Politica

NOTE SUL DISEGNO DI LEGGE GOVERNATIVO IN MATERIA DI SICUREZZA  

di Gianni Giovannelli

Tirannide indistintamente appellare si 
debbe ogni qualunque governo in cui
chi è preposto alla esecuzion delle leggi
può farle, distruggerle, infrangerle,
interpretarle, impedirle, sospenderle;
o anche soltanto deluderle,
con sicurezza d’impunità

Vittorio Alfieri
Della tirannide, libri due, tipografia di Kehl, 1809

 

Se ne discute animatamente da alcuni mesi, quasi senza sosta. Ma ad oggi il disegno di legge (S 1236-C 1660) elaborato dal governo Meloni per riportare ordine nella nazione italiana ancora non ha ottenuto la definitiva conferma. Il testo approvato dalla Camera il 18 settembre 2024 è infatti fermo al Senato, dopo la rapida trasmissione già il giorno successivo. L’intoppo è legato al timore, per nulla infondato, di un rinvio delle singole norme alla Corte Costituzionale che potrebbe, con sentenze vincolanti, disporre imbarazzanti modifiche o cancellazioni, come più volte accaduto nel passato proprio in questa materia. Sono incidenti di percorso, in un quadro di incertezze e contraddizioni, non sempre prevedibili. Valga, per comprendere meglio la complessità tecnico-giuridica delle norme in discussione, la cronologia di percorso del reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 bis del codice penale).

Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale
Questa ipotesi delittuosa fu introdotta nel 1930, in pieno regime fascista, nel c.d. Codice Rocco (ancora in vigore oggigiorno, con buona pace degli alfieri di questa democrazia in cui ci troviamo a vivere). Prevedeva la reclusione da un minimo di 6 mesi a un massimo di 2 anni, aumentabili fino a 3 in caso avvenisse in pubblico e a 4 in caso di contestuale minaccia. E questa rimase la pena anche dopo la liberazione, fino al 1994, quando la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 341, dichiarò irragionevole un minimo sanzionatorio così elevato, riducendolo d’imperio a 15 giorni. Ne sortì un dibattito politico che si concluse con la legge 25.6.1999 n. 205 che abrogò definitivamente e totalmente il reato, cancellando l’art. 341. Non era finita. Con successiva legge n. 94/2009 il governo Berlusconi (ministro per la gioventù era Giorgia Meloni) ripristinò con un art. 341 bis la punizione dell’oltraggio (da 15 giorni a 3 anni); e un decennio dopo, con legge 14.6.2019 n. 53 il governo Conte 1 (quello gialloverde in coppia con Salvini) tornò alla previsione originaria del nazionalfascista Alfredo Rocco (da 6 mesi a 3 anni). Invano la Corte d’Appello triestina richiese un nuovo intervento della Consulta, sottolineando come la sanzione ripristinata tradisse una concezione autoritaria e sacrale dei rapporti fra pubblici ufficiali e cittadini, tipica dell’epoca storica (la dittatura fascista), incompatibile con lo stato democratico. I tempi erano mutati e la Corte (recentissima sentenza n. 166 del 22 ottobre 2024) si è questa volta pronunziata per la legittimità costituzionale della norma, ritenendo che il nuovo 341 bis, pur con le stesse pene, fosse diverso dal vecchio 341 nel contenuto (osservazione assai poco convincente e anzi piuttosto traballante quanto a logica dell’esposizione). Il punto sta nel fatto che tutti noi si convive con l’incertezza; e questo ancor di più rileva ora che il Collegio conta su 11 membri soltanto, in attesa che il parlamento a camere riunite elegga i 4 mancanti, tutti di nomina politica, eletti con maggioranza qualificata (quella semplice non basta, è necessario un accordo fra maggioranza e opposizione, non ancora raggiunto, ma ormai vicino). Quattro membri su 15 possono fare la differenza: questa è una delle ragioni (anche se non la sola) che hanno indotto il governo Meloni a non accelerare troppo i tempi, dopo la scoppola ricevuta con la decisione sull’autonomia differenziata. La Corte Costituzionale, composta di esseri umani, è certamente sensibile al vento di destra che spira nel paese, ne tiene conto senza dubbio, ma non abbastanza da garantire all’esecutivo la strada spianata. E dunque Meloni procede con astuta cautela, lavorando sulle nomine mancanti, per poi assestare il colpo di scure che continua in cuor suo a ritenere maturo.

Il testo approvato dalla Camera dei Deputati. L’occupazione di case.
Il testo approvato dalla Camera, diviso in 38 articoli, non subirà, salvo sorprese, modifiche sostanziali; le variazioni (che imporrebbero un nuovo passaggio in aula) saranno minime e l’esecutivo farà il possibile per evitare code: dispone dei numeri per farlo. Il primo capo (9 articoli) introduce modifiche, per lo più di facciata e d’immagine, nel gran mare di mafia, terrorismo internazionale e (pure) fuochi artificiali. Ben diverso il secondo capo (da 10 a 18) che aggrava pesantemente l’apparato sanzionatorio contro chi occupa le case (e contro ogni azione di solidarietà o sostegno degli occupanti). Oggi le pene sono relativamente contenute (fra i 15 giorni e tre anni); ma il nuovo articolo 634 bis, introdotto con il disegno di legge (art. 10), prevede il carcere da 2 a 7 anni per chi occupa (o anche solo detiene, magari per mezzo di artifizi) qualsiasi immobile, pubblico o privato, utilizzato o non utilizzato dal proprietario. La stessa pena tocca a chi si intromette o in qualsiasi modo coopera (aiuta) per consentire l’occupazione, dunque anche il semplice sostegno di movimento viene criminalizzato pesantemente. Inoltre apre la via al reato associativo e alle aggravanti tradizionali della promozione e/o organizzazione delle occupazioni, con inevitabili aggravanti utili ad appesantire condanne esemplari. Di recente la Corte d’Appello milanese aveva annullato le dure condanne inflitte, per associazione a delinquere, ai militanti dei centri sociali attivi nel movimento per la casa nel quartiere Giambellino; ora il governo provvede a rinforzare lo schema accusatorio con le nuove norme antipopolari. Con la nuova legge si facilita inoltre l’emissione dell’ordine di sgombero e la sua immediata esecuzione, ampliando anche i possibili interventi di polizia; lo strumento della querela da parte della proprietà (non solo dei singoli, ma anche delle strutture societarie pubbliche o private) diviene una potente arma di ricatto per indebolire il fronte ribelle, insieme alla ipotesi di non punibilità in favore di chi libera l’immobile dopo l’ordine di sgombero e al tempo stesso collabora all’accertamento dei fatti. Siamo all’atto di nascita di una nuova figura processuale: l’occupante pentito!

