Pasquale Pugliese

Ancora propaganda di guerra ed esaltazione della violenza sui media e tra gli intellettuali italiani

di Pasquale Pugliese

Sembrava che il dibattito italiano innescato dalla guerra russo-ucraina avesse esploso tutto il bellicismo possibile nel nostro paese e che stesse chiudendosi la stagione della caccia pubblica al “nemico interno” (in quanto “amico” del nemico esterno), come testimoniano le parole private della presidente del Consiglio Giorgia Meloni ai comici russi in cui dice, testualmente, “la verità”, ossia che “stiamo aspettando un qualsiasi negoziato affinché Ucraina e Russia fermino questo conflitto”, perché “siamo vicini al momento in cui tutti capiranno che abbiamo bisogno di una via d’uscita che possa essere accettabile per entrambi senza distruggere il diritto internazionale”. Quindi che c’è bisogno di un negoziato tra i governi russo e ucraino, come da sempre indicano i pacifisti di Europe for peace di fronte all’irrazionale retorica pubblica della “vittoria” che macina, invece, centinaia di migliaia di vite mandate al macello da entrambe le parti.

Invece non avevamo previsto la nuova ondata di bellicismo estremo, diventato presto esaltazione della vendettascatenato sui media nazionali dalla strage terrorista di Hamas del 7 ottobre e dalla rappresaglia infinita del governo israeliano (mentre scrivo siamo già ad un rapporto di uno a dieci tra vittime israeliane e vittime civili palestinesi, contandole solo dall’ultimo mese). Da un lato si riesumano le sempre verdi regole della propaganda bellica, usate non solo per convincere i recalcitranti cittadini italiani della necessità di sostenere ogni nuova guerra del “Bene”, per definizione, contro il “Male” – indipendentemente da quanto il bene faccia male schiantandosi con le bombe su vittime innocenti, spesso bambini – ma usate in funzione del gioco politico nostrano volto a indicare come amico dei nemici chiunque abbia non dico una visione complessa, anziché dicotomica, ma anche solo pietà per tutte le vittime, anziché per quelle di una parte sola. Dall’altro lato, per giustificare l’ingiustificabile, ossia il massacro in corso in Palestina ad opera di un governo “amico” che genera una catastrofe umanitaria ignorando le risoluzioni dell’ONU, “intellettuali” liberali di primo piano scrivono odi alla guerra che ricordano quelle del Futurismo: “guerra, sola igiene del mondo”.

La propaganda di guerra è un dispositivo antico quanto la guerra stessa codificato da Arthur Ponsonby, politico pacifista inglese, dopo la prima guerra mondiale, analizzando gli inganni messi in atto dalla propaganda di tutte del parti in conflitto. La storica belga Anne Morelli ne ha fatto una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare Usa dell’Iraq del 2003, nelle quali i Principi elementari della propaganda di guerra (2005) risultano confermati, adattati ai diversi contesti, per convincere le opinioni pubbliche di fronte agli enormi costi umani ed economici di ogni guerra. Ecco l’elenco: 1. Non siamo noi a volere la guerra, ma siamo costretti a prepararla e a farla; 2. I nemici sono i soli responsabili della guerra; 3. Il nemico ha l’aspetto del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); 4. Noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; 5. Il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; 6. Il nemico usa armi illegali, noi rispettiamo le regole; 7. Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; 8. Gli intellettuali e la stampa sostengono la nostra causa; 9. La nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); 10. Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono traditori. Elementi propagandistici reiterati sui media italiani, dalla guerra in Ucraina alla guerra in Palestina, da commentatori con l’elmetto in servizio permanente effettivo, spesso ignoranti nel merito dei conflitti.

Superati solo dai veri e propri elogi della guerra tout court di commentatori come Ernesto Galli della Loggia che sul Corriere della Sera del 5 novembre 2023 non solo rivaluta gli effetti collaterali di quella ”inutile strage” (papa Benedetto XV) che fu la prima guerra mondiale, dimenticando che i principali furono la nascita di fascismo e nazismo – oltre i sedici milioni di morti causati in quattro anni – ma esalta anche le stragi delle popolazioni tedesche nelle città che furono rase al suolo dai bombardamenti dei “buoni” durante la seconda guerra mondiale: ossia “uccidere anche civili innocenti, anche donne, vecchi e bambini, di uccidere per uccidere. Cioè di commettere quelli che attualmente almeno tre o quattro trattati e convenzioni internazionali definiscono crimini di guerra” (sic!). Obsolescente/mente, stragi “a fin di bene” che giustificano oggi i crimini di guerra israeliani.

