Cultura
Uscire dal letargo con mediazioni creative. L’«educazione sentimentale al patrimonio culturale» di Tomaso Montanari
di Maria Concetta Sala – Redazione Italia
Con una certa amarezza non si può che constatare il disastro causato da un atteggiamento sempre più dilagante di adattamento agli stravolgimenti che da diversi anni piovono dall’alto della gestione pubblica e intaccano i residui legami tra gli esseri umani e i fragilissimi tessuti comunitari. In un disordine che sembra non lasciare vie di uscita dai continui squilibri apportati dalla sete di potere e di profitto e dallo smantellamento delle garanzie a tutte le cittadine e a tutti i cittadini di accedere ai servizi fondamentali, queste forme di assuefazione alle condizioni attuali sfociano spesso sotto i nostri occhi nell’indifferenza, erigono muri che separano, ostruiscono menti e cuori finendo così con l’attivare ossessive mediazioni meccaniche che hanno lo svantaggio di farci cadere e ricadere in acque stagnanti, dove si pescano le solite trite soluzioni spacciandole per nuove e aggravando di fatto lo stato delle cose.
Qui e ora occorrerebbe invece respingere questa logica alienante e disumanizzante che ci rende tutte/i subalterni servili ideando proposte originali e attingendo risorse vitali che permettano di porre un freno alle ingiustizie e di tenere vive le relazioni con le altre e gli altri. In altre parole, al contrario di quanto accade tutt’intorno, necessitiamo meno di tecnicismi e più di mediazioni creative, di vere e proprie opere d’arte da plasmare nel laboratorio vivente dell’essere al mondo individualmente e dello stare nel mondo con altre/i. Si tratta di una questione che investe le e i singoli in tutti gli ambiti e spazi della convivenza sociale; si tratta di spegnere le passioni tristi e di svegliarsi alla realtà delle cose e a una realtà autentica che non è di questo mondo; si tratta di cogliere e assaporare con gioia il vivente, di trarre energia dalle bellezze che ci circondano – materiali e immateriali – e di riversarla nella cura dei beni comuni naturali e culturali, una cura che può restituirci «l’amore necessario a coltivare ciò che in noi è ancora umano», come scrive lo storico dell’arte, nonché rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari nel suo libro Se amore guarda, in cui propone Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale (Einaudi, 2023).
Donne e uomini che abitano i territori del mondo, non clienti o spettatori
Da decenni assistiamo a una destinazione d’uso dei beni culturali comuni che in luogo di tutelarli ne fa beni-merce a fine di lucro, senza capire che in questo modo procuriamo un danno alla funzione che essi hanno in seno alle comunità piccole o grandi in quanto patrimonio avente valore di civiltà, nel rispetto dell’art. 9 della Costituzione ( «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione») e come del resto si legge perfino nel «Codice dei beni culturali e del paesaggio» del 2004. Le scelte politiche in materia sono andate e continuano ad andare in direzione opposta, basta pensare alla riforma del Ministero dei Beni Culturali del 29 agosto 2014, « ispirata a un principio “consumista”, che cioè i nostri musei non incassino abbastanza, e non nata da una disamina legittima degli eventuali errori di conduzione di soprintendenti e direttori», come sottolineato dal critico bolognese Umberto Barilli; una riforma secondo Salvatore Settis all’insegna del Non più cittadini, ma clienti o spettatori, diretta più alla valorizzazione delle imprese e dei «negoziati in penombra fra poteri politici ed economici» che alla tutela dei beni culturali e paesaggistici. Vale la pena di continuare a porre queste domande: ha avuto un senso «riorganizzare le Soprintendenze» mentre veniva smontata «la loro competenza più importante, la tutela del paesaggio»? ha avuto un senso farlo per di più «al ribasso, cioè con le forche caudine di una spending review»? E con quale risultato? Questo: «un balletto di poltrone, una danza di etichette, un calo di funzionalità e di efficienza».
