Emily Jacir, Memoriale dedicato ai 418 villaggi palestinesi distrutti, spopolati e occupati da Israele nel 1948, 2001
di Mariella Pasinati
L’annuncio della prima fase dell’accordo sul piano di pace proposto da Trump ha acceso la speranza che la stretta mortale sulla popolazione palestinese possa finalmente avvicinarsi alla conclusione. E certamente bisogna cogliere ogni opportunità, salutare con sollievo ogni spiraglio che possa porre fine al genocidio. Ma una pace duratura non dovrebbe e non può essere costruita sull’abbandono dei diritti fondamentali del popolo palestinese. Il piano infatti si limita a dichiarare che l’autodeterminazione e la sua sovranità finale saranno una mera “aspirazione”, attraverso un percorso che non potrebbe essere più vago, condizionato o incerto. Ogni volta che il potere parla di pace, dovremmo fermarci a chiedere: pace per chi, e a quale prezzo? Il Piano di pace Trump 2025 promette “ricostruzione” e “stabilità”, ma il suo linguaggio tradisce un intento opposto: non è la pace dell’ascolto, ma la pace dell’ordine imposto.
Nel documento compaiono parole come deradicalizzazione, prosperità economica, sicurezza, nuova leadership civile, Board of Peace. Ognuna di queste espressioni — apparentemente neutra — disegna un mondo dove la pace è amministrata dall’alto, da chi detiene già il potere, e dove ai palestinesi spetta solo la parte del soggetto da “rieducare”. Dietro la parola deradicalizzazione si nasconde la retorica coloniale di sempre: trasformare la resistenza in malattia, la ribellione in deviazione da correggere. È la stessa logica con cui, nei secoli, il patriarcato ha preteso di “normalizzare” le donne, definendo follia ciò che in realtà era ricerca di libertà. La promessa di prosperità è un’altra forma di dominio. Il piano parla di investimenti e infrastrutture, ma non restituisce sovranità. Sostituisce la libertà con la crescita, la dignità con la gestione economica. È la pace dell’“aiuto” che compra la resa, della ricostruzione che non passa mai per la restituzione del potere di decidere. Una pace paternalista, che offre risorse in cambio di obbedienza.
Nel linguaggio della sicurezza si rivela poi la radice patriarcale del piano: la sicurezza non è pensata per la popolazione civile palestinese, ma per Israele e per gli interessi occidentali. È la sicurezza di chi controlla, non di chi vive. Si disarma chi è già disarmato, si sorveglia chi è già sotto assedio. È una logica maschile e militarizzata, che confonde protezione con controllo e trasforma la paura in strumento politico. La pace, invece, non nasce dalla paura dell’altro, ma dal riconoscimento reciproco della vulnerabilità. Il Board of Peace, organismo internazionale chiamato a “guidare” la ricostruzione, incarna perfettamente la struttura patriarcale del potere: pochi decisori esterni che amministrano la vita di chi ha già subito la distruzione. È la stessa scena che si ripete da secoli: la pace decisa da chi non ha sofferto la guerra.
Bisogna pensare un’altra grammatica della pace. Non ricostruzione, ma riconoscimento. Non normalizzazione, ma relazione. Non governance, ma autodeterminazione. Invece di parlare di deradicalizzazione, occorrerebbe parlare di decolonizzazione: restituire al popolo palestinese la parola, la capacità di immaginare e ricreare la propria vita.
Non è quindi il momento di distogliere lo sguardo, ma occorre continuare quel movimento globale contro la guerra e la distruzione di Gaza che in queste settimane ha saputo nominare l’orrore e rispondere con la forza di chi si oppone senza cedere alla violenza, come ha dimostrato l’esperienza della Flottilla, un esempio di come sia possibile agire politicamente senza riprodurre la logica bellica. La pace, per chi la pensa da una prospettiva femminista, non è un accordo ma un processo vivente: nasce dal basso, dal lavoro lento delle comunità, dal gesto quotidiano di chi continua a creare vita anche tra le rovine. È quella pace che non si concede, ma si costruisce insieme; che non silenzia, ma ascolta. Quella pace che — come ricorda Leymah Gbowee — non significa assenza di conflitto, ma presenza di voce. Oggi quella voce attraversa il mondo, nei presìdi, nelle piazze, nelle università, nelle strade. È una voce che dice basta alla guerra e al colonialismo e che chiede una pace giusta, non l’ordine dei forti.