Come se, da allora in avanti, proprio per evitare il ripetersi di quei crimini (che culminarono nella bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki) non fosse stato costituito dai “Popoli della nazioni unite” un Ordinamento e un Diritto internazionali proprio per “liberare l’umanità dal flagello della guerra”. Come se l’Italia, ispirandosi alla Carta dell’ONU non si fosse data una Costituzione che tra i Principi Fondamentali prevede il “ripudio della guerra” non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” ma anche come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionale”. Principi e mezzi di civiltà, dimenticati i quali, anziché “farli durare e dargli spazio” come direbbe Calvino, non rimane che la barbarie. Nella quale infatti stiamo precipitando.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 12 novembre 2023
La foto è di ArtTower da Pixabay 

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Superare la vendetta, ascoltare le vittime, disertare la compattezza culturale e religiosa

di Pasquale Pugliese

“E’ sempre possibile affermare: ‘Mi è stata fatta violenza, e ciò mi autorizza ad agire nel segno dell’autodifesa’. Molte atrocità vengono commesse nel segno di un’autodifesa che, proprio per il fatto di garantire una giustificazione etica permanente alla rappresaglia, non conosce alcun limite e può non avere alcun limite. Questa strategia ha sviluppato un’infinità di modi per ridefinire l’aggressione come sofferenza, e quindi fornisce infinite giustificazioni per trasformare quella sofferenza in aggressione.(…). La violenza non è ne una giusta punizione che subiamo, né una giusta vendetta per ciò che abbiamo subito”. Judith Butler, filosofa statunitense, ebrea e nonviolenta, scriveva queste parole nel 2005 in Critica della violenza etica, che tornano alla mente in questi giorni in cui la rappresaglia senza limiti, ossia la vendetta spietata, è tornata ad essere il nuovo paradigma dominante nelle relazioni internazionali.

Il 27 ottobre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a larga maggioranza la risoluzione che chiedeva una “tregua umanitaria immediata, duratura e sostenuta” ai bombardamenti israeliani, esortando alla “fornitura immediata, continua e senza ostacoli di beni e servizi essenziali ai civili in tutta Gaza, incoraggiando la creazione di corridoi umanitari”, oltre alla “revoca dell’ordine da parte di Israele di evacuazione dei palestinesi dal nord della Striscia” e, contemporaneamente, chiedeva “il rilascio immediato e incondizionato di tutti i civili tenuti illegalmente prigionieri”. Per tutta risposta il governo israeliano lanciava il più massiccio bombardamento sul territorio di Gaza, ancora in corso, seguito all’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre, con un numero di vittime che ormai raggiunge gli 8000 palestinesi – l’equivalente del genocidio di Srebrenica – di cui oltre 3.200 bambini certificati da Save the Children, in un tragico crescendo. Lo stesso giorno, alla dura contestazione della risoluzione da parte dell’ambasciatore israeliano all’ONU, si aggiungeva Mark Regev principale consigliere di Benyamin Netanyahu che dichiarava: “Hamas ha commesso crimini contro l’umanità e sentirà la nostra ira stanotte, la vendetta inizia stanotte”.

Ma la vendetta, sia quella messa in atto terroristicamente da Hamas contro civili inermi israeliani il 7 ottobre, sia quella che sta mettendo in atto il governo israeliano attraverso la rappresaglia indiscriminata che moltiplica le vittime civili palestinesi, è fuori dalle regole del diritto internazionale, che nasce esattamente per superare la logica tribale della vendetta. Diritto internazionale che viene retoricamente aggirato con il meccanismo propagandistico della “nazificazione” del nemico, ancora più pregnante quando si tratta dello “stato ebraico”: “la nazificazione degli oppositori di Israele è una vecchia strategia, che mette al riparo le sue guerre e le sue politiche espansionistiche”, scrive Adam Shatz sulla London Review of Books (da Internazionale 27 ott/2 nov 2023). Del resto era fuori dal diritto internazionale, e giustificata dalla medesima retorica di vendetta e nazificazione del nemico, anche l’aggressione statunitense all’Afghanistan dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, seppur oggi Biden sembra prendere le distanze da Netanyauh. La vendetta non solo è criminale per definizione, ma ha come effetto quello di preparare nuove contro-rappresaglie, in una spirale di violenza infinita da entrambe le parti, che alimenta il fuoco dell’antisemitismo e dell’islamofobia, allargando il contagio del terrorismo, della guerra e della sua ideologia sul piano regionale e mondiale.