Occupare case è più grave che provocare morti sul lavoro
Infliggere pene più o meno severe è una scelta del legislatore connessa alla maggiore o minore gravità della violazione; trattandosi di un disegno di legge governativo in questo caso il potere esecutivo impone al potere legislativo un preciso cammino da percorrere, determina le priorità di politica sociale e l’urgenza dell’intervento repressivo.
Il raffronto fra le sanzioni connesse alle singole violazioni consente di comprendere quali comportamenti siano da ritenersi meno tollerati. Nonostante l’incremento di morti sul lavoro provocate in Italia nel 2024 dal sistema di appalto sregolato e selvaggio e dalla mancata applicazione delle regole in materia di sicurezza delle persone, queste disposizioni in materia di sicurezza pubblica (questo il titolo del disegno) non prende nella minima considerazione gli omicidi bianchi. L’art. 589 c.p. punisce chi provoca la morte dei lavoratori violando le norme antinfortunistiche con la reclusione da 2 a 7 anni (legge 21.2.2006 n. 102), ovvero la stessa pena base proposta contro chi occupa case; ma le aggravanti associative qui in concreto non trovano ingresso e infatti prevalgono costantemente le attenuanti, i colpevoli la fanno sistematicamente franca, il meccanismo della delega permesso dal nostro ordinamento consente ai proprietari delle imprese di non essere neppure inquisiti. Il c.d. omicidio stradale, punito con il carcere da 3 a 10 anni, viene considerato più grave di quello in cantiere o in fabbrica.
Nel settore della logistica, ove (insieme all’edilizia) più numerose sono le vittime il nuovo assetto normativo in via di approvazione consente di estendere l’applicazione anche agli scioperanti; la legge non limita la previsione alle case, ma ad ogni immobile o struttura edilizia, dunque ai piazzali, ai depositi, all’area privata di magazzino. Si preparano ad usarla contro i sindacati di base (USB, CUB, SI COBAS e altre sigle nate nella lotta e per la lotta), nel silenzio generale mediatico. Questo è il programma vero dell’apparato di comando che riunisce maggioranza e buona parte dell’opposizione: reprimere ogni residua forma di dissenso, imporre la condizione precaria come l’unica possibile per vivere senza essere emarginati dal tessuto sociale, normalizzare lo stato di guerra, dividere in segmenti minoritari disorganizzati la moltitudine. In nome del profitto.

Protezione solo per gli addetti alla repressione
Il sistematico smantellamento del vecchio apparato liberaldemocratico (e ovviamente del suo welfare storico) per un verso cancella la tutela dei deboli (infatti aumenta assai la fascia di povertà), per altro verso allarga la protezione dei funzionari armati che hanno il compito di sedare tumulti (quelli che il popolo riunisce nella generale categoria degli sbirri e il potere chiama invece servitori dello stato). Il capo terzo del disegno di legge (articoli da 19 a 32) aumenta, e non di poco, le pene previste per resistenza e violenza contro il pubblico ufficiale (già ora non sono da poco). Lo scontro con la polizia, in piazza o al picchetto o contro gli sfratti, può costare da 8 mesi a sette anni e mezzo; per giunta, e questa è una novità, si vieta ai giudicanti di considerare prevalenti le attenuanti sulle aggravanti, così che la pena in concreto sia più elevata. Già ora quando lo scontro coinvolge, come di consueto, oltre 10 persone, si prevede il carcere da 3 a 15 anni; la modifica dell’art. 339 c.p. introduce l’aumento, fino a un terzo, quando i manifestanti si oppongono a una qualche spesa pubblica oppure contrastano la costruzione di infrastrutture strategiche. Destinatari di questi fulmini sono con tutta evidenza il movimento NO TAV, quello ecologista e quello pacifista; ma già si mettono in lista d’attesa quelli che si opporranno al Ponte sullo Stretto o magari a nuove centrali atomiche di ultima generazione. L’azione dei NO TAV viene considerata molto più grave dell’omicidio bianco: sono 20 anni di pena massima contro 7! E mentre la spesa per la sanità viene tagliata l’unico intervento di settore consiste nell’estendere alla zona ospedaliera le norme in vigore contro il teppismo negli stadi, parificando i malati di cancro in lista d’attesa ai tifosi di calcio.

I bastonati pagano l’avvocato ai loro bastonatori
Gli articoli 22 e 23 della legge sulla sicurezza stanzia, sottraendoli ad interventi strutturali pubblici, 860.000 euro per pagare gli avvocati di fiducia scelti dai poliziotti accusati di reati commessi in servizio (per ciascuno sono 10.000 euro per grado, considerando l’udienza preliminare fino a 40.000 euro per ogni poliziotto incriminato, a prescindere dal capo d’accusa, fatti tipo Diaz e omicidi compresi). Il taglio della spesa pubblica viene destinato alla difesa privata di chi viene accusato di violenze ed abusi; il bastonato invece l’avvocato se lo deve pagare! Per rendere la difesa più agevole gli sbirri potranno portare armi personali, senza licenza, anche fuori servizio; durante le manifestazioni o i picchetti, perfino sui treni, sono autorizzati alle riprese con telecamere attestandone (loro) il contenuto; ad evitare che soggetti poco raccomandabili come i migranti clandestini possano documentare soprusi polizieschi l’art. 32 vieta la vendita di schede telefoniche agli stranieri senza permesso di soggiorno.

Altre novità dello stesso genere
A mio avviso il dispotismo repressivo di maggior rilevanza e gravità riguarda la difesa violenta della proprietà immobiliare privata, perché comporta in un momento difficile una sorta di macelleria sociale che logora redditi familiari già ridotti all’osso, senza alcun correttivo assistenziale. Ma, per quanto aggressivi, non sono gli unici. Nel contorno si sono bastonate per tutti. Il controllo sui cittadini tramite i servizi segreti (DIS, AISE e AISI) prevede acquisizione di dati sensibili anche in violazione della privacy mediante contratti connessi a pubblica utilità, anche in convenzione o in concessione: il grande fratello avanza. L’imbrattamento dei monumenti (qui tocca a Ultima Generazione) passa da 3-12 mesi a 6-18; ma in caso di recidiva (condanne in sequenza) si rischiano 3 anni, senza più condizionale (art. 24). Inoltre, modificando l’art. 415 c.p. si allarga il quadro della c.d. istigazione a delinquere per colpire chi con scritti rivolti ai detenuti aiuti le rivolte carcerarie o comunque le fomenti; un articolo 415 bis aggrava poi le pene in caso di rivolta effettiva, fino a 20 anni quando ci scappi involontariamente un morto (per le morti volontarie c’era già la pena massima). Ma con l’art. 27 della legge sulla sicurezza vengono introdotte sanzioni carcerarie anche per chi è detenuto nei centri per migranti; quando la protesta sia di più persone, con bastoni o coltelli, i promotori rischiano per ciò solo da 2 a 7 anni (e senza rimborso delle spese per l’avvocato!).

Infine: il blocco stradale
Questo reato ha una storia dimenticata e oggi poco nota. Fu introdotto nell’Italia repubblicana, con il Decreto Legislativo 22 gennaio 1948 n. 66, quando Mario Scelba era ministro dell’interno. L’ostacolo alla circolazione stradale era punito con la reclusione da 1 a 6 anni, pena raddoppiata (da 2 a 12) quando ad attuarlo concorrevano più persone, cioè sempre. Per organizzatori e promotori (art. 112 c.p.) c’era l’aumento fino a un terzo. Il massimo edittale di 16 anni imponeva (allora) l’obbligo per il magistrato di emettere il mandato di cattura. Questo quadro normativo rimase in vigore fino 30 dicembre 1999, quando fu depenalizzata con l’art. 17 del decreto n. 507 (governo D’Alema); ma già da anni era venuto meno il carcere preventivo obbligatorio che fine agli anni settanta aveva colpito operai e studenti in lotta. Durante l’autunno caldo moltissimi militanti furono rinchiusi in galera o costretti alla latitanza, fino alle amnistie concesse a furor di popolo che depotenziarono lo strumento repressivo.
La legge del 1999 ridusse il blocco stradale attuato con il corpo a illecito amministrativo; ma nel 2018 (decreto 113 del 5 ottobre, Conte 1) ripristinò il reato, ma solo nel caso in cui si trattasse di qualche cosa di simile alla barricata (ostruzione edilizia), con la vecchia pena fino a 12 anni. Ora il governo pensa di sanzionare nuovamente anche il semplice uso del proprio corpo per fermare la circolazione, con una pena da 6 mesi a 2 anni; non siamo ancora al ritorno di Scelba ma il cammino è iniziato!

