Guerra

Gaza e la clementina Orri


di Gianni Giovannelli

L’arma che uccide, da quando è diventata
un prodotto industriale, si rivolta contro l’umanità,
e il soldato di professione non sa più
di quali aspirazioni egli sia lo strumento.

Karl Kraus
(Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, 1980, pag.184)

Mercoledì 14 maggio 2025, Milano, Piazza Martini: è giorno di mercato, frotte di persone camminano fra le bancarelle guardano, parlano, chiedono, esitano, a volte comprano. In quello stesso giorno l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Jabalya, il più grande degli otto esistenti nella striscia. In 1400 metri quadrati, dentro tende e baracche, ai margini della città, ci abitano in 116.011, registrati da UNRWA nel 2023; la città vicina ne conta invece 82.877. L’area del campo, già nel XIV secolo, era celebre per la fertilità della terra e per gli agrumeti. Senza difesa, colpiti dalle armi che piovevano dal cielo, sono morti almeno in settanta, di cui 22 bambini. Il giorno prima era stato distrutto l’ospedale del campo di Khan Younis (6 morti); il giorno dopo sarebbe toccato ad altri 115, uccisi dall’alto, all’alba. Nella striscia l’esercito israeliano ha distrutto il cibo, cancellato ogni traccia di agrumeto insieme alle case.

La frutta al mercato

Mentre i palestinesi senza cibo muoiono sotto i colpi dell’occupante, ormai privo di qualsiasi remora o pietà per le vittime, nelle bancarelle di Piazza Martini si vendono molte varietà di frutta o verdura. Molti fra i lavoratori che servono i clienti vengono dai paesi del sud mediterraneo, sono tunisini, egiziani, marocchini, sono nati e cresciuti accanto ai palestinesi, non possono non fraternizzare, condividono, come è naturale, la loro sofferenza. In maggio la stagione dei mandarini (con i semi) e delle clementine (senza semi) può dirsi giunta a conclusione, inizia a novembre, dopo i primi giorni di aprile anche la specie tardiva non si trova più. Eppure tutti i banchi hanno in bella vista le clementine, con un bel colore, una buccia invitante, il pezzo aperto in mostra appare morbido, succoso, senza semi; il prezzo è tuttavia più alto, per quanto si sia al mercato mai sotto i quattro euro al chilo, spesso di più. Viene spontaneo chiedere e così imparo che il paese di origine è Israele.

La Clementina Orri

Dopo essermi documentato spiego l’arcano. Si tratta di un ibrido che la genetista Aliza Vardi (1935-2014) ha creato nei laboratori dell’Istituto di Ricerca Agricola Volcani. Si chiama Cultivar Orah (oppure Orri in commercio), il Ministero dell’agricoltura israeliano lo ha brevettato negli USA il 4 marzo 2003 (PP13616) e ha ottenuto la certificazione UE nel 2013, ottenendo la licenza in esclusiva per questo prodotto di laboratorio e natura. La caratteristica di Orri è proprio quella di essere disponibile quando gli agrumi similari hanno chiuso il ciclo; Israele condivide l’affare con la multinazionale spagnola Genesis Innovation Group (AM Fresh Group) e chiunque si mettesse in mente di piantarlo altrove deve pagare i diritti. La legge spagnola (a garanzia dell’accordo) punisce con il carcere chi non rispetta l’esclusiva; un contadino valenciano si è beccato una multa oltre a 31 giorni di carcere per coltivazione abusiva di Orri. Di fatto Israele (con la multinazionale spagnola) ha il monopolio; usa le leggi europee per conservare l’esclusiva ma al tempo stesso distrugge gli agrumi palestinesi infischiandosene della normativa internazionale che dichiara di non riconoscere. Per uno strano scherzo della storia l’Istituto Volcani fu creato nel 1921 da Itzhak Elazari Volcani, un sionista nato in Lituania, emigrato in Palestina nel 1908 per sfuggire ai pogrom, socialista e collettivista, morto nel 1955, avversario fierissimo della destra nazionalista israeliana. Torniamo ora in Piazza Martini.

Discussione in piazza

La reazione nasce spontanea dopo aver saputo la provenienza del frutto: se viene da Israele non compro le clementine! Nasce subito una discussione animata davanti alla bancarella. Una signora interviene per prima: non ti piacciono perché ci sono i pesticidi velenosi? No! Non è per quello, non riuscirei a mangiare sapendo che è merce sporca di sangue. Il ragazzo al banco guarda sorpreso, non se lo aspettava, si sente coinvolto, pare quasi commosso. Vi capisco, avete ragione, dice, io sono qui per lavorare, vendo quello che mi dicono di vendere, ma avete ragione, non bisogna dare soldi a Israele, li usano per uccidere, per rubare la terra ai palestinesi. Si guarda intorno, teme orecchie ostili, ha paura di essere mandato via, poi sorride, approva. Intorno a Piazza Martini ci sono caseggiati popolari in cui abitano molte famiglie di immigrati, la solidarietà per il popolo di Gaza si respira nell’aria. Ci saranno sicuramente nel crocchio che si è formato sostenitori di Israele, o magari anche razzisti e perfino popolani resi ciechi dal rancore, dal bisogno, dal malessere sociale. Tuttavia tacciono vergognosi, consapevoli di essere in minoranza. Diventa un coro di voci indignate, di protesta convinta, di condanna della strage quotidiana di cui si stanno macchiando le truppe israeliane. Cade il silenzio indifferente, si incrina, sia pure (purtroppo) per poco, l’omertà complice che consente l’attuazione sistematica del genocidio a poca distanza dalle nostre abitazioni, sull’altra costa del Mediterraneo.