Che la vendetta sia la strada sbagliata – eticamente, giuridicamente e strategicamente – è chiaro anche a molti parenti delle vittime israeliane di Hamas, i soli che pure sarebbero legittimati a nutrire questo tragico sentimento alimentato dal dolore e dall’odio. Lo riporta la giornalista israeliana Orly Noy nell’articolo Ascoltate i sopravvissuti israeliani: non vogliono vendettapubblicato anche in italiano su il manifesto (28/10/2023), la quale rileva che gli israeliani sopravvissuti ai massacri, o i cui parenti si trovano sequestrati a Gaza, stanno prendendo sempre più parola esprimendo opposizione all’uccisione di palestinesi innocenti. Emblematica, tra le altre, la voce di Michal Halev, madre di Laor Abramov, assassinato da Hamas, che in un video postato su Facebook ha gridato: «Sto pregando il mondo: fermate tutte le guerre, smettete di uccidere persone, smettete di uccidere bambini. La guerra non è la risposta. La guerra non è il modo di sistemare le cose. Questo Paese, Israele, sta attraversando l’orrore… E io so che le madri a Gaza stanno attraversando l’orrore… In mio nome, io non voglio vendetta». Lo hanno detto anche gli ebrei newyorchesi i quali, mentre l’esercito israeliano bombardava massicciamente Gaza e anche gli USA all’ONU votavano contro la risoluzione per la tregua umanitaria urgente, in migliaia occupavano e bloccavano la Grande Stazione Centrale, cantando e urlando “non in nostro nome” e “cessate il fuoco”, prima di essere arrestati, nella “la più grande manifestazione di disobbedienza civile che New York abbia visto da vent’anni a questa parte“, secondo gli organizzatori di Jewish Voice for Peace.

L’unica via d’uscita si trova dunque nel superare la logica aberrante della vendetta, lasciando spazio e tempo ai costruttori di ponti capaci di disertare la compattezza culturale e religiosa. Consiste nell’uscire dalla logica veterotestamentaria dell’occhio per occhio che “rende il mondo cieco”, come avvertiva Mohandas K. Gandhi, e fare quel salto di civiltà evocato dal cristianesimo, ma mai praticato dai governi che ad esso pure dicono di ispirarsi: “avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio”. Ovvero di non opporsi ad esso con i suoi stessi mezzi e strumenti, ma costruendone degli altri totalmente differenti, pena essere avvitati in un vortice di violenza mimetica senza fine. Dove infatti ci troviamo, ad ogni latitudine.

 

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 1° novembre 2023

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Senza responsabilità. Il mondo unipolare e semplificato di Jens Stoltenberg

di Pasquale Pugliese

Nell’incontro al Parlamento europeo dello scorso 7 settembre, Jens Stoltenberg ha fatto le seguenti dichiarazioni: “nell’autunno del 2021 il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la Nato firmasse l’impegno a non allargarsi più. Naturalmente non lo abbiamo firmato. Era la precondizione per non invadere l’Ucraina” – continua il Segretario generale della Nato – “voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la Nato dall’Europa Centrale ed Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Lo abbiamo rifiutato e lui è andato alla guerra, per evitare di avere confini più vicini alla Nato. Ha ottenuto esattamente l’opposto: una maggiore presenza della Nato nella parte orientale dell’Alleanza”. Non entro sul piano delle implicazioni geopolitiche di queste decisioni se non per osservare che, a parti invertite, sappiamo come avrebbero reagito gli USA se un’alleanza militare ostile si fosse avvicinata alle sue porte con dispiegamento di armamenti: nel 1961 l’umanità è stata sull’orlo di una guerra nucleare esattamente perché l’URSS aveva provato a portare i missili nucleari a Cuba; ne’ entro sulla questione – da alcuni ritenuta controversa – se ci fossero accordi verbali o scritti, dopo l’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, tra il presidente Gorbacëv e il governo statunitense sulla non espansione della Nato ad Est.

