Politica

La NATO in guerra

di Gianni Giovannelli

Aut si inaniter timemus certe vel timor ipse malum est quo incassum stimulatur et excruciatur cor et tanto gravius malum quanto non est quod timeamus et timemus

(anche se abbiamo paura senza motivo il male è la paura stessa
che punge e disturba invano il cuore: un male tanto più grave in quanto ciò che temiamo non esiste davvero eppure ci spaventa lo stesso).

Agostino
(Confessioni, VII, 5.7)

Il generale Fabio Mini è nato nel 1942; quando, nel 1963, dopo l’Accademia Militare a Modena, è entrato stabilmente nelle file dell’esercito italiano, erano gli anni del c.d. boom economico e della guerra fredda fra i due blocchi. Il primo esperimento di un governo di destra (quello di Tambroni) era fallito dopo soli tre mesi di vita, travolto dalle manifestazioni popolari che avevano riempito le piazze di tutto il paese, da nord a sud; a Genova quasi ci fu un’insurrezione per impedire il congresso del MSI, a Reggio Emilia in cinque caddero il 7 luglio sotto i colpi della polizia di stato, entrando stabilmente nella leggenda. La resistenza di massa della classe operaia alla svolta reazionaria contribuì non poco a rafforzare la ripresa delle lotte in fabbrica, sempre più efficaci fino al celebre Autunno Caldo che modificò l’assetto sociale italiano e spinse l’apparato di governo al varo della strategia della tensione. La caduta di Tambroni aveva aperto le porte agli esecutivi di centro-sinistra, alla presidenza di Saragat e all’ingresso dei socialisti nell’apparato di governo.

Un soldato colto, sensibile e intelligente quale è (e certamente era) il generale Mini non poteva certo evitare la percezione del clima politico che lo circondava e dentro il quale andava costruendo una carriera prestigiosa, fino a diventare capo di stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa (nel 2001 al vertice militare nei Balcani e nel 2002/2003 alla testa della missione KFOR in Kossovo). Solo considerando appieno il percorso politico-militare complessivo dell’autore sarà possibile intendere l’ultimo volume dato alle stampe, di cui con queste note ci stiamo occupando: La NATO in guerra, dal patto di difesa alla frenesia bellica, Edizioni Dedalo, maggio 2025, pagine 174. Il testo è pubblicato nella collana Orwell diretta da Luciano Canfora, che vi ha inserito una breve gustosa prefazione nella quale si bolla la NATO come uno “sgangherato organismo atlantico che ci ha regalato la guerra in Ucraina”. E sulle ceneri della vecchia alleanza egli intravede la nascita (effetto imprevisto e tragicomico) di una para-NATO a trazione franco-inglese che “ha gettato rapidamente alle ortiche il fantoccio ormai afflosciato su sé stesso dell’Unione Europea. Il professor Canfora (solido intellettuale costantemente collocato in area democratico-progressista) e il generale Mini (per oltre 40 anni ufficiale dell’esercito con funzioni apicali) si presentano in perfetta sintonia e appaiono molto (ma molto) più lucidi dei leader politici alla guida di maggioranza e opposizione. L’esame spietato delle scelte, tattiche e strategiche, che accomunano oggi il Partito Democratico e Fratelli d’Italia sul tema della collocazione italiana nel quadro bellico è probabilmente più una critica preoccupata (al confine con un rassegnato timore del disastro che ci si para davanti) che un programma politico. D’altro canto se non riescono a costruire una credibile barricata, capace di frenare la frenesia bellica in crescita, le strutture politiche dei partiti presenti in Parlamento, non si può pretendere che provvedano in supplenza due pur lucidi ottantenni estromessi da ogni ruolo di comando e trattati come un peso fastidioso.