 

L’immagine è di VBlock da Pixabay

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L’economia dei soldi contro l’economia della natura

Foto di Antonio Citti

di Paolo Cacciari 

Norberto Bobbio diceva che “potere” è una parola “paravento”, perché nasconde molte diverse forme di esercizio del potere e di organizzazione dello stato, diversi modelli di “governance” – diremmo oggi – più o meno democratici, più o meno oligarchici, più o meno burocratizzati, più o meno comunitari. Il potere, infatti, viene esercitato attraverso una mistura di strutture e di strumenti di consenso e repressivi, simbolici e militari, economici e ideologici, consuetudinari e tecnologici. La posta in gioco del potere è il possesso di risorse naturali e umane tale da far valere la volontà di chi le gestisce.
È convinzione comune che nella società contemporanea il potere economico abbia via via assunto una posizione dominante su tutti gli altri ambiti della condizione umana. Assistiamo infatti alla subordinazione di tutte le sfere della vita – materiale e spirituale – al sistema economico. Attraverso il denaro l’economia ha catturato totalmente l’interesse delle persone, meritando assoluta obbedienza e religiosa venerazione. Di “dittatura dell’economia” ne parlò anche papa Bergoglio all’inizio del suo mandato (Papa Francesco, La dittatura dell’economia, a cura di Ugo Mattei, prefazione di Luigi Ciotti, Edizioni Gruppo Abele, 2020).

Economia vs politica
Il potere economico si è impadronito della sfera politica, qualunque sia la sua configurazione. Non mi riferisco solo al clientelismo, alla corruzione, al finanziamento delle campagne elettorali e al lobbismo – che pure hanno assunto una dimensione imbarazzante per gli stessi protagonisti; basti pensare a cosa sono diventate le campagne elettorali negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte suprema del 2010 che ha abolito ogni limite alle donazioni delle corporation a favore dei candidati (solo Musk ha speso più di 130 milioni di dollari nella campagna a favore di Trump) o al ruolo delle lobby nella UE dove operano 10 lobbisti accreditati per ogni parlamentare europeo. L’imperativo della crescita economica è stato introiettato dai partiti – sia da quelli conservatori che da quelli progressisti – come fine ultimo dell’agire politico. La pseudo competizione tra le forze politiche che si contendono il governo degli stati avviene per lo stesso obiettivo: far ottenere maggiori profitti alle imprese. Procedendo in tal modo i board (amministratori delegati, presidenti, consigli di amministrazione) delle compagnie più potenti sul mercato smettono di aver bisogno della mediazione politica, elaborano direttamente le policy e costituiscono le loro istituzioni finanziarie transnazionali (Fondo Internazionale Mondiale, Banca dei Regolamenti internazionale, ecc.), giuridiche (arbitrati), culturali (fondazioni filantropiche), di informazione (social), persino militari (Consiglio atlantico della Nato). Vedremo poi dove conduce l’errore di confondere la crescita del Pil con il bene comune e il benessere sociale.

Economia vs etica
Il potere economico esercitato attraverso il denaro si è impadronito anche della sfera etica e spirituale. Come ci hanno a suo tempo spiegato Max Weber e Walter Benjamin, l’economia è stata elevata a religione che professa il culto della crescita, officiato dagli economisti con i governanti nelle vesti di chierichetti. Il Bene è passato dalla Provvidenza alla “mano invisibile”, o – come si conviene nell’era tecnologica – al “pilota automatico” evocato dal banchiere Mario Draghi. Non è rimasto più nulla di sacro, di incommensurabile, di rispettabile in sé e per sé. Né l’umano, né il naturale.
L’economia di mercato sembra regolata da una legge sovrannaturale e si riproduce come per istinto, mossa dall’avidità, dall’egoismo, dall’interesse personale. A ciò fanno coerentemente seguito un’etica, una antropologia e persino una particolare psicologia. L’homo oeconomicus deve essere individualista, competitivo, virile, aggressivo, identitario, anaffettivo… ora anche patriottico, pronto, cioè, se non proprio ad impugnare le armi, a donare ai militari il 3 per cento, forse anche il 5% della ricchezza sociale.

Economia vs pace
Inutile dire che la sfera del potere economico è integrata nel “complesso militare-industriale”, come lo chiamava con timore uno che se ne intendeva, il generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti. Il connubio tra economia e militari funziona non solo in tempo di guerra – ci siamo vicini – ma “normalmente”. Non solo perché l’economia di guerra svolge una funzione “anticiclica” in periodi di scarsa accumulazione dei profitti (sembra che l’economia russa dopo tre anni di guerra stia andando a gonfie vele), non solo perché è dagli investimenti pubblici in armamenti che nascono le innovazioni tecnologiche che poi l’industria privata mette a frutto (“dualità” tra ricerca in campo militare e civile), ma perché la potenza militare è indispensabile per presidiare le sfere di influenza degli stati, i mercati di sbocco e le aree di approvvigionamento delle materie prime. Le guerre armate non sono altro che la prosecuzione delle guerre commerciali. L’idea illuministica secondo cui il libero commercio avrebbe avvicinato e pacificato i popoli si è rivelata nel suo opposto: una guerra economica generalizzata.

Economia vs saperi
Il potere economico è consustanziale alla scienza analitica-deduttiva galileiana, indispensabile per riuscire a trasformare la natura in un insieme di cose, di materiali e di energie da impiegare senza scrupoli nei cicli produttivi economici. Con Bacone e Cartesio l’ordine naturale si è rovesciato: sarà l’umano a dominare, assecondare, plasmare la natura. Le stupefacenti invenzioni che conosciamo nascono con una precisa intenzione e ubbidiscano ad un progetto predefinito di dominio utilitaristico ed “estrattivista”, diciamo oggi. Qualsiasi dispositivo tecnologico di cui ci siamo dotati è un prodotto socialmente determinato e cristallizza nel proprio disegno i valori e le visioni del mondo di chi l’ha pensato, creato e prodotto. Non tutti i ritrovati tecnologici possono essere usati a fin di bene; pensiamo all’energia nucleare. A chi crede che una lama sia solo una lama, ditegli di provate a sbucciare una mela con una scimitarra, o di uccidere una persona con un coltello da tavola.

Economia vs comunità
Vi è poi un’altra sfera di potere “derivato”, ma molto influente nella vita super-organizzata di tutti i giorni, quello amministrativo e giudiziario. Fino a qualche tempo fa questi poteri godevano di un’aura di indipendenza e neutralità costituzionalmente riconosciuta. Nelle teorie della pubblica amministrazione i “public services” sono i servitori dello Stato che devono limitarsi ad applicare leggi e regolamenti. In realtà i margini di autonomia nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme sono molto ampi. Con l’arretramento del ruolo delle assemblee elettive, l’uso dello spooling system e delle “porte girevoli” dei funzionari tra settore pubblico e privato, la sfera burocratica ha acquisito una crescente rilevanza. Inutile dire che la loro principale funzione è garantire la preservazione dei business as usual.

