Pasquale Pugliese

Senza responsabilità. Il mondo unipolare e semplificato di Jens Stoltenberg

di Pasquale Pugliese

Nell’incontro al Parlamento europeo dello scorso 7 settembre, Jens Stoltenberg ha fatto le seguenti dichiarazioni: “nell’autunno del 2021 il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la Nato firmasse l’impegno a non allargarsi più. Naturalmente non lo abbiamo firmato. Era la precondizione per non invadere l’Ucraina” – continua il Segretario generale della Nato – “voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la Nato dall’Europa Centrale ed Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Lo abbiamo rifiutato e lui è andato alla guerra, per evitare di avere confini più vicini alla Nato. Ha ottenuto esattamente l’opposto: una maggiore presenza della Nato nella parte orientale dell’Alleanza”. Non entro sul piano delle implicazioni geopolitiche di queste decisioni se non per osservare che, a parti invertite, sappiamo come avrebbero reagito gli USA se un’alleanza militare ostile si fosse avvicinata alle sue porte con dispiegamento di armamenti: nel 1961 l’umanità è stata sull’orlo di una guerra nucleare esattamente perché l’URSS aveva provato a portare i missili nucleari a Cuba; ne’ entro sulla questione – da alcuni ritenuta controversa – se ci fossero accordi verbali o scritti, dopo l’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, tra il presidente Gorbacëv e il governo statunitense sulla non espansione della Nato ad Est.

Sto sulle cose certe. Nonostante la conclusione della “guerra fredda” tra il 1989 e il 1991 abbia generato un nuovo assetto dell’Europa e del mondo, essa non è stata l’esito di una vittoria militare di una parte sull’altra, ma la conseguenza della convergenza delle azioni nonviolente dei popoli dal basso e dell’avvio del disarmo unilaterale voluto da Gorbacëv dall’alto. Essendo sfuggita al paradigma bellico come motore della storia che domina il pensiero politico impregnato di militarismo, nel quale la pace è solo considerata “negativa”, ossia fine della guerra, e non frutto di una specifica gestione nonviolenta dei conflitti come invece era accaduto in quel frangente, la fine della guerra fredda non è stata sancito da alcuna Conferenza internazionale di pace – come la fine delle precedenti guerre europee e mondiali – generando così interpretazioni differenti sul suo esito nei diversi protagonisti. E azioni conseguenti. Non a caso il 6 febbraio del 1992 Michail Gorbacëv, già premio Nobel per la pace ma ormai privo di ruoli di potere in Russia, su La Stampa di Torino scriveva: “Il presidente George Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo per anni nel clima della guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi di quel clima, tutti hanno vinto”. Oltre tre decenni di guerre, da allora ad oggi, dimostrano che non è andata così.

Alla luce di questo fatto è utile leggere le dichiarazioni di Stoltenberg dal punto di vista dell’etica politica che sottendono: nonostante si muovano in un mondo complesso e multipolare gli USA e la Nato agiscono come fossero in un mondo unipolare e semplificato, in base ai propri principi e interessi globali, disinteressandosi delle reazioni e delle conseguenze: è il dispiegamento dell’etica delle intenzioni. Ossia il contrario dell’etica della responsabilità che invece – soprattutto nell’epoca nucleare – impone di agire tenendo conto del contesto e degli effetti delle azioni, per prevedere, valutare e prevenire le prevedibili re-azioni ed “effetti collaterali”. Non ha caso, dopo Hiroshima e Nagasaki, sull’etica della responsabilità sono state fondate la Costituzione italiana e la Carta delle Nazioni Unite; scritti l’appello di Albert Einstein e Bertrand Russell per il disarmo nucleare e le lettere di don Lorenzo Milani ai cappellani militari ed ai giudici; elaborati importanti lavori filosofici da pensatori come Hans Jonas e Hannah Arendt, Aldo Capitini e Günther Anders, per citarne solo alcuni

