carcere

L’Italia dei bambini in carcere

di Daniele Barbieri

La legge di bilancio aveva stanziato un fondo da 4,5 milioni di euro per sviluppare soluzioni di detenzione alternative al carcere: soldi da spendere in 3 anni. Eppure l’ultimo rapporto di Antigone, del gennaio 2021, conferma che ci sono ancora diversi bambini che nascono o restano dietro le sbarre con le madri e che è ancora possibile spezzare le famiglie.

Vediamo di capire qualcosa di più sull’Italia che oggi tiene bambine e bambini nelle galere ma anche su come a questo “sonno” si sia arrivati nel Paese che ipocritamente celebra sempre le madri. In coda troverete una chiacchierata con Marzia Belloli sul passato prossimo cioè sulla legge 40 del 2001 che affrontò la questione delle detenute madri e accese per un po’ i riflettori su questa vergogna.
Questo breve viaggio Inizia con i numeri attuali e con alcuni degli ultimi “fattacci”… anch’essi rimossi dopo pochi giorni di finto dibattito e misera informazione, proprio come accaduto per la bimba di Amra.

I numeri.
Secondo l’ultimo rapporto di Antigone al 31 gennaio 2021 erano 29 i bambini, 13 dei quali stranieri, in carcere con le proprie 26 madri. Erano alloggiati nell’Icam – la sigla sta per «Istituti a custodia attenuata per le madri» – di Lauro (8), in un altro Icam affiliato al carcere di Torino (6), nel carcere femminile di Rebibbia (5), nelle carceri di Salerno e Venezia (3), nel carcere di Milano Bollate (2) e nelle carceri di Foggia e Lecce (un unico bambino per ciascuna delle due strutture). Al 28 febbraio 2021 i bambini erano scesi ulteriormente a 27, con 25 detenute madri. «Siamo a uno dei minimi storici, se pensiamo che un anno prima i bambini in carcere erano 57 e che le presenze negli ultimi 25 anni sono rappresentate nel grafico seguente».
Minimo storico sì – nel 2018 erano 62 – ma uno “zoccolo duro” sembra proprio ineliminabile. Nonostante leggi, riforme, nuove proposte. Chissà come faranno in altri Paesi.
Il 23 gennaio 2021 sul quotidiano Repubblica Flavia Carlorecchio scriveva: «Sono ancora 28 bambini rinchiusi in cella con le loro madri in Italia. La nuova legge di Bilancio ha stanziato un fondo da 4,5 milioni di euro per sviluppare soluzioni di detenzione alternative»: soldi da spendere in 3 anni. Si stanziano spesso fondi in Italia (e i media strombazzano) per sanare le peggiori vergogne ma poi è difficile sapere se e come vengono spesi.
Daniela de Robert del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nell’articolo di Flavia Carlorecchio spiegava: «Di fronte all’emergenza imposta dalla pandemia, sono state prese delle misure per ridurre la pressione sulle carceri. Subito sono state alleggerite le pene inflitte alle madri con bambini al seguito. Questo significa che non era necessario che fossero lì».
Dunque se qualcosa si muove è “grazie” alla pandemia? Ancora la De Robert: «La soluzione ideale è quella di far scontare pene in strutture che assomiglino il meno possibile ad un carcere, affinché possano crescere i propri figli in un ambiente “normale”, accogliente».
La legge in vigore è la 62 del 2011. Prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino ai sei anni di età – salvo esigenze eccezionali – ovvero «Istituti a custodia attenuata per le madri» (ICAM) e case-famiglia protette. E’ assai opinabile che un Icam sia davvero “custodia attenuata” ma in ogni caso neanche questo si è riusciti a fare.
Ci sono proposte di riforma della legge 62-2011: ne parleremo magari in un’altra occasione. Perché per ora sono fiato e basta.