Economia, cioè crescita quindi benessere e democrazia?
Domandiamoci allora quali sono i motivi per cui la sfera economica è riuscita a prevalere su ogni altra dimensione del vivere umano e del vivente tutto. A mio avviso perché i più potenti agenti economici (coloro che posseggono i principali mezzi di produzione e di scambio e, quindi, di comunicazione) sono riusciti a far passare nella opinione comune due assiomi, due postulati che vengono presentati e assunti come verità evidenti in sé stesse. Il primo: la crescita economica aumenta la disponibilità di beni e servizi, quindi, migliora la vita e porta benessere. Il secondo: nel sistema economico di libero mercato la competizione avviene alla pari; quindi, colui che riesce ad offrire prodotti più convenienti agisce nell’interesse di tutti (Thomas Hobbes), pertanto merita di ottenere ciò che vuole. In forza della teoria dei vasi comunicanti, o della marea che sale nel porto e solleva tutte le imbarcazioni, o del tricky-down-effect, gli imprenditori capitalisti sono convinti che ciò che è utile a sé stessi sia utile a tutta l’umanità. Insinuare un dubbio in questa consolidata narrazione è faticoso e impopolare, poiché è tristemente vero che in questa società governata dal mercato solo chi possiede il denaro necessario può sperare di soddisfare le sue esigenze.
Il tema allora è: chi e a quali costi sociali e ambientali può permettersi di ottenere ciò che desidera? Sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono compatibili con le logiche dell’arricchimento personale?

Il denaro da mezzo a fine
In una società dominata dall’ordine di mercato (market system) ogni cosa dipende ed è connotata dal denaro. Il valore che attribuiamo al nostro lavoro, il valore delle cose che usiamo, il valore dei servizi pubblici a cui abbiamo accesso, il valore dei beni naturali… il valore di ogni cosa e ogni attività viene misurato, denominato e contabilizzato in valuta circolante. I frutti della terra, le attività che vengono svolte gratuitamente (pensiamo all’accudimento dei figli e delle persone non pienamente autosufficienti, alla presa in cura degli animali e delle piante, alla manutenzione delle proprie cose e del territorio) che non entrano nel circuito economico come merce perdono di visibilità e di considerazione sociale. In termini marxiani (e di tutte le teorie economiche classiche) ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso dei beni e dei servizi utili al vivere degli esseri umani. Per un economista, al pari di un commercialista e di un contabile, una attività che non genera denaro è priva di senso. Vedremo poi dove sta l’errore.

Mercificazione e mercatizzazione
Diciamo che le cose stanno ancora peggio di così: il sistema di mercato per continuare ad espandersi ha bisogno di alimentarsi in continuazione annettendo tutto ciò che gli è attorno. Pensiamo ai cicli naturali dell’acqua, del clima, della fotosintesi clorofilliana, del cloro e del fosforo e così via. Ma pensiamo semplicemente agli oceani e allo spazio che stanno per essere intensamente colonizzati con i satelliti e con la geoingegneria. Passando dal macro al micro, pensiamo alla manipolazione genetica con la relativa brevettizzazione dei genomi. Passando dal materiale alla sfera delle relazioni sentimentali, pensiamo alle attività di cura personale tradizionalmente svolte in ambiti familiari, amicali e comunitari ed ora sempre più sussunti da imprese for profit assistenziali, sociosanitarie, educative, ecc.
Siamo già entrati nell’era distopica del post umano; l’azienda Neuralink di neurotecnologie di Mask ha chiesto l’autorizzazione per impiantare interfacce neurali (chip) nei cervelli delle persone. Siatene certi che nei laboratori ciò è già avvenuto con gli animali. Con l’editing genetico (tecnologia Crispr-Ca59 sperimentata in larga scala con i vaccini anti Covid) è già possibile sintetizzare un embrione (di topo) senza utilizzare spermatozoi e cellule uovo, partendo da cellule staminali. I pseudo embrioni sono già tra noi.

Denaro è potere
Forse è sempre stato così, fin dall’origine della divisione sociale del lavoro, dalla costruzione delle città, dalla fondazione dei regni e degli stati. Ma è certo che il sistema economico turbocapitalista neoliberale ha condizionato a tal punto la sostanza umana e naturale da ridurla a mero fattore di produzione: stock e flussi. Degradati a “capitale umano” e a “servizi ecosistemici” gli esseri viventi vengono incorporati come “risorse” nei cicli di valorizzazione dei capitali investiti. Tutto ciò che non diventa merce vendibile sparisce dall’ordine sociale e sembra non interessare la sfera delle relazioni pubbliche. Il capitalismo ragiona così, sulla base del calcolo della remunerazione degli investimenti, cioè della massimizzazione dei ricavi e dei profitti: payback e dividendi. L’economia nel capitalismo è: rendimenti alti e costi bassi. Il capitalismo è fatto di denaro, non ha anima e nemmeno ragionevolezza. Scrisse il padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti (1897 – 1989), dopo una lunga permanenza alla Olivetti di Ivrea: “La produzione industriale è qualche cosa di insaziabile. Non ci sono limiti: chi è preso dalla febbre del produrre trova sempre qualche cosa di nuovo da fabbricare.” (Io e le macchine, supplemento al n.6 di Genius, i mensili dell’Espresso, 1984).

Due “inconvenienti”
L’“economia dei soldi” (come la chiamava Giorgio Nebbia), il capitalismo, ha due caratteristiche congenite: la centralizzazione della ricchezza e la distruzione della natura.
Il dibattito in corso da più di due secoli negli ambienti più sensibili ai temi della giustizia sociale e della conservazione dell’ambiente naturale verte sul fatto se il sistema sociale capitalista sia o meno riformabile. I tentativi fin qui realizzati nel corso della storia in varie parti del mondo nel cercare di regolare la crescita economica in modo da incanalarla all’interno di obiettivi di equità e sostenibilità hanno dato esiti insoddisfacenti. Solo in alcune parti fortunate dell’enclave ricca del Nord globale, in alcune fasi storiche e a favore solo di alcune fasce sciali è stato raggiunto un livello di reddito e di benessere accettabile, mentre nel resto del mondo il modello di sviluppo industriale ha comportato tremendi squilibri sociali ed enormi devastazioni naturali. Non lasciamoci ingannare dalle bugie statistiche: misurare il benessere in “uno-virgola dollari/giorno” significa imporre un parametro universale neocoloniale ad ogni forma di civiltà diversa da quella mercantile.
La regolamentazione del mercato per via politica nel tentativo di correggerne i “fallimenti”, attenuare le più odiose “distorsioni” e mitigare gli impatti indesiderati (altrimenti definiti nei manuali di economia “esternalità negative”) hanno comportato vari compromessi tra gli interessi delle parti sociali in conflitto, ma non hanno impedito la progressiva e sempre più rapida erosione delle basi materiali della vita sulla Terra e l’accentramento della ricchezza accumulata.