Sto sulle cose certe. Nonostante la conclusione della “guerra fredda” tra il 1989 e il 1991 abbia generato un nuovo assetto dell’Europa e del mondo, essa non è stata l’esito di una vittoria militare di una parte sull’altra, ma la conseguenza della convergenza delle azioni nonviolente dei popoli dal basso e dell’avvio del disarmo unilaterale voluto da Gorbacëv dall’alto. Essendo sfuggita al paradigma bellico come motore della storia che domina il pensiero politico impregnato di militarismo, nel quale la pace è solo considerata “negativa”, ossia fine della guerra, e non frutto di una specifica gestione nonviolenta dei conflitti come invece era accaduto in quel frangente, la fine della guerra fredda non è stata sancito da alcuna Conferenza internazionale di pace – come la fine delle precedenti guerre europee e mondiali – generando così interpretazioni differenti sul suo esito nei diversi protagonisti. E azioni conseguenti. Non a caso il 6 febbraio del 1992 Michail Gorbacëv, già premio Nobel per la pace ma ormai privo di ruoli di potere in Russia, su La Stampa di Torino scriveva: “Il presidente George Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo per anni nel clima della guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi di quel clima, tutti hanno vinto”. Oltre tre decenni di guerre, da allora ad oggi, dimostrano che non è andata così.

Alla luce di questo fatto è utile leggere le dichiarazioni di Stoltenberg dal punto di vista dell’etica politica che sottendono: nonostante si muovano in un mondo complesso e multipolare gli USA e la Nato agiscono come fossero in un mondo unipolare e semplificato, in base ai propri principi e interessi globali, disinteressandosi delle reazioni e delle conseguenze: è il dispiegamento dell’etica delle intenzioni. Ossia il contrario dell’etica della responsabilità che invece – soprattutto nell’epoca nucleare – impone di agire tenendo conto del contesto e degli effetti delle azioni, per prevedere, valutare e prevenire le prevedibili re-azioni ed “effetti collaterali”. Non ha caso, dopo Hiroshima e Nagasaki, sull’etica della responsabilità sono state fondate la Costituzione italiana e la Carta delle Nazioni Unite; scritti l’appello di Albert Einstein e Bertrand Russell per il disarmo nucleare e le lettere di don Lorenzo Milani ai cappellani militari ed ai giudici; elaborati importanti lavori filosofici da pensatori come Hans Jonas e Hannah Arendt, Aldo Capitini e Günther Anders, per citarne solo alcuni

Ma Stoltenberg, ignorando tutto ciò, continua il suo intervento al Parlamento europeo dicendo che “tutti vorremmo investire in qualcos’altro, ma il problema è che, a volte, bisogna investire in armamenti per assicurare la pace”. Ossia ribadisce anche l’obsoleto paradigma fondato sul pensiero magico del se vis pacem, para bellum. Non abbiamo mai speso tanto per preparare le guerre (2240 miliardi di dollari nel solo 2022) ed esse, infatti, dilagano ovunque (170 conflitti armati sul pianeta), perfino in Europa e non siamo mai stati così vicini alla mezzanotte nucleare (a soli 90 secondi, dice il Bollettino degli scienziati atomici; nel 1961 eravamo a 7 minuti). E’ necessario ribaltare, dunque, l’irrazionale paradigma che ancora guida le relazioni internazionali, costruendo e dando gambe e mezzi al paradigma opposto fondato sulla ragione: se vuoi la pace, prepara la pace. Trasformando anche lo strumento di misurazione dell’efficacia e sostenibilità delle guerre per “risolvere” i conflittti: non i metri persi o conquistati – “cento metri al giorno”, dice ancora Stoltenberg a proposito della controffensiva ucraina – ma le vite perse o, al contrario, risparmiate. Sarebbe un salto di civiltà, cioè di razionalità e responsabilità.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 12 settembre 2023