In chiusura del suo saggio, documentato preciso convincente, il generale Mini osserva (ed è difficile non convenire con questa oggettiva descrizione della realtà): si sono trovati mille pretesti falsi per fare la guerra, mai uno, vero o falso, per fare la pace. E aggiunge: in realtà la guerra è diventata l’idea prevalente nelle menti di molti responsabili di governo eletti nelle nazioni o di quei funzionari designati a gestire la NATO o l’Unione Europea. Uomini e donne che non sanno governare, che non conoscono gli strumenti di cui dispongono, che non si curano dei sacrifici che impongono, che non sanno stabilire le priorità dei propri fini e mezzi. Di questa ignoranza la guerra si pasce e compiace. Io aggiungo che le medesime considerazioni valgono per l’opposizione che non sa opporsi, che si dissocia costantemente da ogni ribellione o anche dal semplice dissenso, elogiando e sostenendo la repressione giudiziaria, poliziesca, politica, amministrativa delle voci fuori dal coro.

In questo quadro fosco l’autore inserisce quella che definisce “utopia”, ovvero la prospettiva di “ricondurre” la NATO alle regole del suo trattato fondativo, liberandosi mediante “espulsione” degli stati che minacciano la sicurezza di altri stati o comunità, membri o meno della NATO. L’autore riconosce che le possibilità realizzative sono “scarse”; a me pare che l’uso dell’aggettivo “scarse” pecchi di ottimismo, e la speranza sia piuttosto riconducibile alla nostalgia per gli anni giovanili di servizio durante la guerra fredda, quando non era ancora arrivata la guerra asimmetrica che seguì il venir meno del fronteggiarsi di due blocchi, entrambi a modo loro attenti agli equilibri del welfare acquisito dalle rispettive popolazioni.

Il generale Mini traccia la storia della NATO, dividendo il periodo 1949-1989 da quello successivo alla caduta del Muro. Sostiene che nel periodo successivo le regole del Trattato siano state stravolte, trasformando un’alleanza difensiva in uno strumento offensivo, aggressivo, in qualche modo neo-imperialista. A mio avviso qui l’autore tralascia qualche passaggio, offre una lettura in qualche modo pro domo sua. La NATO già nel momento della sua fondazione (4 aprile 1949, 12 paesi) fu estesa al Portogallo fascista di Salazar con aperta protezione della dittatura da ogni attacco interno o esterno; e quando la Grecia fu ammessa nel 1952 gli americani non persero l’occasione di preparare le basi per il colpo di stato dei colonnelli, che certo non trovò ostacoli in ambito militare. Dunque l’Alleanza non fu solo “difensiva”, ma decisamente anticomunista, ponendosi al tempo stesso quale argine rispetto al socialismo reale, all’URSS, e più in generale all’ala più radicale del movimento operaio dei paesi occidentali. Non a caso l’autore evita ogni riferimento a Stay-Behind (Gladio), che pur essendo organizzazione diversa e segreta (promossa da CIA e Servizi Segreti italiani) si affiancava alla NATO di fatto (vari paesi dell’Alleanza infatti ne fecero parte).

Bisogna pur tuttavia riconoscere che nei suoi primi 40 anni la NATO non mosse guerre, ebbe un ruolo importante nel risolvere la crisi cubana del 1962, evitò di includere la Spagna prima del 1982, ovvero prima che terminasse il franchismo (l’adesione arrivò, guarda caso, con il primo governo socialista, che in campagna elettorale si diceva contrario). In buona sostanza la “prima” NATO fu costantemente parte attiva dello schieramento “occidentale” contro quello “sovietico” a difesa del “blocco”; la dialettica era aspra, spesso molto aspra, ma alcune regole non vennero mai infrante. Questo aspetto, di non poco rilievo, il generale Mini lo descrive in modo chiaro, puntuale, storicamente ineccepibile. La trattazione costituisce l’ossatura della prima parte del volume, indispensabile per la seconda, attuale, utilissima per comprendere la crisi bellica che ci si para davanti, e che lascia intravedere terribili conseguenze.