Un massacro finanziato

Il governo italiano manda/vende (poco cambia) armi usate per la strage continua. Il governo israeliano distrugge gli agrumeti dei palestinesi e coltiva, anche nei campi espropriati illegalmente, i frutti che vende nei paesi europei, usando il profitto (e i proventi di licenze concesse) per finanziare il massacro. I coloni che incassano il corrispettivo della Clementina Orri sono gli stessi che, protetti dall’esercito, bruciano case e campi dei contadini palestinesi. Intanto ai profughi della striscia viene tolto ogni sostegno alimentare, si impedisce con le armi l’arrivo di acqua, energia, medicine, vestiti. I paesi dell’Unione Europea, pronti a riarmarsi e a sottrarre fondi al welfare per costruire la guerra, assistono senza reagire. Non solo mandano strumenti di morte, non solo evitano sanzioni economiche, si guardano bene perfino dal disporre misure diplomatiche dissuasive, anche minime, come l’espulsione degli ambasciatori del genocidio. L’attuale ambasciatore israeliano a Roma, l’ufficiale dell’aeronautica Jonathan Peled, si dichiara assai soddisfatto della posizione assunta dal governo italiano e sostiene (come in fondo naturale) l’operato del governo in carica, compreso il blocco degli aiuti umanitari a Gaza. Un governo presieduto da chi dovrebbe essere arrestato, in quanto criminale di guerra, ove decidesse di visitare il paese amico!

Reagir bisogna

La specialista addetta alla comunicazione per UNICEF, Tess Ingram, nell’intervista rilasciata il 19 gennaio 2024, aveva rilevato che nei 105 giorni precedenti, durante l’invasione e il quotidiano bombardamento della popolazione nella striscia di Gaza, erano nate/i oltre 20.000 bambine/i. Il 2 aprile 2025 l’associazione Save the Children ha riferito che in media, senza ospedali e senza aiuti, nascono ogni giorno a Gaza 130 nuove creature (sono oltre 47.000 in un anno). Una resistenza e una resilienza incomprensibili per chi, come Trump, vorrebbe trasformare Gaza in una seconda Sharm El Sheikh. Tuttavia i soldati israeliani non desistono, perseguono il loro disegno omicida. È giunto il tempo di rompere il muro del silenzio, di fermare la strage. Di restituire la Clementina Orri al mittente rifiutando ogni complicità.

Cantava Rudi Assuntino: o forse si aspetta/la rossa provvidenza/per cui gli altri decidono/e noi portiam pazienza.


NOTA
Si veda, a questo proposito, la rete BDS – Boicotta, Disinvesti, Sanziona.




L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 22 maggio 2025


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La violenza del potere nudo

Pixabay.com

di Alessandra Algostino

È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità; genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio indifferente e complice. È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera forza.

Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.

È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora percepita come un disvalore.

Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.

I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti deportati in catene: è la violenza disumana del potere.

Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico, come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big del capitalismo digitale.

È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.

Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato; la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene prospettato è la guerra. La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello della guerra.

E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di un’Europa che da secoli

«non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon),

la rendono incapace di sfuggire all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico orizzonte.

Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia? Iniziamo a pensare possibile ciò che appare impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta spingerlo in su e respirare» (Krenak).

Pubblicato su il manifesto del 7 marzo 2025.

e su su Comune-info l’8 Marzo 2025

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Arrivati al dunque. Verso il punto di non ritorno nel crimine supremo della guerra

Immagine generata dall’intelligenza artificiale

di  Pasquale Pugliese

“L’idea di una guerra legale o, addirittura, giusta si basa sulla possibilità di controllare gli strumenti di distruzione, ma poiché l’incontrollabilità è parte di quella stessa capacità di distruzione non c’è guerra che non finisca per commettere un crimine contro l’umanità come la distruzione della vita civile”, scriveva la filosofa Judith Butler nel libro Regimi di guerra, del 2009 ma recentemente pubblicato in Italia da Castelvecchi. La guerra dunque è criminogena in quanto tale o, per dirla con le parole di Butler, “le guerre diventano forme permissibili di criminalità, ma non possono mai essere considerate non-criminali”. Il crimine della guerra sta subendo, nel tempo oscuro che attraversiamo, un salto di qualità negativa che – se non interrotto con un estremo sussulto di consapevolezza e responsabilità – porterà presto l’umanità ad un punto catastrofico di non ritorno, non solo a Gaza. Rispetto al quale i governi in carica delle cosiddette “democrazie liberali”, anziché moderare e frenare il processo distruttivo, costruendone le alternative nonviolente per risolvere i conflitti, pigiano sull’acceleratore dell’escalation. Che porta alla catastrofe etica, oltre che umanitaria.