Il caso di Bologna
A proposito dei bambini in carcere anche nella “civilissima Bologna” commentando il secondo rapporto semestrale della Ausl (Carcere Bologna: il disastro permanente) Vito Totire nell’agosto 2020 scriveva: «irrisolto il problema dello spazio per una persona detenuta con bambino; irrisolto nel senso che, dopo tanti anni, ancora non paiono esecutive le norme che vietano la detenzione in carcere di bambini piccoli che devono invece essere ospitati, con le loro mamme, negli ICAM e/o comunque in una struttura alternativa al carcere e diversa a seconda della posizione giuridica della madre; di recente, ancora una volta, la Dozza ha ospitato una bambina di 4 anni, sia pure per pochi giorni! comunque, fino a quando esiste lo spazio per donna con bambino, lo spazio “rischierà” di essere occupato a discapito della strutture alternative extracarcerarie».
Passano pochi mesi e la direzione del penitenziario annuncia che al reparto femminile del carcere Dozza il 9 luglio sarà inaugurato un nido per ospitare di volta in volta fino a due donne coi loro figli. Non è d’accordo il garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli che fra l’altro dice: «Non è stata una sorpresa: il nido nei reparti femminili è una misura prevista dal 1975. La scelta di realizzarlo oggi appare tardiva se non anacronistica. La legge 62 del 2011 già riconosceva la fondamentale importanza della casa famiglia protetta, snodo fondamentale per garantire un riferimento abitativo alle madri con provvedimento di custodia cautelare o esecuzione della pena con i propri bambini» (vedi). Proteste, promesse. Poi il 9 luglio la direttrice Claudia Clementi inaugura il nido in gabbia con Gianfranco De Gesu, direttore della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap che dichiara: «Nessuno vuole vedere bambini in carcere, ma la legge lo prevede… L’augurio che voglio fare a questa struttura è che venga utilizzata il meno possibile. Speriamo che presto ci siano norme che la rendano non più attuale, e che dunque possa essere definitivamente superata. Tra nidi e Icam, negli istituti italiani ci sono 31 bambini e 27 mamme: l’auspicio è che presto si sancisca che un bambino non possa, nella maniera più assoluta, stare in carcere»
A molti sembra di capire però che la struttura inaugurata a luglio partirà soltanto in settembre (un ripensamento? pressioni ufficiose della Regione Emilia-Romagna?). Invece a fine luglio su www.zic si legge: «Ancora bambini costretti a vivere in carcere: nei giorni scorsi sono entrati in un istituto penitenziario dell’Emilia-Romagna due bambini di appena sette e di 17 mesi, insieme alle loro mamme (una per scontare una pena di 20 giorni, l’altra per un provvedimento di custodia cautelare). Lo segnalano la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Clede Maria Garavini e il Garante dei detenuti Marcello Marighelli, secondo cui questi due casi confermano che si continua ad assumere decisioni e a valutare situazioni senza tenere ben presenti le esigenze specifiche dei bambini connesse alla loro crescita e i diritti sanciti da norme internazionali e nazionali, in particolare l’interesse superiore del fanciullo che, come indicato dall’articolo 3 della Convenzione Onu, deve orientare tutte le scelte relative alle persone di minore età».

Le promesse, le alternative, una tragedia a Rebibbia
Il ministro Andrea Orlando aveva assicurato: «entro il 2015 più nessun bambino in carcere». Infatti.
La presenza di bambine e bambini in carcere viene segnalata dai “soliti appassionati” ma istituzioni e media non reagiscono.
Una discussione sul da farsi sembra accendersi nel settembre 2018 dopo una tragedia (una madre ha ucciso il figlio) quasi certamente evitabile; cfr Infanticidio di Stato nel carcere di Rebibbia. Purtroppo è il solito copione: sdegno (più o meno sincero) e informazioni poche, promesse tante ma fatti zero.
Dunqe l’alternativa casa-famiglia «protetta» è rimasta sulla carta. O meglio ne esistono solo due: una privata a Milano e a Roma «La casa di Leda» (A Roma InsiemeLeda Colombini) – voluta dal Comune – inaugurata nel 2017. Non è chiaro perché Amra non fosse lì….
E adesso?