l’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 10-10-2025
Forse nessun papa come Francesco ha suscitato il bisogno di una riflessione profonda e sentita su sé stessi e sul mondo non solo in una parte consistente del cattolicesimo, ma anche tra un grande numero di non credenti. Ma difficilmente un papa ha suscitato anche tanta ostilità: non solo tra coloro di cui contrastava apertamente pensiero e azioni su questioni centrali come migrazioni, guerre, clima, diseguaglianze, tecnica, economia e tanti altri, ma anche e soprattutto in buona parte della gerarchia ecclesiastica e in Vaticano, vero covo di malaffare, cinismo e mancanza di spirito evangelico. Cose con cui Francesco ha dovuto fare i conti con cautele da papa, soprattutto sui temi cosiddetti “sensibili” come aborto, fine vita, genere, divorzio, sacerdozio femminile e laico, ecc., che i suoi avversari (ora in attesa di una rivincita) hanno sempre anteposto a quelli evangelici della cura del creato, delle vittime, dei poveri, degli emarginati, dei sofferenti. D’altronde non c’è politico che non abbia reso un omaggio formale a papa Francesco e alla sua enciclica Laudato sì, e che non torni a renderlo in quest’ora della sua morte. Ma non ce n’è uno solo, in tutto il mondo, che ne abbia preso il messaggio in seria considerazione. Il suo pontificato è stato ininterrottamente caratterizzato da iniziative e gesti che ne sottolineavano i messaggi: dalla visita a Lampedusa in ricordo dei migranti lasciati morire in mare al cammino solitario in piazza San Pietro per promuovere la solidarietà al tempo del covid; dalla celebrazione del Giubileo in un Paese africano e nel carcere di Rebibbia agli incontri effettuati o solo tentati per cercare di por fine alle guerre in corso. Ma tutte le sue iniziative e i suoi viaggi sono stati sorretti e guidati da una vera e propria rivoluzione della tradizione cattolica, da un cristianesimo che ha spinto al centro di questa nuova visione non il dominio dell’uomo sul resto del mondo, ma la cura del creato: unica autentica cornice del rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni, della nostra Terra sofferente, dell’essere umano (Francesco non lo indica mai con il termine uomo, per non escludere la donna), non signore ma custode del mondo. E’ questo il contenuto centrale dell’enciclica Laudato sì (2015), un documento straordinario soprattutto per la compattezza con cui sono stati riuniti in poche pagine, con semplicità e chiarezza pari solo alla profondità, tutti i problemi fondamentali del nostro tempo. Molti dei temi trattati si ritrovano già, in vari modi, in elaborazioni dell’ecologia profonda e dell’ecofemminismo, che Francesco ha saputo raccogliere e rielaborare, insieme ai tanti spunti fornitigli dalle culture indigene dell’Amazzonia, a cui ha voluto dedicare addirittura un sinodo, finalizzato a ”inculturare” – è il termine usato: cioè innestare – il messaggio evangelico nella sensibilità per la natura di popoli fedeli a costumi e credenze tradizionali. Ma non è solo – come è stato detto – l’essere state enunciate da “un capo di Stato” ad aver reso così importanti le verità di quell’enciclica, bensì il nesso inscindibile che essa ha saputo tracciare tra giustizia ambientale e giustizia sociale, tra “il grido della Terra” e quello degli oppressi, tra l’urgenza di salvare e risanare l’ambiente e le rivendicazioni e le lotte dei poveri della Terra. Quell’enciclica forse è stata letta più dai non credenti che dai cattolici: questa almeno è la nostra esperienza di cultori, divulgatori e interpreti dei suoi contenuti, impegnati nella loro articolazione in ogni angolazione sia della vita quotidiana che dei grandi eventi politici, sociali, climatici e ambientali, in qualità di attivisti dell’associazione Laudato sì, che abbiamo fondata pochi mesi dopo la sua pubblicazione. Un documento la cui lettura va integrata almeno con altri tre: il discorso tenuto nel 2014 al primo incontro dei movimenti popolari, un vero e proprio incitamento rivolto agli ultimi a battersi per i propri diritti; l’enciclica Fratelli tutti (2020), progetto e perorazione di un assetto sociale fondato sulla solidarietà e la condivisione e non sulla competizione e l’appropriazione e l’esortazione Laudate Deum (2023), un ultimo e quasi disperato richiamo a ricordarsi della crisi climatica, rivolto a tutto il mondo, ma soprattutto ai potenti della Terra, in un tempo in cui la corsa a fare la guerra ha fatto dimenticare quasi a tutti che il nostro mondo è sull’orlo di un baratro. Ma in tutti questi documenti, come in tutte le circostanze in cui l’attività di Francesco è stata resa pubblica, non è mai mancato il tratto della delicatezza, dell’attenzione, della disponibilità e anche della verve – compresa la sua penultima comparsa avvolto in un poncho, un abito sicuramente più adatto ai successori di Pietro – che ha distinto il suo pontificato da quelli di tutti i papi che lo hanno preceduto. Un tratto che lo ha reso il vero erede del santo di cui ha voluto prendere il nome.
L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 21aprile 2025
Oggi, di quale Europa stiamo parlando? Europa di pace o Europa di guerra? Europa armata, o Europa disarmata? Europa che investe in armi tagliando il welfare? O Europa che investe in cooperazione tagliando le spese militari? Ci opponiamo alla scellerata decisione di sospendere le regole di bilancio per le spese della difesa armata, facendoci entrare in una economia di guerra. Siamo con gli ucraini. D’accordo, ma come? Dicendogli “vi diamo le armi e combattete” o facendo diplomazia per salvare il salvabile?
Da sempre ripetiamo che non esiste soluzione militare del conflitto: la guerra non la vince nessuno. La scelta armata fatta per difendere l’Ucraina dall’invasione russa, ha portato da 3 anni ad uno stallo evidente, una guerra di logoramento costata da entrambe le parti decine di migliaia di morti e un numero infinito di vedove, orfani e mutilati. La via militare è un fallimento è l’evidenza dei fatti è lì a dimostrarlo.
Nessuno la guerra la vince, la pace invece la possono vincere tutti.
Stessa cosa per quanto accade nella sponda sud del Mediterraneo, l’Europa è pronta a schierarsi per il riconoscimento del diritto di autodeterminazione dei palestinesi come riconosciuto da infinite risoluzioni delle Nazioni Unite, o per gli amici si usa la politica del “doppio standard”, tollerando crimini di guerra, occupazione e pulizia etnica?