Prima di entrare nel merito della proposta di Tomaso Montanari, mi preme evidenziare anche gli effetti di un’altra disgraziatissima riforma, quella della ministra Gelmini, allora berlusconiana, che ha demolito l’università italiana secondo un procedimento analogo (abolizione delle Facoltà rinominandole Dipartimenti, introduzione di macchinose procedure di reclutamento, decimazione delle cattedre, ulteriore precarizzazione degli insegnanti, taglio dei fondi per la ricerca con la conseguente fuga delle giovani e dei giovani all’estero, dove hanno trovato condizioni di vita e di lavoro degne e dignitose). E non tralascio di richiamare alla memoria la scellerata «valorizzazione in salsa franceschiniana» delle nostre Biblioteche pubbliche tesa a disperdere il tesoro lì custodito. Ebbene, se abbiamo davvero a cuore la tutela e la conservazione del nostro patrimonio culturale e ambientale, non potrà che essere benefico rivoltarsi e scrollarsi di dosso il peso dell’assuefazione, uscire dalla condizione di letargo, impegnarsi in un mutamento di visione, battersi concretamente contrastando la deregulation selvaggia della sua tutela, rilanciando le Soprintendenze come enti di ricerca territoriale, richiedendo investimenti adeguati e non balletti di poltrone, assunzioni di giovani di qualità e non un personale raccattato come capita capita, per poterlo sottopagare o non pagare affatto…
Amore, sguardo, corpo/corpi
Ha ragione Montanari nel commentare la recente vicenda della Madonna di Santa Fiora di Luca della Robbia rientrata in Italia dopo l’acquisto da parte dei nuovi proprietari, i coniugi Esteves, e conservata nella loro tenuta di Argiano nei pressi di Montalcino, non lontano da Santa Fiora: «Il patrimonio culturale è una geografia di cicatrici, di perdite, di sottrazioni ma è anche dunque un corpo da curare e ogni piccolo intervento di cura, come questo, ci permette di capire il grande amore che tutti abbiamo per quello che chiamiamo, in un modo un po’ astratto, patrimonio culturale ma che è, in realtà, il corpo più grande a cui tutti i nostri corpi appartengono. Questo risarcimento, questo atto di cura e di amore è quindi un modo diverso per vedere e per guardare quello che costantemente abbiamo sotto gli occhi. Per questo è davvero importante», conclude, la mostra in corso nel borgo amiatino, occasione per una fruizione pubblica, anche se temporanea.
La triade amore, sguardo, corpo/corpi costituisce la cuspide di congiunzione delle diverse riflessioni che in modo fluente si dispiegano nelle pagine dell’ultima fatica di Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un titolo azzeccato per «una preghiera a voce bassa in una chiesa amica» (p. VIII), la cui fonte è nell’asserzione di Carlo Levi – «se gli occhi guardano (se amore guarda), essi vedono» – presente in un saggio destinato ad accompagnare gli scatti in bianco e nero degli anni Cinquanta del fotografo ungherese János Reismann e pubblicato nel 1960 da Einaudi con il titolo Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia. Questa asserzione dà la chiave con la quale leggere il volume, direi anzi l’intero filo che da anni Montanari avvolge intorno a un’altra Italia che può essere resa visibile soltanto da uno sguardo amorevole.
Lo dimostra il riferimento dello storico dell’arte già nel lontano 2016 al libro di Levi a proposito della Val di Susa in un suo breve scritto che si flette poi sulle tante «violenze inflitte a questa terra dal grumo di interessi che si chiama Tav» e in particolare sull’«immagine falsa di una guerra permanente», dando notizia di un piccolo progetto partito dall’abbazia di Novalesa intorno agli spazi del sacro e al patrimonio culturale religioso e orientato a mostrare ai «nuovi valsusini venuti dal Maghreb o dalla Romania» un volto dell’Italia come esito del lento lavorìo di «acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione italiana» nelle quali nuotare, un volto dunque non fissato in radici identitarie a cui vincolarsi. Un’Italia in definitiva non fondata sul sangue ma sulla varietà dei paesaggi, ovvero sulla pluralità dei territori trasformati dalla storia.