Squilibri distributivi
Il sistema di mercato è forse capace di autoregolarsi sulla base di un’infinità di transazioni economiche effettuate da liberi cittadini che agiscono nel proprio interesse, ma è certo che il risultato finale non è affatto né anonimo, né impersonale. Il gioco non è alla pari e non determina un risultato “win-win”. Ogni “vincita” provoca un mare di sofferenze, crea una folla di “naufraghi dello sviluppo” (Serge Latouche), produce gerarchie di classe, di genere, di razza.
Il potere economico è esercitato da persone in carne ed ossa che agiscono secondo precisi progetti, plasmando modi di produzione, relazioni sociali, sistemi organizzativi e distributivi, influenzando stili di vita e di consumo, istituendo determinate forme di governance. Siamo giunti alla situazione inaudita in cui esistono 58 persone fisiche multimiliardarie che possiedono circa metà della ricchezza globale. I primi 10 maggiori Fondi di investimento (i “titani” della finanza) controllano 50 mila miliardi di dollari, pari alla metà del Pil mondiale. Nei loro Consigli di amministrazione siedono in tutto 117 signori. Poche conglomerate controllano la maggioranza degli scambi transnazionali.
Invece di scandalizzare, i dati che regolarmente pubblicano Oxfam e altri osservatori (vedi il Global Wealth Report della banca svizzera UBS) sulle ricchezze smisurate accumulate dai super-ricchi affascinano l’opinione pubblica. Ciò ci dà il senso di quanto in profondità sia penetrata nella cultura contemporanea l’ideologia dell’arricchimento.

Impatti antropogenici
Il secondo “difetto” del sistema economico di libero mercato riguarda l’uso spropositato delle “risorse” naturali. L’“economia dei soldi” entra in conflitto con l’“economia della natura” – per usare la metafora creata da Ernst Heinrich Haeckel (1834 – 1919) per far capire cos’è l’ecologia, ossia la scienza sistemica che studia i rapporti complessi tra organismi viventi e ambiente. Come noto, le crescenti pressioni ambientali generate dall’industrializzazione stanno provocando, con inaudita accelerazione, la riduzione degli spazi vitali necessari per la riproduzione delle specie animali e vegetali. La biofisica del pianeta sta mutando. Così come la composizione chimica dell’atmosfera (la concentrazione media di anidride carbonica è simile a quella esistente nel Pliocene, tre milioni di anni fa) e il ph degli oceani. L’estrazione mineraria è raddoppiata negli ultimi 20 anni. La massa antropogenica (l’accumulo di infrastrutture, macchinari, oggetti) supera in peso la biomassa vegetale globale. Conseguentemente emissioni, scorie e rifiuti saturano la superficie terracquea. Il “metabolismo naturale” della biosfera non è più in grado di rigenerare la materia utilizzata. Tre/quarti della superficie terrestre è pesantemente compromessa. La spoliazione, il saccheggio, lo “stupro” della Terra, in termini scientifici, si definisce ecocidio.
Inutile dire che le responsabilità, in un mondo disuguale, non sono equamente distribuite tra gli abitanti della Terra. Basti pensare che l’1% della popolazione più ricca emette il 66% dei gas climalteranti

Perché il sistema economico di mercato è irriformabile
Il sistema di mercato dominato dal denaro è irriformabile rimanendo all’interno delle sue regole di base. I fallimenti fin qui riscontrati dalle politiche sociali ed ambientali volte alla sostenibilità e all’equità, almeno da quando le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’andamento esponenziale del trend della crescita economica (diciamo, per convenzione, dal rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo e dalla prima conferenza Onu sullo sviluppo umano, Stoccolma,1972), derivano dalla accettazione della stessa logica di fondo che sovraintende la crescita. Il procedimento usato dai decisori politici per impostare le azioni di correzione, mitigazione e adattamento del sistema socioeconomico (il punto più alto e organico della infinita serie di dichiarazioni, convenzioni, protocolli fin qui approvati è stato raggiunto con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, varata in sede Onu nel 2015, e poi con la strategia della Just Transition della Commissione Europea del 2019) è elementare: per invogliare le imprese a ristrutturare il proprio apparato produttivo (uscire dai fossili, ad esempio, e aumentare le quote di utili da destinate al fattore lavoro, occupazione e salari) è necessario offrire a loro delle opportunità economicamente più convenienti. Ciò significa creare nuovi mercati profittevoli, nuove domande di beni e di servizi, nuova crescita. La crescita tramite accumulazione di capitali da reinvestire (e remunerare) rimane la precondizione delle politiche riformiste sociali e ambientali di stampo keynesiano. Ed è qui che si forma il cortocircuito, come l’eterno ritorno alla casella iniziale nel gioco dell’oca: non esiste un aumento del Pil che non comporti un aumento dell’energia e delle materie impegnate nei cicli produttivi, distributivi e di consumo, da una parte e/o la diminuzione dei costi di produzione dall’altra. Non esiste un Pil smaterializzato, “angelizzato” (la battuta è di Herman Daly) che non si porti con sé un aumento del “consumo di natura” e una intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano. La formula magica del “decoupling” assoluto è una chimera.
Il sistema di mercato ha un difetto di fabbricazione, un “baco” congenito: non ammette limitazioni alla sua crescita, si crede esterno alla natura, non vede che a breve termine e si illude della inesauribilità del mondo materiale.

Le false soluzioni della crescita verde
Per tentare di aggirare l’ostacolo ed evitare di prendere in considerazione l’unica soluzione che sarebbe davvero efficace – la diminuzione diretta e netta del flusso di materie e di energie impiegate nei cicli economici – è stata tentata la strada delle compensazioni. Tanto prelevo e inquino, tanto pago/investo per rigenerare e disinquinare. A prima vista sembra una soluzione ragionevole. A tal fine (dal Protocollo di Kyoto,1997, per far fronte alla “emergenza” climatica) è stata inventata una serie di complessi meccanismi di mercato per disincentivare le imprese ad emettere CO2 e gas simili imponendo dei prezzi (carbon pricing) sotto forma di autorizzazioni e tasse (Cap end Trade). I ricavati avrebbero dovuto finanziare gli interventi di mitigazione e rigenerazione. Ancora una volta mercato e tecnologie sono stati chiamati a risolvere i problemi da essi stessi generati, con soluzioni “in house”. Tale meccanismo è stato proposto anche nelle Convenzioni per la conservazione della biodiversità.
Peccato che alla base del principio della compensazione ci sia un errore ontologico: gli ecosistemi e i cicli ecologici non sono valutabili in denaro, non sono inscrivibili in un semplice foglio di calcolo costi/benefici, poiché non tutta l’energia è rinnovabile, non tutti i nuovi materiali di sintesi che vengono immessi sono biodegradabili, quasi mai i tempi di metabolizzazione e assorbimento degli inquinati sono compatibili con i tempi di ritorno degli investimenti degli impianti industriali che li hanno prodotti e, pertanto, i loro “costi” non sono attualizzabili. “Balene, elefanti, torbiere, aria pura: pochissimo è sfuggito allo sguardo rapace dei contabili”, ha scritto Adrienne Buller (Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde, add editore, 2024).

Prendersi cura
Non potranno mai emergere delle green technologies, una green economy, una transizione ecologica che non siano guidate dalla volontà di instaurare una green and just society. Senza una intenzionalità e un progetto politico trasformativo del sistema economico oggi prevalente nel mondo sarà impossibile rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica e della sopportabilità sociale.
Per uscire dalla “dittatura economica”, per riuscire ad espellere il denaro dalla vita, è necessario rovesciare come un calzino il significato e il senso dell’agire economico (oikos). L’economia deve essere intesa come null’altro che l’insieme delle attività di presa in cura della riproduzione della vita. Su questa linea hanno scritto un gran numero di studiose ecofemministe e studiosi di economia ecologica e della decrescita. Cito qui un autore controverso, Hans Immler, che a me pare particolarmente efficace: “Se sotto il termine economia viene intesa la formazione razionale dei rapporti materiali di una società, cioè la concreta determinazione produzione e riproduzione, crescita e sviluppo, distribuzione e consumo, ecc., allora natura e lavoro non sono il mezzo nella produzione sociale, bensì anche e soprattutto il fine e il risultato di ogni modo di produzione. Ma ciò significa che il processo di natura come unità di lavoro umano e natura esterna deve essere punto di partenza e fine di ogni economia” (Hans Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Introduzione di Piero Bevilacqua, Donzelli, 1993). In definitiva si torna a Karl Polanyi: l’economia va reincorporata nella società che a sua volta dipende dalla “economia della natura”.
Un percorso di acquisizione di consapevolezza delle interrelazioni e interdipendenze che intrecciano ogni specie vivente, compresa quella umana.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 4 gennaio 2025

 

Sullo stesso tema:
JOHN HOLLOWAY. Vita contro denaro. Elogio delle follie necessarie.