I capitoli di grande interesse sono naturalmente quelli che affrontano, nei presupposti e nella successiva sequenza degli avvenimenti, la guerra in Ucraina. L’autore spiega, con citazioni testuali di accordi e di decisioni che reggono l’argomentazione in modo assai convincente, come dopo la fine dell’URSS i paesi aderenti al Trattato abbiano abbandonato le linee guida sulle cui basi venne costituito nel 1949, cambiando pelle all’Alleanza, trasformata in un apparato minaccioso piegato all’esclusivo interesse degli Stati Uniti e all’ingerenza per nulla difensiva nella vita sociale-politica-militare di altri paesi, nella ex Iugoslavia, nei territori ex socialisti dell’est europeo, fino alla Georgia o all’Ucraina. Il programma era e rimane quello di creare instabilità, incrementare l’industria bellica, drenare risorse, indebolire chiunque rifiuti il vassallaggio nordamericano. Mentre la tela tessuta dagli Stati Uniti, pur se si tratta di evidente prevaricazione aggressiva, ha una logica (perversa ma logica), del tutto idiote e autolesioniste appaiono tattica e strategia dell’Unione Europea e degli altri paesi NATO.

Citavo sopra gli anni in cui il militare-militante Fabio Mini si era formato e aveva raggiunto i vertici del comando; insieme agli studi nelle accademie (non solo italiane) e alla lettura dei testi migliori d’arte bellica l’aver vissuto quel periodo storico gli consente di leggere, dentro i segmenti di conflitto e le decisioni politiche, l’impatto che colpisce pesantemente la vita dei popoli europei, la lesione violentissima del tessuto sociale consolidato negli anni precedenti, l’incrinarsi dei diritti delle comunità. Lo scenario si presenta agli occhi dell’autore maledettamente chiaro. In Ucraina guidano il gioco USA e Russia: concordano su due punti fondamentali, entrambi devono vincere, l’Europa deve pagare per tutti, il resto è negoziabile. Mostrano di non averlo compreso Meloni e Schlein, dovrebbero leggere questo volume, comprendere la legge bronzea dei numeri (armi e armati), cambiare passo, allontanandosi dal burrone verso il quale si sono incamminate prima che sia troppo tardi. Le considerazioni tecniche versate nel volume, nella loro cruda oggettività, sorprendono. L’unica alternativa è il rifiuto della guerra. Inutile attardarsi in barocchi distinguo, fare radiografie critiche sul passato di chi ci invece ci chiarisce lo stato delle cose. Prendiamo esempio dal professor Canfora e dal generale Mini, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare questo impazzimento simile a quello con cui si conclude la montagna incantata di Thomas Mann.


L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 15 luglio 2025

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Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio

Free public domain CC0 photo.

Il 3 luglio, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite (ONU) sui Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese, ha presentato un rapporto intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, in cui accusa oltre sessanta multinazionali di trarre profitto dal genocidio a Gaza e dall’occupazione di altri territori palestinesi (From economy of occupation to economy of genocide).

Il rapporto indaga i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. Mentre i leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi, troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e ora genocidio. La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg; porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigenti. Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ognuno dei quali richiede esame e accertamento delle responsabilità, in particolare in questo caso, in cui sono in gioco l’autodeterminazione e l’esistenza stessa di un popolo. Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso.

Qui per Leggere il rapporto


Da Comune-info pubblicato il 12 luglio 2025

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La marcia come azione nonviolenta di massa