E dalla «felicissima agnizione» dell’autore di Cristo si è fermato a Eboli Montanari trae ispirazione per svelare che il significato da attribuire al patrimonio culturale non consiste solo nell’«insieme di ciò che si è fatto lungo i secoli», giacché vi si racchiude anche «ciò che lungo quegli stessi secoli si è visto» (p. 45). E ciò che si è visto dipende dal modo in cui si è guardato e si guarda. Oggi probabilmente più che in passato – ma non ne sarei proprio sicura – uno sguardo educato a recepire l’invisibile e l’inudibile potrebbe più facilmente accogliere nella propria visione i tanti fragili e feriti, i tanti senza storia marginali, i cui nomi sono rintracciabili nei documenti degli archivi, seppure alla condizione dettata da Aby Warburg: se lo storico «non sdegna la fatica di ricostruire la naturale unità fra parola e immagine», unità che Montanari definisce come «l’essenza stessa del patrimonio culturale» (p. 51).
Emotivamente coinvolgente per me che scrivo da una Sicilia devastata dai fuochi del luglio 2023 ho trovato il riferimento a Aidone, il piccolo comune in provincia di Enna, dove insieme ai tantissimi reperti provenienti dall’area archeologica di Morgantina è conservata e venerata «una dea scolpita nella pietra di quei luoghi, ma nello stile di Fidia, avvertendo che il mito, e la Grecia, sono proprio lì»(p. 87). E ancora più toccanti sono le pagine tratte dal racconto dello scrittore ucraino-russo Vasilij Grossman dedicate alla Madonna Sistina di Raffaello tratte da Il bene sia con voi! (Adelphi, 2011): «… chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela, profonda e indistruttibile, ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie. […] La Madonna con il bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità. […] Ogni epoca fissa lo sguardo su questa donna con il bambino in braccio, e fra esseri umani di generazioni, popoli, razze e secoli diversi si instaura un senso di fratellanza, dolce, commovente e doloroso insieme. […] La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni, sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta…» (pp. 91-92).
Sulla scia di Grossman e di altri critici d’arte come pure di filosofe/i, scrittrici e scrittori, poeti/e, Montanari attribuisce in definitiva al patrimonio culturale, all’ «educazione sentimentale» alla sua fruizione la possibilità di sospendere il tempo dell’immediatezza, di sostare nella contemplazione, di entrare in contatto con la potenza della vita, «con la forza dell’umano», in una comunione tra vivi e morti; attribuisce la possibilità di dare un nuovo significato alle cose, di riappropriarsi del senso della misura e del limite, di «liberarci delle scorie mortifere della volontà di potenza, tendendo all’essenziale, a ciò che è rimasto» (p.99), e di avvertire attraverso «le pietre, l’aria, le figure, la storia e le storie che ci avvolgono […] che c’è qualcosa che ci trascende, qualcosa che supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate» (p.100), la possibilità che le cose belle penetrino in noi per osmosi, come accadeva a Simone Weil durante il suo primo viaggio in Italia nella primavera del 1937 (p. 18).
A questo proposito bisognerebbe altresì a mio parere tenere a mente e custodire nel cuore l’insegnamento della filosofa francese là dove coniuga la bellezza con il desiderio e con l’attenzione e fa di essa la sorella e l’alleata della verità e della giustizia: «La bellezza è il mistero supremo di quaggiù. È uno splendore che attira l’attenzione, ma non le fornisce alcun movente per durare. La bellezza promette sempre e non dona mai alcunché; suscita una fame, ma in essa non vi è alcun nutrimento per la parte dell’anima che cerca di saziarsi quaggiù; ne ha solo per la parte dell’anima che guarda. Suscita il desiderio, e fa sentire chiaramente che non ha in se stessa alcunché da desiderare, perché importa anzitutto che in essa nulla cambi. Se non si cercano espedienti al tormento delizioso che essa infligge, il desiderio si trasforma a poco a poco in amore, e un germe della facoltà di attenzione gratuita e pura prende forma. […] la bellezza è percepibile all’interno della cella ove ogni pensiero umano si trova all’inizio prigioniero. La verità e la giustizia dalla lingua mozzata non possono sperare in altro soccorso se non nel suo. Giustizia, verità, bellezza sono sorelle e alleate».
