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L’economia dei soldi contro l’economia della natura

Foto di Antonio Citti

di Paolo Cacciari 

Norberto Bobbio diceva che “potere” è una parola “paravento”, perché nasconde molte diverse forme di esercizio del potere e di organizzazione dello stato, diversi modelli di “governance” – diremmo oggi – più o meno democratici, più o meno oligarchici, più o meno burocratizzati, più o meno comunitari. Il potere, infatti, viene esercitato attraverso una mistura di strutture e di strumenti di consenso e repressivi, simbolici e militari, economici e ideologici, consuetudinari e tecnologici. La posta in gioco del potere è il possesso di risorse naturali e umane tale da far valere la volontà di chi le gestisce.
È convinzione comune che nella società contemporanea il potere economico abbia via via assunto una posizione dominante su tutti gli altri ambiti della condizione umana. Assistiamo infatti alla subordinazione di tutte le sfere della vita – materiale e spirituale – al sistema economico. Attraverso il denaro l’economia ha catturato totalmente l’interesse delle persone, meritando assoluta obbedienza e religiosa venerazione. Di “dittatura dell’economia” ne parlò anche papa Bergoglio all’inizio del suo mandato (Papa Francesco, La dittatura dell’economia, a cura di Ugo Mattei, prefazione di Luigi Ciotti, Edizioni Gruppo Abele, 2020).

Economia vs politica
Il potere economico si è impadronito della sfera politica, qualunque sia la sua configurazione. Non mi riferisco solo al clientelismo, alla corruzione, al finanziamento delle campagne elettorali e al lobbismo – che pure hanno assunto una dimensione imbarazzante per gli stessi protagonisti; basti pensare a cosa sono diventate le campagne elettorali negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte suprema del 2010 che ha abolito ogni limite alle donazioni delle corporation a favore dei candidati (solo Musk ha speso più di 130 milioni di dollari nella campagna a favore di Trump) o al ruolo delle lobby nella UE dove operano 10 lobbisti accreditati per ogni parlamentare europeo. L’imperativo della crescita economica è stato introiettato dai partiti – sia da quelli conservatori che da quelli progressisti – come fine ultimo dell’agire politico. La pseudo competizione tra le forze politiche che si contendono il governo degli stati avviene per lo stesso obiettivo: far ottenere maggiori profitti alle imprese. Procedendo in tal modo i board (amministratori delegati, presidenti, consigli di amministrazione) delle compagnie più potenti sul mercato smettono di aver bisogno della mediazione politica, elaborano direttamente le policy e costituiscono le loro istituzioni finanziarie transnazionali (Fondo Internazionale Mondiale, Banca dei Regolamenti internazionale, ecc.), giuridiche (arbitrati), culturali (fondazioni filantropiche), di informazione (social), persino militari (Consiglio atlantico della Nato). Vedremo poi dove conduce l’errore di confondere la crescita del Pil con il bene comune e il benessere sociale.

Economia vs etica
Il potere economico esercitato attraverso il denaro si è impadronito anche della sfera etica e spirituale. Come ci hanno a suo tempo spiegato Max Weber e Walter Benjamin, l’economia è stata elevata a religione che professa il culto della crescita, officiato dagli economisti con i governanti nelle vesti di chierichetti. Il Bene è passato dalla Provvidenza alla “mano invisibile”, o – come si conviene nell’era tecnologica – al “pilota automatico” evocato dal banchiere Mario Draghi. Non è rimasto più nulla di sacro, di incommensurabile, di rispettabile in sé e per sé. Né l’umano, né il naturale.
L’economia di mercato sembra regolata da una legge sovrannaturale e si riproduce come per istinto, mossa dall’avidità, dall’egoismo, dall’interesse personale. A ciò fanno coerentemente seguito un’etica, una antropologia e persino una particolare psicologia. L’homo oeconomicus deve essere individualista, competitivo, virile, aggressivo, identitario, anaffettivo… ora anche patriottico, pronto, cioè, se non proprio ad impugnare le armi, a donare ai militari il 3 per cento, forse anche il 5% della ricchezza sociale.