Non sono domande provocatorie, sono domande sincere, necessarie, per capire quale Europa dobbiamo ricostruire, quale sicurezza e politica estera vogliamo sostenere.
Il Manifesto di Ventotene, Per un’Europa libera e unita, aveva l’obiettivo di liberare l’Europa, e progressivamente il pianeta, dalle guerre.
“Quale sia il male profondo che mina la società europea è evidentissimo ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri, opprime come un incubo logorante qualsiasi altra attività. Il pericolo permanente di conflitti armati tra popoli civili deve essere estirpato radicalmente se non si vuole che distrugga tutto ciò a cui si tiene di più”. (Altiero Spinelli in Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, 1942).
L’Europa per dimensione e peso economico, per cultura politica, per tradizione storica deve farsi carico di promuovere il rilancio della multilateralità e la collaborazione globale per un futuro comune. Deve dismettere la postura della supremazia e porsi in una posizione di neutralità attiva nella competizione globale. Deve promuovere una “sicurezza condivisa”, e non la “fortezza Europa”, tenuta in piedi con la forza delle armi, con i muri e con politiche economiche restrittive, inique ed ancora fondate sul fossile.
Data la natura altamente delicata della sicurezza, della difesa e della politica estera, l’idea che la costruzione di un complesso militare-industriale europeo possa avere come risultato un rafforzamento dei legami tra gli Stati membri favorendo un miglioramento del consenso, è un tragico errore. Ciò che è certo è che l’Esercito europeo è attualmente solo una giustificazione retorica di decisioni che puntano a spostare ingenti risorse dai compiti civili dell’Unione a fondi a disposizione degli interessi dell’industria militare senza una visione ed un progetto di società per le future generazioni, con il solo risultato di togliere fondi alla coesione sociale ed economica, alla cooperazione ed alla transizione ecologica.
L’Europa deve rimanere uno spazio multinazionale capace di diventare una grande potenza di pace, che faccia i conti con il passato coloniale e con la necessità di porvi rimedio, che escluda la guerra dai propri strumenti politici e che utilizzi la sua grande capacità economica, scientifica e tecnologica per favorire il riequilibrio nella distribuzione delle opportunità e delle conoscenze tra i popoli. La pace è una conquista della politica che si costruisce nel tempo: sappiamo che c’è sempre un’alternativa da poter percorrere al fallimento totale della politica che è la guerra.
Per un’Europa costruttrice di pace e di sicurezza per tutti i popoli:
– L’Europa deve agire come una vera comunità politica, democratica ed economica dentro un sistema multilaterale e non di blocchi politico-militari che competono e si reggono sulla deterrenza militare.
– L’Europa deve avere una propria politica estera fondata sulla cooperazione e sulla costruzione di pace, giustizia e sicurezza condivisa e comune, regolata dal diritto internazionale.
– L’Europa deve rafforzare il modello sociale europeo ampliando l’accesso ai diritti ed alle tutele, destinando le proprie risorse alla difesa civile, alla transizione ecologica alla cooperazione ed al la solidarietà dentro e fuori l’Unione Europea, allargando la sfera di cooperazione (economica, culturale, strategica) per il rafforzamento della democrazia e del raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile a partire dalle aree di vicinato, tanto a Est come a Sud, per poi estendersi al resto del mondo, e non per il riarmo e per l’economia di guerra.
– L’Europa deve praticare una politica commerciale coerente e strumentale alla politica di pace e di sicurezza condivisa: ridurre il divario tra paesi ricchi e paesi poveri; ridurre le diseguaglianze e sconfiggere le povertà e le migrazioni forzate; investire nella transizione ecologica, promuovere stabilità, pace e sicurezza comune.
Così facendo, il concetto di difesa assume un connotato completamente diverso da quello che si sta discutendo, non è più la difesa militare ed il riarmo per difendersi da un nemico o da una invasione, ma è il consolidamento di un sistema di relazioni tra stati che cooperano, regolato dal diritto internazionale e da forti scambi economici, culturali, di interdipendenza e di scambio, con un basso investimento negli eserciti e nelle armi, ed alto investimento nella difesa civile e nonviolenta, nella cooperazione e nel mutuo aiuto.
Rinnoviamo l’invito a portare nelle piazze, ad esporre alle finestre la bandiera della pace che rappresenta questa idea di Europa e che non può essere usata per giustificare la corsa e la spesa al riarmo ed alla guerra, ma per sostenere l’alternativa alle guerre ed alla prepotenza dei più forti, di chi vuole imporre la legge del più forte, dei ricatti, della supremazia. Vale per l’Ucraina, Vale per la Palestina, vale per tutte le guerre che subiscono le popolazioni.
La nostra Europa deve essere un’Europa di pace e di sicurezza condivisa e comune per tutti i popoli.
È il momento di una grande campagna europea per contrastare la corsa al riarmo ed un’economia di guerra.