L’economia dei soldi contro l’economia della natura Leggi tutto »

Tempi di Equalize

di Gianni Giovannelli

Bisognerebbe anzitutto che le masse europee
decidessero di svegliarsi, si scuotessero
il cervello e cessassero di giocare
al gioco irresponsabile della
bella addormentata nel bosco

Francesco Fanon
(I dannati della terra)

Associazione per delinquere, ovvero l’accordo fra più soggetti per costituire una struttura organizzata stabilmente con il preciso scopo di commettere crimini in sequenza (in genere con un occhio rivolto al ricavarne vantaggi personali). Questa è l’ipotesi di reato in base alla quale si è mossa la Direzione Distrettuale Antimafia a Milano e su cui la Procura ha dato corso alle indagini del caso Equalize; la magistratura inquirente ha ottenuto l’autorizzazione alle intercettazioni, anche ambientali, proprio in ragione del contestato delitto associativo. L’inchiesta si caratterizza fin da subito per una sorta di paradosso: ad essere spiata questa volta è un’impresa capitalistica legale di spioni! Equalize srl emetteva infatti regolari fatture e raccoglieva, senza nasconderlo e contabilizzando gli incassi a fini fiscali, informazioni sul conto di persone ignare per conto della clientela. Una polizia privata in buona sostanza.

La proprietà di Equalize srl

Per aggiunta Enrico Pazzali, ovvero l’indagato imprenditore dedito, come socio di maggioranza, al commercio dei dati acquisiti, ricopre una carica pubblica di non piccola importanza: nel 2019 divenne presidente, ora al secondo mandato con scadenza nel 2025, della Fondazione Fiera Milano, per nomina congiunta del Comune (centrosinistra) e della Regione (centrodestra). I ricavi della Fiera di Milano (si vede il bilancio consolidato), nel 2023, ammontano a circa 300 milioni di Euro; la Fondazione gioca un ruolo di primo piano nella realizzazione del gigantesco affare legato alle Olimpiadi Invernali e possiede un enorme patrimonio immobiliare, in continua crescita. Il socio (di minoranza) incaricato della gestione operativa, Carmine Gallo, è invece un brillante ex funzionario di polizia, con esperienza acquisita sul campo quale addetto ad operazioni importanti e delicate, prima di optare per il pensionamento, ben inserito nel cuore dell’apparato e dunque a conoscenza di ogni segreto meccanismo inquisitorio. Gente nata e cresciuta dentro le istituzioni, capace di tessere una fitta rete di relazioni e di usarle.

L’ordinanza del 28 ottobre 2024

L’ordinanza di custodia cautelare (nella forma attenuata degli arresti domiciliari, negati peraltro nel caso di Pazzali) è davvero voluminosa: 516 pagine! Vi risparmiamo, dunque, il testo integrale. Il GIP, dottor Fabrizio Filice, si è mosso con una certa prudenza, ha limitato per quanto poteva l’uso delle manette, ma era inimmaginabile evitare il clamore mediatico provocato da una vicenda oggettivamente atta a suscitare scandalo e scalpore, vuoi per il ruolo dei protagonisti vuoi per la gravità (anche quantitativa) degli elementi emersi in oltre un anno di indagini. Infatti la Procura ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame invocando maggiore severità; vedremo a breve che cosa ne verrà fuori.

Emerge tuttavia, già ora, un quadro davvero impressionante. La piattaforma Beyond, utilizzata da Equalize, non basta certo a spiegare l’afflusso di informazioni, al più consente di comprendere la loro elaborazione proposta al mercato. Fra i clienti abituali di questa piccola società con due soli dipendenti (ma con tanti fidati collaboratori piuttosto efficienti) spiccano, oltre a colossi di settore, quali ERG BARILLA o ENI, anche il Mossad e il Vaticano. Il mitico servizio segreto israeliano, in particolare, chiedeva una mappatura delle risorse finanziarie cui attinge la struttura militare della compagnia mercenaria Wagner, un report rilevante negli equilibri di guerra nel pianeta. Per fornire i servizi richiesti dai committenti Equalize attingeva non solo a banche dati quali Serpico (Agenzia delle Entrate) o SIVA 2 (operazioni valutarie, sospette incluse), ma aveva accesso perfino a quelle di massima sensibilità a disposizione dei servizi di sicurezza: gli archivi di AISE e AISI (le Agenzie Informazioni di Sicurezza Interna ed Esterna) e quella connessa del DIS (il Dipartimento Informazioni Sicurezza). Lo Stato italiano non ha segreti per Equalize! Una giornalista disinvolta quale Claudia Fusani (Repubblica, l’Unità, Il Riformista) propone perfino una possibile ardita congiunzione con i miliardari russi Toporov e Khatovin nell’ambito di quella che definisce asimmetria informatica. Avvalendosi di IAB (Initial Access Broker), ovvero operatori (s)pregiudicati nel settore delle informazioni acquisite illegalmente, venne costruita una rete diffusa e capace, composta di tecnici (per esempio Samuele Colamucci di Mercury Advisor), agenti (per esempio Giuliano Schiano, in forza alla DIA di Lecce) o manager (per esempio l’ex socio Pier Francesco Barletta, vicepresidente di SEA, indagato e ora autosospeso dalla carica pubblica). L’intreccio fra attività imprenditoriale privata criminale e gestione degli enti pubblici caratterizza il paesaggio dell’inchiesta giudiziaria, ma, al tempo stesso, viene in genere tralasciato dai commentatori e dai media in generale.

Da notare per incidere tre cose

Uno dei principali clienti di Equalize, la Fenice srl, opera nel settore dell’edilizia, lo stesso in cui è attivo Pazzali, quale presidente della Fondazione Fiera Milano. Fenice è una società romana, attiva anche in Veneto (partecipa al Mose); il GIP ha negato alla procura l’arresto, ma il nesso fra pubblico e privato appare qui piuttosto evidente, almeno nella formulazione dell’accusa.

Inoltre, dopo l’autosospensione di Pazzali dalla carica in Fiera, il suo posto è stato preso dal vicepresidente vicario, Davide Corritore, già direttore del Comune durante la giunta Pisapia e già al vertice di MM (che pure di immobili ne ha molti); un manager di area PD che gode tuttavia della piena fiducia sia dell’indagato (che pur sospeso rimane in carica) sia della destra al governo regionale. Del resto l’altro vicepresidente in Fiera, Vasiliki Pierrakea, indicato da Confcommercio, è ottima cuoca (ha un suo locale di cucina greca a Milano) ma non è figura politica adatta a condurre la nave durante una tempesta. La scelta bipartisan del ceto politico è stata quella del silenzio operativo e della continuità verso il business delle Olimpiadi Invernali attualmente in esecuzione.