Ma Stoltenberg, ignorando tutto ciò, continua il suo intervento al Parlamento europeo dicendo che “tutti vorremmo investire in qualcos’altro, ma il problema è che, a volte, bisogna investire in armamenti per assicurare la pace”. Ossia ribadisce anche l’obsoleto paradigma fondato sul pensiero magico del se vis pacem, para bellum. Non abbiamo mai speso tanto per preparare le guerre (2240 miliardi di dollari nel solo 2022) ed esse, infatti, dilagano ovunque (170 conflitti armati sul pianeta), perfino in Europa e non siamo mai stati così vicini alla mezzanotte nucleare (a soli 90 secondi, dice il Bollettino degli scienziati atomici; nel 1961 eravamo a 7 minuti). E’ necessario ribaltare, dunque, l’irrazionale paradigma che ancora guida le relazioni internazionali, costruendo e dando gambe e mezzi al paradigma opposto fondato sulla ragione: se vuoi la pace, prepara la pace. Trasformando anche lo strumento di misurazione dell’efficacia e sostenibilità delle guerre per “risolvere” i conflittti: non i metri persi o conquistati – “cento metri al giorno”, dice ancora Stoltenberg a proposito della controffensiva ucraina – ma le vite perse o, al contrario, risparmiate. Sarebbe un salto di civiltà, cioè di razionalità e responsabilità.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 12 settembre 2023

La foto è di 首相官邸ホームページ da wikimedia

“Sono diventato morte, distruttore di mondi”. Oppheneimer, Moravia e il disarmo nucleare

di Pasquale Pugliese

“Sono diventato morte, distruttore di mondi” è un verso della Bhagavadgītā – il libro sacro dell’induismo – che, nel film di Cristopher NolanRobert Oppheneimer legge direttamente dal sanscrito e poi, quando a capo del progetto Manhattan assiste all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo con il quale il presidente Truman darà il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, gli ritorna in mente insieme alla consapevolezza. La visione del film a me ha riportato in mente un testo “inedito” di Alberto Moravia, autore peraltro già evocato recentemente, in riferimento alla guerra in Ucraina, da Dacia Maraini sul Corriere della sera dell’11 agosto e da Adriano Sofri sul Foglio del 23 agosto, seppur per considerare utopistico il suo impegno per rendere la guerra un “tabù”. Si tratta del testo di un intervento mai svolto al parlamento europeo, dove Moravia era stato eletto nel 1984, oggi inserito in appendice a L’inverno nucleare (a cura di Alessandra Grandelis, 2022), nel quale lo scrittore spiega come in una tragica eterogenesi dei fini, Hitler – che pure ha perso la seconda guerra mondiale – attraverso le armi nucleari realizzate e usate dai suoi nemici, a nazismo ormai sconfitto, in realtà ha vinto, lasciando l’umanità nell’incubo permanente di “morte e distruzione di mondi”. E’ questa la vera “reazione a catena” proiettata nel futuro, come dicono nel dialogo che chiude il film Oppheneimer ed Albert Einstein, che non a caso al progetto Manhattan non ha voluto contribuire in alcun modo.

<<Nei primi anni del dopoguerra>>, scriveva Moravia probabilmente nel 1987, <<la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba (…). Oggi vediamo che genocidio è sinonimo di guerra e violenza. Infatti la bomba, proprio per il suo carattere specifico di arma di strage di massa, si tira dietro la teoria nazista della soluzione finale, anche se chi ce l’ha si proclama in buona fede nemico del nazismo. Al processo di Norimberga>>, continuava lucidamente Moravia, <<la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della seconda guerra mondiale>>.

E’, in fondo, quella di Alberto Moravia, la stessa critica al principio del “fine che giustifica i mezzi” portata avanti dal pensiero nonviolento, da Mohandas Gandhi ad Aldo Capitini, perché i mezzi usati nei conflitti non sono mai neutri ma determinano e modificano i fini. Fino a trasformarli nel loro contrario, se ad essi incoerenti. La lettura di questo e degli altri scritti contro le armi nucleari di Alberto Moravia, può essere uno strumento molto utile per comprendere davvero la reale posta in gioco raccontata nel film di Nolan, al di là della pur complessa vicenda biografica di Oppenheimer: un gioco a somma negativa, ancora pienamente in corso, nel quale non possono esserci vincitori. In cui il mezzo della proliferazione delle armi nucleari impedisce e contraddice il fine della convivenza pacifica tra gli Stati e i popoli.