A cominciare dal doppio standard con il quale, mentre contribuiscono ad alimentare una guerra senza quartiere né prospettiva in Europa, se non quella nucleare come segnaliamo fin dall’inizio – anziché promuovere un serio negoziato di pace con il presidente russo Putin, nei confronti del quale la Corte penale internazionale ha emanato un ordine di cattura per crimini di guerra – supportano con l’invio di armi mai interrotto il presidente israeliano Netanyahu, al quale, dopo oltre 45.000 vittime civili, il Tribunale dell’Aja ha riservato lo stesso trattamento, per crimini contro l’umanità. Ma in questo secondo caso, la reazione di gran parte di politica e stampa occidentali, alla notizia del mandato di cattura internazionale per Netanyahu, è risultata intrisa di comprensione e complicità con il criminale, anziché con le vittime palestinesi, con tratti di vero e proprio suprematismo di stampo colonialista. Che, peraltro, rinnega gli stessi valori della civiltà giuridica occidentale: che la legge sia uguale per tutti; che nessuno è al di sopra della legge; che i diritti umani sono universali; che non si risponde alla barbarie con una barbarie infinitamente superiore…Ma la coerenza è nemica di ogni fondamentalismo.

Del resto, fondamentalismo bellico è anche quello in corso nell’assurda guerra, sempre più globale, tra Nato e Russia – dopo oltre mille giorni dall’invasione russa dell’Ucraina e dieci anni di conflitto armato in Donbass, che ne è stato il presupposto – nella quale le vittime complessive (tra civili e militari, morti e feriti, russi e ucraini) sono stimate ormai in oltre un milione di persone. Guerra che l’Ucraina, che ne è l’avamposto, sta perdendo sul terreno, e che – invece di finire finalmente al tavolo delle trattative, dove ogni giorno che passa le potenziali condizioni per gli ucraini si aggravano – vede alzarsi l’asticella della follia con la discesa in campo dei missili statunitensi e franco-britannici a lunga gittata, che colpiscono fin dentro il territorio russo. E con l’uguale e contraria risposta russa con il missile ipersonico, per il momento armato in modalità convenzionale, ma che potrebbe evolvere nel nucleare e colpire – a sua volta – basi e città europee fornitrici di quei missili, ben oltre il territorio ucraino. Una corsa verso la catastrofe mondiale, che a parole nessuno vuole ma che tutti alimentano, secondo logiche non di diritto internazionale – che altrimenti varrebbero sia in Palestina che in Ucraina – ma volte a ribadire supremazie e aree di influenza planetarie, buttando sempre più benzina sul fuoco criminale della guerra.

E mentre la nuova “dottrina strategica” russa, appena varata, avvisa che potrebbe lanciare armi nucleari in risposta a un attacco sul suo territorio da parte di uno Stato non armato nuclearmente, se sostenuto da uno nucleare, dimostra che “la deterrenza nucleare, anziché garantire stabilità, alimenta insicurezze e tensioni crescenti proprie di una cultura di guerra” – come ribadisce Rete Italiana Pace e Disarmo – gli Stati Uniti, dopo i missili Atacms, hanno deciso di inviare in Ucraina anche le mine anti-persona. Ossia armi che mutilano e uccidono soprattutto i civili e per questo vietate dalla Convenzione di Ottawa fin dal 1997, sottoscritta anche dall’Ucraina, al contrario della Russia e degli USA. Il punto di non ritorno è, dunque, il ritorno agli orrori del passato, dall’uso delle mine alle armi nucleari, ma enormemente più distruttivi. Abbattendo progressivamente tutti i limiti al crimine supremo della guerra. “Nell’epoca delle armi nucleari, se non siamo noi ad abolire la guerra, sarà la guerra ad abolire la maggior parte di noi”, scriveva nel 1970 il politologo Karl Deutsch (Journal of the Conflict Resolution, 14): adesso siamo arrivati al dunque.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 29 novembre 2024

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Guerra e pace

di Gianni Giovannelli

Giorno per giorno

Si sgozza e si sbuzza,
si sbudella e si sbrana,
si spezza e si fracassa,
si fucila e si mitraglia,
si brucia e si bombarda.

Giovanni Papini
(Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai, Lacerba, 1 ottobre 1914)

Per sostenere l’intervento italiano nella Grande Guerra il fiorentino Giovanni Papini utilizzò un vocabolario assai colorito, provocatorio, nello stile futurista di Marinetti. Nell’articolo, da cui è tratta la citazione in esergo, si annuncia con entusiasmo che poteva considerarsi finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia, della pacioseria. Pace e coesistenza venivano bollate come caratteristiche di spiriti meschini, di persone codarde, come disvalori contrapposti all’audacia e al coraggio di chi puntava invece a combattere, a cancellare il nemico.  A differenza di Marinetti, tuttavia, Papini fu riformato, inabile al combattimento per via di una fortissima miopia. Il fronte rimase per lui soltanto un palcoscenico, nel quale si recitava uno spettacolo che non comportava conseguenze concrete sulla vita quotidiana e che anzi gli assicurava una gratificante visibilità, il consenso della pubblica opinione, il successo. Mentre i soldati crepavano nelle trincee questo celebre scrittore si nutriva di morte senza correre rischi. Poco importa che abbia poco dopo mutato questa sua percezione del conflitto, divenuto per lui, a posteriori, sulla scia di papa Benedetto XV, inutile strage; la conversione al cattolicesimo non fu infatti di ostacolo ad un convinto sostegno del fascismo, alla sottoscrizione dell’ignobile manifesto degli scienziati che preparò le leggi razziali, all’ingresso nell’Accademia d’Italia, l’istituzione che raccoglieva i più illustri sostenitori del regime mussoliniano. Non esiste contraddizione, per chi è avvezzo a comportamenti disinvolti, fra l’elogio della carneficina e il dichiararsi devoto al binomio Dio&Patria. L’importante è mantenere la certezza della propria superiorità.

