Cultura

WARS2023: la mostra virtuale di AtlantePhotoExpo

Atlanteguerre.it

È on line “WARS2023. Al di là dell’orrore”, il percorso virtuale AtlantePhotoExpo della mostra nata dalla collaborazione fra il Mag (Museo Alto Garda) e l’Associazione 46° Parallelo. 

A questo link si ripercorre infatti l’esposizione che resterà visibile a Forte Garda sul Monte Brione a Riva del Garda fino al 15 ottobre.

Tramite trenta foto si racconteranno tre conflitti in corso, sottolineando le loro drammatiche conseguenze. Le fotografie selezionate sono state riprese dalle prime due edizioni di Wars, premio fotografico internazionale creato da Raffaele Crocco, direttore dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo, e da Montura, con la direzione del pluripremiato fotografo Fabio Bucciarelli.

I tre conflitti raccontati sono quelli in Ucraina, in Iraq e nello Yemen, tramite gli scatti di tre vincitori del concorso: Laurence Geai, Manu Brabo e Giles Clarke. Le foto raccontano luoghi distanti tra loro eppur legati e vicinissimi per ciò che rappresentano. Oltre a raccontare la tragedia di ogni guerra, queste fotografie parlano dell’incredibile capacità degli esseri umani di creare e cercare una quotidianità, una normalità anche nella disperazione più cupa. Il vincitore o la vincitrice della terza edizione di Wars sarà rivelato a settembre.

La mostra virtuale resterà visibile fino al 10 settembre.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 17 luglio 2023

Decostruzione del mito della violenza. Una ricerca sull’efficacia della resistenza civile

di Pasquale Pugliese

In un tempo nel quale non solo la guerra è tornata perfino in Europa, ma il bellicismo – ossia l’ideologia della guerra – ha assunto un’inedita centralità mediatica e politica nella storia repubblicana del nostro Paese, la traduzione in italiano dell’importante lavoro sulla resistenza civile della ricercatrice statunitense Erica Chenoweth Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile (2023) – grazie all’impegno di Angela Dogliotti del Centro studi Sereno Regis di Torino e delle Edizioni Sonda – rappresenta una contro-narrazione rispetto alla vulgata della inevitabilità dell’esito violento dei conflitti. Una vera e propria decostruzione di un mito. Questo volume è uno degli esiti dello studio ultra decennale, svolto insieme a Maria Stephan, sulla quantità ed efficacia delle lotte nonviolente nel mondo dal 1900 ai giorni nostri, una mappa sistematica e ragionata dell’evoluzione della nonviolenza nei conflitti degli ultimi 120 anni, i cui frutti ribaltano secoli di pensiero dominante, anche storiografico, secondo il quale solo “quando c’è guerra c’è storia” (Anna Bravo, La conta dei salvati, 2013). “La vita quotidiana” – scrive Erica Chenoweth – “è piena di innumerevoli racconti, film, miti e altri desiderata culturali che glorificano la violenza. E questa costante esaltazione della violenza serve anche a cancellare la straordinaria storia umana della resistenza civile e dei movimenti popolari che nel corso dei millenni hanno portato avanti battaglie nonviolente”.

Intanto la definizione pragmatica – come nello stile dei ricercatori statunitensi, a cominciare dallo storico lavoro di Gene Sharp The politics of nonviolent action (1973) – di resistenza civile: “la resistenza civile” – scrive Erica Chenoweth – “è un metodo di azione diretta in cui persone disarmate utilizzano diversi metodi coordinati, non istituzionali per promuovere il cambiamento senza fare fisicamente del male o minacciare di fare fisicamente del male all’avversario”. Ciò significa che la resistenza civile è un metodo attivo di gestione dei conflitti sociali e politici, che viene agita da cittadini che intenzionalmente rinunciano all’uso della violenza – non perché siano necessariamente (e capitinianamente, potremmo aggiungere) persuasi della superiorità morale della nonviolenza, ma perché la violenza è per lo più inefficace – e fanno uso di varie tecniche di disobbedienza civile (scioperi, proteste, manifestazioni, boicottaggi, costruzione di istituzioni alternative e molte altre raccontate nel documentato volume) nei confronti di leggi ingiuste, regimi oppressivi, occupazioni militari.