Economia vs pace
Inutile dire che la sfera del potere economico è integrata nel “complesso militare-industriale”, come lo chiamava con timore uno che se ne intendeva, il generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti. Il connubio tra economia e militari funziona non solo in tempo di guerra – ci siamo vicini – ma “normalmente”. Non solo perché l’economia di guerra svolge una funzione “anticiclica” in periodi di scarsa accumulazione dei profitti (sembra che l’economia russa dopo tre anni di guerra stia andando a gonfie vele), non solo perché è dagli investimenti pubblici in armamenti che nascono le innovazioni tecnologiche che poi l’industria privata mette a frutto (“dualità” tra ricerca in campo militare e civile), ma perché la potenza militare è indispensabile per presidiare le sfere di influenza degli stati, i mercati di sbocco e le aree di approvvigionamento delle materie prime. Le guerre armate non sono altro che la prosecuzione delle guerre commerciali. L’idea illuministica secondo cui il libero commercio avrebbe avvicinato e pacificato i popoli si è rivelata nel suo opposto: una guerra economica generalizzata.

Economia vs saperi
Il potere economico è consustanziale alla scienza analitica-deduttiva galileiana, indispensabile per riuscire a trasformare la natura in un insieme di cose, di materiali e di energie da impiegare senza scrupoli nei cicli produttivi economici. Con Bacone e Cartesio l’ordine naturale si è rovesciato: sarà l’umano a dominare, assecondare, plasmare la natura. Le stupefacenti invenzioni che conosciamo nascono con una precisa intenzione e ubbidiscano ad un progetto predefinito di dominio utilitaristico ed “estrattivista”, diciamo oggi. Qualsiasi dispositivo tecnologico di cui ci siamo dotati è un prodotto socialmente determinato e cristallizza nel proprio disegno i valori e le visioni del mondo di chi l’ha pensato, creato e prodotto. Non tutti i ritrovati tecnologici possono essere usati a fin di bene; pensiamo all’energia nucleare. A chi crede che una lama sia solo una lama, ditegli di provate a sbucciare una mela con una scimitarra, o di uccidere una persona con un coltello da tavola.

Economia vs comunità
Vi è poi un’altra sfera di potere “derivato”, ma molto influente nella vita super-organizzata di tutti i giorni, quello amministrativo e giudiziario. Fino a qualche tempo fa questi poteri godevano di un’aura di indipendenza e neutralità costituzionalmente riconosciuta. Nelle teorie della pubblica amministrazione i “public services” sono i servitori dello Stato che devono limitarsi ad applicare leggi e regolamenti. In realtà i margini di autonomia nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme sono molto ampi. Con l’arretramento del ruolo delle assemblee elettive, l’uso dello spooling system e delle “porte girevoli” dei funzionari tra settore pubblico e privato, la sfera burocratica ha acquisito una crescente rilevanza. Inutile dire che la loro principale funzione è garantire la preservazione dei business as usual.

Economia, cioè crescita quindi benessere e democrazia?
Domandiamoci allora quali sono i motivi per cui la sfera economica è riuscita a prevalere su ogni altra dimensione del vivere umano e del vivente tutto. A mio avviso perché i più potenti agenti economici (coloro che posseggono i principali mezzi di produzione e di scambio e, quindi, di comunicazione) sono riusciti a far passare nella opinione comune due assiomi, due postulati che vengono presentati e assunti come verità evidenti in sé stesse. Il primo: la crescita economica aumenta la disponibilità di beni e servizi, quindi, migliora la vita e porta benessere. Il secondo: nel sistema economico di libero mercato la competizione avviene alla pari; quindi, colui che riesce ad offrire prodotti più convenienti agisce nell’interesse di tutti (Thomas Hobbes), pertanto merita di ottenere ciò che vuole. In forza della teoria dei vasi comunicanti, o della marea che sale nel porto e solleva tutte le imbarcazioni, o del tricky-down-effect, gli imprenditori capitalisti sono convinti che ciò che è utile a sé stessi sia utile a tutta l’umanità. Insinuare un dubbio in questa consolidata narrazione è faticoso e impopolare, poiché è tristemente vero che in questa società governata dal mercato solo chi possiede il denaro necessario può sperare di soddisfare le sue esigenze.
Il tema allora è: chi e a quali costi sociali e ambientali può permettersi di ottenere ciò che desidera? Sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono compatibili con le logiche dell’arricchimento personale?