Il regista ha fatto la scelta stilistica di evocare senza mai mostrare le vittime delle due bombe atomiche sganciate sulle città giapponesi. Invece è necessario vedere, o almeno farsi raccontare, che cosa è successo ad Hiroshima e Nagasaki, per capire pienamente la vicenda narrata nel film. Non a caso gli scritti e l’impegno di Moravia contro la guerra sono anche l’esito di tre viaggi in Giappone, nel 1957, nel 1967 e nel 1982. Così come fu fondamentale il viaggio ad Hiroshima e Nagasaki nel 1958 per il filosofo Günther Anders, che ne scrisse il celebre “Diario” intitolato Essere o non essere, di cui è fondamentale leggere, per comprendere il nostro presente, anche le Tesi sull’età atomica del 1960 e il carteggio con uno dei piloti di Hiroshima, Claude Eatherly “l’ultima vittima” della bomba. Il maggiore finito nel manicomio militare sotto il peso – disconosciuto e nascosto dal sistema politico e militare USA – della responsabilità del male: come per Oppenheimer, anche sulla sua drammatica storia bisognerebbe, prima o poi, girare un film.

Visto il film di Nolan e lette almeno queste opere fondamentali di Moravia ed Anders, non rimane che trasformare l’indignazione e il senso di impotenza in azione, sostenendo attivamente la Campagna internazionale per il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) – la loro messa fuori legge invocata da Moravia – entrato in vigore nel 2021 e sottoscritto da 68 Stati. Ma non ancora dal nostro Paese e dalle potenze nucleari, le maggiori delle quali si fanno follemente la guerra sul territorio ucraino. Accusandosi reciprocamente, e non a torto, di nazismo.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni  il 27 agosto 2023

La responsabilità del male. Le vittime di Hiroshima e Nagasaki, più una

di Pasquale Pugliese

Questo settantottesimo anniversario delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki si svolge a poco più di un mese dal quarantacinquesimo anniversario dalla morte di quella che fu definita dal filosofo Günther Anders “l’ultima vittima di Hiroshima”, ossia il maggiore Claude Eatherly comandante dell’aereo che al mattino del 6 agosto 1945, dopo aver sorvolato Hiroshima, diede il via all’operazione di sganciamento della bomba atomica. E’ una storia sostanzialmente oggi rimossa, che va raccontata ancora perché riguarda anche il nostro presente e il nostro rapporto con la guerra.

Ricordiamo brevemente i fatti. Sempre di più gli storici che hanno potuto esaminare i documenti desecretati riconoscono che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che piovesse le prima bomba atomica, e sicuramente prima che arrivasse anche la seconda, ma il presidente USA Harry Truman – che era da poco succeduto a Roosevelt – non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Mahanattan, guidato dal fisico Julius S. Oppenheimer – sul quale è in uscita in Italia l’atteso film di Critopher Nolan – e diede ugualmente il via allo sganciamento delle due bombe nucleari. “La vera posta in gioco” – scrisse Zygmunt Baumann su quella decisione – “può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: <<Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della Storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!>>” (vedi Le sorgenti del male, 2021). Tre giorni dopo la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki: 220.000 vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa altre 150.000 vittime successive per le conseguenze delle radiazioni nucleari. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.