Chi lo sa? E chi si ricorda di Sofia Loren.
Per finire vi do i risultati di un sondaggio (minimo, per carità) condotto, questa estate, fra 14 persone – di varie età – che ho scelto per essere le più “medie” possibili. Alla mia domanda se in Italia i bambini finiscano in carcere ho avuto in risposta 14 no. E alla seconda domanda («Ma se una detenuta è incinta al momento del parto rimane in carcere o esce?») ho avuto 9 «certo che esce», 2 «non lo so», 3 «dipende dal reato». Fra i 9 «certo che esce» una persona ha aggiunto: «ma tu che sei appassionato di cinema, ricordi quel film con Sofia Loren?». Me lo ricordo sì e mi aspettavo che qualcuno lo citasse. Nel 1963 Sofia – o Sophia se preferite – Loren recita in un film a episodi diretto da Vittorio De Sica. Il primo episodio («Adelina») – scritto da Eduardo De Filippo con Isabella Quarantotti – è ispirato alla storia vera della contrabbandiera napoletana Concetta Muccardi, che per non andare in galera ebbe 19 gravidanze, 7 delle quali finite con la nascita di figli. Radicatasi nell’immaginario popolare quella storia “conferma” che in Italia i figli piccoli non restano in cella con i figli piccoli; men che mai per reati lievi. Proprio così… ma accade soltanto nell’immaginario.

Quando la legge non c’era: un chiacchierata con Marzia Belloli
Ero a San Vittore nel gennaio 1996 con una bambina di 14 mesi dopo 2 anni di «differimento pena» per la maternità. Essendo io una “politica” mi avevano messo nella sezione penale (a pianoterra): cella singola con la bimba mentre le altre donne con figli stavano nel nido della sezione giudiziaria (in media potevano essere 5-6 bambini con molte donne rom che entravano e uscivano) che era un disastro con muri a pezzi: i bimbi uscivano un’ora al giorno con le mamme nel giardino del carcere per «l’aria».
Ho cominciato a protestare: da sola e poi con altre. Abbiamo detto «almeno migliorate il nido». Per fare un esempio le donne potevano uscire anche il pomeriggio all’aria, ma di fatto non ne usufruivano. Si ottenne di sistemare le piastrelle.
Ci furono incontri con il direttore: ragionando sull’idea di una legge (quella che poi diventerà “legge Finocchiaro”). Sembrava impossibile e invece nel giro di un anno circa qualcosa inizia a muoversi… Se ne occuparono anche alcuni giornalisti e quello aiutò.
Io allora uscivo in «lavoro esterno» portandomi dietro la bimba e ovviamente ne parlavo. Lavorando con la Comunità Nuova di don Gino Rigoldi ho cominciato ad avere documenti che in carcere non arrivano. E così scopriamo che esiste la “bozza Finocchiaro”.
Con un tot di donne formiamo a San Vittore un comitato per la legge. Poi scriviamo in giro – a onorevoli ma anche al cardinal Martini – con le nostre testimonianze… per chiedere che la bozza si concretizzi. Facemmo un convegno – per una settimana al Barrio’s – invitando tutta la gente che si occupava di carcere (da Leda Colombini al Naga, alla televisione svizzera).
Intanto a San Vittore inizia il «progetto Casina» con le volontarie: giornate aperte dove i genitori potevano incontrare le persone care con i bambini. Parte anche una raccolta firme (prima adesione Gino Rigoli ma anche Roberto Vecchioni e alcuni nomi famosi) di appoggio alla “bozza” che però non ebbe gran seguito.
Ci fu un incontro con «L’albero azzurro» (della Rai) in una scuola a Baggio per far giocare bimbi carcerati con altri. Ne parlò anche il settimanale «Vita», do atto che fu una iniziativa importante. Non l’unica comunque, ci fu anche una mostra.
Si ragionava di ottenere un luogo per la “custodia attenuata”. Si arrivò a una convenzione con la Regione Lombardia e con il ministero di Grazia e Giustizia ma poi tutto si fermò.
La “bozza Finocchiaro” aveva grandi difetti. La pecca più grave era escludere certi reati (per le mamme). Il nostro piccolo comitato fece proposte, segnalando: 1) la «legge Gozzini» era più avanti, dunque per alcuni versi si tornava indietro; 2) si considerava il lavoro più importante del bambino e dunque se lavoravi non potevi stare col figlio.
Si è arrivati a scrivere le modifiche e a chiedere che comunque il Parlamento lo mettesse in calendario. Passarono 3 anni.
Incontrammo anche Gloria Buffo (un’altra parlamentare dell’allora Pds, come Anna Finocchiaro) proponendo come migliorare la legge – si parlava di 8 anni poi la legge spostò l’età a 10 – e la “bozza Buffo” venne conglobata con quella della Finocchiaro.
Finalmente si mosse Franco Corleone e grazie al suo impegno la legge 40 venne approvata nel 2001.
All’epoca facemmo un “censimento” (autogestito) fra le donne di San Vittore: allora c’erano in media 30/40 bambini l’anno in carcere (Vedi qui) ma il problema grosso erano i tanti minori fuori ma con la madre o entrambi i genitori in carcere (e non riuscivano a vederli): mi ricordo che su un centinaio di donne al giudiziario – anche per reati minimi, nonostante la «legge Simeone» dicesse che si poteva uscire – circa 80 erano madri, metà (grosso modo) con figli all’estero e l’altra metà in Italia.