Norberto Bobbio diceva che “potere” è una parola “paravento”, perché nasconde molte diverse forme di esercizio del potere e di organizzazione dello stato, diversi modelli di “governance” – diremmo oggi – più o meno democratici, più o meno oligarchici, più o meno burocratizzati, più o meno comunitari. Il potere, infatti, viene esercitato attraverso una mistura di strutture e di strumenti di consenso e repressivi, simbolici e militari, economici e ideologici, consuetudinari e tecnologici. La posta in gioco del potere è il possesso di risorse naturali e umane tale da far valere la volontà di chi le gestisce. È convinzione comune che nella società contemporanea il potere economico abbia via via assunto una posizione dominante su tutti gli altri ambiti della condizione umana. Assistiamo infatti alla subordinazione di tutte le sfere della vita – materiale e spirituale – al sistema economico. Attraverso il denaro l’economia ha catturato totalmente l’interesse delle persone, meritando assoluta obbedienza e religiosa venerazione. Di “dittatura dell’economia” ne parlò anche papa Bergoglio all’inizio del suo mandato (Papa Francesco, La dittatura dell’economia, a cura di Ugo Mattei, prefazione di Luigi Ciotti, Edizioni Gruppo Abele, 2020).
Economia vs politica Il potere economico si è impadronito della sfera politica, qualunque sia la sua configurazione. Non mi riferisco solo al clientelismo, alla corruzione, al finanziamento delle campagne elettorali e al lobbismo – che pure hanno assunto una dimensione imbarazzante per gli stessi protagonisti; basti pensare a cosa sono diventate le campagne elettorali negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte suprema del 2010 che ha abolito ogni limite alle donazioni delle corporation a favore dei candidati (solo Musk ha speso più di 130 milioni di dollari nella campagna a favore di Trump) o al ruolo delle lobby nella UE dove operano 10 lobbisti accreditati per ogni parlamentare europeo. L’imperativo della crescita economica è stato introiettato dai partiti – sia da quelli conservatori che da quelli progressisti – come fine ultimo dell’agire politico. La pseudo competizione tra le forze politiche che si contendono il governo degli stati avviene per lo stesso obiettivo: far ottenere maggiori profitti alle imprese. Procedendo in tal modo i board (amministratori delegati, presidenti, consigli di amministrazione) delle compagnie più potenti sul mercato smettono di aver bisogno della mediazione politica, elaborano direttamente le policy e costituiscono le loro istituzioni finanziarie transnazionali (Fondo Internazionale Mondiale, Banca dei Regolamenti internazionale, ecc.), giuridiche (arbitrati), culturali (fondazioni filantropiche), di informazione (social), persino militari (Consiglio atlantico della Nato). Vedremo poi dove conduce l’errore di confondere la crescita del Pil con il bene comune e il benessere sociale.
Economia vs etica Il potere economico esercitato attraverso il denaro si è impadronito anche della sfera etica e spirituale. Come ci hanno a suo tempo spiegato Max Weber e Walter Benjamin, l’economia è stata elevata a religione che professa il culto della crescita, officiato dagli economisti con i governanti nelle vesti di chierichetti. Il Bene è passato dalla Provvidenza alla “mano invisibile”, o – come si conviene nell’era tecnologica – al “pilota automatico” evocato dal banchiere Mario Draghi. Non è rimasto più nulla di sacro, di incommensurabile, di rispettabile in sé e per sé. Né l’umano, né il naturale. L’economia di mercato sembra regolata da una legge sovrannaturale e si riproduce come per istinto, mossa dall’avidità, dall’egoismo, dall’interesse personale. A ciò fanno coerentemente seguito un’etica, una antropologia e persino una particolare psicologia. L’homo oeconomicus deve essere individualista, competitivo, virile, aggressivo, identitario, anaffettivo… ora anche patriottico, pronto, cioè, se non proprio ad impugnare le armi, a donare ai militari il 3 per cento, forse anche il 5% della ricchezza sociale.
Economia vs pace Inutile dire che la sfera del potere economico è integrata nel “complesso militare-industriale”, come lo chiamava con timore uno che se ne intendeva, il generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti. Il connubio tra economia e militari funziona non solo in tempo di guerra – ci siamo vicini – ma “normalmente”. Non solo perché l’economia di guerra svolge una funzione “anticiclica” in periodi di scarsa accumulazione dei profitti (sembra che l’economia russa dopo tre anni di guerra stia andando a gonfie vele), non solo perché è dagli investimenti pubblici in armamenti che nascono le innovazioni tecnologiche che poi l’industria privata mette a frutto (“dualità” tra ricerca in campo militare e civile), ma perché la potenza militare è indispensabile per presidiare le sfere di influenza degli stati, i mercati di sbocco e le aree di approvvigionamento delle materie prime. Le guerre armate non sono altro che la prosecuzione delle guerre commerciali. L’idea illuministica secondo cui il libero commercio avrebbe avvicinato e pacificato i popoli si è rivelata nel suo opposto: una guerra economica generalizzata.
Economia vs saperi Il potere economico è consustanziale alla scienza analitica-deduttiva galileiana, indispensabile per riuscire a trasformare la natura in un insieme di cose, di materiali e di energie da impiegare senza scrupoli nei cicli produttivi economici. Con Bacone e Cartesio l’ordine naturale si è rovesciato: sarà l’umano a dominare, assecondare, plasmare la natura. Le stupefacenti invenzioni che conosciamo nascono con una precisa intenzione e ubbidiscano ad un progetto predefinito di dominio utilitaristico ed “estrattivista”, diciamo oggi. Qualsiasi dispositivo tecnologico di cui ci siamo dotati è un prodotto socialmente determinato e cristallizza nel proprio disegno i valori e le visioni del mondo di chi l’ha pensato, creato e prodotto. Non tutti i ritrovati tecnologici possono essere usati a fin di bene; pensiamo all’energia nucleare. A chi crede che una lama sia solo una lama, ditegli di provate a sbucciare una mela con una scimitarra, o di uccidere una persona con un coltello da tavola.
