Guerra

Guerra e pace

di Gianni Giovannelli

Giorno per giorno

Si sgozza e si sbuzza,
si sbudella e si sbrana,
si spezza e si fracassa,
si fucila e si mitraglia,
si brucia e si bombarda.

Giovanni Papini
(Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai, Lacerba, 1 ottobre 1914)

Per sostenere l’intervento italiano nella Grande Guerra il fiorentino Giovanni Papini utilizzò un vocabolario assai colorito, provocatorio, nello stile futurista di Marinetti. Nell’articolo, da cui è tratta la citazione in esergo, si annuncia con entusiasmo che poteva considerarsi finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia, della pacioseria. Pace e coesistenza venivano bollate come caratteristiche di spiriti meschini, di persone codarde, come disvalori contrapposti all’audacia e al coraggio di chi puntava invece a combattere, a cancellare il nemico.  A differenza di Marinetti, tuttavia, Papini fu riformato, inabile al combattimento per via di una fortissima miopia. Il fronte rimase per lui soltanto un palcoscenico, nel quale si recitava uno spettacolo che non comportava conseguenze concrete sulla vita quotidiana e che anzi gli assicurava una gratificante visibilità, il consenso della pubblica opinione, il successo. Mentre i soldati crepavano nelle trincee questo celebre scrittore si nutriva di morte senza correre rischi. Poco importa che abbia poco dopo mutato questa sua percezione del conflitto, divenuto per lui, a posteriori, sulla scia di papa Benedetto XV, inutile strage; la conversione al cattolicesimo non fu infatti di ostacolo ad un convinto sostegno del fascismo, alla sottoscrizione dell’ignobile manifesto degli scienziati che preparò le leggi razziali, all’ingresso nell’Accademia d’Italia, l’istituzione che raccoglieva i più illustri sostenitori del regime mussoliniano. Non esiste contraddizione, per chi è avvezzo a comportamenti disinvolti, fra l’elogio della carneficina e il dichiararsi devoto al binomio Dio&Patria. L’importante è mantenere la certezza della propria superiorità.

La trascorsa vicenda umana di Papini ci consente di comprendere, qui e oggi, il complessivo comportamento dei parlamentari eletti in Italia e in Europa. Durante il governo Draghi una larga maggioranza (Forza Italia, Partito Democratico, Lega e Cinque Stelle), con il pieno appoggio della destra neofascista oggi al comando del nuovo esecutivo, ha brutalmente criminalizzato ogni tentativo volto a ricercare un ambito di trattativa, a trovare una qualche via di compromesso. La parola d’ordine valida per tutti era quella di combattere fino alla sicura sconfitta militare russa, sognando di processare Putin in un Tribunale Internazionale dopo aver spezzato le reni alle orde nemiche.  L’insediamento di Giorgia Meloni – con la prudentissima isolata critica dell’opposizione pentastellata – non ha mutato il quadro: la spedizione di armi all’Ucraina prosegue a tempo indeterminato, ogni forma di eventuale diplomazia viene considerata diserzione, il pacifismo equivale alla resa incondizionata, dunque al tradimento. Questi sono i guerrafondai del terzo millennio: agiscono nascosti nelle retrovie, ben protetti, ben pagati, con l’arrogante sicurezza di essere insostituibili, tecnici esperti del moderno nepotismo dentro una struttura economica fondata sul clan, giocolieri della comunicazione in ogni tornata elettorale, indifferenti di fronte a qualsiasi tragedia umana. Di Papini non hanno certo mutuato il fascino di una cultura sapientemente coltivata, si limitano a ereditare il peggio di quel mondo tramontato. Manca perfino, dentro la cabina di comando, una compiuta teoria della guerra nel terzo millennio. La chiamata alle armi si risolve in una sequenza di mosse disordinate, di programmi con un respiro, nella migliore delle ipotesi, soltanto trimestrale; nonostante il rischio concreto di uso sul campo delle bombe atomiche, con ogni imprevedibile conseguenza, quel che interessa davvero l’apparato che gestisce il potere è l’incremento di fatturato, nell’anno fiscale, dell’industria bellica, sia essa pubblica o privata. Il futuro non esiste.

Gaza e l’antisemitismo.

Mentre la guerra in Ucraina proseguiva incessante, prendendo tuttavia una piega non gradita o quantomeno difforme da quella indicata nelle previsioni, si è aperto un nuovo fronte, questa volta in Palestina e con caratteristiche diverse. Il ceto politico israeliano e palestinese, a differenza di quello che governa i paesi del G7, ha una consolidata dimestichezza con l’uso delle armi; non si limita, come fanno gli atlantisti, a ordinare e gestire sfracelli da comode postazioni ben protette, combatte proprio. I dirigenti politici di Gaza e Tel Aviv sparano, e, quando possono, si uccidono a vicenda. Se si comportassero diversamente, perderebbero credibilità, capacità di comando. Non possono non combattere; dunque non hanno alcuna intenzione di ascoltare inviti alla moderazione o, tanto meno, di cessare le ostilità. Gli uni e gli altri sono perfettamente consapevoli che ogni tregua è solo simulata: per imporla occorre una forza economico-militare superiore a quella di cui dispone Israele, ma non esiste alleanza disposta ad usarla sul campo. Anzi: prevale, per varie ragioni, la scelta di alzare ulteriormente il livello di scontro, senza badare a ciò che questo comporta per le vite umane e per l’ambiente nel suo complesso. Ucraina e Gaza determinano, giorno dopo giorno, effetti sinergici, soprattutto considerando la comparsa di nuovi focolai caratterizzati anch’essi da sviluppi imprevedibili. La propaganda si adegua: quel che in Ucraina veniva bollato quale complotto putiniano ora, con riferimento alle vicende di Gaza, si pretende di ricondurlo all’antisemitismo. In un caso il punto di partenza lo si individua nell’attacco russo del 24 febbraio 2022, nell’altro il riferimento è il  7 ottobre. Non esiste un prima, ogni spiegazione diviene giustificazione, chi non appoggia la risposta , o chiede pace, o, peggio, pretende di essere neutrale, deve essere considerato un alleato oggettivo dell’aggressore (o dell’antisemita) e trattato come tale.  In Germania quello che era già un pericoloso nervo scoperto ora è diventato una vera isteria collettiva: la deriva militarista dei Grunen, pronti a cogliere ogni occasione per alzare il livello di scontro armato senza curarsi delle vittime, si è saldata con il sostegno indiscriminato alla strage dei palestinesi di Gaza, concretandosi in una sorta di processo, pubblico e politico, contro chiunque sia sospettato di criticare il comportamento sul campo del governo israeliano o anche soltanto di invocare un cessate il fuoco.

Schierarsi per proteggere la vita dei palestinesi assediati a Gaza è un crimine da punire in quanto “oggettivo” antisemitismo. Anche la semantica lessicale cede, travolta dalla foga degli accusatori. Come gli ebrei anche i palestinesi sono, senza ombra di dubbio, semiti. Dunque sia i filo-israeliani, sia i filo-palestinesi (in quanto tali e a prescindere perfino dalla collocazione politica) sono filosemiti, definirli “antisemiti” è una evidente contraddizione; arabo ed ebraico sono lingue tipicamente semite. Turchi, russi, iraniani ed europei (compresi i tedeschi) sono invece giapetiti (qualcuno preferisce chiamarli japetingi, comunque si tratta di ceppo linguistico indoeuropeo). Ecco: i tedeschi antipalestinesi di oggi sono di nuovo “antisemiti”, pur con una variante etnica rispetto ai loro nonni antigiudaici. L’area territoriale in cui vivono – e muoiono – ebrei e palestinesi è una miccia accesa dentro una polveriera; invece di spegnerla gli esponenti del pensiero neocolonialista occidentale provvedono a tener viva la fiamma con ogni mezzo, con profondo disprezzo del futuro collettivo, pensando solo all’incasso nel trimestre successivo.