Alla fine della guerra tutti i piloti degli equipaggi nucleari vennero celebrati in patria come… “portatori di pace”, ma Claude Eathery si sottrasse alle oscene cerimonie e cadde in una depressione dovuta al sovrastante senso di colpa per l’immensa distruttività dell’operazione militare alla quale aveva contribuito personalmente, seppur come ingranaggio di un meccanismo che lo sovrastava. La sua vicenda umana successiva alla guerra vide Eatherly compiere tentativi di suicidio e azioni di criminalità comune per essere riconosciuto socialmente colpevole, anziché eroe, finendo invece per essere considerato malato di mente e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico militare. Sempre più recluso e isolato, man mano che prendeva consapevolezza della necessità di gridare a tutti la propria colpa – e la necessità di espiarla – e con essa quella della macchina politico-militare che l’aveva resa possibile, accettabile e celebrata.

Questo processo di crescente chiarificazione etica individuale, che smascherava la violenza dei “buoni”, fu favorito e supportato anche dal carteggio con il filosofo tedesco Günther Anders che, venuto a conoscenza del “caso Eatherly”, avviò uno straordinario scambio epistolare con il pilota rinchiuso in manicomio che disvelò la dinamica della rimozione morale della responsabilità. “Il metodo usuale per venire a capo di cose tropo grandi” – scrisse Anders nella prima lettera ad Eatherly del 3 giugno 1959 – “è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa”. Non solo come meccanismo di difesa individuale ma, nel caso della guerra in generale e della guerra atomica in particolare, come meccanismo di difesa della comunità rispetto al senso di colpevolezza collettivo. Se malato di mente è colui che ne prova vergogna e dolore la politica e la società che lo hanno voluto e consentito ne risultano sane. Ecco perché i medici, scrive ancora Anders a Eatherly, “si limitano a criticare, invece dell’azione stessa, la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una <<malattia>> ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione un <<self-imagined wrong>>, un delitto inventato da lei” (vedi L’ultima vittima di Hiroshima, 2016).

Eatherly finirà i suoi giorni nel manicomio militare per essersi voluto assumere le proprie responsabilità in un contesto di generalizzata deresponsabilizzazione morale dei vincitori, “buoni” per definizione e per sempre. Non a caso, il carteggio tra il filosofo Anders e il pilota di Hiroshima era una delle letture che si svolgevano a Barbiana, dove don Milani insegnava che nell’epoca della distruzione atomica “l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Non a caso, mentre si ricorda la “banalità del male” di Adolf Heichmann, ossia il suo disimpegno morale, descritta da Hannah Arendt, è stata rimossa l’opprimente responsabilità del male di Eatherly, che ci mette di fronte alle nostre responsabilità. Soprattutto oggi che le potenze nucleari – invece di sottoscrivere il Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari (a 90 secondi dalla mezzanotte nucleare) e cooperare alla pace in un mondo in crisi sistemica globale – conducono una nuova incredibile guerra, fino all’impossibile “vittoria”, nel cuore dell’Europa.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 6 agosto 2023

Decostruzione del mito della violenza. Una ricerca sull’efficacia della resistenza civile

di Pasquale Pugliese

In un tempo nel quale non solo la guerra è tornata perfino in Europa, ma il bellicismo – ossia l’ideologia della guerra – ha assunto un’inedita centralità mediatica e politica nella storia repubblicana del nostro Paese, la traduzione in italiano dell’importante lavoro sulla resistenza civile della ricercatrice statunitense Erica Chenoweth Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile (2023) – grazie all’impegno di Angela Dogliotti del Centro studi Sereno Regis di Torino e delle Edizioni Sonda – rappresenta una contro-narrazione rispetto alla vulgata della inevitabilità dell’esito violento dei conflitti. Una vera e propria decostruzione di un mito. Questo volume è uno degli esiti dello studio ultra decennale, svolto insieme a Maria Stephan, sulla quantità ed efficacia delle lotte nonviolente nel mondo dal 1900 ai giorni nostri, una mappa sistematica e ragionata dell’evoluzione della nonviolenza nei conflitti degli ultimi 120 anni, i cui frutti ribaltano secoli di pensiero dominante, anche storiografico, secondo il quale solo “quando c’è guerra c’è storia” (Anna Bravo, La conta dei salvati, 2013). “La vita quotidiana” – scrive Erica Chenoweth – “è piena di innumerevoli racconti, film, miti e altri desiderata culturali che glorificano la violenza. E questa costante esaltazione della violenza serve anche a cancellare la straordinaria storia umana della resistenza civile e dei movimenti popolari che nel corso dei millenni hanno portato avanti battaglie nonviolente”.