Il denaro da mezzo a fine
In una società dominata dall’ordine di mercato (market system) ogni cosa dipende ed è connotata dal denaro. Il valore che attribuiamo al nostro lavoro, il valore delle cose che usiamo, il valore dei servizi pubblici a cui abbiamo accesso, il valore dei beni naturali… il valore di ogni cosa e ogni attività viene misurato, denominato e contabilizzato in valuta circolante. I frutti della terra, le attività che vengono svolte gratuitamente (pensiamo all’accudimento dei figli e delle persone non pienamente autosufficienti, alla presa in cura degli animali e delle piante, alla manutenzione delle proprie cose e del territorio) che non entrano nel circuito economico come merce perdono di visibilità e di considerazione sociale. In termini marxiani (e di tutte le teorie economiche classiche) ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso dei beni e dei servizi utili al vivere degli esseri umani. Per un economista, al pari di un commercialista e di un contabile, una attività che non genera denaro è priva di senso. Vedremo poi dove sta l’errore.

Mercificazione e mercatizzazione
Diciamo che le cose stanno ancora peggio di così: il sistema di mercato per continuare ad espandersi ha bisogno di alimentarsi in continuazione annettendo tutto ciò che gli è attorno. Pensiamo ai cicli naturali dell’acqua, del clima, della fotosintesi clorofilliana, del cloro e del fosforo e così via. Ma pensiamo semplicemente agli oceani e allo spazio che stanno per essere intensamente colonizzati con i satelliti e con la geoingegneria. Passando dal macro al micro, pensiamo alla manipolazione genetica con la relativa brevettizzazione dei genomi. Passando dal materiale alla sfera delle relazioni sentimentali, pensiamo alle attività di cura personale tradizionalmente svolte in ambiti familiari, amicali e comunitari ed ora sempre più sussunti da imprese for profit assistenziali, sociosanitarie, educative, ecc.
Siamo già entrati nell’era distopica del post umano; l’azienda Neuralink di neurotecnologie di Mask ha chiesto l’autorizzazione per impiantare interfacce neurali (chip) nei cervelli delle persone. Siatene certi che nei laboratori ciò è già avvenuto con gli animali. Con l’editing genetico (tecnologia Crispr-Ca59 sperimentata in larga scala con i vaccini anti Covid) è già possibile sintetizzare un embrione (di topo) senza utilizzare spermatozoi e cellule uovo, partendo da cellule staminali. I pseudo embrioni sono già tra noi.

Denaro è potere
Forse è sempre stato così, fin dall’origine della divisione sociale del lavoro, dalla costruzione delle città, dalla fondazione dei regni e degli stati. Ma è certo che il sistema economico turbocapitalista neoliberale ha condizionato a tal punto la sostanza umana e naturale da ridurla a mero fattore di produzione: stock e flussi. Degradati a “capitale umano” e a “servizi ecosistemici” gli esseri viventi vengono incorporati come “risorse” nei cicli di valorizzazione dei capitali investiti. Tutto ciò che non diventa merce vendibile sparisce dall’ordine sociale e sembra non interessare la sfera delle relazioni pubbliche. Il capitalismo ragiona così, sulla base del calcolo della remunerazione degli investimenti, cioè della massimizzazione dei ricavi e dei profitti: payback e dividendi. L’economia nel capitalismo è: rendimenti alti e costi bassi. Il capitalismo è fatto di denaro, non ha anima e nemmeno ragionevolezza. Scrisse il padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti (1897 – 1989), dopo una lunga permanenza alla Olivetti di Ivrea: “La produzione industriale è qualche cosa di insaziabile. Non ci sono limiti: chi è preso dalla febbre del produrre trova sempre qualche cosa di nuovo da fabbricare.” (Io e le macchine, supplemento al n.6 di Genius, i mensili dell’Espresso, 1984).