Migrazione e guerra

Il conflitto tende a diffondersi, quasi fosse in atto una sorta di contagio inarrestabile. Investe di nuovo Libano e Siria, non conosce tregua neppure nelle acque del Mar Rosso ove gli Houthi resistono agli attacchi e rendono poco sicura la navigazione verso il canale di Suez, con inevitabili contraccolpi sul commercio e sui costi della merce. Le conseguenze, mai prese in considerazione come possibili dagli arroganti uomini politici della vecchia Europa, si cominciano a far sentire. La carneficina prosegue da oltre un anno nel vastissimo Sudan (grande sette volte l’Italia, poco popolato, i 40 milioni di abitanti sono ormai allo stremo); centomila soldati RSF sostenuti da russi ed etiopi si battono contro trecentomila militi inquadrati nel SAF appoggiato dagli Emirati e dall’Egitto. Entrambi gli eserciti fanno strage di civili. Martin Braaksme, di Medici senza frontiere, riferisce sconsolato che nell’indifferenza generale si contano oltre 30 mila morti e che i profughi sono calcolati in circa otto milioni. Un quarto di loro ha varcato il confine dello stato, verso la Libia, il Centrafrica e soprattutto il Ciad. Due milioni di esseri umani, disperati e affamati, hanno superato una frontiera lunga oltre duemila chilometri, priva di strutture, incontrollata e incontrollabile; non hanno altra scelta, si dirigono verso la costa mediterranea, migrano per sopravvivere. Sotto la pressione degli sfollati scricchiola anche il Ciad, ultimo avamposto del colonialismo francese, ricco di oro e uranio, costantemente depredato; il governo militare mantiene ancora i mille soldati del contingente imposto da Parigi, ma la tentazione di svincolarsi si fa ogni giorno più forte, il ruolo di gendarme residuale di un ormai disciolto G5 africano sta diventando scomodo. Le truppe di Macron, nel frattempo, sono state estromesse dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso, dal Mali.

Nella storica base collocata a lato dell’aeroporto di Niamey, da tre settimane, accanto al contingente italiano (250 uomini) e tedesco, i russi hanno sostituito i francesi; e il Niger ha molto uranio che fa gola a tutti.  I mercenari della Wagner sono insediati stabilmente nel Sahel, addestrano gli eserciti nazionali, gestiscono le miniere. Per giunta la rendita francese connessa alla valuta di origine coloniale (il CFA) è ormai prossima all’archiviazione definitiva. Il 16 settembre 2023 è stata sottoscritta la carta di Liptako Gourma che prevede una nuova moneta autonoma nel Sahel (Eco e/o Afrik) e la chiusura degli accordi fiscali con la Francia (verrebbe meno l’obbligo di versare il 50% della riserva statale alla banca centrale francese e il redditizio passaggio forzato per Parigi della convertibilità CFA/Euro).

A fronte di questo disastro diplomatico militare Macron, che a differenza dei capi di governo africani non conosce la guerra e non sa neppure sparare, si è spinto fino a minacciare un intervento in Ucraina contro la Russia, colpevole di averlo sconfitto in Africa! Guerra, colonialismo e flussi migratori si confermano strettamente legati, ma i governanti europei faticano a comprenderlo. Giocano con il fuoco, con presuntuosa tracotanza, convinti che tutto sia loro consentito, sicuri di vincere sul campo perché vincono le elezioni. Ma la guerra e le urne poggiano su regole diverse. La certezza dell’impunità viene trasmessa dai funzionari del potere ai sudditi, con perverse conseguenze che cadranno proprio sui più deboli. Machiavelli, citando Lorenzo il Magnifico, osserva che i guai dei popoli provengono dai loro governanti: E quel che fa ‘l signor fanno poi molti, Che nel signor son tutti gli occhi volti. Grazie anche alla forza della comunicazione si è radicata la convinzione che non abbia ricadute sociali trasferire la spesa pubblica destinata all’antico welfare in armamenti destinati al fronte ucraino, reprimere la protesta studentesca e popolare contro i massacri in Palestina, criminalizzare i migranti e rinchiudere inutilmente nei CPR una quota di sbarcati, affamare le popolazioni africane e rapinarle di ogni risorsa. Non è così. Gli errori nell’agire provocano, prima o poi, inevitabili reazioni, e queste possono essere dolorose.

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò trionfante l’entrata in guerra, ricevendo gli applausi di una folla che correva incosciente verso il baratro, incontro al disastro. Il Duce sosteneva che il combattimento era necessario per proteggere il popolo italiano da chi voleva insidiare l’esistenza stessa della nazione; come la sua nipotina Giorgia Meloni prometteva di colpire il nemico in terra, in mare, nell’aria (il c.d. orbe terracqueo) con una parola d’ordine (vinceremo!) che ci ricorda molto da vicino la retorica odierna. L’irresponsabilità è la medesima.

Nuove caratteristiche della guerra

Nel 1999 Qiao Liang e Wang Xiangsui pubblicarono la prima edizione del loro trattato con una definizione, guerra asimmetrica, che costituiva una vera novità nell’ambito degli studi militari moderni. Il testo è ormai divenuto un classico e indica nella prima guerra del golfo (17 gennaio 1991) il punto di svolta. Negli ultimi trent’anni i conflitti sono proseguiti in modo strisciante, tuttavia senza mai una sosta. Anzi l’ampiezza dei territori insicuri o pericolosi va crescendo, sempre e costantemente, giorno dopo giorno; l’area in cui vige il tempo di pace si è assai ristretta, comunque coltivando al proprio interno contraddizioni di non poco conto (scontri etnici, attentati terroristici, discriminazioni razziali o legate alla religione). La deterrenza tradizionale, fondata sul timore dell’arsenale atomico, ha perso la forza originaria (quella che aveva risolto la crisi cubana, ad esempio). Nuovi paesi possiedono la bomba (Israele, Corea del Nord, Pakistan), altri si apprestano ad acquisirla; comunque l’accesso all’ordigno atomico appare meno difficile rispetto al secolo scorso. Durante la prima guerra del golfo furono i giganteschi costosissimi velivoli americani a fare la differenza; distruggevano dall’alto, irraggiungibili. Ancora oggi consentono una sostanziale supremazia, sono ad esempio il punto di forza dello stato d’Israele.

Ma con il passare degli anni si sono rivelati insufficienti; gli americani hanno ugualmente perso la guerra in Afghanistan, si sono dovuti ritirare insieme ai loro alleati lasciando il campo ai talebani che, almeno sulla carta, non avevano alcuna possibilità di spuntarla. Rastrellamenti, danneggiamenti e stragi non sono bastati, hanno ritardato ma non evitato la sconfitta. A ben vedere, dopo la guerra del golfo nel 1991, gli americani non hanno più vinto in nessun posto. Dunque non basta avere armi moderne e potenti; esistono altre variabili e possono, in determinate circostanze, risultare decisive. E’ un segno di come sia mutata l’essenza stessa del conflitto, divenuto davvero asimmetrico, soggetto a eventi imprevisti.

Il capo di stato maggiore russo, Valerj Vasilievic Gerasimov, pubblicò sul numero 8 del Corriere militare-industriale (27.2.2013) un articolo che conteneva riflessioni di notevole interesse sulla guerra moderna, osservando: nel XXI secolo c’è una tendenza a sfumare la distinzione fra guerra e pace. Le guerre non vengono più dichiarate e una volta iniziate non seguono più il modello a cui siamo abituati. E ancora: l’uso palese della forza, spesso sotto le mentite spoglie del mantenimento della pace o della gestione delle crisi, viene utilizzato solo fino a un certo punto, principalmente per ottenere il successo finale nel conflitto.

In effetti sono in corso solo guerre non dichiarate, ma non per questo meno sanguinose. Accanto allo spettro dell’ordigno atomico (magari solo tattico in via di sinistra mediazione filologica), ai missili e alle difese per neutralizzarli, ai carri e ai bombardieri d’alta quota, il combattimento riguarda i corpi, uno di fronte all’altro  in divisa, o tanti civili inermi in attesa della morte. Ma in Ucraina ha conquistato un ruolo da protagonista il drone, non quello di grandi dimensioni, quello piccolo invece, economico, maneggevole. Un mezzo destinato a utilizzi sempre più massicci, introducendo nello scontro quotidiano un elemento inatteso, a volte di sorpresa.