Contro la normalizzazione della violenza

di Pasquale Pugliese

Nella storia della nonviolenza la marcia non è una passeggiata e neanche un pellegrinaggio: è un’azione nonviolenta di massa. Marciare insieme da Marzabotto a Monte Sole, luogo sacro alla memoria del nostro paese che vide l’eccidio nazista di popolazioni inermi, è un’azione nonviolenta contro la normalizzazione della violenza che oggi non vede il genocidio del governo israeliano contro le popolazioni inermi di Palestina. O, se lo vede – garantendo con falsa coscienza le cure a qualche bambino sopravvissuto allo sterminio della propria famiglia – non fa niente per fermare quel genocidio: anzi il nostro governo continua ad inviare armi al governo criminale di Netanyahu, rendendosi complice dello sterminio in corso.
La marcia è anche un’azione nonviolenta di massa contro la normalizzazione della guerra, che – dall’Europa al Mediorente, e spesso con gli stessi attori coinvolti, come il governo israeliano – ha nuovamente, tragicamente e pericolosamente, sostituito il diritto internazionale nella regolamentazione dei conflitti. Che non regolamenta ma dilata, approfondisce, perpetua.
Ed è un’azione nonviolenta di massa contro il riarmo, che nel folle ritorno della logica delle deterrenza produce conflitti armati quanto più prepara la guerra, spendendo in armamenti: ogni anno più del precedente si trasferiscono risorse dagli investimenti civili, sociali, sanitari alle spese militari – cioè ai profitti dell’industria bellica nazionale e internazionale – e ogni anno più del precedente aumentano i conflitti armati, le vittime civili, i profughi delle tante guerre. “Se vuoi la pace prepara la guerra” è la più subdola e illusoria delle menzogne, sempre smentita dalla storia: ogni riarmo ha prodotto nuove guerre, anche due guerre mondiali. Ed ora ricompone i pezzi della Terza. Se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace: non c’è alternativa, ovunque ed a tutti i livelli.

Inoltre la marcia è un’azione nonviolenta contro la logica di guerra, fondata sul dispositivo binario amico-nemico, che scatena le tifoserie e lacera e dilania, oltre i corpi di chi è colpito direttamente, la capacità di pensiero critico di chi giustifica e incita perfino al massacro. La guerra va decostruita nelle nostre teste, per poter essere abbandonata – definitivamente – tra i ferrivecchi, obsoleti, della storia. Sembrava avessimo fatto dei passi in avanti, almeno alle nostre latitudini, almeno con l’Articolo 11 della Costituzione, tanto antifascista quanto pacifista, ma stiamo riprecipitando velocemente nell’abisso.
Eppure le reti pacifiste, composte da organizzazioni impegnate per il disarmo e la nonviolenza, non hanno mai smesso di svolgere iniziative per tenere gli occhi aperti e preoccupati sulle guerre e sulla tragedia palestinese, dimenticata dal resto del mondo prima dell’attentato terrorista di Hamas del 7 ottobre 2023. Ma oggi – che quella tragedia assume mese dopo mese le dimensioni dell’orrore senza fine, condotto metodicamente dal governo israeliano con i bombardamenti, la fame, la sete, la deportazione – è necessario moltiplicare gli sforzi, guardare nell’abisso, chiamare le cose con il loro nome, svolgere azioni di solidarietà concreta con il popolo palestinese, interrompere tutte le collaborazioni militari, dirette e indirette, ad ogni livello con il governo israeliano.

Contemporaneamente, per dirla con Italo Calvino, occorre “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, a cominciare dagli obiettori di coscienza e dai disertori israeliani, dalle organizzazioni pacifiste israeliane represse dal loro governo, dai gruppi misti israelo-palestinesi che già adesso – dentro l’inferno – cercano faticosamente di tenere e ricostruire relazioni di riconoscimento, di riconciliazione, di convivenza. Nostri compagni di strada nella marcia dei popoli per la pace e la nonviolenza.

“Una marcia non è fine a se stessa, produce onde che vanno lontano”, diceva Aldo Capitini in occasione della prima Marcia della pace da Perugia ad Assisi. Partecipare oggi a questa azione nonviolenta di massa significa assumere impegni personali – non solo morali, ma politici e concreti – da portare nei rispettivi territori, come un’onda che si propaga e va lontano. Ogni guerra ha una filiera economica e culturale che la supporta, la prepara e la giustifica, che si dirama dal centro verso le periferie: il primo impegno da prendere è recidere la filiera, le collaborazioni, le giustificazioni. “A ciascuno di fare qualcosa”, diceva ancora Aldo Capitini ai partecipanti della Marcia del 1961. Ciascuno secondo le sue possibilità e responsabilità: nessuno si sottragga.