1) Colgo l’occasione con questo articolo di esprimere la mia stima nei confronti di Montanari che non si è adeguato a forme di incensamento non dovute, rifiutandosi di abbassare la bandiera dell’università di cui è rettore, in occasione del funerale e lutto di Stato disposto dal Governo per la morte di un personaggio politico che era stato non solo iscritto alla P2 ma anche condannato definitivamente per evasione fiscale e il cui comportamento sessuale fu a suo tempo denunciato nelle piazze di tutt’Italia da tantissime donne e in due lettere pubbliche anche dalla seconda moglie, Veronica Lario (rimando a questo proposito a https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/piu-dei-processi-pote-la-moglie).
2)https://parma.repubblica.it/cronaca/2014/10/17/news/se_la_riforma_delle_soprintendenze_crea_burocrazia_e_disfunzioni-98317816
3) https://left.it/2018/07/22/ce-un-tesoro-da-salvare-dentro-le-biblioteche/
4) https://www.stamptoscana.it/torna-a-casa-la-madonna-di-santa-fiora-di-luca-della-robbia/
L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 2 agosto 2023
Poesie di Andrea Zuccolo
Bastano poche poesie ad Andrea Zuccolo per definire con chiarezza le coordinate di una scrittura che ha radici profonde nella poesia del Novecento, ma forse ancora di più nel lavoro di autori capaci di accostare testi importanti e musiche preziose, quali Gianmaria Testa o Boris Vian. Come questi ultimi infatti Andrea Zuccolo, quando rivolge il suo sguardo acuto e spesso amaro verso la contemporaneità, non si limita a osservarne o denunciarne le insensatezze ma le vive in prima persona, le interiorizza sotto forma di inquietudine e tensione. Evitando ogni deriva moralistica, queste poesie si caricano piuttosto di tutta la solitudine che accompagna l’agire etico di un uomo, e al tempo stesso spremono la rabbia come se fosse una gemma da cui si spera possa sbocciare un futuro più giusto.
Francesco Tomada
Giallo tulipano
Fratello Jenin
quando leggeranno le nostre parole
saremo ormai altrove
appena dopo le tante storie
sempre disuguali.
Le nostre parole
non avranno più
nemmeno il senso
di un fiore color lampone.
Eppure questa
è Pasqua di sangue
di polvere e urla.
E il libro più sacro
accanto il cantico
avrà parole di orrenda vendetta.
E mi domando
la brama di Dio
del suo popolo
la lingua prediletta.
Che cosa allora
il sollievo di un dito
che tocca il giallo tulipano?
La corsa di un uovo
che rotola tra fili di erbe?
La lama affilata che separa la carne?
Il sordo silenzio
dopo un colpo di pistola?
La notte che viene
dopo il canto del merlo?
L’ultima notte fratello
prima che torni l’alba
dopo l’ultimo abbraccio
dopo l’ultimo sorriso
per restare sempre insieme
Ho fiori di ciliegio negli occhi
Ho fiori di ciliegio negli occhi
e rumore d’acqua per cuscino.
Ti regalerò la mia cravatta.
Legala stretta intorno al ramo.
Stringila forte fratello
perché canti fino a sera
la nostra rossa primavera.
Prendi una scodella
raccogli la bocca del mare.
Non senti il canto delle sirene?
Non senti?
Lo sciame di mille papaveri rossi
sbocciati nel prato
dove baciammo le nostre fidanzate
dove corremmo felici gli amori.
Ho fiori di ciliegio negli occhi
e male alla testa come il lampo
come il temporale che avanza
come la frusta che schiocca
come l’uragano che tuona.