Economia vs comunità Vi è poi un’altra sfera di potere “derivato”, ma molto influente nella vita super-organizzata di tutti i giorni, quello amministrativo e giudiziario. Fino a qualche tempo fa questi poteri godevano di un’aura di indipendenza e neutralità costituzionalmente riconosciuta. Nelle teorie della pubblica amministrazione i “public services” sono i servitori dello Stato che devono limitarsi ad applicare leggi e regolamenti. In realtà i margini di autonomia nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme sono molto ampi. Con l’arretramento del ruolo delle assemblee elettive, l’uso dello spooling system e delle “porte girevoli” dei funzionari tra settore pubblico e privato, la sfera burocratica ha acquisito una crescente rilevanza. Inutile dire che la loro principale funzione è garantire la preservazione dei business as usual.
Economia, cioè crescita quindi benessere e democrazia? Domandiamoci allora quali sono i motivi per cui la sfera economica è riuscita a prevalere su ogni altra dimensione del vivere umano e del vivente tutto. A mio avviso perché i più potenti agenti economici (coloro che posseggono i principali mezzi di produzione e di scambio e, quindi, di comunicazione) sono riusciti a far passare nella opinione comune due assiomi, due postulati che vengono presentati e assunti come verità evidenti in sé stesse. Il primo: la crescita economica aumenta la disponibilità di beni e servizi, quindi, migliora la vita e porta benessere. Il secondo: nel sistema economico di libero mercato la competizione avviene alla pari; quindi, colui che riesce ad offrire prodotti più convenienti agisce nell’interesse di tutti (Thomas Hobbes), pertanto merita di ottenere ciò che vuole. In forza della teoria dei vasi comunicanti, o della marea che sale nel porto e solleva tutte le imbarcazioni, o del tricky-down-effect, gli imprenditori capitalisti sono convinti che ciò che è utile a sé stessi sia utile a tutta l’umanità. Insinuare un dubbio in questa consolidata narrazione è faticoso e impopolare, poiché è tristemente vero che in questa società governata dal mercato solo chi possiede il denaro necessario può sperare di soddisfare le sue esigenze. Il tema allora è: chi e a quali costi sociali e ambientali può permettersi di ottenere ciò che desidera? Sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono compatibili con le logiche dell’arricchimento personale?
Il denaro da mezzo a fine In una società dominata dall’ordine di mercato (market system) ogni cosa dipende ed è connotata dal denaro. Il valore che attribuiamo al nostro lavoro, il valore delle cose che usiamo, il valore dei servizi pubblici a cui abbiamo accesso, il valore dei beni naturali… il valore di ogni cosa e ogni attività viene misurato, denominato e contabilizzato in valuta circolante. I frutti della terra, le attività che vengono svolte gratuitamente (pensiamo all’accudimento dei figli e delle persone non pienamente autosufficienti, alla presa in cura degli animali e delle piante, alla manutenzione delle proprie cose e del territorio) che non entrano nel circuito economico come merce perdono di visibilità e di considerazione sociale. In termini marxiani (e di tutte le teorie economiche classiche) ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso dei beni e dei servizi utili al vivere degli esseri umani. Per un economista, al pari di un commercialista e di un contabile, una attività che non genera denaro è priva di senso. Vedremo poi dove sta l’errore.
Mercificazione e mercatizzazione Diciamo che le cose stanno ancora peggio di così: il sistema di mercato per continuare ad espandersi ha bisogno di alimentarsi in continuazione annettendo tutto ciò che gli è attorno. Pensiamo ai cicli naturali dell’acqua, del clima, della fotosintesi clorofilliana, del cloro e del fosforo e così via. Ma pensiamo semplicemente agli oceani e allo spazio che stanno per essere intensamente colonizzati con i satelliti e con la geoingegneria. Passando dal macro al micro, pensiamo alla manipolazione genetica con la relativa brevettizzazione dei genomi. Passando dal materiale alla sfera delle relazioni sentimentali, pensiamo alle attività di cura personale tradizionalmente svolte in ambiti familiari, amicali e comunitari ed ora sempre più sussunti da imprese for profit assistenziali, sociosanitarie, educative, ecc. Siamo già entrati nell’era distopica del post umano; l’azienda Neuralink di neurotecnologie di Mask ha chiesto l’autorizzazione per impiantare interfacce neurali (chip) nei cervelli delle persone. Siatene certi che nei laboratori ciò è già avvenuto con gli animali. Con l’editing genetico (tecnologia Crispr-Ca59 sperimentata in larga scala con i vaccini anti Covid) è già possibile sintetizzare un embrione (di topo) senza utilizzare spermatozoi e cellule uovo, partendo da cellule staminali. I pseudo embrioni sono già tra noi.