L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 18 giugno 2025

Testo dell’intervento alla marcia nazionale “Save Gaza” promossa il 15 giugno da Marzabotto a Monte Sole da Rete Italiana Pace e Disarmo, ANPI, Unione delle Comunità Islamiche d’Italia e molte altre realtà (pubblicato anche su un blog del fattoquotidiano.it). Pasquale Pugliese ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura

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Un’apartheid nostrana


di Raffaele Crocco


Di tutti i cinque referendum abrogativi che dovremo affrontare, come elettori, l’8 e 9 giugno, quello sul diritto alla cittadinanza intriga molto.
È il referendum che più racconta delle contraddizioni della democrazia, che ancora oggi pare essere un diritto per alcuni, non per tutti. Come diceva Gino Strada, se un diritto non è universale, si chiama privilegio e l’idea che il nostro Paese da rispetto agli stranieri che ci vivono e magari ci sono nati, è quello di voler discriminare. Pensate alla frase, citata da chi da anni si oppone a qualunque concessione agli stranieri: “la cittadinanza – dicono costoro – bisogna meritarsela”. Una frase così fantasiosa e roboante che viene da chiederci cosa abbiamo fatto tutti noi – a parte avere avuto la fortuna di nascere qui, in questo periodo storico – per meritare di essere italiani certificati.

Detto questo, facciamo un doveroso ripasso. Il referendum chiede di abrogare interamente la lettera F dell’articolo 9 della legge del 1992 sulla cittadinanza. Quella legge dice che «la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno, al cittadino straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio dello Stato» . Questo termine si riduce a quattro anni per i cittadini dell’Unione Europea e a cinque per gli apolidi, coloro che non hanno cittadinanza. Prima di allora, del 1992 intendo, il termine di attesa per la richiesta di cittadinanza era di cinque anni. La riforma – decisamente peggiorativa – venne varata in un clima di crescente stupore e paura: chi è più anziano ricorda, gli altri facciano lavorare la fantasia. Nell’agosto del 1991 erano iniziati gli arrivi massicci di albanesi. Arrivavano su navi mercantili, prese d’assalto nei porti albanesi e costrette a dirigersi in Italia, cariche di esseri umani. Un fenomeno nuovo per noi, allora, addestrati storicamente ad essere Paese di emigranti, non luogo d’immigrazione. Qualcuno – più o meno gli stessi di oggi – iniziarono a usare la cosa per creare paura e insicurezza. Iniziarono a parlare di “invasione straniera”, di “pericolo per le nostre donne e le nostre case”, di “rischio per i posti di lavoro”. L’idea del nemico nacque così: lo straniero divenne – e resta – pericoloso. Tra le varie scelte che vennero fatte, tutte utili ad aprire la strada alle contraddizioni che ancora oggi viviamo sul tema dell’emigrazione, vi fu appunto il varo della legge sulla cittadinanza. Si decise di prolungare il termine dai cinque anni precedenti, ai dieci attuali.

Una decisione che, di fatto, creò e crea un’apartheid nostrana: più di 2,5milioni di persone, che vivono in questo Paese da anni, lavorano, producono ricchezza, pagano le tasse, non hanno alcun diritto politico. Molte di loro, spesso più giovani, in Italia ci sono nate. Vuol dire che stanno studiando qui, sono cresciute qui, pensano, parlano, agiscono come qualsiasi altra ragazza o ragazzo italiani. Eppure, anche se durante le gare sportive tifano Italia e vivono questo Paese come casa loro, vengono trattati da stranieri, da cittadini di serie B. In qualsiasi momento, per qualsiasi bizza burocratica o perché la fabbrica dove il padre o loro lavorano chiude e si perdono così occupazione e permesso di soggiorno, possono essere presi e “rispediti al loro Paese”. Ma loro quel Paese là non lo conoscono, perché si sentono e sono italiani.