Un missile, peraltro spesso intercettato durante il volo, costa decine di milioni; di recente Ali Baba ha venduto (non si sa a chi) per 57.000 dollari un UAU ad ala fissa H250, adatto ad uso militare (poi si sono scusati). Peraltro con solo 179,99 dollari si compra su Amazon il Potensik 2,7K, con 60 minuti di autonomia, apparentemente innocuo ma (come le rivoltelle giocattolo) modificabile da mani esperte. Bande di mercenari possono partecipare a guerre non dichiarate con armamenti low cost; questo è un fatto, ed è anche un fatto nuovo. Giovani tecnici ucraini, in laboratori semiartigianali, servendosi di alta tecnologia, hanno creato software trasformando un drone di fabbricazione turca, il Bayraktar TB2, in un’arma efficace contro i russi. Ora funziona a pieno ritmo una variegata industria bellica nazionale, come la Aerozozvidka del colonnello Yaroslav Honchar, che non riesce a soddisfare l’ordinazione crescente. I droni ucraini si servono di radar e intelligenza artificiale forniti dall’americana Forte Technologies, sono fonte  di profitti in crescita; il drone UJ22 Airborne (a elica e benzina) ha un’autonomia di 800 chilometri, tocca 120 Km/h, è lungo 3 metri, pesa solo 85 Kg, economico, facilmente trasportabile con un furgone. Con 50 mila dollari si acquista anche l’ucraino Bober (castoro), velocità 200 km/h; porta un discreto carico esplosivo e non è semplice da intercettare per via del tragitto modificabile da remoto.

I russi, dopo i primi colpi subiti, hanno imparato presto la lezione sotto i colpi del nemico e preparato la risposta. L’Iran ha fornito il drone Shahed-136 (testimone 136), disponibile in grande quantità, a buon prezzo (probabilmente assai  meno dei 50 mila dollari di base, pagati magari in oro, comunque vanificando le sanzioni); si tratta di un vecchio modello già sperimentato con successo dai combattenti talebani e ora, nel Mar Rosso, anche dai militanti Houthi.  Con ala a delta di circa 2,5 metri, pesa 200 kg, raggiunge 185 km/h, basta un camioncino per il trasporto, monta un  motore a 4 cilindri copiato dalla tedesca Limbach, lo si guida a distanza con una semplice SIM per cellulari 4G. L’Iran ha aperto una fabbrica di droni in Tagikistan, hanno richieste da ogni fronte nel mondo. L’esame di uno Shahed abbattuto rivela le contraddizioni dell’economia globale di guerra: processore americano, pompa anglo-polacca, convertitore cinese.

Dal novembre 2023 si è evoluto nel modello Shahed-238, un turbo difficile da intercettare ma con il difetto di essere assai più costoso e per giunta esposto ai missili che lo tracciano. Si è affiancato poi il nuovo Lancet 3, prodotto dalla mitica Kalashnikov, con motore elettrico (il che impedisce le rilevazioni acustiche e termiche) ma con una limitata autonomia (solo 80 chilometri). La scelta del comando politico-militare russo è stata infine quella di produrre in casa una sorta di Shahed nazionale, chiamato Geran 2, reso più efficiente dell’originale grazie all’applicazione di tecnologie occidentali (e schegge di tungsteno in testata). La fabbrica di Alabuga (Tatarstan), aperta nel luglio 2023, impiega ora 2400 operai; entro l’estate del 2025 (fra meno di un anno) saranno pronti seimila droni, a basso costo, da lanciare, in lotti da 5,  svolazzando come farfalle senza linee rette, diretti contro le postazioni ucraine. Ancora una volta l’analisi del prodotto scopre i veli, emergono le contraddizioni del mercato globale: il Geran 2 prodotto in Russia, su licenza iraniana, contiene 55 parti americane, 15 cinesi, 13 svizzere, 6 giapponesi. In ogni caso si tratta di un affare di straordinarie proporzioni!

Solo dieci anni or sono i droni con scopo offensivo, e non soltanto ricognitivo, venivano prodotti a centinaia, non certo a migliaia; Alabuga segna un cambio di passo destinato a mutare il modo di fare la guerra. Una guerra non dichiarata ma potenzialmente diffusa, quasi endemica. Il drone trasportabile messo a punto nei laboratori ucraini e iraniani, a prescindere dalla differenza di modello, una volta prodotto in serie è idoneo a rimuovere i vincoli tradizionali, ad aggirare i limiti di azione; inserisce l’inatteso, pone le condizioni di una dialettica forza/sorpresa che si traduce inevitabilmente in innovazione bellica. Vedremo quali ricadute ci saranno negli altri focolai, Palestina compresa; non si può controllare ogni zolla di territorio, ogni insediamento, ogni vita umana.

Macron minaccia la Russia vaneggiando interventi militari; per il momento, nonostante l’atomica nei magazzini, si è però fatto cacciare dal Niger. Pochi giorni fa se ne è andato alla chetichella anche Biden, dopo l’intimazione di sfratto e l’arrivo di Wagner. Accanto a russi e iraniani, autocrati in sintonia con il governo insediato con il golpe anti-occidentale, rimane solo una piccola pattuglia italiana, al comando del generale Figliuolo, quello del Covid. Difficile comprendere a far che cosa!  Il Niger è grande 4 volte l’Italia, ma ha solo 26 milioni di abitanti e il tasso di natalità più alto del mondo (6,82 per donna), una popolazione giovanissima con una consolidata abitudine al combattimento e una gran voglia di futuro. Fermare il flusso migrante dal Sahel all’Europa, nonostante le urla neo-papiniane di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non pare cosa facile da realizzare in concreto. Infatti il numero degli sbarcati, provenienti dal Sudan e dai paesi del G5, non accenna a diminuire. Ma gli apprendisti stregoni, insediati nei governi europei, continuano a provocare, senza mai davvero riflettere sul significato sostanziale della guerra e della pace.

The scene dissolves, is succeded by a grinning gap, a growth of nothing pervaded by vaguerness [1].

NOTE

[1] La scena si dissolve, le succede un sorridente precipizio, una crescita del nulla pervaso d’incertezza

Immagine di apertura: Angelus Novus di Paul Klee, 1920

«Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l’angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso»

(Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, Tesi IX, in Gesammelte Schriften (Opere complete), a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp Frankfurt a. M. 1980, Volume I.2, p. 697)

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 13 maggio 2024

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L’UE può sopravvivere solo come progetto di pace e non come sussidiaria della NATO

Foto di worldbeyondwar.org

di Florina Tufescu – 
Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi. Revisione di Maria Sartori.

Dirigenti dell’Unione Europea, basta con il bellicismo!

L’ultimo sondaggio commissionato dal Consiglio Europeo per gli Affari Esteri (ECFR, un influente think tank in cui lavorano numerosi politici di spicco, funzionari dell’UE ed ex segretari generali della NATO) mostra che il 41% dei cittadini europei preferirebbe che l’Europa esercitasse pressioni sull’Ucraina affinché si impegni in negoziati con la Russia, rispetto al 31% che è favorevole a un continuo sostegno militare. Tuttavia, la conclusione dell’analisi del sondaggio, di cui è coautore il direttore dell’ECFR, è che i leader europei non debbano prestare attenzione alle opinioni dei cittadini, ma semplicemente riformulare e perfezionare il loro messaggio, sottolineando la preferenza per la “pace duratura” raggiungibile attraverso il proseguimento del conflitto, invece di una pace reale che potrebbe essere raggiunta già adesso mediante i negoziati.

