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Giovani soldati


di Pasquale Pugliese

È straziante la notizia del ventenne statunitense che ha sparato e ucciso due bambini, ferendone diversi altri, in una scuola di Minneapolis il 27 agosto, il quale se non si fosse suicidato sarebbe finito in galera per duplice omicidio. Ma è anche straniante se pensiamo che altri ventenni, israeliani, da quasi due anni sparano e uccidono bambini a Gaza come prassi normale di occupazione, al punto che si contano almeno 18mila minori uccisi e altre decine di migliaia di feriti. Ma in questo caso i “responsabili” sono soldati e (salvo le decine che hanno scelto di suicidarsi perché questo compito è diventato insostenibile) avranno riconoscimenti dal proprio governo per la missione compiuta: “un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza”, dice Monsieur Verdoux nell’omonimo film di Charlie Chaplin.

Al carcere militare, invece, sono costretti gli obiettori di coscienza e i disertori che rifiutano di partecipare al crimine. Al di là delle efferatezza e dimensioni del genocidio palestinese, il doppio standard etico sulla violenza, quando essa è privata oppure pubblica, spontanea o obbligata, è all’origine della legittimazione di ogni guerra e dei suoi orrori.

Nessuna guerra, per quanto tecnologica, può fare a meno dei soldati. Cioè di giovani formati al disimpegno morale, alleggerendone la coscienza dagli scrupoli secondo i meccanismi studiati da Albert Bandura, per considerare giusta e legittima l’esecuzione di una violenza comandata che invece, senza divisa e senza comando, sarebbe solo gesto criminale. È questo l’elemento essenziale della formazione militarista: il processo di etificazione della violenza nelle menti di chi deve eseguirla, attraverso la retorica della guerra.

“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato – scriveva Simone Weil alla vigilia della seconda guerra mondiale – e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole” (Non ricominciamo la guerra di Troia, 1937).

Oggi che la guerra è tornata ad essere non la continuazione della politica con altri mezzi ma la sua sostituzione, è necessario rieducare le giovani generazioni alla “mentalità di guerra”, secondo le direttive del segretario della Nato Mark Rutte. Accade negli Usa, dove l’esercito ha assoldato influencer per convincere la generazione Z ad arruolarsi attraverso canali social che mostrano quanto è figo fare il militare. Accade in Polonia, dove nelle scuole dai 14 anni è obbligatorio introdurre “l’educazione alla sicurezza” che significa esercitazioni di difesa, addestramento al tiro e disciplina militare, senza badare all’impatto psicologico e sociale della preparazione bellica nell’età evolutiva. Ancora più precoce la scelta del governo lituano, per il quale i bambini di terza e quarta elementare impareranno a costruire e pilotare droni semplici, mentre man mano che crescono gli studenti delle scuole secondarie produrranno componenti per droni militari, imparando a pilotarli e ad uccidere a distanza. La Germania, invece, che aveva abbandonato il servizio militare obbligatorio, punta a una sua progressiva reintroduzione con l’obiettivo di attirare circa 100mila giovani reclute entro il 2030, rendendolo obbligatorio con un semplice emendamento alla legge in discussione al Bundestag se non si raggiungesse un numero sufficiente di volontari: l’obiettivo è costituire il più grande e minaccioso esercito dell’Europa occidentale, armato con le risorse del RearmEu.

E in Italia, dove la leva è sospesa?

Secondo il ministro Crosetto e i vertici militari il nostro paese ha sia un problema di anzianità sia di numeri, per cui bisogna riavvicinare i giovani alle Forze armate, ma non si parla di obbligatorietà che in questo momento non pagherebbe elettoralmente (vedi recente ricerca del Censis sugli italiani e la guerra): è necessario dunque aumentare l’appeal della divisa, compito affidato al “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa” (del quale è istruttivo visionare la composizione). Da qui il massiccio ingresso dei militari nelle scuole di ogni ordine e grado, con una grave ingerenza educativa, come evidenzia Roberta Covelli: “Portare nella scuola logiche di addestramento significa confondere la cittadinanza con la disciplina, la comunità con la gerarchia, la responsabilità con l’obbedienza” (Fanpage, 22 agosto).