Denaro è potere Forse è sempre stato così, fin dall’origine della divisione sociale del lavoro, dalla costruzione delle città, dalla fondazione dei regni e degli stati. Ma è certo che il sistema economico turbocapitalista neoliberale ha condizionato a tal punto la sostanza umana e naturale da ridurla a mero fattore di produzione: stock e flussi. Degradati a “capitale umano” e a “servizi ecosistemici” gli esseri viventi vengono incorporati come “risorse” nei cicli di valorizzazione dei capitali investiti. Tutto ciò che non diventa merce vendibile sparisce dall’ordine sociale e sembra non interessare la sfera delle relazioni pubbliche. Il capitalismo ragiona così, sulla base del calcolo della remunerazione degli investimenti, cioè della massimizzazione dei ricavi e dei profitti: payback e dividendi. L’economia nel capitalismo è: rendimenti alti e costi bassi. Il capitalismo è fatto di denaro, non ha anima e nemmeno ragionevolezza. Scrisse il padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti (1897 – 1989), dopo una lunga permanenza alla Olivetti di Ivrea: “La produzione industriale è qualche cosa di insaziabile. Non ci sono limiti: chi è preso dalla febbre del produrre trova sempre qualche cosa di nuovo da fabbricare.” (Io e le macchine, supplemento al n.6 di Genius, i mensili dell’Espresso, 1984).
Due “inconvenienti” L’“economia dei soldi” (come la chiamava Giorgio Nebbia), il capitalismo, ha due caratteristiche congenite: la centralizzazione della ricchezza e la distruzione della natura. Il dibattito in corso da più di due secoli negli ambienti più sensibili ai temi della giustizia sociale e della conservazione dell’ambiente naturale verte sul fatto se il sistema sociale capitalista sia o meno riformabile. I tentativi fin qui realizzati nel corso della storia in varie parti del mondo nel cercare di regolare la crescita economica in modo da incanalarla all’interno di obiettivi di equità e sostenibilità hanno dato esiti insoddisfacenti. Solo in alcune parti fortunate dell’enclave ricca del Nord globale, in alcune fasi storiche e a favore solo di alcune fasce sciali è stato raggiunto un livello di reddito e di benessere accettabile, mentre nel resto del mondo il modello di sviluppo industriale ha comportato tremendi squilibri sociali ed enormi devastazioni naturali. Non lasciamoci ingannare dalle bugie statistiche: misurare il benessere in “uno-virgola dollari/giorno” significa imporre un parametro universale neocoloniale ad ogni forma di civiltà diversa da quella mercantile. La regolamentazione del mercato per via politica nel tentativo di correggerne i “fallimenti”, attenuare le più odiose “distorsioni” e mitigare gli impatti indesiderati (altrimenti definiti nei manuali di economia “esternalità negative”) hanno comportato vari compromessi tra gli interessi delle parti sociali in conflitto, ma non hanno impedito la progressiva e sempre più rapida erosione delle basi materiali della vita sulla Terra e l’accentramento della ricchezza accumulata.
Squilibri distributivi Il sistema di mercato è forse capace di autoregolarsi sulla base di un’infinità di transazioni economiche effettuate da liberi cittadini che agiscono nel proprio interesse, ma è certo che il risultato finale non è affatto né anonimo, né impersonale. Il gioco non è alla pari e non determina un risultato “win-win”. Ogni “vincita” provoca un mare di sofferenze, crea una folla di “naufraghi dello sviluppo” (Serge Latouche), produce gerarchie di classe, di genere, di razza. Il potere economico è esercitato da persone in carne ed ossa che agiscono secondo precisi progetti, plasmando modi di produzione, relazioni sociali, sistemi organizzativi e distributivi, influenzando stili di vita e di consumo, istituendo determinate forme di governance. Siamo giunti alla situazione inaudita in cui esistono 58 persone fisiche multimiliardarie che possiedono circa metà della ricchezza globale. I primi 10 maggiori Fondi di investimento (i “titani” della finanza) controllano 50 mila miliardi di dollari, pari alla metà del Pil mondiale. Nei loro Consigli di amministrazione siedono in tutto 117 signori. Poche conglomerate controllano la maggioranza degli scambi transnazionali. Invece di scandalizzare, i dati che regolarmente pubblicano Oxfam e altri osservatori (vedi il Global Wealth Report della banca svizzera UBS) sulle ricchezze smisurate accumulate dai super-ricchi affascinano l’opinione pubblica. Ciò ci dà il senso di quanto in profondità sia penetrata nella cultura contemporanea l’ideologia dell’arricchimento.