Sappiamo dal capo della delegazione ucraina e leader del Partito al Servizio del Popolo, David Arahamiya, che i negoziatori russi “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo adottato – come fece una volta la Finlandia – la neutralità”. La proposta è stata respinta per la mancanza di garanzie di sicurezza e per il fatto che l’intenzione di aderire alla NATO era scritta nella Costituzione ucraina. Un successivo round di colloqui di pace nell’aprile 2022 è stato presumibilmente sabotato dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, secondo quanto riferito da più fonti, che includono ancora una volta il portavoce ucraino.

Da allora non è stato tentato alcun negoziato di pace, probabilmente perché il rischio di successo era troppo alto. La guerra deve continuare per giustificare l’espansione delle industrie militari degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. La spesa militare totale della NATO, che dovrebbe essere un’alleanza “difensiva”, ha raggiunto il massimo storico di 1.100 miliardi di dollari nel 2023. Secondo i dati forniti dal SIPRI, la spesa militare dei Paesi dell’Europa centrale e occidentale, che si sono auto dichiarati campioni della democrazia e della pace, è arrivata anch’essa al massimo storico, ovvero a 345 miliardi di dollari già nel 2022, in confronto alla Russia, una dittatura direttamente coinvolta nella guerra, che ha speso solo 86,4 miliardi di dollari per la difesa militare nel 2022, sempre secondo il SIPRI.

La guerra in Ucraina ha già causato centinaia di migliaia di vittime dal febbraio 2022, oltre ai milioni di rifugiati e il 30% del territorio ucraino contaminato dalle mine. Non si può permettere che questa tragedia continui solo per giustificare la crescita dell’industria delle armi, di cui i leader dell’UE sembrano ora decisi a fare uno dei punti chiave, con il commissario per il Mercato interno Thierry Breton che chiede altri 100 miliardi di euro di finanziamenti militari, in aggiunta a tutti gli impegni esistenti a livello UE e a livello nazionale da parte dei Paesi europei in quanto membri della NATO. Come il tricheco addolorato del poema di Lewis Carroll, i leader dell’UE e della NATO hanno mostrato la loro faccia più triste nel sottolineare l’inevitabilità dei preparativi per la guerra, pur non facendo nulla per ridurre il conflitto e mostrando la massima disinvoltura di fronte al rischio di escalation nucleare.

Le possibilità di porre fine alla guerra sono già note e sono state discusse negli accordi di Minsk e nei negoziati di pace di Istanbul. Gli accordi dovrebbero includere la neutralità dell’Ucraina e la garanzia dei diritti della minoranza russa in Ucraina, che sarebbe un modo molto più efficace di minare l’influenza di Putin invece di inviare altre armi.

Inoltre, l’UE dovrebbe sostenere gli obiettori di coscienza di Russia, Ucraina e Bielorussia. Il diritto all’obiezione di coscienza, sancito dall’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è attualmente riconosciuto dall’Ucraina e, sebbene sia legalmente riconosciuto in Russia per il personale non militare, secondo l’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza viene disatteso in circa il 50% dei casi.

Meno di 10.000 dei 250.000 russi che sono fuggiti dalla loro patria per evitare il servizio di leva, hanno ottenuto asilo nell’UE, nonostante l’appello lanciato da 60 organizzazioni già nel giugno 2022 (relazione annuale dell’EBCO, Agenzia Europea per l’Obiezione di Coscienza, pag. 3). Questa strada verso la pace non è stata dunque percorsa, presumibilmente perché i rifugiati pesano sull’economia senza alcun vantaggio per le cricche di potere, mentre l’industria militare è altamente redditizia per alcuni ed esercita un’influenza sempre più grandi sulle politiche dell’UE, come rivelano il rapporto Fanning the Flames pubblicato dal Transnational Institute e dall’European Network Against Arms Trade e il rapporto ENAAT (Rete Europea Contro il Commercio delle Armi“From war lobby to war economy” (Dalle lobby della guerra all’economia di guerra).

È giunto il momento per i leader dell’UE di recuperare un briciolo di credibilità dimostrando di essere disposti a fare almeno un modesto investimento nella pace e nei negoziati di pace, parallelamente all’investimento senza precedenti nei preparativi per la guerra. È ora che i leader dell’UE antepongano gli interessi dei cittadini europei e degli esseri umani in generale a quelli dell’industria bellica.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 9 aprile 2024 ed  è disponibile anche in: IngleseFranceseTedescoPortoghese

La foto è di Foto di worldbeyondwar.org 

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Uno spettro si aggira per l’Europa: non è il comunismo, ma la guerra

di Giuseppe Manenti

Questo testo nasce da una mia proposta a Gianni Giovannelli che ha dato anche un notevole contributo di suggerimenti e di stesura. Stimolato dal suo “Tempesta e bonaccia”  dove la nostra “bonaccia” mentre corrisponde a eccidi e genocidi,  non ci lascia indenni, ma ci rende sempre più impotenti, impoveriti e disarmati di fronte all’avidità del potere e del capitale. Tuttavia mi ritengo insoddisfatto perché avrei voluto essere in grado di motivare ad insorgere contro la guerra, a trovare gli argomenti convincenti e cogenti, a trovare i punti,  i modi, le leve per rivoltare questa “bonaccia”. Allora mi rivolgo ai compagni e spero che arrivino da loro idee, propositi, tutto quello che serve per fare la guerra alla guerra. (G.M.)

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Tutti i partiti di governo e di opposizione si dichiarano contro la guerra. Intanto continuano a vendere armi e le industrie che le producono si arricchiscono esponenzialmente, anche grazie a un trattamento fiscale favorevole.

La sola Leonardo italiana ha triplicato il valore delle proprie azioni in tre anni. Il ministro della difesa, Crosetto, nel 2021, ha ricevuto 619.000 euro da questa società,  quale compenso per la funzione di advisor, svolta quale presidente dell’Aiad. Per gli azionisti continua la buona stagione.

L’impegno finanziario dell’Italia nei confronti dell’Ucraina è presumibilmente tre volte superiore a quel che ci dicono i dati ufficiali: i 2,2 miliardi di euro dichiarati come aiuti militari, stante la mancanza di trasparenza, si calcola possano essere almeno 5 miliardi complessivi reali, sottratti alla spesa sociale. E andrebbero aggiunti i danni, notevoli, provocati dal conflitto e dalle sanzioni che vanno a gravare sull’economia delle singole famiglie nel nostro paese.

In concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina si apre la guerra del gas, con cui l’America ha risolto il problema del suo gas liquido che secondo Einhorn (fu lui, con un anno di anticipo, a prevedere che Lehman Brothers sarebbe saltata) era una bolla che gravava per 100 miliardi di dollari di perdite su Wall Street. Le sanzioni contro il gas russo e l’offerta che non si poteva rifiutare del gas americano a 80dollari al mq, provocarono un meccanismo perverso, il prezzo di questo gas “made in USA” indicizzato alla Borsa Olandese fu usato nei contratti commerciali per rivendere il gas russo, mentre il gas russo, al prezzo stimato dai 2 ai 10 dollari, continuava a fluire nei gasdotti per i contratti in essere. Le Compagnie che ricevevano il gas russo fecero guadagni stellari alle spalle della popolazione europea, salutando questa guerra come un bengodi ed ovviamente erano poco interessate a fermarla. Anche questa guerra commerciale ha provocato sofferenze e disagi.

Il governo Meloni partecipa attivamente al conflitto ucraino , continuando a stanziare miliardi di euro in finanziamenti e ad inviare armi e istruttori assieme alla NATO.

Anche perché dopo le armi e le distruzioni, il business della guerra continua e le industrie e le banche italiane sono pronte a partecipare al grande affare della “ricostruzione dell’Ucraina”. che implica liberismo sfrenato, sfruttamento di masse ridotte alla fame.

Chi paga tutto ciò? L’85% degli Italiani che non vogliono la continuazione della guerra, ma la pace, ora e subito!

Gli USA dichiarano di volere la pace in Palestina, intanto riforniscono di armi il governo israeliano e pongono nelle sedi ONU il veto a tutte le proposte finalizzate ad interrompere la carneficina in atto: la pulizia etnica continua, a Gaza e in Cisgiordania.