Infine notiamo l’assenza di commenti governativi di fronte alla notizia di un costante saccheggio di dati sensibili nel cuore del sistema difensivo: DIS, AISE e AISI. Il 19 aprile scorso Giorgia Meloni ha collocato al vertice di AISI il dottor Bruno Valensise; nomina assai controversa e di rottura con la tradizionale assegnazione della carica a un militare. Valensise non ha mai portato la divisa, è un funzionario d’apparato; era in precedenza vicedirettore del DIS (dal 2019) e già aveva guidato la scuola per addestrare il personale alla segretezza, oltre all’Ufficio Centrale per la Segretezza. La direzione DIS (Elisabetta Belloni) scade a maggio 2025; quella dell’AISE (generale Giovanni Caravelli) nel maggio 2026 (nomina di Draghi, poco prima di andarsene, per il periodo massimo consentito: 4 anni). Nessuno ha chiesto conto al trio dirigente delle falle riscontrate; e loro, d’altra parte, si sono ben guardati dal fornire spiegazioni o dall’azzardare ipotesi. Ognuno, sia al governo sia ai servizi, sta zitto e muto, o, meglio, come diceva Totò, si muove tomo tomo cacchio cacchio. Ove mai venissero interrogati dai magistrati milanesi possono sempre opporre il segreto di stato!

Prosegue la transizione e si modifica l’impianto del diritto

Non sarà facile per gli inquirenti, e a maggior ragione per i giudicanti, sbrogliare la matassa del caso Equalize. Per ora non sono riusciti a trovare il bottino, la refurtiva (i dati acquisiti) è al riparo, manca il cd habeas corpus (la famosa pistola fumante). Dicono che il server si trova in Lituania, oppure in Gran Bretagna, o forse in entrambi i paesi. Ammesso e non concesso che i governi di Vilnius e Londra decidano di aiutare la magistratura italiana (ma mi si permetta, senza offesa per inglesi e lituani, di dubitarne) ora che arrivi l’autorizzazione il server risulterà trasferito altrove, magari nello stato non riconosciuto del Puntland, magari su un satellite di Elon Musk.

Il controllo sui comportamenti, sulle azioni di ogni singolo soggetto, sulla vita delle persone marcia spedito e crea diritto consentendo di fatto ciò che solo in apparenza sembra non consentito dagli ordinamenti nazionali; mettere a valore ogni corpo e ogni esistenza significa legittimare l’intrusione nella sfera privata. Questo comporta certamente il sorgere di contraddizioni (contrazioni in seno al moderno capitalismo direbbe il compagno Mao), ma non arrestare certo la transizione il fatto che si diffonda lo spionaggio ostile fra imprenditori; il potere può sopportare le guerre interne senza farne un dramma, ci è abituato.

Nella Cina Popolare è stato approvato il codice civile, in vigore dal 1 gennaio 2021, quasi in contemporanea con l’arrivo della pandemia, per uno strano gioco del destino (per chi ne volesse prendere visione: Pisa, 2021, Pacini Giuridica, a cura di Di Liberto, Dursi e Masi). La cosa curiosa sta nel fatto che il codice cinese (1260 articoli, noi ne abbiamo 2969) riprende la ripartizione di Giustiniano, si connette al diritto romano. Con una differenza rispetto alla nostra legislazione (non la sola differenza, naturalmente) annota, acuto, Oliviero Di Liberto nell’introduzione: fra il diritto civile cinese ora vigente e quello romano imperiale manca la mediazione dei codici napoleonici.

Il varo dei codici napoleonici fu la conseguenza della rivoluzione francese. La borghesia del capitalismo industriale voleva liberarsi dell’assolutismo, e l’assolutismo poggiava, nella sua concezione logico-giuridica, proprio sul diritto romano codificato nel corpo giustinianeo. Le nuove leggi concepite nella Francia giacobina sostituirono le norme applicate nel sacro impero della vecchia Europa, introducendo costituzioni, diritti individuali, proprietà privata. La restaurazione progettata a Vienna fallì, travolta dal quarantotto, dalle rivoluzioni nazionali e dalle lotte sociali di emancipazione; nuovi diritti furono elaborati e codificati, conquistarono vigore con innesto rigenerante nel vecchio ordine normativo. Non so se abbia prevalso la mediazione o si trattasse piuttosto del risultato di uno scontro dialettico, di certo fu un mutamento radicale.

Oggi, sotto i nostri occhi, l’assetto legislativo ordinario e costituzionale, costruito nel capitalismo occidentale e consolidato nel secolo scorso, si va sgretolando; assistiamo al processo di dissoluzione della democrazia rappresentativa, un processo che pare ormai inarrestabile. Il capitalismo del XXI secolo non si riconosce nel radicamento territoriale di lungo periodo e rifiuta la tradizionale ripartizione tempo libero/tempo lavorato. Le merci immateriali non hanno sede, il loro possesso esige invece, per essere mantenuto, controllo, comando, potere, armi, guerra. L’organizzazione del lavoro punta all’acquisizione dell’esistenza umana complessiva, non di un segmento orario delle singole vite. Il diritto alla privacy trova una limitazione, un muro invalicabile, nelle necessità connesse al valore; viene consentito e mantenuto all’interno dei rapporti affettivi o personali, ma quando entra in scena l’attività mercantile connessa al flusso di informazioni muore d’infarto, travolto dalla realtà. Così cadono anche gli altri diritti che hanno caratterizzato la vecchia democrazia liberalsocialista al tramonto, compresa quella colonna portante che è la certezza della norma. Per il moderno dispotismo occidentale (poco assimilabile al fascismo storico, perché privo di valori e miti, nobili o ignobili) conta solo l’interesse in quell’attimo, in quella circostanza.  Il governo incorpora la norma, il governo è la legge; ogni opposizione a questo principio assolutistico viene percepito come un crimine e come tale perseguito. La pioggia incessante delle più svariate disposizioni, spesso in contraddizione fra loro, mira ad una generale cancellazione della certezza: il trigger warning si impone come il nocciolo delle regole, nel momento in cui la vita viene messa a valore il corpo diviene esso stesso merce, le merci non hanno diritti propri. Sei costretto continuamente a scegliere, ma non sai mai, a priori, se la scelta sia giusta o sbagliata; devi vivere nell’ansia, in attesa del verdetto.

Il caso Equalize ci mette dinnanzi all’evidenza di un quadro economico, sociale, produttivo, politico profondamente mutato. L’innovazione tecnologica costante ha rotto ogni argine. Hanno ormai privatizzato, di fatto, perfino la polizia; questo non deve stupirci visto che avevano già privatizzato perfino lo spazio. Inutile cercare il bottino in un server a Vilnius o a Londra; i satelliti di Musk sono proprietà privata e possono guardare dall’alto il pianeta, indispensabili per la guerra, per gli affari, per i governi. Il commercio dei dati posto in essere da Equalize rubando i dati al ministero lo gestiscono uomini delle istituzioni; al vertice dei governi non ci stanno più funzionari di fiducia dei capitalisti, sempre più spesso ci vanno loro direttamente, perdono meno tempo e rimuovono più facilmente gli ostacoli. Il primo passo è compiuto: la banca dati dei servizi segreti italiani è già sul mercato, a disposizione di chi paga l’opera prestata. Per sconsigliare l’uso delle informazioni in danno di alcuni soggetti da non intercettare (pochissimi), ferma restando la schedatura generalizzata delle merci-corpo quando renda commercialmente, bastano le armi convenzionali.