Votare SI l’8 e 9 giugno per abrogare quella norma è, quindi, un voto contro l’idea di avere una democrazia monca. Votare SI significa ristabilire giustizia e senso di cittadinanza ad un Paese che pratica un aphartheid subdolo e vigliacco. Il SI è un primo passo per stabilire il principio che la cittadinanza non è un privilegio, ma un sentire comune e condiviso. Soprattutto, deve essere il modo per iniziare a far tacere gli imbecilli che continuano a giocare con le paure e le fragilità di molti. Ancora oggi si sentono slogan che invitano a votare No o a non andare a votare per “impedire ai clandestini di diventare italiani”. Una menzogna clamorosa, raccontata come verità.
Se è vero che una bugia raccontata dieci volte può diventare, grazie alla propaganda, una verità, è altrettanto vero che un’idiozia raccontata cento volte resta una misera idiozia.


L’aricolo è stato pubblicato su Unimondo il 26 maggio 2025

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Ultima chiamata


di Paolo Cacciari

A fine giugno i capi di governo dei paesi Nato decideranno nei dettagli quanto spendere nella produzione di armi e con quale denaro. Si tratta di risorse immense. L’Ue ha già invitato gli stati a «mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare la conoscenza e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate…». Il 21 giugno in tutte le capitali reti di associazioni, comitati, gruppi pacifisti hanno finalmente scelto di mettersi assieme per cercare di fermarli. “L’attuale gruppo di comando della Ue ha deciso di sopravvivere a sé stesso e ai suoi fallimenti militarizzando la società civile e la sua economia – scrive Paolo Cacciari – Sottrarsi a questo esito bellicista e autoritario è l’unico obiettivo davvero esistenziale per tutti gli europei…”

È questo il momento di farsi sentire. A fine giugno all’Aja e poi a Washington i capi di governo dei paesi membri dei “due pilastri” della Nato, quello europeo e quello nordamericano, decideranno nei dettagli quanto spendere, con quali denari, per produrre quali armi e contro chi utilizzarle. Stiamo parlando di quantità di risorse enormi, mai così tante dalla fine della guerra fredda, tra Golden Dome Usa (lo scudo missilistico spaziale da 175 miliardi di dollari) e Rearm europeo (800 miliardi di euro).
Fermarli è possibile. Almeno in Europa. Il 21 giugno in tutte le capitali reti di associazioni, comitati, gruppi spontanei che animano i movimenti pacifisti diffusi in questi ultimi anni di guerre spietate hanno finalmente deciso di mettersi assieme e di prendere sul serio la grande minaccia che incombe sull’umanità: una nuova guerra mondiale.

Gino Strada amava stupire dicendo: «Non sono pacifista, sono contro le guerre», un paradosso per andare al sodo: la pace è anzitutto fermare qualsiasi conflitto armato tra gli stati. Il cammino della pace non può che essere «disarmante», per usare le parole del nuovo papa Robert Francis Prevost. E, prima ancora, Simon Weil a proposito della “deterrenza” scrisse: «Ciò che si definisce sicurezza nazionale è una condizione chimerica: in cui un paese conserverebbe la possibilità di fare guerra privandone tutti gli altri» (Sulla guerra, 1933-1943).

Verso la fine del documento approvato dal Parlamento europeo sulla Sicurezza e la difesa comune (Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2025, Relazione annuale sull’attuazione delle politiche di sicurezza e di difesa comune) c’è scritto che la Ue aprirà «un dibattito pubblico informato», per «sviluppare una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni delle minacce in tutta Europa», così da «garantire un sostegno da parte delle istituzioni democratiche, di conseguenza, dei cittadini» (§164). Bene, questo confronto pubblico, trasparente e certificato (speriamo) lo chiedono per prime le persone annichilite dal delirio bellicista che pervade il discorso pubblico, le televisioni, la stampa. Ma per essere vero dovrebbe svolgersi prima che vengano assunte decisioni irreversibili. Altrimenti non è un dibattito, ma un indottrinamento.