I conflitti in corso non cessano, anzi aumentano, sono ormai innumerevoli: Ucraina – Russia, Palestina – Israele, Mar Rosso – Yemen,

Libano, Tigray, Sudan, Siria, Iraq, Rojava…

L’Italia, nell’area mediorientale e mediterranea, mantiene 35 Missioni Militari, con una spesa di oltre 1,4 miliardi nel 2023. Inoltre partecipa, con un contingente, in Bulgaria, Lettonia e Ungheria alle attività di addestramento del Multinational Battle Group Bulgaria,  operazioni che sono svolte congiuntamente ai gruppi tattici NATO già esistenti in Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania e Slovacchia e si estendono lungo il fianco orientale della NATO, dal Mar Baltico al Mar Nero.

L’Unione europea era nata in forma di Comunità solidale, per affermare un «mai più» la guerra sul proprio territorio. Ha continuato, silenziosamente, ad appoggiare  l’estensione a est della NATO, pur tenendo fermi gli affari in corso; ha chiuso gli occhi sul conflitto armato nel Donbass e sul mancato rispetto degli accordi di concessione dell’autonomia, fino all’annessione della Crimea. Quando la Federazione Russa ha invaso l’Ucraina avrebbe potuto, e anzi dovuto, far sentire tutto il peso  diplomatico per dirimere lo scontro, per fermare la guerra. Invece ha accettato di  svolgere una funzione ancillare, subendo le conseguenze di sanzioni dirette contro la Russia, senza danno per gli Stati Uniti e per il Regno Unito, con gravi perdite economiche per le popolazioni dell’Unione, soprattutto italiane e tedesche.

In questi mesi è emersa la miopia politica del Partito Democratico in Italia e dei Grunen in Germania, lesti entrambi a ricoprire il ruolo di falchi e di promotori di un costante invio di armi al fronte ucraino, sottraendo al tempo stesso risorse alla spesa sociale interna, in sostanza segando il ramo dell’albero su cui sedevano quali rappresentanti progressisti dei ceti più deboli. Così hanno consentito al partito neofascista di Giorgia Meloni e all’estrema destra tedesca di recuperare un ampio consenso popolare, di essere ammessi nel contenitore democratico complessivo, di prepararsi al sostegno di Ursula Von der Leyen dopo le ormai prossime elezioni europee, magari estromettendo dal governo dell’Unione questi sciocchi apprendisti stregoni di sinistra, o, comunque, partecipando alla divisione della torta.

Invece di cercare con pazienza e pervicacia una mediazione, magari con attente concessioni pur di chiudere le ostilità, l’esecutivo europeo, alla testa di una vasta maggioranza parlamentare, si è messo al servizio degli USA e della NATO, vaneggiando di “Resistenza” cui fornire di armi, proprio quando l’esodo di milioni di ucraini dimostrava una crescente tendenza popolare alla diserzione. Secondo le stime dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) sono più di 8 milioni i profughi ucraini che si trovano in Europa (e, aggiungiamo noi, che non sembrano avere alcuna intenzione di rientrare a casa). L’alto commissariato rileva inoltre quasi 22 milioni di attraversamenti in uscita dal paese dal 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione russa in Ucraina, al 16 maggio 2023, malgrado l’arruolamento forzoso e violento degli uomini dai 18 ai 60 anni decretato dal Presidente Zelensky. L’alto tasso di corruzione si è tradotto in un lucroso commercio di visti, lasciapassare, esenzioni, deroghe; improbabile che l’attuale governo di Kiev abbia davvero la possibilità di arginare questa fuga di massa. La “Resistenza” è, per definizione, l’opposizione armata nei territori occupati da un invasore, dopo la caduta del governo istituzionale prima in carica, sotto i colpi del nemico esterno; dunque, tecnicamente, potremmo parlare di “Resistenza” in Crimea o a Mariupol, ove però non se ne trova traccia. Infatti gli addetti militari la chiamavano non “Resistenza” ma “Controffensiva”; ma, con buona pace di chi straparla di invio di armi fino alla “vittoria certa”, non pare abbia avuto  successo. Non basta dirlo. Il Duce, che tanto piace a Giorgia Meloni, gridò VINCERE! dal balcone romano di Palazzo Venezia prima di invadere, a sua volta, l’Ucraina (all’epoca parte dell’URSS) ma il motto  non gli portò bene.

Occorre dire qualcosa su questo onnipresente attore, sempre in tenuta militare, quasi sempre in maglietta verde, per mostrare i muscoli: Zelensky diventò presidente nel 2019, dopo essere stato inventore e protagonista di una serie televisiva, in onda con enorme successo su un canale di proprietà dell’oligarca ucraino Igor Kolomoisky. Recitava la parte di un presidente integerrimo, un po’ ingenuo; ciò lo rese molto popolare, soprattutto molto ricco, tanto che in soli due anni di presidenza Zelensky si era già ”guadagnato” due ville milionarie: una a Forte dei Marmi e una a Miami, più vari conti esteri e offshore. Fu il trampolino che lo portò alla presidenza. Niente ci impedisce di pensare che la sceneggiatura di questa serie sia stata fin da subito concepita come una campagna elettorale anticipata e che ci sia stata la guida oculata della CIA, per giungere al controllo del territorio. O forse hanno solo colto l’occasione al volo. Poco cambia.

Cinque giorni prima dell’invasione sovietica il cancelliere tedesco Scholz propose a Zelensky aderire a un accordo di pace tra Russia e Ucraina, preparato nella primavera del 2022, a seguito degli incontri di Istanbul che prevedeva che l’Ucraina avrebbe avuto uno status di neutralità non allineata e non nucleare e Zelensky avrebbe rinunciato alla richiesta di aderire alla NATO.

Il documento fu rifiutato da Joe Biden e dall’allora primo ministro britannico Boris Johnson  i quali misero alle strette Zelensky che, dopo qualche titubanza, rifiutò il compromesso proposto da Erdogan, avendo avuto ampie promesse di sostegno militare e mediatico, oltre che un ampio riconoscimento economico.

Varò allora una legge che vietava ogni trattativa, in qualità di interprete del popolo ucraino, a suo dire irremovibile nel pretendere l’ingresso del Paese nella NATO. La guerra divenne la ribalta a cui Zelensky non può più rinunciare.

L’attentato in cui fu distrutto il gasdotto che portava il gas russo in Germania, convinse Scholz a ad adeguarsi alle decisioni americane e inglesi.

La guerra “per procura” sul suolo europeo, presente nella strategia americana di destabilizzazione della Russia, poteva iniziare.

Inizialmente gli Americani cercarono di sbarazzarsene, tanto da proporgli la fuga come alternativa. Per poi sostituirlo con altro soggetto più affidabile. Lui preferì rimanere, cercando, da avventuriero, un posto nella storia, vestendo da attore consumato i panni dell’irriducibile combattente, pronto a scambiare il permanere a oltranza della guerra e la carneficina degli Ucraini con il potere e il bottino.

Attualmente si contende la scena di guerra con Netanyahu; pure lui è impegnato a dare continui ordini di uccidere, a provocare una carneficina. E ha il controllo del fronte, colpisce una folla inerme, tanto che si discute se ormai si tratti di strage o di genocidio.

Sia quel che sia, questo è il suo salvacondotto per rimanere Presidente di Israele.

I nazisti perseguitavano gli ebrei in tutto il mondo (non in un solo paese). Ne uccisero circa sei milioni; un po’ meno di quanti sono oggi gli ebrei di Israele (6.600.000), un po’ di più di quanti sono oggi gli ebrei nordamericani (5.700.000). Come gli ebrei anche i palestinesi sono oggi in tutto circa 15 milioni; metà degli ebrei e metà dei palestinesi non vivono nell’area di guerra, ma all’estero, altrove.  Gli ebrei di Israele sono una minoranza (45% del totale nel mondo); i palestinesi di Israele sono il 20% della popolazione, nell’area del conflitto sono pure loro il 45% del totale nel mondo. Gli arabi sono invece ben 450 milioni, abitano un territorio vastissimo, tutto intorno alla Palestina, un puntino nel mezzo! Basterebbe analizzare l’oggettività i numeri per comprendere che ci troviamo di fronte ad una follia cui bisogna porre termine al più presto.