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 novembre 2024

L’immagine è di geralt da pixabay

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Arrivati al dunque. Verso il punto di non ritorno nel crimine supremo della guerra

Immagine generata dall’intelligenza artificiale

di  Pasquale Pugliese

“L’idea di una guerra legale o, addirittura, giusta si basa sulla possibilità di controllare gli strumenti di distruzione, ma poiché l’incontrollabilità è parte di quella stessa capacità di distruzione non c’è guerra che non finisca per commettere un crimine contro l’umanità come la distruzione della vita civile”, scriveva la filosofa Judith Butler nel libro Regimi di guerra, del 2009 ma recentemente pubblicato in Italia da Castelvecchi. La guerra dunque è criminogena in quanto tale o, per dirla con le parole di Butler, “le guerre diventano forme permissibili di criminalità, ma non possono mai essere considerate non-criminali”. Il crimine della guerra sta subendo, nel tempo oscuro che attraversiamo, un salto di qualità negativa che – se non interrotto con un estremo sussulto di consapevolezza e responsabilità – porterà presto l’umanità ad un punto catastrofico di non ritorno, non solo a Gaza. Rispetto al quale i governi in carica delle cosiddette “democrazie liberali”, anziché moderare e frenare il processo distruttivo, costruendone le alternative nonviolente per risolvere i conflitti, pigiano sull’acceleratore dell’escalation. Che porta alla catastrofe etica, oltre che umanitaria.

A cominciare dal doppio standard con il quale, mentre contribuiscono ad alimentare una guerra senza quartiere né prospettiva in Europa, se non quella nucleare come segnaliamo fin dall’inizio – anziché promuovere un serio negoziato di pace con il presidente russo Putin, nei confronti del quale la Corte penale internazionale ha emanato un ordine di cattura per crimini di guerra – supportano con l’invio di armi mai interrotto il presidente israeliano Netanyahu, al quale, dopo oltre 45.000 vittime civili, il Tribunale dell’Aja ha riservato lo stesso trattamento, per crimini contro l’umanità. Ma in questo secondo caso, la reazione di gran parte di politica e stampa occidentali, alla notizia del mandato di cattura internazionale per Netanyahu, è risultata intrisa di comprensione e complicità con il criminale, anziché con le vittime palestinesi, con tratti di vero e proprio suprematismo di stampo colonialista. Che, peraltro, rinnega gli stessi valori della civiltà giuridica occidentale: che la legge sia uguale per tutti; che nessuno è al di sopra della legge; che i diritti umani sono universali; che non si risponde alla barbarie con una barbarie infinitamente superiore…Ma la coerenza è nemica di ogni fondamentalismo.

Del resto, fondamentalismo bellico è anche quello in corso nell’assurda guerra, sempre più globale, tra Nato e Russia – dopo oltre mille giorni dall’invasione russa dell’Ucraina e dieci anni di conflitto armato in Donbass, che ne è stato il presupposto – nella quale le vittime complessive (tra civili e militari, morti e feriti, russi e ucraini) sono stimate ormai in oltre un milione di persone. Guerra che l’Ucraina, che ne è l’avamposto, sta perdendo sul terreno, e che – invece di finire finalmente al tavolo delle trattative, dove ogni giorno che passa le potenziali condizioni per gli ucraini si aggravano – vede alzarsi l’asticella della follia con la discesa in campo dei missili statunitensi e franco-britannici a lunga gittata, che colpiscono fin dentro il territorio russo. E con l’uguale e contraria risposta russa con il missile ipersonico, per il momento armato in modalità convenzionale, ma che potrebbe evolvere nel nucleare e colpire – a sua volta – basi e città europee fornitrici di quei missili, ben oltre il territorio ucraino. Una corsa verso la catastrofe mondiale, che a parole nessuno vuole ma che tutti alimentano, secondo logiche non di diritto internazionale – che altrimenti varrebbero sia in Palestina che in Ucraina – ma volte a ribadire supremazie e aree di influenza planetarie, buttando sempre più benzina sul fuoco criminale della guerra.

E mentre la nuova “dottrina strategica” russa, appena varata, avvisa che potrebbe lanciare armi nucleari in risposta a un attacco sul suo territorio da parte di uno Stato non armato nuclearmente, se sostenuto da uno nucleare, dimostra che “la deterrenza nucleare, anziché garantire stabilità, alimenta insicurezze e tensioni crescenti proprie di una cultura di guerra” – come ribadisce Rete Italiana Pace e Disarmo – gli Stati Uniti, dopo i missili Atacms, hanno deciso di inviare in Ucraina anche le mine anti-persona. Ossia armi che mutilano e uccidono soprattutto i civili e per questo vietate dalla Convenzione di Ottawa fin dal 1997, sottoscritta anche dall’Ucraina, al contrario della Russia e degli USA. Il punto di non ritorno è, dunque, il ritorno agli orrori del passato, dall’uso delle mine alle armi nucleari, ma enormemente più distruttivi. Abbattendo progressivamente tutti i limiti al crimine supremo della guerra. “Nell’epoca delle armi nucleari, se non siamo noi ad abolire la guerra, sarà la guerra ad abolire la maggior parte di noi”, scriveva nel 1970 il politologo Karl Deutsch (Journal of the Conflict Resolution, 14): adesso siamo arrivati al dunque.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 29 novembre 2024

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La micropolitica vince sulla macropolitica

Foto Fira Alternativa Valencia

di Carmen Montalba Ocaña

Il modo in cui la DANA è stata gestita istituzionalmente ha rafforzato la mia convinzione che la partitocrazia aveva annientato l’essenza della democrazia. In conversazioni accalorate con amici, familiari e in discussioni intense su gruppi di WhatsApp e Telegram, si sono sollevate dibattiti appassionati su chi avrebbe dovuto agire e di chi era realmente la responsabilità. Sono stanca di bandiere, stanca di questi dibattiti ma ho paura che il fango si inghiotta lo spazio politico già danneggiato e vulnerabile, guadagnando terreno l’anarcofascismo e il populismo facile.

Tuttavia mi sono sbagliata, questa esperienza mi sta ridando speranza nel collettivo, nella micropolitica. Il potere dell’istituente contro l’istituto.

L’intelligenza collettiva della società civile è agile, non traffica con il potere, non ha ego da nutrire… La solidarietà per la cittadinanza dispiegata in questi giorni può risultare caotica, sbagliata, eccessivamente emotiva, instabile. A volte i movimenti possono sembrare irregolari, come se si trattasse soltanto di spostare il fango da un luogo all’altro. Ma basta osservare quanto è accaduto in questi giorni per vedere come ad ogni problema, si cerca una soluzione. In una sola settimana, il volontariato è riuscito a creare strutture di coordinamento complesse.

La cittadinanza, anche se non organizzata, offre generosamente le sue competenze come elettricisti, trasportatori, cuochi e una miriade di altre professioni. Giovani ingegneri e tecnologi si sono uniti a questo sforzo, sviluppando in tempi record siti web e applicazioni collaborative di grande utilità per mappare le esigenze e offrire aiuto o risorse.
Alla fine la partitocrazia può erodere la democrazia, ma l’azione cittadina le fa fronte, rafforzando con l’intelligenza collettiva, il potere distribuito di un popolo, e la reattività al dolore e alla necessità… Come diceva Fernando Cembranos “il gruppo è più intelligente di uno”.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 10 novembre 2024

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