Due “inconvenienti”
L’“economia dei soldi” (come la chiamava Giorgio Nebbia), il capitalismo, ha due caratteristiche congenite: la centralizzazione della ricchezza e la distruzione della natura.
Il dibattito in corso da più di due secoli negli ambienti più sensibili ai temi della giustizia sociale e della conservazione dell’ambiente naturale verte sul fatto se il sistema sociale capitalista sia o meno riformabile. I tentativi fin qui realizzati nel corso della storia in varie parti del mondo nel cercare di regolare la crescita economica in modo da incanalarla all’interno di obiettivi di equità e sostenibilità hanno dato esiti insoddisfacenti. Solo in alcune parti fortunate dell’enclave ricca del Nord globale, in alcune fasi storiche e a favore solo di alcune fasce sciali è stato raggiunto un livello di reddito e di benessere accettabile, mentre nel resto del mondo il modello di sviluppo industriale ha comportato tremendi squilibri sociali ed enormi devastazioni naturali. Non lasciamoci ingannare dalle bugie statistiche: misurare il benessere in “uno-virgola dollari/giorno” significa imporre un parametro universale neocoloniale ad ogni forma di civiltà diversa da quella mercantile.
La regolamentazione del mercato per via politica nel tentativo di correggerne i “fallimenti”, attenuare le più odiose “distorsioni” e mitigare gli impatti indesiderati (altrimenti definiti nei manuali di economia “esternalità negative”) hanno comportato vari compromessi tra gli interessi delle parti sociali in conflitto, ma non hanno impedito la progressiva e sempre più rapida erosione delle basi materiali della vita sulla Terra e l’accentramento della ricchezza accumulata.

Squilibri distributivi
Il sistema di mercato è forse capace di autoregolarsi sulla base di un’infinità di transazioni economiche effettuate da liberi cittadini che agiscono nel proprio interesse, ma è certo che il risultato finale non è affatto né anonimo, né impersonale. Il gioco non è alla pari e non determina un risultato “win-win”. Ogni “vincita” provoca un mare di sofferenze, crea una folla di “naufraghi dello sviluppo” (Serge Latouche), produce gerarchie di classe, di genere, di razza.
Il potere economico è esercitato da persone in carne ed ossa che agiscono secondo precisi progetti, plasmando modi di produzione, relazioni sociali, sistemi organizzativi e distributivi, influenzando stili di vita e di consumo, istituendo determinate forme di governance. Siamo giunti alla situazione inaudita in cui esistono 58 persone fisiche multimiliardarie che possiedono circa metà della ricchezza globale. I primi 10 maggiori Fondi di investimento (i “titani” della finanza) controllano 50 mila miliardi di dollari, pari alla metà del Pil mondiale. Nei loro Consigli di amministrazione siedono in tutto 117 signori. Poche conglomerate controllano la maggioranza degli scambi transnazionali.
Invece di scandalizzare, i dati che regolarmente pubblicano Oxfam e altri osservatori (vedi il Global Wealth Report della banca svizzera UBS) sulle ricchezze smisurate accumulate dai super-ricchi affascinano l’opinione pubblica. Ciò ci dà il senso di quanto in profondità sia penetrata nella cultura contemporanea l’ideologia dell’arricchimento.

Impatti antropogenici
Il secondo “difetto” del sistema economico di libero mercato riguarda l’uso spropositato delle “risorse” naturali. L’“economia dei soldi” entra in conflitto con l’“economia della natura” – per usare la metafora creata da Ernst Heinrich Haeckel (1834 – 1919) per far capire cos’è l’ecologia, ossia la scienza sistemica che studia i rapporti complessi tra organismi viventi e ambiente. Come noto, le crescenti pressioni ambientali generate dall’industrializzazione stanno provocando, con inaudita accelerazione, la riduzione degli spazi vitali necessari per la riproduzione delle specie animali e vegetali. La biofisica del pianeta sta mutando. Così come la composizione chimica dell’atmosfera (la concentrazione media di anidride carbonica è simile a quella esistente nel Pliocene, tre milioni di anni fa) e il ph degli oceani. L’estrazione mineraria è raddoppiata negli ultimi 20 anni. La massa antropogenica (l’accumulo di infrastrutture, macchinari, oggetti) supera in peso la biomassa vegetale globale. Conseguentemente emissioni, scorie e rifiuti saturano la superficie terracquea. Il “metabolismo naturale” della biosfera non è più in grado di rigenerare la materia utilizzata. Tre/quarti della superficie terrestre è pesantemente compromessa. La spoliazione, il saccheggio, lo “stupro” della Terra, in termini scientifici, si definisce ecocidio.
Inutile dire che le responsabilità, in un mondo disuguale, non sono equamente distribuite tra gli abitanti della Terra. Basti pensare che l’1% della popolazione più ricca emette il 66% dei gas climalteranti