Non è affatto impossibile, ma bisogna volerlo, e imporlo. Il 22 luglio 1946 un gruppo armato sionista fece esplodere l’hotel King David a Gerusalemme, attaccando la sede diplomatica inglese e provocando 91 morti. Eppure i fili furono riannodati, si giunse infine ad un accordo. Il primo governo di Israele  era presieduto da Ben Gurion, un polacco. Il suo partito di origine, Akhadut, era sionista, ma anche marxista; divenne il Mapai, una specie di Labour Party. Il sionismo delle origini aveva due (o più) anime. La migliore somigliava più alle comunità utopiche del socialismo ottocentesco che ai nazionalisti autoritari; la peggiore ci ricorda invece da vicino la linea boera dell’apartheid sudafricana. “Razzista” è solo chi appiattisce sionisti ed ebrei dentro una scelta di strage che il governo israeliano sta attuando; non sono entità in alcun modo sovrapponibili, umanamente e storicamente.

Il pericolo europeo sta in personaggi come Emanuel Macron o Ursula von der Leyen; entrambi, invece di organizzare negoziati di pace, pensano di trovare un ruolo nell’Europa belligerante. Vanno fermati. La “pace”, qui e oggi, non è solo legittima  autodifesa, o ragionevole desiderio. E piuttosto un programma politico, il primo punto all’ordine del giorno. L’alternativa è il baratro. Socialisme ou Barbarie si traduce qui, ora, in Pace o Morte.

I deliri dei dementi

I tiranni lottano per impedire la pace. Hanno bisogno della guerra. Si trastullano con dichiarazioni improvvide, prospettano la possibilità di mandare in Ucraina soldati degli eserciti nazionali europei, visto che la carne da cannone locale non è per loro sufficiente.

Abbiamo visto Macron, Scholz e Tusk, uniti da un intreccio di mani e sorridenti come tre compagnoni usciti un po’ brilli dall’osteria, dichiarare la loro indissolubile volontà di “difendere” l’Ucraina. Governa l’Europa chi la vuole distruggere.

Abbiamo sentito Ursula von der Leyen invocare il motto latino “Si vis pacem, para bellum” con il quale pretende di aver trovato la chiave di volta del suo pensiero, l’ignoranza si appaga sempre dell’idea più scontata, eppure c’è un altro motto latino su cui dovrebbe riflettere e su cui noi riflettiamo “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”

Che si allarghi l’area del conflitto non pare preoccupare il presidente francese e gli altri leader, infatti il potere ha preparato da tempo cittadelle di rifugio e di comando, accentrando in modo spasmodico risorse economiche e finanziarie, promuovendo guerre distruttive alle periferie.

Gli USA hanno finora ottenuto di tenere la guerra, ancora una volta, sul palcoscenico della vecchia Europa: solo il popolo, quindi, è carne da macello.

«Non c’è più spazio per le illusioni, Putin ha usato il dividendo della pace per prepararsi alla guerra. L’Europa deve svegliarsi», ha scandito la scorsa settimana al Parlamento europeo Ursula von der Leyen.

La maggioranza si è abbandonata ad una scandalosa ovazione. Ursula propone la giunta dei tiranni: la via maestra per farlo si chiama Strategia europea per l’industria della difesa (Edis), il Programma che ne dovrebbe derivare prevede lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro di qui alla fine del 2025 per costruire, appunto, la «prontezza della difesa europea» (cioè la guerra).

Si profila la possibilità di acquisti congiunti europei – operati dunque direttamente dalla Commissione per conto degli Stati membri – di materiale bellico. «Proprio come abbiamo fatto con grande successo coi vaccini o col gas naturale» nell’ultimo triennio, aveva anticipato Ursula von der Leyen al Parlamento. Dopo il colpo grosso dei vaccini con i contratti segretati, la von der Leyen si prepara a farne un altro con le armi.

Queste spese saranno finanziate tagliando ulteriormente welfare, energie alternative, ecologia.

La componente verde, in versione tedesca e francese soprattutto, non comprende che ecologia e guerra non possono convivere.

I Verdi hanno tradito il loro stesso programma, hanno perduto le loro origini. Non lo capiscono, ma stanno diventando le mosche cocchiere del  nuovo dispotismo, dell’inquinamento, delle armi; preparano l’arrivo di un ceto politico che non avrà certo pietà per i comunisti, ma neppure risparmierà loro.

Non ci sono alternative alla pace!

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 25 marzo 2024

L’immagine di apertura è ”Carica dei lancieri” di Umberto Boccioni. Fonte/Fotografo: Opera propria, RiottosoWikimedia

Uno spettro si aggira per l’Europa: non è il comunismo, ma la guerra Leggi tutto »

L’Europa va alla guerra mondiale.

Svolta bellicista e pensiero magico ai vertici delle Istituzioni europee

di Paquale Pugliese

“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. (…) Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. (…) Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”. Mi sono tornate in mente le parole che Simone Weil scriveva in un testo nel 1937 dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia, leggendo il documento che alla vigilia del Consiglio d’Europa del 21 e 22 marzo – ribattezzato “consiglio di guerra” – Charles Michel ha recapitato a molti quotidiani europei (in italiano su La Stampa). Una lettera piena di “maiuscole”, non di un qualsiasi articolista con l’elmetto ma del Presidente dell’organismo di indirizzo delle politiche europee, che conferma e rilancia la svolta bellicista già espressa dalla Commissione e dal Parlamento.

Rileggiamo, dunque – con il compito di chiarificazione indicatoci da Simone Weil – alcuni passaggi di questo testo che vuole segnare un cambio di paradigma, preparando scenari di guerra per il continente che si era dato istituzioni politiche per costruire, invece, un progetto di pace. “La Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se la risposta della Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno necessario per fermare la Russia, saremo i prossimi.” Scrive Michel, attribuendo al regime di Putin – come da manuale di propaganda bellica – l’intenzionalità autodistruttiva di attaccare paesi Nato, dai quali ormai è circondato. Ma spiegando subito dopo il vero significato di quelle parole: “Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare ad una <<economia di guerra>>”, come se le spese militari dei Paesi UE aderenti alla NATO non arrivassero già complessivamente a 346 miliardi di euro (dato ENAAT aggiornato al 2022), aumentata del 30% in otto anni e già quattro volte maggiore della spesa militare della Russia.

Ciò perché “dobbiamo essere in grado di parlare non solo la lingua della diplomazia, ma anche quella del potere”, aggiunge Michel, senza spiegare quando l’Unione europea abbia messo in campo una proposta diplomatica: quando ha convocato, in quanto organizzazione terza, un tavolo di negoziati? Quando ha avviato una Conferenza internazionale di pace, come chiede inascoltata da due anni la rete Europe for Peace? L’unica lingua praticata fin dall’inizio è stata quella dell’invio al governo ucraino di armi sempre più distruttive, partecipando attivamente alla dinamica dell’escalation, fino alla “vittoria” – come ribadito dal Consiglio europeo – anziché a quella della de-esclalation. Mentre la lingua del “potere” militare, ovvero dell’industria bellica europea e mondiale, ha già visto schizzare in alto i suoi profitti, come certificato dal SIPRI: quella italiana, per esempio, ha raggiunto +86% dall’inizio della guerra.

Per rendere definitivo questo passaggio da un’Europa di pace ad una di guerra è necessario, esplicita Michel, mettere in campo una torsione culturale e valoriale: “Sarà necessario che il nostro pensiero compia una transizione radicale e irreversibile verso una forma mentis incentrata sulla sicurezza strategica”. In che cosa si concretizzi questa dichiarazione di ideologia bellicista è ribadito poche righe più avanti: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti dall’industria [bellica] europea”. Che, tradotto, significa tagliare drasticamente gli investimenti per la “sicurezza” sociale dei cittadini europei, trasferirli all’industria di guerra e – contemporaneamente – convincere tutti che la “sicurezza” non la forniscano più sanità, welfare, scuola e università, ma cannoni, carrarmati, navi da guerra e testate nucleari.

