere, il sentiment è proprio cambiato: ecco levarsi sempre più forte e chiara la domanda di pace, come non hanno potuto fare a meno di registrare le foto che sono circolate in questi giorni dalla quantità di partecipatissime iniziative anti-war che si sono verificate in tutta Europa, e per l’appunto, anche oltreoceano. Perché oltre a superare tutte le altre potenze occidentali in termini di aiuti militari e finanziari all’Ucraina (stanziamenti pari a 73 miliardi di euro, la cifra più alta mai spesa dalla Casa Bianca) il più riluttante a prendere in considerazione qualsiasi soluzione negoziata è proprio l’entourage di Mr Biden.

Già da domenica 19 febbraio, in anticipo su tutte le città del blocco occidentale, ecco quella partecipatissima manifestazione intitolata Rabbia contro la macchina da guerra che ha coinvolto decine di organizzazioni diverse e migliaia di manifestanti a Washington DC (ne abbiamo dato notizia qui) per reiterare tre fondamentali richieste:

  • stop agli aiuti militari all’Ucraina in favore di ben più urgenti priorità per il popolo americano
  • massimo impegno sul piano diplomatico per l’immediato cessate il fuoco preliminare a seri negoziati di pace
  • e (udite udite) quanto mai urgente e necessario smantellamento della NATO, considerata (con una chiarezza non sempre altrettanto esplicita presso alcuni pacifisti di casa nostra) tra i principali ostacoli per un mondo di pace.

Tra i vari interventi dal palco, è stato particolarmente applaudito quello di Chris Hedges, giornalista pluripremiato, autore di una quantità di libri contro la guerra, che tra le altre cose ha elencato uno per uno i vari istituti, think thank, produttori di armi e di morte, accomunati dagli eterni interessi guerrafondai che hanno creato i presupposti anche di questo conflitto.

Ed ecco che anche lo scorso fine settimana, a partire da venerdì 24 febbraio, tutte le principali città degli Stati Uniti sono state teatro di manifestazioni promosse dalla galassia del movimento pacifista americano: New York, Boston, San Francisco, Philadelphia, e tantissime altre, si sono divise le piazze tra quanti manifestavano in sostegno dell’Ucraina invasa dalla Russia, e quanti reclamavano l’immediato cessate il fuoco da parte di entrambi gli attori di una guerra per procura che gli Stati Uniti non vedevano l’ora di ingaggiare con la Russia. Ennesimo episodio di quella guerra infinita che da decenni vede impegnato l’Impero Americano per alimentare appunto la War Machine e che subito dopo la Russia avrebbe come target la Cina.

Non a caso l’impegno di questo risorto movimento pacifista americano non si è esaurito con lo scorso week end, ma anzi sta registrando un crescendo di iniziative, sia in presenza che on line, in vista della prossima e ancor più importante convocazione del 18 marzo, per commemorare appunto il ventennale dell’invasione in Iraq, con una manifestazione che si preannuncia più partecipata che mai a Washington DC.

E basta andare sul sito di United National Antiwar Coalition, o anche di Answer Coalition oppure di Veterans for PeaceWorld Beyond WarThe People’s Forum, per non dire di quel formidabile movimento di donne (però non esclusivamente femminista) che è CodePink (alias Medea Benjamin, Marcy Winograd, Jodie Evans e tantissime altre attiviste a tutto campo) per capire che sarà una manifestazione ancora più forte e significativa di quella del 19 febbraio, con un fittissimo calendario di eventi preparatori, una quantità di bus che si stanno organizzando da ogni Stato della federazione, un programma di webinar di altissimo livello e contributi che sarebbero di grande interesse anche per noi e che per quanto possibile cercheremo di seguire anche su Pressenza.

Per esempio questa settimana è prevista una serie di interventi on line da parte di giornalisti e autori di indubbio valore con l’obiettivo di contrastare o come minimo indagare e se possibile decostruire la propaganda dei media mainstream, circa le superiori “ragioni” della proxy war con la Russia. Ieri sera c’era il giornalista franco-russo-americano Vladimir Posner, con un’accurata ricostruzione degli eventi che hanno preceduto il conflitto in corso, al punto da ribaltare quello scenario di pace che si era creato con la caduta del muro trent’anni fa, con l’attuale guerra senza possibilità di vittoria (come viene ormai definita) per cui guerra infinita.

Questa sera sarà la volta di Daniel Ellsberg in tema di Minaccia Nucleare e così via fino a venerdì sera, con le conclusioni di Medea Benjamin e Marcy Winograd, che proveranno a delineare possibili Percorsi di pace. E anche per l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, il tema delle manifestazioni convocate da CodePink non potrà limitarsi alla violenza di genere, ma denuncerà in tutti i possibili slogan la violenza senza precedenti che il conflitto in corso già rappresenta per le popolazioni colpite e per tutto il genere umano, se dovesse degenerare (ipotesi tutt’altro che peregrina) in olocausto nucleare.

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 28 febbraio 2023

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