L’articolo è stato Pubblicato su COMUNE-info il 24 Settembre 2021

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Recuperare il valore delle proprie risorse

di Vincenzo Vincenzo Andraous
Il carcere può dire qualcosa di importante, può riappropriarsi della sua funzione di salvaguardia della collettività: “ dal carcere ci si può licenziare con merito, oppure rimanere detenuti per ripetizione, ma non si può ripetere  la stessa classe quando si è stati promossi a essere se stessi a pieni voti “.

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Una somma di ingiustizie della giustizia

di Vincenzo Andraous

Il pianeta dei resoconti filmografici, delle sintesi romanzate, a detta di tutti è una realtà drammatica, indescrivibile per disumanità e somma di ingiustizie della giustizia.
Il carcere è diventato un lazzaretto disidratato, dove è sempre più difficile impegnare la morale, l’etica, l’onestà dei valori auspicati, mentre è sempre più facile  sparare sulla croce rossa di un indulto concesso senza alcuna preparazione né formazione, tanto meno coperture finanziarie adeguate, peggio, rese inadeguate  dall’immobilismo burocratico.

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Nuova quotidianita’ del vivere civile

di Vincenzo Andraous

Ricordo le parole di  un grande Magistrato:, “ Il discorso sulla sicurezza è diventato un’ossessione, ma non bisogna aspettarsi la soluzione dei problemi da un maggior numero di caserme ( io aggiungerei di carceri ), e sebbene sia giusta e congrua l’azione delle Forze dell’ordine, non dovremmo mai perdere di vista l’essere umano, la fragilità della vita umana”.
Quando penso al carcere, mi viene in mente quel nobile russo dell’era zarista a nome Oblomov, di cui mi ha raccontato don Franco Tassone della comunità “Casa del Giovane “: era una brava persona, non fece mai male ad alcuno, tanto meno lo si sentì mai lamentarsi. Semplicemente, non faceva nulla, sopravviveva a se stesso, nel più totale disconoscimento del fare, così tutto ciò che gli apparteneva decadeva per usura del tempo e nell’introvabilità di una scelta.
Questo immobilismo è oggi denominato come la patologia dell’ oblomovismo.
Oblomov aveva un sacco di progetti, di architetture mentali, ma morì senza avere costruito nulla, lasciando ai posteri ruderi e miserie.
Sicurezza non è un ramo staccato dal vivere civile.
Sicurezza sta a significare il coraggio con cui affrontare l’insicurezza, che è anche e soprattutto solitudine e mancanza di relazioni umane.
Sicurezza non può essere lo strumento con cui chiedere alla giustizia penale di risanare ogni contraddizione.
Infatti per chi varca la soglia di un carcere, la pena avrà un termine, quella persona uscirà, ma tutto quello che viene prima e deve venire dopo, deve riguardare un intervento che coinvolga l’intera società.
Le scelte di politica criminale non possono essere dissociate da precise politiche sociali.  Se ciò non è, allora equivale ad ammettere, per tecnici del diritto ed editorialisti di fama, che reprimere e rinchiudere conviene assai di più che recuperare, rieducare, risocializzare.
Conviene, perché costa meno in termini finanziari, costa meno in risorse umane specializzate, costa meno in termini di ideali cristiani e democratici.
Infine, comporta meno rischi da correre, è inevitabile che sia così.
Eppure la storia è vita, e la vita non è uno slogan elettorale, ci rammenta cosa eravamo, chi siamo, e cosa vorremmo essere.
Un carcere a misura di uomo significa concedere la possibilità di rivedere con occhi e sguardi nuovi ciò che è stato, e soprattutto di intendere il proprio riscatto e riparazione, non come l’assunzione di un servizio statuale, che come tale rimane uno scarabocchio sulla carta, ma dovrà essere inteso come una vera e propria conquista di coscienza.
Rieducare non deve essere un traguardo per pochi privilegiati, ma una realtà costante, alimentata dalla capacità di mediare i principi del vivere civile alla quotidianità.
Ritengo non più dilazionabile l’urgenza di coniugare in modo autentico teoria e prassi, sicurezza e risocializzazione, in quanto entrambe le istanze sono elementi costitutivi della nostra collettività.
Forse, oltre la condivisione dei principi morali, i quali sono logicamente immutabili, sarebbe più consono e umano condividere le modalità e le sfumature, che invece  purtroppo cambiano sovente.