La trascorsa vicenda umana di Papini ci consente di comprendere, qui e oggi, il complessivo comportamento dei parlamentari eletti in Italia e in Europa. Durante il governo Draghi una larga maggioranza (Forza Italia, Partito Democratico, Lega e Cinque Stelle), con il pieno appoggio della destra neofascista oggi al comando del nuovo esecutivo, ha brutalmente criminalizzato ogni tentativo volto a ricercare un ambito di trattativa, a trovare una qualche via di compromesso. La parola d’ordine valida per tutti era quella di combattere fino alla sicura sconfitta militare russa, sognando di processare Putin in un Tribunale Internazionale dopo aver spezzato le reni alle orde nemiche.  L’insediamento di Giorgia Meloni – con la prudentissima isolata critica dell’opposizione pentastellata – non ha mutato il quadro: la spedizione di armi all’Ucraina prosegue a tempo indeterminato, ogni forma di eventuale diplomazia viene considerata diserzione, il pacifismo equivale alla resa incondizionata, dunque al tradimento. Questi sono i guerrafondai del terzo millennio: agiscono nascosti nelle retrovie, ben protetti, ben pagati, con l’arrogante sicurezza di essere insostituibili, tecnici esperti del moderno nepotismo dentro una struttura economica fondata sul clan, giocolieri della comunicazione in ogni tornata elettorale, indifferenti di fronte a qualsiasi tragedia umana. Di Papini non hanno certo mutuato il fascino di una cultura sapientemente coltivata, si limitano a ereditare il peggio di quel mondo tramontato. Manca perfino, dentro la cabina di comando, una compiuta teoria della guerra nel terzo millennio. La chiamata alle armi si risolve in una sequenza di mosse disordinate, di programmi con un respiro, nella migliore delle ipotesi, soltanto trimestrale; nonostante il rischio concreto di uso sul campo delle bombe atomiche, con ogni imprevedibile conseguenza, quel che interessa davvero l’apparato che gestisce il potere è l’incremento di fatturato, nell’anno fiscale, dell’industria bellica, sia essa pubblica o privata. Il futuro non esiste.

Gaza e l’antisemitismo.

Mentre la guerra in Ucraina proseguiva incessante, prendendo tuttavia una piega non gradita o quantomeno difforme da quella indicata nelle previsioni, si è aperto un nuovo fronte, questa volta in Palestina e con caratteristiche diverse. Il ceto politico israeliano e palestinese, a differenza di quello che governa i paesi del G7, ha una consolidata dimestichezza con l’uso delle armi; non si limita, come fanno gli atlantisti, a ordinare e gestire sfracelli da comode postazioni ben protette, combatte proprio. I dirigenti politici di Gaza e Tel Aviv sparano, e, quando possono, si uccidono a vicenda. Se si comportassero diversamente, perderebbero credibilità, capacità di comando. Non possono non combattere; dunque non hanno alcuna intenzione di ascoltare inviti alla moderazione o, tanto meno, di cessare le ostilità. Gli uni e gli altri sono perfettamente consapevoli che ogni tregua è solo simulata: per imporla occorre una forza economico-militare superiore a quella di cui dispone Israele, ma non esiste alleanza disposta ad usarla sul campo. Anzi: prevale, per varie ragioni, la scelta di alzare ulteriormente il livello di scontro, senza badare a ciò che questo comporta per le vite umane e per l’ambiente nel suo complesso. Ucraina e Gaza determinano, giorno dopo giorno, effetti sinergici, soprattutto considerando la comparsa di nuovi focolai caratterizzati anch’essi da sviluppi imprevedibili. La propaganda si adegua: quel che in Ucraina veniva bollato quale complotto putiniano ora, con riferimento alle vicende di Gaza, si pretende di ricondurlo all’antisemitismo. In un caso il punto di partenza lo si individua nell’attacco russo del 24 febbraio 2022, nell’altro il riferimento è il  7 ottobre. Non esiste un prima, ogni spiegazione diviene giustificazione, chi non appoggia la risposta , o chiede pace, o, peggio, pretende di essere neutrale, deve essere considerato un alleato oggettivo dell’aggressore (o dell’antisemita) e trattato come tale.  In Germania quello che era già un pericoloso nervo scoperto ora è diventato una vera isteria collettiva: la deriva militarista dei Grunen, pronti a cogliere ogni occasione per alzare il livello di scontro armato senza curarsi delle vittime, si è saldata con il sostegno indiscriminato alla strage dei palestinesi di Gaza, concretandosi in una sorta di processo, pubblico e politico, contro chiunque sia sospettato di criticare il comportamento sul campo del governo israeliano o anche soltanto di invocare un cessate il fuoco.