Poi i dati. Tra il 1900 e il 2019 sono state censite 627 campagne di lotta di massa, violente e nonviolente: 303 di queste sono state prevalentemente di carattere violento, 324 invece si sono affidate alla resistenza civile nonviolenta, di cui 96 solo nel decennio 2010-2019. Ebbene, mentre solo il 26% delle lotte armate hanno avuto successo, hanno raggiunto i propri obiettivi oltre il 50% di quelle nonviolente. “Si tratta di una percentuale sbalorditiva che invalida l’opinione diffusa secondo cui l’azione nonviolenta è debole e inefficace mentre l’azione violenta è forte ed efficace”, commenta Chenoweth, che elenca in appendice tutte le campagne degli ultimi 120 anni di storia, con i loro rispettivi esiti. Pur con la consapevolezza che le trasformazioni sociali e politiche non sono risultati che si ottengono una volta per tutte, ma è necessario l’impegno di più generazioni affinché siano consolidati, Chenoweth illustra i principali fattori di successo delle lotte nonviolente: la partecipazione, più ampia e diversificata è la base dei partecipanti ad una campagna di resistenza civile più è probabile che abbia successo (empiricamente si è visto che la massa critica è l’attivazione del 3,5% dei cittadini); le defezioni avversarie, la capacità di un movimento di far passare dalla propria parte i sostenitori del potere; la varietà delle tattiche, sono più efficaci le lotte che si esprimono attraverso una diversificazione delle azioni; infine, l’autodisciplina e la resilienza di fronte alla repressione.

Il punto di riferimento storico di tutte le forme di resistenza civile sono naturalmente le campagne gandhiane per l’indipendenza e l’autogoverno dell’India dall’imperialismo britannico, rispetto alle quali l’obiezione che viene posta sempre è che non avrebbero potuto funzionare contro un’eventuale occupazione nazista. Ma questa obiezione parte da due presupposti errati, spiega Chenoweth, che è il caso di ribadire ancora: “il primo è l’idea che quello istituito in India dall’Impero britannico fosse un sistema coloniale benevolo. Il secondo è che il regime di Hitler non abbia mai dovuto affrontare una resistenza nonviolenta e che abbia comunque annientato quella poca che trovò sul suo cammino”. La ricercatrice decostruisce ciascuno di questi presupposti, dimostrando sia la ferocia del dominio coloniale britannico e dei suoi eccidi, che le molte efficaci resistenze nonviolente – dalla Danimarca alla Norvegia, ma anche nella stessa Germania (per esempio le donne della Rosenstrasse, episodio raccontato anche in un film di Margarethe Von Trotta) – che sfidarono con successo il regime nazista.

Del resto, aggiungiamo infine, anche in Ucraina sono state censite da diversi centri di ricerca internazionali (per esempio dall’International Catalan Institute for Peace), molte azioni di resistenza civile da parte dei cittadini, soprattutto nei primi mesi di occupazione russa, ma sono state sommerse dal frastuono dalla narrazione dominante del governo ucraino, supportata dalla montagna di armi occidentali ed amplificata dall’”informazione” italiana, secondo la quale non c’è resistenza possibile al di fuori della guerra. Ovvero l’alimentazione forzata del mito della violenza.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 21 giugno 2023

La polvere

di Fabio Mongardi

A Faenza, ora che il fango si è asciugato, te la ritrovi dappertutto. Si insinua in ogni cosa, la respiri, la mangi e la senti che ti incolla la gola. La polvere ricopre le macchine e le foglie degli alberi, ha pennellato di grigio tutta la città. Ci si muove all’interno di questa enorme nuvola di nebbia grigia che inquieta e intristisce gli animi.
Spaventa e fa paura, eppure è la stessa polvere della terra secca su cui ci si rotolava ridendo da bambini, la stessa polvere che ci riempiva le tasche e che ci colorava la faccia. Non è cambiata, è sempre lei; siamo noi che abbiamo paura perché pensavamo di averla lasciata alle spalle, di essercene liberati per sempre e invece ora la natura ci fa capire che nella polvere e nel fango siamo nati e per quanto facciamo, alla fine, è lì da lei che dovremo tornare…