Intanto la definizione pragmatica – come nello stile dei ricercatori statunitensi, a cominciare dallo storico lavoro di Gene Sharp The politics of nonviolent action (1973) – di resistenza civile: “la resistenza civile” – scrive Erica Chenoweth – “è un metodo di azione diretta in cui persone disarmate utilizzano diversi metodi coordinati, non istituzionali per promuovere il cambiamento senza fare fisicamente del male o minacciare di fare fisicamente del male all’avversario”. Ciò significa che la resistenza civile è un metodo attivo di gestione dei conflitti sociali e politici, che viene agita da cittadini che intenzionalmente rinunciano all’uso della violenza – non perché siano necessariamente (e capitinianamente, potremmo aggiungere) persuasi della superiorità morale della nonviolenza, ma perché la violenza è per lo più inefficace – e fanno uso di varie tecniche di disobbedienza civile (scioperi, proteste, manifestazioni, boicottaggi, costruzione di istituzioni alternative e molte altre raccontate nel documentato volume) nei confronti di leggi ingiuste, regimi oppressivi, occupazioni militari.

Poi i dati. Tra il 1900 e il 2019 sono state censite 627 campagne di lotta di massa, violente e nonviolente: 303 di queste sono state prevalentemente di carattere violento, 324 invece si sono affidate alla resistenza civile nonviolenta, di cui 96 solo nel decennio 2010-2019. Ebbene, mentre solo il 26% delle lotte armate hanno avuto successo, hanno raggiunto i propri obiettivi oltre il 50% di quelle nonviolente. “Si tratta di una percentuale sbalorditiva che invalida l’opinione diffusa secondo cui l’azione nonviolenta è debole e inefficace mentre l’azione violenta è forte ed efficace”, commenta Chenoweth, che elenca in appendice tutte le campagne degli ultimi 120 anni di storia, con i loro rispettivi esiti. Pur con la consapevolezza che le trasformazioni sociali e politiche non sono risultati che si ottengono una volta per tutte, ma è necessario l’impegno di più generazioni affinché siano consolidati, Chenoweth illustra i principali fattori di successo delle lotte nonviolente: la partecipazione, più ampia e diversificata è la base dei partecipanti ad una campagna di resistenza civile più è probabile che abbia successo (empiricamente si è visto che la massa critica è l’attivazione del 3,5% dei cittadini); le defezioni avversarie, la capacità di un movimento di far passare dalla propria parte i sostenitori del potere; la varietà delle tattiche, sono più efficaci le lotte che si esprimono attraverso una diversificazione delle azioni; infine, l’autodisciplina e la resilienza di fronte alla repressione.

Il punto di riferimento storico di tutte le forme di resistenza civile sono naturalmente le campagne gandhiane per l’indipendenza e l’autogoverno dell’India dall’imperialismo britannico, rispetto alle quali l’obiezione che viene posta sempre è che non avrebbero potuto funzionare contro un’eventuale occupazione nazista. Ma questa obiezione parte da due presupposti errati, spiega Chenoweth, che è il caso di ribadire ancora: “il primo è l’idea che quello istituito in India dall’Impero britannico fosse un sistema coloniale benevolo. Il secondo è che il regime di Hitler non abbia mai dovuto affrontare una resistenza nonviolenta e che abbia comunque annientato quella poca che trovò sul suo cammino”. La ricercatrice decostruisce ciascuno di questi presupposti, dimostrando sia la ferocia del dominio coloniale britannico e dei suoi eccidi, che le molte efficaci resistenze nonviolente – dalla Danimarca alla Norvegia, ma anche nella stessa Germania (per esempio le donne della Rosenstrasse, episodio raccontato anche in un film di Margarethe Von Trotta) – che sfidarono con successo il regime nazista.