Schierarsi per proteggere la vita dei palestinesi assediati a Gaza è un crimine da punire in quanto “oggettivo” antisemitismo. Anche la semantica lessicale cede, travolta dalla foga degli accusatori. Come gli ebrei anche i palestinesi sono, senza ombra di dubbio, semiti. Dunque sia i filo-israeliani, sia i filo-palestinesi (in quanto tali e a prescindere perfino dalla collocazione politica) sono filosemiti, definirli “antisemiti” è una evidente contraddizione; arabo ed ebraico sono lingue tipicamente semite. Turchi, russi, iraniani ed europei (compresi i tedeschi) sono invece giapetiti (qualcuno preferisce chiamarli japetingi, comunque si tratta di ceppo linguistico indoeuropeo). Ecco: i tedeschi antipalestinesi di oggi sono di nuovo “antisemiti”, pur con una variante etnica rispetto ai loro nonni antigiudaici. L’area territoriale in cui vivono – e muoiono – ebrei e palestinesi è una miccia accesa dentro una polveriera; invece di spegnerla gli esponenti del pensiero neocolonialista occidentale provvedono a tener viva la fiamma con ogni mezzo, con profondo disprezzo del futuro collettivo, pensando solo all’incasso nel trimestre successivo.

Migrazione e guerra

Il conflitto tende a diffondersi, quasi fosse in atto una sorta di contagio inarrestabile. Investe di nuovo Libano e Siria, non conosce tregua neppure nelle acque del Mar Rosso ove gli Houthi resistono agli attacchi e rendono poco sicura la navigazione verso il canale di Suez, con inevitabili contraccolpi sul commercio e sui costi della merce. Le conseguenze, mai prese in considerazione come possibili dagli arroganti uomini politici della vecchia Europa, si cominciano a far sentire. La carneficina prosegue da oltre un anno nel vastissimo Sudan (grande sette volte l’Italia, poco popolato, i 40 milioni di abitanti sono ormai allo stremo); centomila soldati RSF sostenuti da russi ed etiopi si battono contro trecentomila militi inquadrati nel SAF appoggiato dagli Emirati e dall’Egitto. Entrambi gli eserciti fanno strage di civili. Martin Braaksme, di Medici senza frontiere, riferisce sconsolato che nell’indifferenza generale si contano oltre 30 mila morti e che i profughi sono calcolati in circa otto milioni. Un quarto di loro ha varcato il confine dello stato, verso la Libia, il Centrafrica e soprattutto il Ciad. Due milioni di esseri umani, disperati e affamati, hanno superato una frontiera lunga oltre duemila chilometri, priva di strutture, incontrollata e incontrollabile; non hanno altra scelta, si dirigono verso la costa mediterranea, migrano per sopravvivere. Sotto la pressione degli sfollati scricchiola anche il Ciad, ultimo avamposto del colonialismo francese, ricco di oro e uranio, costantemente depredato; il governo militare mantiene ancora i mille soldati del contingente imposto da Parigi, ma la tentazione di svincolarsi si fa ogni giorno più forte, il ruolo di gendarme residuale di un ormai disciolto G5 africano sta diventando scomodo. Le truppe di Macron, nel frattempo, sono state estromesse dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso, dal Mali.

Nella storica base collocata a lato dell’aeroporto di Niamey, da tre settimane, accanto al contingente italiano (250 uomini) e tedesco, i russi hanno sostituito i francesi; e il Niger ha molto uranio che fa gola a tutti.  I mercenari della Wagner sono insediati stabilmente nel Sahel, addestrano gli eserciti nazionali, gestiscono le miniere. Per giunta la rendita francese connessa alla valuta di origine coloniale (il CFA) è ormai prossima all’archiviazione definitiva. Il 16 settembre 2023 è stata sottoscritta la carta di Liptako Gourma che prevede una nuova moneta autonoma nel Sahel (Eco e/o Afrik) e la chiusura degli accordi fiscali con la Francia (verrebbe meno l’obbligo di versare il 50% della riserva statale alla banca centrale francese e il redditizio passaggio forzato per Parigi della convertibilità CFA/Euro).

A fronte di questo disastro diplomatico militare Macron, che a differenza dei capi di governo africani non conosce la guerra e non sa neppure sparare, si è spinto fino a minacciare un intervento in Ucraina contro la Russia, colpevole di averlo sconfitto in Africa! Guerra, colonialismo e flussi migratori si confermano strettamente legati, ma i governanti europei faticano a comprenderlo. Giocano con il fuoco, con presuntuosa tracotanza, convinti che tutto sia loro consentito, sicuri di vincere sul campo perché vincono le elezioni. Ma la guerra e le urne poggiano su regole diverse. La certezza dell’impunità viene trasmessa dai funzionari del potere ai sudditi, con perverse conseguenze che cadranno proprio sui più deboli. Machiavelli, citando Lorenzo il Magnifico, osserva che i guai dei popoli provengono dai loro governanti: E quel che fa ‘l signor fanno poi molti, Che nel signor son tutti gli occhi volti. Grazie anche alla forza della comunicazione si è radicata la convinzione che non abbia ricadute sociali trasferire la spesa pubblica destinata all’antico welfare in armamenti destinati al fronte ucraino, reprimere la protesta studentesca e popolare contro i massacri in Palestina, criminalizzare i migranti e rinchiudere inutilmente nei CPR una quota di sbarcati, affamare le popolazioni africane e rapinarle di ogni risorsa. Non è così. Gli errori nell’agire provocano, prima o poi, inevitabili reazioni, e queste possono essere dolorose.