Ho fiori di ciliegio negli occhi
e ai piedi tormenti di gelo.
Così sia
Se non vedo il vostro piede
se non ascolto il vostro passo
non per questo non leggo
le infinite vie
delle nostre vene.
Con l’inchiostro io scrivo
il destino del nostro sangue
ancor prima che il sole
si rapprenda e scompaia.
L’apostolo dagli occhi spenti
predica e predice
la parabola che
sborda il margine
e si schianta sull’orlo
della terra.
Ehi voi … doganiere in divisa …
scansatevi in tempo … per diooo!
Venite meno al precetto
d’un ordigno?
Costituitevi parte lesa
offesa, vilipesa.
In nome della patria, dell’arma
in nome di vostra cognata
di tutta l’armata.
Risuolatevi le scarpe.
Gendarmi di tutte le unioni
pieee … t … arm!!!
Un minuto di silenzio
niente corone
le rose per le vostre puttane.
Vi attendo in paradiso
dove i conti si regolano
a sberle di bronzo.
Se non lo sapete
aprite i denti
le resurrezioni
sono monumenti.
Così sia.
Ho urlato ai petali di girasole
Mentre guardo
il tramonto al declino
provo a contare
le vostre corolle
e so di perdere il conto
Lampo di lingue gialle
baci al vento
dondolio di ghirlande
screziati orizzonti
crepuscolo scuro
listato a lutto
Spalanca gli occhi
spaurito il barbagianni
atteso all’acacia
Formiche composte
seguono lente il corteo
di straziante dolore
Perché domani
sarà la tua mano
a stringere il laccio
o perdere la scarpa
Ho urlato ai petali di girasole
perché si voltassero
verso il sole d’oriente
perché con fiamma ardente
cantassero il gusto
del pane
della mora che geme
della cazzuola
che smalta un muro
Quando un mattone
è il nome
di una tomba
Ho urlato ai petali di girasole
« Annuncio… al mondo… ».
Come se non fossimo
e non se n’è accorto nessuno.
Il lampione si è innamorato
della pozzanghera
si specchia vergognoso
e a mattina si spegne.
Ho acceso la prima sigaretta
deciso a smettere di fumare
per dirmi che in fondo
anche il fumo ha le sue parole
contorte talvolta
diradano in proclami.
Mentre la folla fattasi plebe
tintinna con i gomiti
e picchia ai vetri delle credenze
dalla radio giunge a valvola
con voce magna
l’annuncio al mondo
che la guerra è finita.
« Annuncio al popolo e al mondo
che il pane è rincarato ».
Il placido popolo
dorme placido
e zampilla
e cade
la debole sorgente.
Bocche come pani
a piedi nel deserto
vagano fra sabbie che scottano.
Bacio il tavolo
mi inginocchio ai tuoi piedi
fino alla radice dell’albero
fino a farmi coprire
dal diluvio di stelle.
Arca dell’arca
fra i fiumi
ali di colomba
battute dai venti
volate alte e leggiadre
fino a deporvi
sul primo
e ultimo
mattone
del tempio di fango.
cielo!
al
innalzo
mi
Io
Nel
canto
di
tutte
le
lotte.
Per tutte le veglie
per tutti gli abbracci
gli allarmi gli amori
i barili di alcool e petrolio
esplosi e rinvasati
per celebrare
con passo lento nel corteo
i riti funebri del mondo.
Il canto si leva
e indosso scuri occhiali
per scontrarmi col sole
per stringergli il polso
prima che pulsi il chiarore dell’alba
e sorprenderlo nel sonno.
La marcia dei panni
e delle lenzuola
mantelli pietosi
a coprire cupole di cadaveri
a diecine e diecine
distesi
a piedi scoperti.
Benedetti i piedi
nati scalzi
giocarono
nel talco dei vicoli
fra risa splendenti.
Dita come datteri
addentarono
grumi di sabbia
fino a sollevare
la tempesta
e seppellire
le braccia di palma
sotto una duna.