Del resto, aggiungiamo infine, anche in Ucraina sono state censite da diversi centri di ricerca internazionali (per esempio dall’International Catalan Institute for Peace), molte azioni di resistenza civile da parte dei cittadini, soprattutto nei primi mesi di occupazione russa, ma sono state sommerse dal frastuono dalla narrazione dominante del governo ucraino, supportata dalla montagna di armi occidentali ed amplificata dall’”informazione” italiana, secondo la quale non c’è resistenza possibile al di fuori della guerra. Ovvero l’alimentazione forzata del mito della violenza.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 21 giugno 2023

L’obbedienza non è più una virtù: la più attuale delle lezioni di don Milani

di Pasquale Pugliese

[Intervista per l’agenzia di stampa Pressenza, a cura di Olivier Turquet, in preparazione della riflessione per i 100 anni di Don Milani che concluderà domenica 28 Maggio la seconda edizione di Eirenefest, il festival del libro per la pace e la nonviolenza]

Intanto un chiarimento: non sempre la figura di Don Milani viene associata alla nonviolenza, come mai secondo te? E puoi spiegare i legami profondi tra il priore di Barbiana e la nonviolenza?
E’ destino comune a molti personaggi, dirompenti nel proprio tempo, di essere trasformati in innocui “santini” nella narrazione pubblica successiva, come per esempio è successo a Martin Luther King negli USA: in Italia è accaduto a don Milani, che ha innumerevoli scuole a lui dedicate, ma del quale è andata persa la radicalità trasformativa del messaggio. Se c’è un ambito nel quale, invece, il suo insegnamento non solo ha resistito ma è stato generativo, è proprio nel mondo della nonviolenza, in particolare tra gli obiettori di coscienza. Generazioni di giovani nel nostro paese (tra i quali il sottoscritto, a suo tempo) si sono dichiarati obiettori di coscienza al servizio militare dopo aver letto gli atti del suo processo: la lettera incriminata ai cappellani militari e la successiva lettera ai giudici. Pubblicati in origine dalla Libreria Editrice Fiorentina con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù”, sono stati anche il quarto “Quaderno” di materiali di approfondimento pubblicato da “Azione nonviolenta”, la rivista fondata da Aldo Capitini, e negli anni più volte ristampato. Anche negli attuali percorsi di formazione generale rivolti ai volontari in servizio civile sulla storia dell’obiezione di coscienza, il riferimento a don Lorenzo Milani è imprescindibile. Per me, in quanto formatore di formatori, una lettura obbligatoria sulla quale svolgo lavori di gruppo con formatori e ragazzi. Il rapporto di don Milani con la nonviolenza è, dunque, strutturale, tanto su piano del contributo di idee e di impegno civile ed educativo, quanto sul piano dell’interlocuzione diretta con le figure di riferimento del movimento nonviolento italiano, a cominciare da Aldo Capitini, che fu più volte a Barbiana e con il quale fu progettato e stampato (seppur per soli quattro numeri) il “Giornale scuola”, una sorta di ipertesto ante litteram e artigianale.