La foto è di 首相官邸ホームページ da wikimedia

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“Sono diventato morte, distruttore di mondi”. Oppheneimer, Moravia e il disarmo nucleare

di Pasquale Pugliese

“Sono diventato morte, distruttore di mondi” è un verso della Bhagavadgītā – il libro sacro dell’induismo – che, nel film di Cristopher NolanRobert Oppheneimer legge direttamente dal sanscrito e poi, quando a capo del progetto Manhattan assiste all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo con il quale il presidente Truman darà il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, gli ritorna in mente insieme alla consapevolezza. La visione del film a me ha riportato in mente un testo “inedito” di Alberto Moravia, autore peraltro già evocato recentemente, in riferimento alla guerra in Ucraina, da Dacia Maraini sul Corriere della sera dell’11 agosto e da Adriano Sofri sul Foglio del 23 agosto, seppur per considerare utopistico il suo impegno per rendere la guerra un “tabù”. Si tratta del testo di un intervento mai svolto al parlamento europeo, dove Moravia era stato eletto nel 1984, oggi inserito in appendice a L’inverno nucleare (a cura di Alessandra Grandelis, 2022), nel quale lo scrittore spiega come in una tragica eterogenesi dei fini, Hitler – che pure ha perso la seconda guerra mondiale – attraverso le armi nucleari realizzate e usate dai suoi nemici, a nazismo ormai sconfitto, in realtà ha vinto, lasciando l’umanità nell’incubo permanente di “morte e distruzione di mondi”. E’ questa la vera “reazione a catena” proiettata nel futuro, come dicono nel dialogo che chiude il film Oppheneimer ed Albert Einstein, che non a caso al progetto Manhattan non ha voluto contribuire in alcun modo.

<<Nei primi anni del dopoguerra>>, scriveva Moravia probabilmente nel 1987, <<la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba (…). Oggi vediamo che genocidio è sinonimo di guerra e violenza. Infatti la bomba, proprio per il suo carattere specifico di arma di strage di massa, si tira dietro la teoria nazista della soluzione finale, anche se chi ce l’ha si proclama in buona fede nemico del nazismo. Al processo di Norimberga>>, continuava lucidamente Moravia, <<la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della seconda guerra mondiale>>.

E’, in fondo, quella di Alberto Moravia, la stessa critica al principio del “fine che giustifica i mezzi” portata avanti dal pensiero nonviolento, da Mohandas Gandhi ad Aldo Capitini, perché i mezzi usati nei conflitti non sono mai neutri ma determinano e modificano i fini. Fino a trasformarli nel loro contrario, se ad essi incoerenti. La lettura di questo e degli altri scritti contro le armi nucleari di Alberto Moravia, può essere uno strumento molto utile per comprendere davvero la reale posta in gioco raccontata nel film di Nolan, al di là della pur complessa vicenda biografica di Oppenheimer: un gioco a somma negativa, ancora pienamente in corso, nel quale non possono esserci vincitori. In cui il mezzo della proliferazione delle armi nucleari impedisce e contraddice il fine della convivenza pacifica tra gli Stati e i popoli.

Il regista ha fatto la scelta stilistica di evocare senza mai mostrare le vittime delle due bombe atomiche sganciate sulle città giapponesi. Invece è necessario vedere, o almeno farsi raccontare, che cosa è successo ad Hiroshima e Nagasaki, per capire pienamente la vicenda narrata nel film. Non a caso gli scritti e l’impegno di Moravia contro la guerra sono anche l’esito di tre viaggi in Giappone, nel 1957, nel 1967 e nel 1982. Così come fu fondamentale il viaggio ad Hiroshima e Nagasaki nel 1958 per il filosofo Günther Anders, che ne scrisse il celebre “Diario” intitolato Essere o non essere, di cui è fondamentale leggere, per comprendere il nostro presente, anche le Tesi sull’età atomica del 1960 e il carteggio con uno dei piloti di Hiroshima, Claude Eatherly “l’ultima vittima” della bomba. Il maggiore finito nel manicomio militare sotto il peso – disconosciuto e nascosto dal sistema politico e militare USA – della responsabilità del male: come per Oppenheimer, anche sulla sua drammatica storia bisognerebbe, prima o poi, girare un film.

Visto il film di Nolan e lette almeno queste opere fondamentali di Moravia ed Anders, non rimane che trasformare l’indignazione e il senso di impotenza in azione, sostenendo attivamente la Campagna internazionale per il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) – la loro messa fuori legge invocata da Moravia – entrato in vigore nel 2021 e sottoscritto da 68 Stati. Ma non ancora dal nostro Paese e dalle potenze nucleari, le maggiori delle quali si fanno follemente la guerra sul territorio ucraino. Accusandosi reciprocamente, e non a torto, di nazismo.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni  il 27 agosto 2023

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La responsabilità del male. Le vittime di Hiroshima e Nagasaki, più una

di Pasquale Pugliese

Questo settantottesimo anniversario delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki si svolge a poco più di un mese dal quarantacinquesimo anniversario dalla morte di quella che fu definita dal filosofo Günther Anders “l’ultima vittima di Hiroshima”, ossia il maggiore Claude Eatherly comandante dell’aereo che al mattino del 6 agosto 1945, dopo aver sorvolato Hiroshima, diede il via all’operazione di sganciamento della bomba atomica. E’ una storia sostanzialmente oggi rimossa, che va raccontata ancora perché riguarda anche il nostro presente e il nostro rapporto con la guerra.