In ballo c’è una montagna di soldi – di ricchezza socialmente prodotta (il famoso 2 o 3 o 5 per cento del Pil) – che verrà inevitabilmente sottratta agli usi civili. Ma non è nemmeno questa la questione più grave. Il documento sulle politiche di sicurezza (59 pagine, 197 paragrafi), ribattezzato Readines 2030 (Pronti nel 2030), va letto e studiato per intero. Intanto: “pronti” a fare cosa? I 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Onu e le relative Agende nazionali traguardate al 2030 (coincidenza!) non contemplano l’entrata in guerra. Cosa è cambiato da dover mutare così radicalmente tutti i piani? «La scelta del regime russo – si legge nella Risoluzione – di dichiarare guerra ai paesi europei» (§ B delle premesse). L’invasione dell’Ucraina è certo un atto intollerabile da qualsiasi parte lo si voglia vedere, in tutti gli aspetti umanitari e del diritto internazionale, ma per sanzionare tale realtà non vi è alcun bisogno di attribuire alla Russia delle finalità che non ha mai espresso e che ha sempre smentito. A chi giova ampliare ed esasperare i motivi del conflitto sul controllo delle zone russofone dei paesi usciti dalla Federazione russa? Comunque, la contro-scelta dell’Europa di cercare «La pace attraverso la forza» (§ 23) per realizzare il «piano per la vittoria dell’Ucraina» così come formulato da Zelensky (§ 28), entra in contrasto con quanto stabilito da quasi tutte le carte costituzionali nazionali e internazionali uscite dalla Seconda guerra mondiale. La nostra, come si sa, «ripudia la guerra […] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Come l’Unione Europea intende superare questo ostacolo “formale” non lo dice. Per ora si limita a prepararsi all’eventualità che si verifichino le peggiori «minacce e rischi per la sicurezza», tenendo conto anche «dell’intensificarsi dei legami tra la Russia e la Cina» (§ 4 delle premesse), nonché delle «azioni aggressive della Cina nel Mar cinese” (§ 87). Faccia attenzione anche la Cina!

Esclusa a priori la riconciliazione, messa da parte la prevenzione, non rimane che la preparazione alla guerra. Come? Il documento Ue è lungo e dettagliato: si va dagli investimenti in armi, logistica e servizi annessi (da reperire a debito, secondo uno schema keynesiano) (§ 73 e successivi), allo sviluppo e coordinamento del comparto industriale militare (§ 47 e successivi); dal sostegno alle «tecnologie a duplice uso, applicabili sia nei contesti civili che militari» (§ 54), nucleare compreso, con particolare attenzione «al ruolo svolto nel settore della difesa dalla tecnologia di rottura emergenti, quali l’intelligenza artificiale, il calcolo quantistico, il cloud computing e la robotica» (§ 55) – e qui il pensiero va alle “armi autonome” approntate e sperimentate da Israele a Gaza – fino agli investimenti nel settore spaziale (§150 e successivi).

Tutto ciò non è ancora nulla. Senza mobilitazione delle masse a sostegno della guerra non la si può fare. Serve quindi «rafforzare la resilienza [sic!] e la preparazione della società alle sfide in materia di sicurezza» (§164). A tal fine gli stati sono invitati a «mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare la conoscenza e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate» (§164). Dovranno quindi essere messi a punto «programmi di formazione degli insegnanti e di cooperazione tra le istituzioni di difesa e le università, quali corsi militari, esercitazioni e attività di formazione con giochi di ruolo per studenti civili» (§ 167). Crosetto, con il suo Programma di comunicazione per la diffusione della “cultura della Difesa”, non si inventa nulla! Gli «Stati membri devono affrontare sfide cruciali relative al reclutamento e al mantenimento del personale nelle forze armate» (§168). Il tutto per «rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare dell’Europa (…) in particolare la resilienza psicologica degli individui e la preparazione delle famiglie» nelle situazioni di emergenza (§ 165). Il grottesco kit di sopravvivenza per le prime 72 ore di guerra predisposto dal governo svedese è preso ad esempio.