Perché il sistema economico di mercato è irriformabile
Il sistema di mercato dominato dal denaro è irriformabile rimanendo all’interno delle sue regole di base. I fallimenti fin qui riscontrati dalle politiche sociali ed ambientali volte alla sostenibilità e all’equità, almeno da quando le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’andamento esponenziale del trend della crescita economica (diciamo, per convenzione, dal rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo e dalla prima conferenza Onu sullo sviluppo umano, Stoccolma,1972), derivano dalla accettazione della stessa logica di fondo che sovraintende la crescita. Il procedimento usato dai decisori politici per impostare le azioni di correzione, mitigazione e adattamento del sistema socioeconomico (il punto più alto e organico della infinita serie di dichiarazioni, convenzioni, protocolli fin qui approvati è stato raggiunto con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, varata in sede Onu nel 2015, e poi con la strategia della Just Transition della Commissione Europea del 2019) è elementare: per invogliare le imprese a ristrutturare il proprio apparato produttivo (uscire dai fossili, ad esempio, e aumentare le quote di utili da destinate al fattore lavoro, occupazione e salari) è necessario offrire a loro delle opportunità economicamente più convenienti. Ciò significa creare nuovi mercati profittevoli, nuove domande di beni e di servizi, nuova crescita. La crescita tramite accumulazione di capitali da reinvestire (e remunerare) rimane la precondizione delle politiche riformiste sociali e ambientali di stampo keynesiano. Ed è qui che si forma il cortocircuito, come l’eterno ritorno alla casella iniziale nel gioco dell’oca: non esiste un aumento del Pil che non comporti un aumento dell’energia e delle materie impegnate nei cicli produttivi, distributivi e di consumo, da una parte e/o la diminuzione dei costi di produzione dall’altra. Non esiste un Pil smaterializzato, “angelizzato” (la battuta è di Herman Daly) che non si porti con sé un aumento del “consumo di natura” e una intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano. La formula magica del “decoupling” assoluto è una chimera.
Il sistema di mercato ha un difetto di fabbricazione, un “baco” congenito: non ammette limitazioni alla sua crescita, si crede esterno alla natura, non vede che a breve termine e si illude della inesauribilità del mondo materiale.

Le false soluzioni della crescita verde
Per tentare di aggirare l’ostacolo ed evitare di prendere in considerazione l’unica soluzione che sarebbe davvero efficace – la diminuzione diretta e netta del flusso di materie e di energie impiegate nei cicli economici – è stata tentata la strada delle compensazioni. Tanto prelevo e inquino, tanto pago/investo per rigenerare e disinquinare. A prima vista sembra una soluzione ragionevole. A tal fine (dal Protocollo di Kyoto,1997, per far fronte alla “emergenza” climatica) è stata inventata una serie di complessi meccanismi di mercato per disincentivare le imprese ad emettere CO2 e gas simili imponendo dei prezzi (carbon pricing) sotto forma di autorizzazioni e tasse (Cap end Trade). I ricavati avrebbero dovuto finanziare gli interventi di mitigazione e rigenerazione. Ancora una volta mercato e tecnologie sono stati chiamati a risolvere i problemi da essi stessi generati, con soluzioni “in house”. Tale meccanismo è stato proposto anche nelle Convenzioni per la conservazione della biodiversità.
Peccato che alla base del principio della compensazione ci sia un errore ontologico: gli ecosistemi e i cicli ecologici non sono valutabili in denaro, non sono inscrivibili in un semplice foglio di calcolo costi/benefici, poiché non tutta l’energia è rinnovabile, non tutti i nuovi materiali di sintesi che vengono immessi sono biodegradabili, quasi mai i tempi di metabolizzazione e assorbimento degli inquinati sono compatibili con i tempi di ritorno degli investimenti degli impianti industriali che li hanno prodotti e, pertanto, i loro “costi” non sono attualizzabili. “Balene, elefanti, torbiere, aria pura: pochissimo è sfuggito allo sguardo rapace dei contabili”, ha scritto Adrienne Buller (Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde, add editore, 2024).