Uno dei temi canonici pensando a Don Milani è appunto quello dell’obiezione di coscienza: lo puoi inquadrare storicamente?
La vicenda di don Milani e dell’obiezione di coscienza al servizio militare s’inquadra tanto all’interno della dimensione nazionale di quella storia – che, politicamente, aveva avuto inizio in Italia nel 1948 con il rifiuto della divisa da parte di Pietro Pinna – che nella specifica vicenda toscana, e fiorentina in particolare, dove era già stato condannato un altro sacerdote, Ernesto Balducci. Per la storia dell’obiezione di coscienza in Italia rimando all’ottimo libro di Marco Labbate, Un’altra patria (2020), qui preme dire che, sul piano nazionale, all’interno dello scenario della corsa agli armamenti tra Est e Ovest, dopo la Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli voluta da Aldo Capitini nel 1961, da Perugia ad Assisi, nacque il Movimento Nonviolento che aveva l’impegno per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza tra gli specifici obiettivi politici e da esso il Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN), guidato dallo stesso Pietro Pinna in azioni dirette nonviolente represse o attenzionate dalle questure di varie città d’Italia, tra il 1963 e il 1966. Nel 1962 c’è anche l’obiezione di coscienza, e il carcere, per il primo obiettore di coscienza cattolico, Giuseppe Gozzini.  A Firenze – che in quegli anni vede sindaco Giuseppe La Pira porre la pace al centro del suo mandato – la condanna di Balducci nel 1964, che in un articolo aveva difeso “il diritto di disertare”, aveva diviso la città. Ed è in questo clima che il quotidiano La Nazione pubblica il 12 febbraio 1965 il comunicato stampa dei cappellani militari in congedo della Toscana che definiscono “espressione di viltà” l’obiezione di coscienza, che vedeva in quel momento decine di giovani nelle carceri militari. La lettura di questo testo insieme ai ragazzi della Scuola di Barbiana, genera l’indignata lettera di risposta che, firmata da don Milani, verrà pubblicata dal settimanale comunista Rinascita. Le associazioni combattentistiche denunciano così il priore di Barbiana per “apologia di reato”. La sua auto-difesa al processo, al quale non potrà partecipare perché già ammalato, diventa la straordinaria Lettera ai giudici nella quale risponde sia “come maestro” che “come sacerdote”. Assolto in primo grado, don Lorenzo morirà prima del processo di appello voluto dall’accusa. L’eco della sua vicenda giudiziaria e la circolazione dei suoi scritti contribuirono in maniera significativa a costruire il clima culturale e politico che porterà al primo riconoscimento legislativo dell’obiezione di coscienza nel 1972.

Qual è il valore civile ed educativo, per noi oggi, della testimonianza di don Milani su questo tema?
Nella risposta ai cappellani militari c’è una rimessa in discussione dell’angusto concetto nazionalista di patria, del quale – dice – un giorno “i nostri figli rideranno”. E lo scrive con quelle parole nitide e scolpite che hanno un valore universale: “se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, in non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Aggiungendo un passaggio fondamentale sulla scelta dei mezzi, che è tema centrale della nonviolenza: “le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Aggiunge poi un ripasso – alla luce del rasoio di Occam degli articoli 11 e 52 della Costituzione italiana – di tutte le guerre italiane dall’unità alla seconda guerra mondiale, dimostrando come i soldati avrebbero dovuto sempre obiettare anziché obbedire. E se c’è stata una “guerra giusta (se una guerra giusta esiste)”, specifica, è stata proprio quella combattuta da coloro che hanno disobbedito al fascismo, anziché obbedire, facendo la Resistenza. Una lezione civile, condivisa con i suoi ragazzi, in questa scrittura collettiva che anticipa la più famosa Lettera ad una professoressa. Che continua nella Lettera ai giudici, ai quali spiega la differenza tra il tribunale e la scuola: i giudici devono applicare le leggi esistenti, la scuola invece “deve condurre i ragazzi su un filo di rasoio; da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico”. Per questo è necessario educare anche alla disobbedienza, quando le leggi sono ingiuste. E’ il criterio universale del valore formativo e costituente dell’obiezione di coscienza, rispetto alla quale don Milani rivendica le letture fatte con i ragazzi: da Socrate ai Vangeli, da Gandhi alle lettere tra uno dei piloti di Hiroshima e Günther Anders. Ossia la scuola come laboratorio permanente e incarnato di educazione civica – anche attraverso l’esempio personale del maestro portato fino in fondo – per compiere scelte consapevoli e responsabili: “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Oggi, di fronte al rischio mai così vicino di una guerra nucleare ed al riarmo ed al bellicismo dilaganti anche nel nostro paese, è una lezione da ribadire ovunque. Ogni giorno.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 12 maggio 2023

Foto di Oliviero Toscani da wikimedia