Impatti antropogenici Il secondo “difetto” del sistema economico di libero mercato riguarda l’uso spropositato delle “risorse” naturali. L’“economia dei soldi” entra in conflitto con l’“economia della natura” – per usare la metafora creata da Ernst Heinrich Haeckel (1834 – 1919) per far capire cos’è l’ecologia, ossia la scienza sistemica che studia i rapporti complessi tra organismi viventi e ambiente. Come noto, le crescenti pressioni ambientali generate dall’industrializzazione stanno provocando, con inaudita accelerazione, la riduzione degli spazi vitali necessari per la riproduzione delle specie animali e vegetali. La biofisica del pianeta sta mutando. Così come la composizione chimica dell’atmosfera (la concentrazione media di anidride carbonica è simile a quella esistente nel Pliocene, tre milioni di anni fa) e il ph degli oceani. L’estrazione mineraria è raddoppiata negli ultimi 20 anni. La massa antropogenica (l’accumulo di infrastrutture, macchinari, oggetti) supera in peso la biomassa vegetale globale. Conseguentemente emissioni, scorie e rifiuti saturano la superficie terracquea. Il “metabolismo naturale” della biosfera non è più in grado di rigenerare la materia utilizzata. Tre/quarti della superficie terrestre è pesantemente compromessa. La spoliazione, il saccheggio, lo “stupro” della Terra, in termini scientifici, si definisce ecocidio. Inutile dire che le responsabilità, in un mondo disuguale, non sono equamente distribuite tra gli abitanti della Terra. Basti pensare che l’1% della popolazione più ricca emette il 66% dei gas climalteranti
Perché il sistema economico di mercato è irriformabile Il sistema di mercato dominato dal denaro è irriformabile rimanendo all’interno delle sue regole di base. I fallimenti fin qui riscontrati dalle politiche sociali ed ambientali volte alla sostenibilità e all’equità, almeno da quando le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’andamento esponenziale del trend della crescita economica (diciamo, per convenzione, dal rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo e dalla prima conferenza Onu sullo sviluppo umano, Stoccolma,1972), derivano dalla accettazione della stessa logica di fondo che sovraintende la crescita. Il procedimento usato dai decisori politici per impostare le azioni di correzione, mitigazione e adattamento del sistema socioeconomico (il punto più alto e organico della infinita serie di dichiarazioni, convenzioni, protocolli fin qui approvati è stato raggiunto con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, varata in sede Onu nel 2015, e poi con la strategia della Just Transition della Commissione Europea del 2019) è elementare: per invogliare le imprese a ristrutturare il proprio apparato produttivo (uscire dai fossili, ad esempio, e aumentare le quote di utili da destinate al fattore lavoro, occupazione e salari) è necessario offrire a loro delle opportunità economicamente più convenienti. Ciò significa creare nuovi mercati profittevoli, nuove domande di beni e di servizi, nuova crescita. La crescita tramite accumulazione di capitali da reinvestire (e remunerare) rimane la precondizione delle politiche riformiste sociali e ambientali di stampo keynesiano. Ed è qui che si forma il cortocircuito, come l’eterno ritorno alla casella iniziale nel gioco dell’oca: non esiste un aumento del Pil che non comporti un aumento dell’energia e delle materie impegnate nei cicli produttivi, distributivi e di consumo, da una parte e/o la diminuzione dei costi di produzione dall’altra. Non esiste un Pil smaterializzato, “angelizzato” (la battuta è di Herman Daly) che non si porti con sé un aumento del “consumo di natura” e una intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano. La formula magica del “decoupling” assoluto è una chimera. Il sistema di mercato ha un difetto di fabbricazione, un “baco” congenito: non ammette limitazioni alla sua crescita, si crede esterno alla natura, non vede che a breve termine e si illude della inesauribilità del mondo materiale.
Le false soluzioni della crescita verde Per tentare di aggirare l’ostacolo ed evitare di prendere in considerazione l’unica soluzione che sarebbe davvero efficace – la diminuzione diretta e netta del flusso di materie e di energie impiegate nei cicli economici – è stata tentata la strada delle compensazioni. Tanto prelevo e inquino, tanto pago/investo per rigenerare e disinquinare. A prima vista sembra una soluzione ragionevole. A tal fine (dal Protocollo di Kyoto,1997, per far fronte alla “emergenza” climatica) è stata inventata una serie di complessi meccanismi di mercato per disincentivare le imprese ad emettere CO2 e gas simili imponendo dei prezzi (carbon pricing) sotto forma di autorizzazioni e tasse (Cap end Trade). I ricavati avrebbero dovuto finanziare gli interventi di mitigazione e rigenerazione. Ancora una volta mercato e tecnologie sono stati chiamati a risolvere i problemi da essi stessi generati, con soluzioni “in house”. Tale meccanismo è stato proposto anche nelle Convenzioni per la conservazione della biodiversità. Peccato che alla base del principio della compensazione ci sia un errore ontologico: gli ecosistemi e i cicli ecologici non sono valutabili in denaro, non sono inscrivibili in un semplice foglio di calcolo costi/benefici, poiché non tutta l’energia è rinnovabile, non tutti i nuovi materiali di sintesi che vengono immessi sono biodegradabili, quasi mai i tempi di metabolizzazione e assorbimento degli inquinati sono compatibili con i tempi di ritorno degli investimenti degli impianti industriali che li hanno prodotti e, pertanto, i loro “costi” non sono attualizzabili. “Balene, elefanti, torbiere, aria pura: pochissimo è sfuggito allo sguardo rapace dei contabili”, ha scritto Adrienne Buller (Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde, add editore, 2024).
Prendersi cura Non potranno mai emergere delle green technologies, una green economy, una transizione ecologica che non siano guidate dalla volontà di instaurare una green and just society. Senza una intenzionalità e un progetto politico trasformativo del sistema economico oggi prevalente nel mondo sarà impossibile rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica e della sopportabilità sociale. Per uscire dalla “dittatura economica”, per riuscire ad espellere il denaro dalla vita, è necessario rovesciare come un calzino il significato e il senso dell’agire economico (oikos). L’economia deve essere intesa come null’altro che l’insieme delle attività di presa in cura della riproduzione della vita. Su questa linea hanno scritto un gran numero di studiose ecofemministe e studiosi di economia ecologica e della decrescita. Cito qui un autore controverso, Hans Immler, che a me pare particolarmente efficace: “Se sotto il termine economia viene intesa la formazione razionale dei rapporti materiali di una società, cioè la concreta determinazione produzione e riproduzione, crescita e sviluppo, distribuzione e consumo, ecc., allora natura e lavoro non sono il mezzo nella produzione sociale, bensì anche e soprattutto il fine e il risultato di ogni modo di produzione. Ma ciò significa che il processo di natura come unità di lavoro umano e natura esterna deve essere punto di partenza e fine di ogni economia” (Hans Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Introduzione di Piero Bevilacqua, Donzelli, 1993). In definitiva si torna a Karl Polanyi: l’economia va reincorporata nella società che a sua volta dipende dalla “economia della natura”. Un percorso di acquisizione di consapevolezza delle interrelazioni e interdipendenze che intrecciano ogni specie vivente, compresa quella umana.