Il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunciò trionfante l’entrata in guerra, ricevendo gli applausi di una folla che correva incosciente verso il baratro, incontro al disastro. Il Duce sosteneva che il combattimento era necessario per proteggere il popolo italiano da chi voleva insidiare l’esistenza stessa della nazione; come la sua nipotina Giorgia Meloni prometteva di colpire il nemico in terra, in mare, nell’aria (il c.d. orbe terracqueo) con una parola d’ordine (vinceremo!) che ci ricorda molto da vicino la retorica odierna. L’irresponsabilità è la medesima.

Nuove caratteristiche della guerra

Nel 1999 Qiao Liang e Wang Xiangsui pubblicarono la prima edizione del loro trattato con una definizione, guerra asimmetrica, che costituiva una vera novità nell’ambito degli studi militari moderni. Il testo è ormai divenuto un classico e indica nella prima guerra del golfo (17 gennaio 1991) il punto di svolta. Negli ultimi trent’anni i conflitti sono proseguiti in modo strisciante, tuttavia senza mai una sosta. Anzi l’ampiezza dei territori insicuri o pericolosi va crescendo, sempre e costantemente, giorno dopo giorno; l’area in cui vige il tempo di pace si è assai ristretta, comunque coltivando al proprio interno contraddizioni di non poco conto (scontri etnici, attentati terroristici, discriminazioni razziali o legate alla religione). La deterrenza tradizionale, fondata sul timore dell’arsenale atomico, ha perso la forza originaria (quella che aveva risolto la crisi cubana, ad esempio). Nuovi paesi possiedono la bomba (Israele, Corea del Nord, Pakistan), altri si apprestano ad acquisirla; comunque l’accesso all’ordigno atomico appare meno difficile rispetto al secolo scorso. Durante la prima guerra del golfo furono i giganteschi costosissimi velivoli americani a fare la differenza; distruggevano dall’alto, irraggiungibili. Ancora oggi consentono una sostanziale supremazia, sono ad esempio il punto di forza dello stato d’Israele.

Ma con il passare degli anni si sono rivelati insufficienti; gli americani hanno ugualmente perso la guerra in Afghanistan, si sono dovuti ritirare insieme ai loro alleati lasciando il campo ai talebani che, almeno sulla carta, non avevano alcuna possibilità di spuntarla. Rastrellamenti, danneggiamenti e stragi non sono bastati, hanno ritardato ma non evitato la sconfitta. A ben vedere, dopo la guerra del golfo nel 1991, gli americani non hanno più vinto in nessun posto. Dunque non basta avere armi moderne e potenti; esistono altre variabili e possono, in determinate circostanze, risultare decisive. E’ un segno di come sia mutata l’essenza stessa del conflitto, divenuto davvero asimmetrico, soggetto a eventi imprevisti.

Il capo di stato maggiore russo, Valerj Vasilievic Gerasimov, pubblicò sul numero 8 del Corriere militare-industriale (27.2.2013) un articolo che conteneva riflessioni di notevole interesse sulla guerra moderna, osservando: nel XXI secolo c’è una tendenza a sfumare la distinzione fra guerra e pace. Le guerre non vengono più dichiarate e una volta iniziate non seguono più il modello a cui siamo abituati. E ancora: l’uso palese della forza, spesso sotto le mentite spoglie del mantenimento della pace o della gestione delle crisi, viene utilizzato solo fino a un certo punto, principalmente per ottenere il successo finale nel conflitto.

In effetti sono in corso solo guerre non dichiarate, ma non per questo meno sanguinose. Accanto allo spettro dell’ordigno atomico (magari solo tattico in via di sinistra mediazione filologica), ai missili e alle difese per neutralizzarli, ai carri e ai bombardieri d’alta quota, il combattimento riguarda i corpi, uno di fronte all’altro  in divisa, o tanti civili inermi in attesa della morte. Ma in Ucraina ha conquistato un ruolo da protagonista il drone, non quello di grandi dimensioni, quello piccolo invece, economico, maneggevole. Un mezzo destinato a utilizzi sempre più massicci, introducendo nello scontro quotidiano un elemento inatteso, a volte di sorpresa.

Un missile, peraltro spesso intercettato durante il volo, costa decine di milioni; di recente Ali Baba ha venduto (non si sa a chi) per 57.000 dollari un UAU ad ala fissa H250, adatto ad uso militare (poi si sono scusati). Peraltro con solo 179,99 dollari si compra su Amazon il Potensik 2,7K, con 60 minuti di autonomia, apparentemente innocuo ma (come le rivoltelle giocattolo) modificabile da mani esperte. Bande di mercenari possono partecipare a guerre non dichiarate con armamenti low cost; questo è un fatto, ed è anche un fatto nuovo. Giovani tecnici ucraini, in laboratori semiartigianali, servendosi di alta tecnologia, hanno creato software trasformando un drone di fabbricazione turca, il Bayraktar TB2, in un’arma efficace contro i russi. Ora funziona a pieno ritmo una variegata industria bellica nazionale, come la Aerozozvidka del colonnello Yaroslav Honchar, che non riesce a soddisfare l’ordinazione crescente. I droni ucraini si servono di radar e intelligenza artificiale forniti dall’americana Forte Technologies, sono fonte  di profitti in crescita; il drone UJ22 Airborne (a elica e benzina) ha un’autonomia di 800 chilometri, tocca 120 Km/h, è lungo 3 metri, pesa solo 85 Kg, economico, facilmente trasportabile con un furgone. Con 50 mila dollari si acquista anche l’ucraino Bober (castoro), velocità 200 km/h; porta un discreto carico esplosivo e non è semplice da intercettare per via del tragitto modificabile da remoto.