Prendersi cura
Non potranno mai emergere delle green technologies, una green economy, una transizione ecologica che non siano guidate dalla volontà di instaurare una green and just society. Senza una intenzionalità e un progetto politico trasformativo del sistema economico oggi prevalente nel mondo sarà impossibile rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica e della sopportabilità sociale.
Per uscire dalla “dittatura economica”, per riuscire ad espellere il denaro dalla vita, è necessario rovesciare come un calzino il significato e il senso dell’agire economico (oikos). L’economia deve essere intesa come null’altro che l’insieme delle attività di presa in cura della riproduzione della vita. Su questa linea hanno scritto un gran numero di studiose ecofemministe e studiosi di economia ecologica e della decrescita. Cito qui un autore controverso, Hans Immler, che a me pare particolarmente efficace: “Se sotto il termine economia viene intesa la formazione razionale dei rapporti materiali di una società, cioè la concreta determinazione produzione e riproduzione, crescita e sviluppo, distribuzione e consumo, ecc., allora natura e lavoro non sono il mezzo nella produzione sociale, bensì anche e soprattutto il fine e il risultato di ogni modo di produzione. Ma ciò significa che il processo di natura come unità di lavoro umano e natura esterna deve essere punto di partenza e fine di ogni economia” (Hans Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Introduzione di Piero Bevilacqua, Donzelli, 1993). In definitiva si torna a Karl Polanyi: l’economia va reincorporata nella società che a sua volta dipende dalla “economia della natura”.
Un percorso di acquisizione di consapevolezza delle interrelazioni e interdipendenze che intrecciano ogni specie vivente, compresa quella umana.

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 4 gennaio 2025

 

Sullo stesso tema:
JOHN HOLLOWAY. Vita contro denaro. Elogio delle follie necessarie.



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Arrivati al dunque. Verso il punto di non ritorno nel crimine supremo della guerra

Immagine generata dall’intelligenza artificiale

di  Pasquale Pugliese

“L’idea di una guerra legale o, addirittura, giusta si basa sulla possibilità di controllare gli strumenti di distruzione, ma poiché l’incontrollabilità è parte di quella stessa capacità di distruzione non c’è guerra che non finisca per commettere un crimine contro l’umanità come la distruzione della vita civile”, scriveva la filosofa Judith Butler nel libro Regimi di guerra, del 2009 ma recentemente pubblicato in Italia da Castelvecchi. La guerra dunque è criminogena in quanto tale o, per dirla con le parole di Butler, “le guerre diventano forme permissibili di criminalità, ma non possono mai essere considerate non-criminali”. Il crimine della guerra sta subendo, nel tempo oscuro che attraversiamo, un salto di qualità negativa che – se non interrotto con un estremo sussulto di consapevolezza e responsabilità – porterà presto l’umanità ad un punto catastrofico di non ritorno, non solo a Gaza. Rispetto al quale i governi in carica delle cosiddette “democrazie liberali”, anziché moderare e frenare il processo distruttivo, costruendone le alternative nonviolente per risolvere i conflitti, pigiano sull’acceleratore dell’escalation. Che porta alla catastrofe etica, oltre che umanitaria.

A cominciare dal doppio standard con il quale, mentre contribuiscono ad alimentare una guerra senza quartiere né prospettiva in Europa, se non quella nucleare come segnaliamo fin dall’inizio – anziché promuovere un serio negoziato di pace con il presidente russo Putin, nei confronti del quale la Corte penale internazionale ha emanato un ordine di cattura per crimini di guerra – supportano con l’invio di armi mai interrotto il presidente israeliano Netanyahu, al quale, dopo oltre 45.000 vittime civili, il Tribunale dell’Aja ha riservato lo stesso trattamento, per crimini contro l’umanità. Ma in questo secondo caso, la reazione di gran parte di politica e stampa occidentali, alla notizia del mandato di cattura internazionale per Netanyahu, è risultata intrisa di comprensione e complicità con il criminale, anziché con le vittime palestinesi, con tratti di vero e proprio suprematismo di stampo colonialista. Che, peraltro, rinnega gli stessi valori della civiltà giuridica occidentale: che la legge sia uguale per tutti; che nessuno è al di sopra della legge; che i diritti umani sono universali; che non si risponde alla barbarie con una barbarie infinitamente superiore…Ma la coerenza è nemica di ogni fondamentalismo.