La Risoluzione del Parlamento europeo sull’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune che abbiamo fin qui richiamato, andrebbe letta assieme alla Comunicazione proposta dalla Commissione Ue il 26 marzo: Strategia dell’Unione europea in materia di preparazione per prevenire e reagire alle minacce e alle crisi emergenti (30 azioni chiave e un dettagliato piano d’azione). In questo documento la Commissione Ue intreccia “crisi e minacce” di diversa fattispecie: da quelle derivanti dai cambiamenti climatici e dalle pandemie alle «crescenti tensioni e conflitti geopolitici, alle minacce ibride e alla cibersicurezza, alla manipolazione delle informazioni e alle ingerenze straniere». Per ciò: «Dobbiamo prepararci ad affrontare incidenti e crisi su larga scala e intersettoriali, compresa la possibilità di aggressioni armate che colpiscano uno o più Stati membri». Come? «In un numero crescente di scenari (ad esempio emergenze sanitarie, eventi meteorologici estremi, attacchi ibridi e informatici), le autorità civili hanno bisogno di un supporto militare. In caso di aggressione armata, le forze armate avrebbero bisogno del supporto civile per garantire il funzionamento continuo dello Stato e della società. Occorre quindi migliorare l’interazione tra attori civili e militari (…) che coinvolgono in modo coerente tutte le parti interessate civili e militari» (§5). Due le azioni da intraprendere: verso l’alto, migliorando la «cooperazione e l’integrazione con i partner strategici esterni come la NATO in materia di mobilità militare, clima e sicurezza, tecnologie emergenti, cibernetica, spazio e industria della difesa»; e verso la base della società coinvolgendo tutti i livelli di governo e le amministrazioni pubbliche in «un approccio che coinvolge l’intera società, riunendo i cittadini, le comunità locali e la società civile, le imprese e le parti sociali, nonché le comunità scientifiche e accademiche». In particolare «la Commissione svilupperà linee guida per lo sviluppo dei programmi scolastici, a partire dall’educazione della prima infanzia, per sostenere l’acquisizione di competenze di base sulla preparazione, compresa l’alfabetizzazione mediatica, come chiave per una cittadinanza attiva e informata e per combattere la disinformazione e la manipolazione delle informazioni. Gli insegnanti avranno accesso a risorse e opportunità di sviluppo professionale sulla piattaforma europea per l’istruzione scolastica». (§15).

Nulla di serio si dirà. In Europa l’immaginario orwelliano funziona ancora da anticorpo. Ma le politiche sulla sicurezza della UE non sono da sottovalutare poiché, da un lato, alimentano uno stato d’animo di inquietudine e di paura permanente e dall’altro accreditano l’inevitabilità dello scontro armato. Le guerre sono un fenomeno complesso, sono la forma estrema di violenza collettiva che per deflagrare hanno bisogno di molte condizioni: un oggetto conteso, una giustificazione, un dispendioso apparto tecnico-organizzativo e soprattutto una motivazione che giustifichi le sofferenze inaudite che patiscono le popolazioni civili. Rinunciando ad analizzare le cause storiche, ideologiche, economiche, geopolitiche del conflitto ucraino – così come delle altre 60 guerre in atto, Palestina compresa – l’attuale gruppo di comando della Ue ha deciso di sopravvivere a sé stesso e ai suoi fallimenti militarizzando la società civile e la sua economia. Sottrarsi a questo esito bellicista ed autoritario è l’unico obiettivo davvero esistenziale per tutti gli europei.


L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 27 maggio 2025
La foto è di Lorenzo De Tomasi in Wikimedia Commons

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