I russi, dopo i primi colpi subiti, hanno imparato presto la lezione sotto i colpi del nemico e preparato la risposta. L’Iran ha fornito il drone Shahed-136 (testimone 136), disponibile in grande quantità, a buon prezzo (probabilmente assai  meno dei 50 mila dollari di base, pagati magari in oro, comunque vanificando le sanzioni); si tratta di un vecchio modello già sperimentato con successo dai combattenti talebani e ora, nel Mar Rosso, anche dai militanti Houthi.  Con ala a delta di circa 2,5 metri, pesa 200 kg, raggiunge 185 km/h, basta un camioncino per il trasporto, monta un  motore a 4 cilindri copiato dalla tedesca Limbach, lo si guida a distanza con una semplice SIM per cellulari 4G. L’Iran ha aperto una fabbrica di droni in Tagikistan, hanno richieste da ogni fronte nel mondo. L’esame di uno Shahed abbattuto rivela le contraddizioni dell’economia globale di guerra: processore americano, pompa anglo-polacca, convertitore cinese.

Dal novembre 2023 si è evoluto nel modello Shahed-238, un turbo difficile da intercettare ma con il difetto di essere assai più costoso e per giunta esposto ai missili che lo tracciano. Si è affiancato poi il nuovo Lancet 3, prodotto dalla mitica Kalashnikov, con motore elettrico (il che impedisce le rilevazioni acustiche e termiche) ma con una limitata autonomia (solo 80 chilometri). La scelta del comando politico-militare russo è stata infine quella di produrre in casa una sorta di Shahed nazionale, chiamato Geran 2, reso più efficiente dell’originale grazie all’applicazione di tecnologie occidentali (e schegge di tungsteno in testata). La fabbrica di Alabuga (Tatarstan), aperta nel luglio 2023, impiega ora 2400 operai; entro l’estate del 2025 (fra meno di un anno) saranno pronti seimila droni, a basso costo, da lanciare, in lotti da 5,  svolazzando come farfalle senza linee rette, diretti contro le postazioni ucraine. Ancora una volta l’analisi del prodotto scopre i veli, emergono le contraddizioni del mercato globale: il Geran 2 prodotto in Russia, su licenza iraniana, contiene 55 parti americane, 15 cinesi, 13 svizzere, 6 giapponesi. In ogni caso si tratta di un affare di straordinarie proporzioni!

Solo dieci anni or sono i droni con scopo offensivo, e non soltanto ricognitivo, venivano prodotti a centinaia, non certo a migliaia; Alabuga segna un cambio di passo destinato a mutare il modo di fare la guerra. Una guerra non dichiarata ma potenzialmente diffusa, quasi endemica. Il drone trasportabile messo a punto nei laboratori ucraini e iraniani, a prescindere dalla differenza di modello, una volta prodotto in serie è idoneo a rimuovere i vincoli tradizionali, ad aggirare i limiti di azione; inserisce l’inatteso, pone le condizioni di una dialettica forza/sorpresa che si traduce inevitabilmente in innovazione bellica. Vedremo quali ricadute ci saranno negli altri focolai, Palestina compresa; non si può controllare ogni zolla di territorio, ogni insediamento, ogni vita umana.

Macron minaccia la Russia vaneggiando interventi militari; per il momento, nonostante l’atomica nei magazzini, si è però fatto cacciare dal Niger. Pochi giorni fa se ne è andato alla chetichella anche Biden, dopo l’intimazione di sfratto e l’arrivo di Wagner. Accanto a russi e iraniani, autocrati in sintonia con il governo insediato con il golpe anti-occidentale, rimane solo una piccola pattuglia italiana, al comando del generale Figliuolo, quello del Covid. Difficile comprendere a far che cosa!  Il Niger è grande 4 volte l’Italia, ma ha solo 26 milioni di abitanti e il tasso di natalità più alto del mondo (6,82 per donna), una popolazione giovanissima con una consolidata abitudine al combattimento e una gran voglia di futuro. Fermare il flusso migrante dal Sahel all’Europa, nonostante le urla neo-papiniane di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non pare cosa facile da realizzare in concreto. Infatti il numero degli sbarcati, provenienti dal Sudan e dai paesi del G5, non accenna a diminuire. Ma gli apprendisti stregoni, insediati nei governi europei, continuano a provocare, senza mai davvero riflettere sul significato sostanziale della guerra e della pace.

The scene dissolves, is succeded by a grinning gap, a growth of nothing pervaded by vaguerness [1].

NOTE

[1] La scena si dissolve, le succede un sorridente precipizio, una crescita del nulla pervaso d’incertezza

Immagine di apertura: Angelus Novus di Paul Klee, 1920

«Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l’angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso»

(Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, Tesi IX, in Gesammelte Schriften (Opere complete), a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp Frankfurt a. M. 1980, Volume I.2, p. 697)

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 13 maggio 2024

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L’UE può sopravvivere solo come progetto di pace e non come sussidiaria della NATO

Foto di worldbeyondwar.org

di Florina Tufescu – 
Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi. Revisione di Maria Sartori.

Dirigenti dell’Unione Europea, basta con il bellicismo!