Mausoleo
a nessun dio.
I miei amici poeti
I miei amici poeti
non mi scrivono più
Osip Mandel´štam è morto
nel campo di transito
di Vtoraja rečka
il compagno Stalin ha stabilito
di congedarlo
Pier Paolo gioca a pallone
in un campetto
accanto al Lido di Ostia
il motore della sua auto
è ancora acceso
Su Dante
pende una condanna a morte
per via dell’esilio
cambia spesso indirizzo
e prova sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale
Esenin si è impiccato
in una stanza dell’albergo Angleterre
Majakovskij lo ha rimproverato
scrivendo che
in questa vita non è difficile morire
vivere è di gran lunga più difficile
eppure si è sparato al cuore
ma molti non ci credono
Non mi scrivono più
li hanno messi a tacere
perché la loro poesia
frantumava i vetri
con la forza di un sasso
scagliato da una fionda
Dunque le questioni sono due
o io sono un poeta mediocre
magari è anche vero
oppure ho avuto sorte
di vivere in un paese
democratico
emancipato
liberale
dove il sole splende
sulla vite
l’olivo
l’arancio
dove le statue carezzano i ponti
dove si vive ignari ridendo
ma i miei dubbi non hanno calcolo
chiunque nel mio paese
può andare in piazza
mettersi un paio di mutande in testa
e dichiarare
d’essere
un
Napoleone
Foto di günter da Pixabay
Edizione 2023: parola
dire/fare
Si possono fare cose con le parole? A dirci di sì non è solo il titolo del celeberrimo saggio di John L. Austin ma anche l’esperienza quotidiana: lo vediamo quando un celebrante dichiara una coppia marito e moglie, quando una commissione proclama laureato uno studente, quando un certificato consente di svolgere un determinato mestiere. Contratti, titoli, documenti testimoniano il potere magico del linguaggio: il performativo, quello che consente di trasformare la realtà senza usare le mani. Non si tratta semplicemente della possibilità di dare ordini, ottenendo che venga aperta una finestra con il dire a qualcuno: “Apri la finestra”. Si tratta proprio di una facoltà che consente al linguaggio di cambiare il mondo.
È in questo orizzonte che si collocano i giochi linguistici. Secondo Wittgenstein, il rapporto fra mondo e linguaggio non segue una struttura necessaria, come invece voleva Aristotele, bensì una possibilità che si apre a forme sempre diverse. Recitare, cantare, spettegolare, raccontare una barzelletta, impartire un ordine, tradurre, ringraziare, maledire, pregare, stendere formule matematiche: tutte queste azioni con cui riempiamo il mondo sono frutto del modo in cui giochiamo col linguaggio. E, come tutti i giochi, traggono senso e validità esclusivamente dalla presenza di un contesto che detti delle regole.
Il contesto è la chiave di volta del potere performativo del linguaggio: non ha valore una multa comminata da un passante o una carta d’identità fabbricata dal diretto interessato. Resta però il fatto che, ogni volta che utilizziamo il linguaggio, lo facciamo all’interno del contesto più ampio che ci è dato, quello della società umana. Questo ci impone di considerare sempre le nostre parole in base agli effetti che possono avere sull’Altro: l’interazione personale è fatta di parole e ha conseguenze reali e concrete. Ci sono quelle della violenza verbale, dell’hate speech e della prevaricazione sul consenso; ma ci sono anche, per fortuna, le parole dell’attenzione, dell’apertura, del rispetto.
Per approfondire questo percorso si possono seguire lezioni che vertano sulla terminologia dell’odio e dell’amore, della definizione del genere e della pratica della violenza, oltre che sulla teoria di Wittgenstein. Dal programma creativo si possono scegliere eventi che abbiano a che fare con gli eventuali limiti da porre alla satira, le scelte lessicali nell’insegnamento e nella narrazione, l’utilizzo della parola come strumento concreto per costruire oggetti d’arte.