Cannes 2023. “Il sol dell’avvenire”, Nanni Moretti fa riflettere tra speranze, risultati e senso dell’impegno

Foto di Bruna Alasia

di Bruna Alasia

Nell’atteso film di Nanni Moretti, “Il sol dell’avvenire”, in concorso a Cannes quest’anno e in uscita in Italia dal 20 aprile, una marcia di comuni cittadini che partono dai millenari Fori Imperiali di Roma per rivendicare l’esigenza di un mondo migliore riecheggia lo spirito di Greta Thunberg sedicenne che, durante l’enorme manifestazione in occasione della COP25 a Madrid, nel dicembre 2019, disse: “Il cambiamento di cui abbiamo bisogno non verrà dalle persone al potere (…) Siamo noi che porteremo il cambiamento”. Speranza che chi si è impegnato in tal senso non può fare a meno di condividere.

Attraverso un film nel quale, ha confessato in conferenza stampa, ci sono elementi autobiografici, Moretti ci invita a riflettere e diverte con sottile ironia, su quanto tra il dire e il fare “ci sia di mezzo il mare”, su come progetti e sogni voluti dall’inconscio collettivo siano naufragati dopo la seconda metà del ventesimo secolo.

Protagonista de “Il sol dell’avvenire” è Ennio, il segretario della sezione del PCI (Silvio Orlando) del quartiere romano del Quarticciolo; giornalista che scrive per L’Unità, sta confrontandosi con la fine di un sogno e deve capire come reagire all’invio dei carri armati sovietici a Budapest.  Il 1956 fu infatti l’anno della rivoluzione di spirito antisovietico in Ungheria, quella che portò a una significativa caduta del sostegno alle idee del bolscevismo tra i cittadini delle nazioni del blocco occidentale.

Il regista Giovanni (Nanni Moretti) sta girando un film ambientato in quell’anno e in quella sezione del partito. La produttrice è sua moglie Paola (Margherita Buy) che sta pensando di separarsi e va in analisi per chiarirsi, anche se Giovanni non lo sa. Il regista sta anche scrivendo una sceneggiatura tratta dal celebre racconto di John Cheever “Il nuotatore”, per portare sullo schermo la storia di una coppia quarantennale, sottolineata da canzoni d’epoca. Il senso de Il sol dell’avvenire lo si intuisce dal motivo partigiano cui si ispira: “Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte e pur bisogna andar, conquistare la rossa primavera, dove sorge il sol dell’avvenir”, simbolo di un socialismo che avrebbe dovuto illuminare il futuro, ma che nei fatti ha deluso. Pur se da Moretti non è fatto alcun riferimento, impossibile non pensare all’attuale invasione dell’Ucraina.

Sullo sfondo del disincanto sociale e delle difficoltà private, Nanni Moretti incastra il lavoro di chi si cimenta nell’arte, la funzione educativa che può avere il cinema, così come ogni operazione culturale. Ad esempio, attraverso la scena di un giovane regista che chiude l’opera con un’esecuzione – un colpo di pistola alla fronte inferto ad un ragazzo – c’è la riflessione su quale etica e necessità accompagni la violenza gratuita. Nessuno lo ascolta, ma l’interrogativo che pone il film resta: è possibile delegare ad altri la costruzione di una società migliore?

Il Sol dell’Avvenire è in uscita in Italia in 500 copie il 20 aprile e poi in concorso al 76mo festival di Cannes, che si svolgerà dal 16 al 27 maggio 2023.

Il Sol dell’Avvenire (2023)
Regia: Nanni Moretti
Con Nanni Moretti, Margherita Bui, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Mathieu Amalric.
Genere: Drammatico
Produzione: Italia 2023
Uscita nelle sale: giovedì 20 aprile 2023
In concorso a Cannes 2023

L’articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2023 su Pressenza