Che fare, dunque, di fronte all’invasione militare dei luoghi della formazione? Due cose, principalmente: contrastarla, usando gli strumenti che mette a disposizione l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, come il documento proposto ai collegi dei docenti per rifiutare la partecipazione degli studenti ad attività militari; superarla, promuovendo ovunque percorsi di educazione alla pace per studenti e studentesse e di formazione alla nonviolenza, dal micro al macro, per insegnanti.
Di fronte alla militarizzazione del pensiero, è tempo di formare intenzionalmente le nuove generazioni alla diserzione dal bellicismo e ai saperi della nonviolenza. Senza doppi standard etici.



L’aricolo è stato pubblicato su  Comune-info, sul blog del fattoquotidiano.it il 31 agosto 2025 e su Annotazioni il 1 ° settembre 2025.
L’immagine è tratta da pixabay.com

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Scuola: il digitale [non] può attendere

di Guido Scorza

Settembre 2014 è troppo presto per lo sbarco dei libri digitali nelle scuole italiane.

È questo il pensiero del Ministro dell’Istruzione Anna Maria Carrozza che, nei giorni scorsi, ha incontrato i rappresentanti dell’editoria scolastica e anticipato loro l’intenzione di bloccare l’efficacia del provvedimento con il quale il suo predecessore, Francesco Profumo aveva dettato tempi e modi per la progressiva introduzione degli e-book nelle scuole italiane.

Hanno vinto, dunque, gli editori che nelle scorse settimane avevano trascinato il Ministero davanti ai Giudici amministrativi contestando la legittimità del provvedimento che avrebbe previsto – a loro dire – una troppo rapida digitalizzazione dell’editoria scolastica.

Ed hanno vinto ancora prima che la partita cominciasse perché il Ministro dell’Istruzione ha  detto di voler evitare ogni contenzioso.

«L’accelerazione sui libri digitali – hanno spiegato gli editori – non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche».

Ma naturalmente queste sono solo considerazioni di facciata se non balle.

Le uniche vere preoccupazioni degli editori riguardano il loro portafoglio.

Dover mandare al macero tonnellate di carta stampata pensando – in modo tanto miope da lasciare senza parole – che il futuro, in Italia, non sarebbe mai arrivato e doversi adattare a nuovi modelli di business.

[segue qui su L’Espresso]

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A difesa della scuola pubblica

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

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L’educazione al “noi”: per una cittadinanza responsabile

di Alberto Conci

Mi sono chiesto spesso, nel mio lavoro con i ragazzi, quali potrebbero essere i cardini e gli spazi per un’educazione alla cittadinanza responsabile.

Non so se questo derivi dal fatto che con il passare degli anni si focalizzano con maggior chiarezza alcune questioni che si considerano essenziali e irrinunciabili. O se tutto derivi dalla consapevolezza di quanto siano importanti i processi educativi per la costruzione di un mondo più responsabile.

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Una mattina in classe, a parlare di stupro

di Monica Lanfranco

“Cosa si può fare quando chi ha potere abusa di chi non ne ha? Almeno farsi avanti, e gridare forte la verità. Farsi avanti per se stessi, farsi avanti per gli amici, farsi avanti anche se si è da soli”. E’ uno dei passaggi più significativi di North country – storia di Josie, film fortemente voluto dall’attrice Charlize Theron che interpreta la parte della prima donna che fece causa negli Stati Uniti per molestie sessuali alla miniera dove lavorava, creando così un precedente per l’introduzione nell’ordinamento nordamericano delle class action, (le azioni di categoria) incentrate sui diritti sessuati.

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