Ricordiamo brevemente i fatti. Sempre di più gli storici che hanno potuto esaminare i documenti desecretati riconoscono che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che piovesse le prima bomba atomica, e sicuramente prima che arrivasse anche la seconda, ma il presidente USA Harry Truman – che era da poco succeduto a Roosevelt – non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Mahanattan, guidato dal fisico Julius S. Oppenheimer – sul quale è in uscita in Italia l’atteso film di Critopher Nolan – e diede ugualmente il via allo sganciamento delle due bombe nucleari. “La vera posta in gioco” – scrisse Zygmunt Baumann su quella decisione – “può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: <<Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della Storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!>>” (vedi Le sorgenti del male, 2021). Tre giorni dopo la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki: 220.000 vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa altre 150.000 vittime successive per le conseguenze delle radiazioni nucleari. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.

Alla fine della guerra tutti i piloti degli equipaggi nucleari vennero celebrati in patria come… “portatori di pace”, ma Claude Eathery si sottrasse alle oscene cerimonie e cadde in una depressione dovuta al sovrastante senso di colpa per l’immensa distruttività dell’operazione militare alla quale aveva contribuito personalmente, seppur come ingranaggio di un meccanismo che lo sovrastava. La sua vicenda umana successiva alla guerra vide Eatherly compiere tentativi di suicidio e azioni di criminalità comune per essere riconosciuto socialmente colpevole, anziché eroe, finendo invece per essere considerato malato di mente e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico militare. Sempre più recluso e isolato, man mano che prendeva consapevolezza della necessità di gridare a tutti la propria colpa – e la necessità di espiarla – e con essa quella della macchina politico-militare che l’aveva resa possibile, accettabile e celebrata.

Questo processo di crescente chiarificazione etica individuale, che smascherava la violenza dei “buoni”, fu favorito e supportato anche dal carteggio con il filosofo tedesco Günther Anders che, venuto a conoscenza del “caso Eatherly”, avviò uno straordinario scambio epistolare con il pilota rinchiuso in manicomio che disvelò la dinamica della rimozione morale della responsabilità. “Il metodo usuale per venire a capo di cose tropo grandi” – scrisse Anders nella prima lettera ad Eatherly del 3 giugno 1959 – “è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa”. Non solo come meccanismo di difesa individuale ma, nel caso della guerra in generale e della guerra atomica in particolare, come meccanismo di difesa della comunità rispetto al senso di colpevolezza collettivo. Se malato di mente è colui che ne prova vergogna e dolore la politica e la società che lo hanno voluto e consentito ne risultano sane. Ecco perché i medici, scrive ancora Anders a Eatherly, “si limitano a criticare, invece dell’azione stessa, la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una <<malattia>> ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione un <<self-imagined wrong>>, un delitto inventato da lei” (vedi L’ultima vittima di Hiroshima, 2016).

Eatherly finirà i suoi giorni nel manicomio militare per essersi voluto assumere le proprie responsabilità in un contesto di generalizzata deresponsabilizzazione morale dei vincitori, “buoni” per definizione e per sempre. Non a caso, il carteggio tra il filosofo Anders e il pilota di Hiroshima era una delle letture che si svolgevano a Barbiana, dove don Milani insegnava che nell’epoca della distruzione atomica “l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Non a caso, mentre si ricorda la “banalità del male” di Adolf Heichmann, ossia il suo disimpegno morale, descritta da Hannah Arendt, è stata rimossa l’opprimente responsabilità del male di Eatherly, che ci mette di fronte alle nostre responsabilità. Soprattutto oggi che le potenze nucleari – invece di sottoscrivere il Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari (a 90 secondi dalla mezzanotte nucleare) e cooperare alla pace in un mondo in crisi sistemica globale – conducono una nuova incredibile guerra, fino all’impossibile “vittoria”, nel cuore dell’Europa.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 6 agosto 2023

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