Nelle conclusioni di questo manifesto infarcito di “maiuscole”, Charles Michel fornisce la chiave interpretativa dell’intero messaggio: “Questa battaglia richiede una leadership forte per mobilitare i nostri cittadini, le nostre imprese e i nostri governi a favore di un nuovo spirito di sicurezza e di difesa in tutto il continente europeo”. E’ una chiamata alla mobilitazione generale, che si fonda sul principio con il quale chiude: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”. Ancora l’obsoleta formula che dimostra come ai vertici delle Istituzioni europee sia insediata una sacca di “pensiero” irrazionale e magico, che abusa della credulità popolare a beneficio dell’esplosione dei profitti del complesso militare-industriale: i governi nel loro insieme non hanno mai speso così tanto per “preparare la guerra” e infatti, inevitabilmente, la guerra dilaga ovunque. Perfino, di nuovo, in Europa.

Il proclama di guerra, sul quale hanno lavorato i capi di governo e di stato nella riunione del Consiglio europeo, prepara davvero una “transizione radicale e irreversibile”: il passaggio alla guerra nucleare. Mentre è necessario andare esattamente nella direzione opposta, passare dal pensiero magico a quello razionale e responsabile, indicato da tempo dai movimenti nonviolenti: se vuoi la pace, prepara la pace. Intanto, alla sera del secondo giorno di Consiglio europeo “di guerra”, un attentato terroristico in un teatro di Mosca, rivendicato dall’ISIS, ha provocato 137 morti innocenti: i pezzi della terza guerra mondiale in corso si saldano sempre più pericolosamente.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 26 marzo 2024 e sul Blog del Fatto quotidiano

La foto è di Pubblico dominio da wikipedia

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Tempesta e bonaccia

Sea in the moonlight” (1827-1828) di Caspar David Friedrich

di Gianni Giovannelli

Open pathway trough the slow sad sail
Trough wide to the wind the gates to the wandering boat
For my voyage to begin to the end of my wound
(Dylan Thomas)

(Apri un varco nella lenta, nella lugubre vela
Schiudi al vento le porte del vascello vagante
Perché inizi il mio viaggio verso la fine delle mie ferite)
(trad. Ariodante Marianni)

La guerra prende piede, cresce giorno dopo giorno, una vera e propria tempesta che non lascia intravedere momenti di tregua. In Ucraina non è solo un conflitto di trincea, uno scontro fra soldati per la conquista di aree territoriali e per la distruzione delle risorse del nemico. Non c’è dubbio che sia anche questo, come non c’è dubbio che al fronte muoiano, accanto ai militari di professione,  migliaia e migliaia di soggetti rastrellati, costretti ad indossare la divisa, o, anche, volontari vittime della propaganda nazionalista. Però non basta. Piovono bombe lanciate dai droni, cadono missili, la strage di civili prosegue senza sosta. I fabbricanti di armi si arricchiscono, godono di scandalose agevolazioni fiscali, vengono lautamente pagati con il denaro sottratto alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, ai resti di welfare eroso. L’opposizione alla guerra, anche se proposta senza foga o quasi sottovoce, viene immediatamente equiparata a tradimento, diserzione, crimine contro le istituzioni. La chiamata alle armi è contagiosa. A Gaza ha preso la forma del massacro. Poco importa la qualificazione tecnico-giuridica, se si tratti di genocidio o meno. Rimane una carneficina, con le immagini di soldati felici di uccidere, consuete durante ogni strage della popolazione consumata da un esercito occupante, incitato dai comandanti a rimuovere ogni forma di scrupolo morale. La guerra si è allargata al Mar Rosso per colpire il popolo yemenita, tramite consapevoli provocazioni lambisce le coste cinesi rischiando di aprire un nuovo focolaio, non cessa di mietere cadaveri in molti paesi africani già piegati dalla fame e dagli espropri, cova sotto la cenere in America Latina e nell’area asiatica. La tempesta infuria nel pianeta, indifferente alle crisi energetiche o al disastro ecologico, l’avidità è arrogante, la cupio dissolvi  è accettata o rimossa.

A pochi chilometri dalla tempesta, nei territori dell’occidente europeo e nordamericano, anche in Italia, domina invece la bonaccia. C’è un clima di imperturbabile insensibilità, rotto, ma per brevi periodi, da proteste circoscritte (da ultimo quella di coltivatori e allevatori) che non riescono mai a coinvolgere davvero l’intera comunità e poco a poco inaridiscono, lasciando fra i protagonisti un senso di impotenza e un sentimento di rassegnazione che rafforza il potere e favorisce il dispotismo. Dentro la bonaccia si allarga la forbice fra ricchi e poveri, aumenta il disagio; l’apatia non è speranza nel futuro, ma immotivata illusione di poter essere risparmiati, di sfangarla senza troppi danni. Significativa di questo tempo di bonaccia è l’indifferenza che ha accompagnato l’insabbiamento della rivendicazione di un salario minimo a tutela dei lavoratori adibiti alle prestazioni più pesanti, espropriati del loro diritto ad esistenza dignitosa, inchiodati allo sfruttamento intensivo. Eppure, nonostante l’apatia che si riscontra nella bonaccia, è impossibile non cogliere nella nostra esistenza quotidiana i segnali, dentro le comunità, di un rancore diffuso, di una rabbia repressa ma pronta ad esplodere, di una disponibilità alla prevaricazione, al conflitto con altri sventurati, dimenticando come, storicamente, la solidarietà sia l’unica via d’uscita dalla servitù. In questi ultimi anni è accaduto che i tagli alla sanità abbiano arricchito le c.d. Big Pharma e l’erosione costante del welfare si accompagni all’incremento delle spese militari a vantaggio di chi costruisce armi: grazie alla coerente continuità dei diversi governi emersi dalle elezioni sui punti fondamentali che non prevedono dissenso (e non lo consentono neppure, a costo di usare minaccia, ricatto, perfino la forza bruta). La tempesta in atto, questo tempo di guerra, serve a ricordare a coloro che vivono nella bonaccia quel che li aspetta in caso di ammutinamento o di attacco al profitto. La domanda di pace viene percepita dal potere politico e dalle imprese dominanti come una rivendicazione eversiva, comunque come azione di contrasto alla c.d. economia di mercato.

Dentro la bonaccia prosegue intanto il processo di transizione, con introduzione di norme che accompagnano la trasformazione del vecchio stato-nazione a carattere socialdemocratico-liberale in un nuovo organismo istituzionale attrezzato per piegare le residue resistenze del precariato, dunque necessariamente e inevitabilmente autoritario. Il meccanismo di governo chiamato pilota automatico (per usare la suggestiva definizione che diede a un tale sistema Mario Draghi, l’amerikano per antonomasia) sembra funzionare anche dopo la vittoria elettorale dei neofascisti e dei loro alleati: Giorgia Meloni non abbandona, laddove opera il vincolo, la via tracciata da chi l’aveva preceduta, proseguendo anzi nella medesima direzione. I titolari dei tre ministeri-chiave (economia, esteri, difesa: Giorgetti, Tajani, Crosetto) hanno mantenuto gli impegni di spesa militare, l’appoggio incondizionato agli Stati Uniti del “democratico” Biden, le politiche di austerità, i tagli alla spesa sociale, la rinuncia a colpire i profitti delle strutture di grande impresa finanziarizzata con l’imposizione fiscale. L’istruzione, la ricerca e l’università, privi di fondi e risorse, sono facile preda delle privatizzazioni,  incoraggiate ora come prima; l’unica differenza, ideologica e spettacolare, consentita alla destra sta in un maggior uso dei gendarmi, dei giudici e delle sanzioni disciplinari contro gli studenti riottosi che occupano o scioperano. Il messaggio trasmesso dal ministro Valditara è che il rigore o l’ordine possano essere il fondamento della scienza e del sapere; una bubbola diffusa a reti unificate e spacciata per verità a suon di botte! La continuità in tema di salute è assicurata da un brillante ordinario e primario, il professor Schillaci: maggioranza e opposizione sono tranquille, la medicina pubblica, con lui al dicastero, non sarà di ostacolo ai progetti di quella privata, farà il possibile anzi per agevolare la conquista del mercato italiano.