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A quale scopo una pena distruttiva e immutabile?

di Vincenzo Andraous

Come è possibile proporre di abrogare la legge Gozzini, una normativa che negli anni ha consentito di migliorare le persone in carcere, di fare davvero promozione umana, una prevenzione non fondata sulla vendetta, su quei sentimenti che non consentono giustizie sociali né pace per alcuno?
Perché è vero: la violenza regna dove l’ingiustizia ingrassa.
Conosco il sentire comune del “chi sbaglia paga” e la difficoltà a coniugare una giusta e doverosa esigenza di giustizia da parte della vittima di un reato, con una possibilità concreta di riscatto e riparazione in chi ha offeso l’altro.
Pagare il proprio debito alla società non può significare la creazione di una nuova dimensione di violenza, in una pena distruttiva e immutabile, che non consente di fare i conti con il peso delle proprie colpe, con le lacerazioni che hanno prodotto la rottura del vivere civile.
Quanto è difficile chiedere perdono in queste condizioni?
E quanto essere perdonati?
Ciascuno vive il suo presente in funzione delle scelte fatte nel passato, non per un sottile gioco delle maschere, ma perché le azioni del cuore, se non condivise, non consentono di essere scelte.
Allora ricostruirsi sottende capacità e forza per riparare al male fatto, richiama l’altro-gli altri ad accorciare le distanze, affinché l’uomo chieda perdono non con le parole, né con la pietistica abbinata alle più alte autorappresentazioni, bensì nei gesti ripetuti, nei comportamenti quotidiani.
Rimangono le responsabilità e gli abissi dell’anima, nulla è cancellato, niente è dimenticato, ma sentire dentro il bisogno di perdonarsi, di avere pietà di se stessi, indica la via maestra per l’altro bisogno: essere perdonati per ciò che si è nel presente, nella consapevolezza degli errori disegnati a ogni passo in avanti, condividendo quel bene comune che è intorno a noi.
Perdonarsi e chiedere perdono è voce che parla al cuore con note forti, per tentare di tramutare l’ansia e il dolore delle vittime in una riconciliazione che sia cambiamento fruibile per la collettività tutta.
Penso che una vendetta che ripara teatralmente non produca nulla di positivo, e neppure un carcere che mantenga inalterata la follia lucida di chi ha commesso un reato.
Accontentarsi di chiedere maggiore severità nelle pene da espiare, induce la persona detenuta a convincersi di aver pareggiato il conto, di aver pagato quanto dovuto.
Invece, riconoscere il bisogno di perdonarsi e perdonare, sottolinea l’urgenza di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e reciprocità, nell’accettazione di una possibile trasformazione e di un fattivo cambiamento di mentalità.
Cancellare la Riforma Penitenziaria o legge Gozzini?
A ognuno di noi spetta il compito di diventare un entronauta, un viaggiatore contempl-attivo, persino in carcere, in una pena finalmente accettata e vivibile.

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