L’ultimo sondaggio commissionato dal Consiglio Europeo per gli Affari Esteri (ECFR, un influente think tank in cui lavorano numerosi politici di spicco, funzionari dell’UE ed ex segretari generali della NATO) mostra che il 41% dei cittadini europei preferirebbe che l’Europa esercitasse pressioni sull’Ucraina affinché si impegni in negoziati con la Russia, rispetto al 31% che è favorevole a un continuo sostegno militare. Tuttavia, la conclusione dell’analisi del sondaggio, di cui è coautore il direttore dell’ECFR, è che i leader europei non debbano prestare attenzione alle opinioni dei cittadini, ma semplicemente riformulare e perfezionare il loro messaggio, sottolineando la preferenza per la “pace duratura” raggiungibile attraverso il proseguimento del conflitto, invece di una pace reale che potrebbe essere raggiunta già adesso mediante i negoziati.

Sappiamo dal capo della delegazione ucraina e leader del Partito al Servizio del Popolo, David Arahamiya, che i negoziatori russi “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo adottato – come fece una volta la Finlandia – la neutralità”. La proposta è stata respinta per la mancanza di garanzie di sicurezza e per il fatto che l’intenzione di aderire alla NATO era scritta nella Costituzione ucraina. Un successivo round di colloqui di pace nell’aprile 2022 è stato presumibilmente sabotato dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, secondo quanto riferito da più fonti, che includono ancora una volta il portavoce ucraino.

Da allora non è stato tentato alcun negoziato di pace, probabilmente perché il rischio di successo era troppo alto. La guerra deve continuare per giustificare l’espansione delle industrie militari degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. La spesa militare totale della NATO, che dovrebbe essere un’alleanza “difensiva”, ha raggiunto il massimo storico di 1.100 miliardi di dollari nel 2023. Secondo i dati forniti dal SIPRI, la spesa militare dei Paesi dell’Europa centrale e occidentale, che si sono auto dichiarati campioni della democrazia e della pace, è arrivata anch’essa al massimo storico, ovvero a 345 miliardi di dollari già nel 2022, in confronto alla Russia, una dittatura direttamente coinvolta nella guerra, che ha speso solo 86,4 miliardi di dollari per la difesa militare nel 2022, sempre secondo il SIPRI.

La guerra in Ucraina ha già causato centinaia di migliaia di vittime dal febbraio 2022, oltre ai milioni di rifugiati e il 30% del territorio ucraino contaminato dalle mine. Non si può permettere che questa tragedia continui solo per giustificare la crescita dell’industria delle armi, di cui i leader dell’UE sembrano ora decisi a fare uno dei punti chiave, con il commissario per il Mercato interno Thierry Breton che chiede altri 100 miliardi di euro di finanziamenti militari, in aggiunta a tutti gli impegni esistenti a livello UE e a livello nazionale da parte dei Paesi europei in quanto membri della NATO. Come il tricheco addolorato del poema di Lewis Carroll, i leader dell’UE e della NATO hanno mostrato la loro faccia più triste nel sottolineare l’inevitabilità dei preparativi per la guerra, pur non facendo nulla per ridurre il conflitto e mostrando la massima disinvoltura di fronte al rischio di escalation nucleare.

Le possibilità di porre fine alla guerra sono già note e sono state discusse negli accordi di Minsk e nei negoziati di pace di Istanbul. Gli accordi dovrebbero includere la neutralità dell’Ucraina e la garanzia dei diritti della minoranza russa in Ucraina, che sarebbe un modo molto più efficace di minare l’influenza di Putin invece di inviare altre armi.

Inoltre, l’UE dovrebbe sostenere gli obiettori di coscienza di Russia, Ucraina e Bielorussia. Il diritto all’obiezione di coscienza, sancito dall’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è attualmente riconosciuto dall’Ucraina e, sebbene sia legalmente riconosciuto in Russia per il personale non militare, secondo l’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza viene disatteso in circa il 50% dei casi.

Meno di 10.000 dei 250.000 russi che sono fuggiti dalla loro patria per evitare il servizio di leva, hanno ottenuto asilo nell’UE, nonostante l’appello lanciato da 60 organizzazioni già nel giugno 2022 (relazione annuale dell’EBCO, Agenzia Europea per l’Obiezione di Coscienza, pag. 3). Questa strada verso la pace non è stata dunque percorsa, presumibilmente perché i rifugiati pesano sull’economia senza alcun vantaggio per le cricche di potere, mentre l’industria militare è altamente redditizia per alcuni ed esercita un’influenza sempre più grandi sulle politiche dell’UE, come rivelano il rapporto Fanning the Flames pubblicato dal Transnational Institute e dall’European Network Against Arms Trade e il rapporto ENAAT (Rete Europea Contro il Commercio delle Armi“From war lobby to war economy” (Dalle lobby della guerra all’economia di guerra).

È giunto il momento per i leader dell’UE di recuperare un briciolo di credibilità dimostrando di essere disposti a fare almeno un modesto investimento nella pace e nei negoziati di pace, parallelamente all’investimento senza precedenti nei preparativi per la guerra. È ora che i leader dell’UE antepongano gli interessi dei cittadini europei e degli esseri umani in generale a quelli dell’industria bellica.

L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 9 aprile 2024 ed  è disponibile anche in: IngleseFranceseTedescoPortoghese

La foto è di Foto di worldbeyondwar.org 

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