L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 4 gennaio 2025
“L’idea di una guerra legale o, addirittura, giusta si basa sulla possibilità di controllare gli strumenti di distruzione, ma poiché l’incontrollabilità è parte di quella stessa capacità di distruzione non c’è guerra che non finisca per commettere un crimine contro l’umanità come la distruzione della vita civile”, scriveva la filosofa Judith Butler nel libro Regimi di guerra, del 2009 ma recentemente pubblicato in Italia da Castelvecchi. La guerra dunque è criminogena in quanto tale o, per dirla con le parole di Butler, “le guerre diventano forme permissibili di criminalità, ma non possono mai essere considerate non-criminali”. Il crimine della guerra sta subendo, nel tempo oscuro che attraversiamo, un salto di qualità negativa che – se non interrotto con un estremo sussulto di consapevolezza e responsabilità – porterà presto l’umanità ad un punto catastrofico di non ritorno, non solo a Gaza. Rispetto al quale i governi in carica delle cosiddette “democrazie liberali”, anziché moderare e frenare il processo distruttivo, costruendone le alternative nonviolente per risolvere i conflitti, pigiano sull’acceleratore dell’escalation. Che porta alla catastrofe etica, oltre che umanitaria.
A cominciare dal doppio standard con il quale, mentre contribuiscono ad alimentare una guerra senza quartiere né prospettiva in Europa, se non quella nucleare come segnaliamo fin dall’inizio – anziché promuovere un serio negoziato di pace con il presidente russo Putin, nei confronti del quale la Corte penale internazionale ha emanato un ordine di cattura per crimini di guerra – supportano con l’invio di armi mai interrotto il presidente israeliano Netanyahu, al quale, dopo oltre 45.000 vittime civili, il Tribunale dell’Aja ha riservato lo stesso trattamento, per crimini contro l’umanità. Ma in questo secondo caso, la reazione di gran parte di politica e stampa occidentali, alla notizia del mandato di cattura internazionale per Netanyahu, è risultata intrisa di comprensione e complicità con il criminale, anziché con le vittime palestinesi, con tratti di vero e proprio suprematismo di stampo colonialista. Che, peraltro, rinnega gli stessi valori della civiltà giuridica occidentale: che la legge sia uguale per tutti; che nessuno è al di sopra della legge; che i diritti umani sono universali; che non si risponde alla barbarie con una barbarie infinitamente superiore…Ma la coerenza è nemica di ogni fondamentalismo.
Del resto, fondamentalismo bellico è anche quello in corso nell’assurda guerra, sempre più globale, tra Nato e Russia – dopo oltre mille giorni dall’invasione russa dell’Ucraina e dieci anni di conflitto armato in Donbass, che ne è stato il presupposto – nella quale le vittime complessive (tra civili e militari, morti e feriti, russi e ucraini) sono stimate ormai in oltre un milione di persone. Guerra che l’Ucraina, che ne è l’avamposto, sta perdendo sul terreno, e che – invece di finire finalmente al tavolo delle trattative, dove ogni giorno che passa le potenziali condizioni per gli ucraini si aggravano – vede alzarsi l’asticella della follia con la discesa in campo dei missili statunitensi e franco-britannici a lunga gittata, che colpiscono fin dentro il territorio russo. E con l’uguale e contraria risposta russa con il missile ipersonico, per il momento armato in modalità convenzionale, ma che potrebbe evolvere nel nucleare e colpire – a sua volta – basi e città europee fornitrici di quei missili, ben oltre il territorio ucraino. Una corsa verso la catastrofe mondiale, che a parole nessuno vuole ma che tutti alimentano, secondo logiche non di diritto internazionale – che altrimenti varrebbero sia in Palestina che in Ucraina – ma volte a ribadire supremazie e aree di influenza planetarie, buttando sempre più benzina sul fuoco criminale della guerra.
E mentre la nuova “dottrina strategica” russa, appena varata, avvisa che potrebbe lanciare armi nucleari in risposta a un attacco sul suo territorio da parte di uno Stato non armato nuclearmente, se sostenuto da uno nucleare, dimostra che “la deterrenza nucleare, anziché garantire stabilità, alimenta insicurezze e tensioni crescenti proprie di una cultura di guerra” – come ribadisce Rete Italiana Pace e Disarmo – gli Stati Uniti, dopo i missili Atacms, hanno deciso di inviare in Ucraina anche le mine anti-persona. Ossia armi che mutilano e uccidono soprattutto i civili e per questo vietate dalla Convenzione di Ottawa fin dal 1997, sottoscritta anche dall’Ucraina, al contrario della Russia e degli USA. Il punto di non ritorno è, dunque, il ritorno agli orrori del passato, dall’uso delle mine alle armi nucleari, ma enormemente più distruttivi. Abbattendo progressivamente tutti i limiti al crimine supremo della guerra. “Nell’epoca delle armi nucleari, se non siamo noi ad abolire la guerra, sarà la guerra ad abolire la maggior parte di noi”, scriveva nel 1970 il politologo Karl Deutsch (Journal of the Conflict Resolution, 14): adesso siamo arrivati al dunque.
L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 29 novembre 2024