Spicchi di autonomia consentita

Ai governi nazionali, siano essi democratici liberali o populisti, viene consentita  una libertà di azione assai limitata, dentro segmenti precisi e all’interno di confini non valicabili. Possono certamente legiferare sul c.d. fine vita, vietando o consentendo il suicidio assistito, varando norme sempre più complicate per regolare l’accanimento terapeutico. Fermo una vaga generica proibizione di operare discriminazioni  possono consentire o meno matrimoni non tradizionali, riconoscimenti di prole, intervenire sugli affetti in occasione di visite ospedaliere, disporre corsi obbligatori di nozioni sulle materie più svariate, ostacolare o meno l’acquisizione della cittadinanza, limitare o meno l’ingresso, il soggiorno, gli studi. Quel che ha in mente la reazionaria bigotta Eugenia Maria Roccella, titolare di un dicastero per la famiglia (qualunque cosa voglia dire oggi), lascia nella totale indifferenza i consigli di amministrazione delle multinazionali e infiamma soltanto associazioni di quartiere ospiti di una qualche redazione televisiva.

Autonomia differenziata

Il governo Meloni concentra la propria visibilità e identità sull’attacco radicale a minoranze percepite come tali, disarmate e adatte al ruolo di capro espiatorio. Il varo di norme repressive caratterizzate da una severità spropositata colpisce aggregazioni giovanili in luoghi abbandonati (musica e/o sballo), proteste dimostrative di ecologisti che cercano (purtroppo invano) di attirare l’impegno collettivo, in difesa dell’ambiente, colorando un monumento, immigrati rinchiusi in lager sovraffollati pronti per l’espulsione o per il lavoro irregolare sottopagato. Le morti recenti nel cantiere Esselunga di Firenze confermano ciò che già era noto: il carattere ordinario e istituzionale della manodopera ingaggiata in nero capace di assicurare maggior profitto. La sceneggiata di un lager ulteriore in terra albanese non cambia il quadro: sono (anzi: saranno… e chi sa quando!) poche centinaia di deportati nel gran mare di arrivi. Per quanto la propaganda si impegni è davvero troppo poco, si tratta di qualche centinaio di potenziali condanne per episodi secondari, senza ricadute di effettiva portata nelle comunità territoriali. Occorreva introdurre un cambio di passo, promettere un cambiamento istituzionale capace di aprire la strada verso un futuro migliore. L’elezione diretta del presidente del consiglio risponde ad una prima esigenza, quella di accompagnare la svolta dispotica necessaria alla transizione alla figura dell’uomo forte, nemico della burocrazia, pronto a sistemare ogni cosa. Difficile prevedere l’esito di un simile tentativo che esige non solo una doppia lettura ma con ogni probabilità anche un referendum confermativo che potrebbe trasformarsi in una trappola. Prudentemente Giorgia Meloni si guarda bene dal legare il proprio destino politico al risultato della consultazione, si accontenta di agitare la questione per rafforzare innanzitutto se stessa; non vuole commettere l’errore dell’arrogante Matteo Renzi.  In ogni caso chiunque sia eletto e a prescindere dal metodo di elezione il programma rimane lo stesso. Più gravida di conseguenze concrete appare invece la seconda riforma istituzionale, quella volta a modificare il rapporto fra stato centrale e regione, la c.d. autonomia differenziataBenché contenga una sostanziale modifica costituzionale, con notevole disinvoltura, la maggioranza ha portato il testo davanti alle due camere in forma di legge ordinaria; nella seduta del 23 gennaio 2024 il Senato (sulla carta il passaggio meno facile) ha approvato l’impianto elaborato (con alcuni significativi ritocchi) in commissione e ora è spianata la definitiva approvazione ad opera dei deputati. Nelle pieghe di una accresciuta (allo stato solo potenziale) signoria nel governo delle singole regioni si cela un meccanismo potente di controllo centralizzato, di dominio sulle comunità territoriali. L’art. 116, terzo comma, della Costituzione consente su alcune importanti materie ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale; qui si viene a disciplinare il come e anche il se ci si possa arrivare, in modo però differenziato a discrezione della maggioranza in carica. L’articolo 2 (testo del Senato) rimette alla singola Regione l’elaborazione, approvazione e presentazione di una richiesta di autonomia che viene rimessa (non al Parlamento ma) al Consiglio dei Ministri, che provvede ad acquisire pareri della Conferenza Stato Regioni e delle Commissioni presso le Camere, conformandosi o meno a detti pareri non vincolanti. Poi (commi 6-8) elabora unilateralmente la proposta di intesa con la regione richiedente, e la trasmette alle due Camere, per approvazione o rigetto: prendere o lasciare. Il C. dei M. si riserva  di limitare l’intesa a una parte soltanto della richiesta di autonomia. Dunque: senza il consenso espresso (non del Parlamento ma) dell’esecutivo in carica nessuna intesa sull’autonomia è possibile. E non basta! Mediante le modifiche al testo “leghista” originario introdotte in commissione il controllo del governo è letteralmente blindato con un trucco del mestiere già utilizzato da Renzi per i Jobs Act del 2015: la legge delega. L’intesa con la singola Regione poggia necessariamente sui c.d. LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni. L’articolo 3 del testo approvato in Senato conferisce al Governo la delega per definire l’ambito dei LEP con riferimento a lavoro, ambiente, comunicazioni, trasporti, energia, beni culturali, tutto ciò che possa essere oggetto di autonomia, anche differenziando, comunque senza dover passare attraverso il dibattito parlamentare. Non basta ancora! Costi e fabbisogni sono definiti, con cadenza triennale, a mezzo di DPCM, quelli entrati in uso durante la pandemia come eccezione e subito diventati regola costante di governo, come, già allora, facili profeti, avevamo previsto. L’intesa ha una durata massima di dieci anni, ma nulla vieta di porre una scadenza più ravvicinata. La Regione propone, il governo dispone.

Il meccanismo della c.d. autonomia differenziata consente dunque all’esecutivo di punire, negando intese, i territori riottosi; al tempo stesso è lo strumento tecnico-politico per assegnare risorse solo a chi è fedele, sottraendole a chi invece si oppone. Realizza, sotto la veste di un apparente decentramento, il controllo sulla popolazione, accompagnando per via legislativa, la transizione, legittimando privatizzazioni, sottrazione di risorse comuni, precarizzazione, allargamento della forbice ricchi/poveri. Costruire questo passaggio con legge ordinaria abbatte il rischio referendario: a differenza di quello “costituzionale”, che non ha quorum per la validità della consultazione, questo  sull’autonomia differenziata (già di ammissibilità dubbia) impone (in tempi di crescente abbandono delle urne) la partecipazione del 50% dell’intero corpo elettorale, italiano o estero che sia.

Probabilmente le reali conseguenze di questo provvedimento non sono ben chiare neppure a chi le sta varando: FdI le considera strumento di controllo e pressione (o magari di ricatto), la Lega sogna di fare un trampolino per il rilancio dei consensi nel nord Italia. Sono miopi, rischiano entrambi la sorte dell’apprendista stregone, agiscono sereni per via della bonaccia. Ma, dopo la bonaccia, prima o poi, arriva la tempesta. Può passare a volte un tempo infinito, è vero; ma altre volte basta un attimo e arriva, imprevisto, un tifone. Specie durante le guerre e le transizioni.

L’articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2024 su Effimera 

Immagine in apertura: “Sea in the moonlight” (1827-1828) di Caspar David Friedrich

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