Del resto, fondamentalismo bellico è anche quello in corso nell’assurda guerra, sempre più globale, tra Nato e Russia – dopo oltre mille giorni dall’invasione russa dell’Ucraina e dieci anni di conflitto armato in Donbass, che ne è stato il presupposto – nella quale le vittime complessive (tra civili e militari, morti e feriti, russi e ucraini) sono stimate ormai in oltre un milione di persone. Guerra che l’Ucraina, che ne è l’avamposto, sta perdendo sul terreno, e che – invece di finire finalmente al tavolo delle trattative, dove ogni giorno che passa le potenziali condizioni per gli ucraini si aggravano – vede alzarsi l’asticella della follia con la discesa in campo dei missili statunitensi e franco-britannici a lunga gittata, che colpiscono fin dentro il territorio russo. E con l’uguale e contraria risposta russa con il missile ipersonico, per il momento armato in modalità convenzionale, ma che potrebbe evolvere nel nucleare e colpire – a sua volta – basi e città europee fornitrici di quei missili, ben oltre il territorio ucraino. Una corsa verso la catastrofe mondiale, che a parole nessuno vuole ma che tutti alimentano, secondo logiche non di diritto internazionale – che altrimenti varrebbero sia in Palestina che in Ucraina – ma volte a ribadire supremazie e aree di influenza planetarie, buttando sempre più benzina sul fuoco criminale della guerra.

E mentre la nuova “dottrina strategica” russa, appena varata, avvisa che potrebbe lanciare armi nucleari in risposta a un attacco sul suo territorio da parte di uno Stato non armato nuclearmente, se sostenuto da uno nucleare, dimostra che “la deterrenza nucleare, anziché garantire stabilità, alimenta insicurezze e tensioni crescenti proprie di una cultura di guerra” – come ribadisce Rete Italiana Pace e Disarmo – gli Stati Uniti, dopo i missili Atacms, hanno deciso di inviare in Ucraina anche le mine anti-persona. Ossia armi che mutilano e uccidono soprattutto i civili e per questo vietate dalla Convenzione di Ottawa fin dal 1997, sottoscritta anche dall’Ucraina, al contrario della Russia e degli USA. Il punto di non ritorno è, dunque, il ritorno agli orrori del passato, dall’uso delle mine alle armi nucleari, ma enormemente più distruttivi. Abbattendo progressivamente tutti i limiti al crimine supremo della guerra. “Nell’epoca delle armi nucleari, se non siamo noi ad abolire la guerra, sarà la guerra ad abolire la maggior parte di noi”, scriveva nel 1970 il politologo Karl Deutsch (Journal of the Conflict Resolution, 14): adesso siamo arrivati al dunque.

L’articolo è stato pubblicato su Annotazioni il 29 novembre 2024

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Uno spettro si aggira per l’Europa: non è il comunismo, ma la guerra

di Giuseppe Manenti

Questo testo nasce da una mia proposta a Gianni Giovannelli che ha dato anche un notevole contributo di suggerimenti e di stesura. Stimolato dal suo “Tempesta e bonaccia”  dove la nostra “bonaccia” mentre corrisponde a eccidi e genocidi,  non ci lascia indenni, ma ci rende sempre più impotenti, impoveriti e disarmati di fronte all’avidità del potere e del capitale. Tuttavia mi ritengo insoddisfatto perché avrei voluto essere in grado di motivare ad insorgere contro la guerra, a trovare gli argomenti convincenti e cogenti, a trovare i punti,  i modi, le leve per rivoltare questa “bonaccia”. Allora mi rivolgo ai compagni e spero che arrivino da loro idee, propositi, tutto quello che serve per fare la guerra alla guerra. (G.M.)

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Tutti i partiti di governo e di opposizione si dichiarano contro la guerra. Intanto continuano a vendere armi e le industrie che le producono si arricchiscono esponenzialmente, anche grazie a un trattamento fiscale favorevole.

La sola Leonardo italiana ha triplicato il valore delle proprie azioni in tre anni. Il ministro della difesa, Crosetto, nel 2021, ha ricevuto 619.000 euro da questa società,  quale compenso per la funzione di advisor, svolta quale presidente dell’Aiad. Per gli azionisti continua la buona stagione.

L’impegno finanziario dell’Italia nei confronti dell’Ucraina è presumibilmente tre volte superiore a quel che ci dicono i dati ufficiali: i 2,2 miliardi di euro dichiarati come aiuti militari, stante la mancanza di trasparenza, si calcola possano essere almeno 5 miliardi complessivi reali, sottratti alla spesa sociale. E andrebbero aggiunti i danni, notevoli, provocati dal conflitto e dalle sanzioni che vanno a gravare sull’economia delle singole famiglie nel nostro paese.

In concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina si apre la guerra del gas, con cui l’America ha risolto il problema del suo gas liquido che secondo Einhorn (fu lui, con un anno di anticipo, a prevedere che Lehman Brothers sarebbe saltata) era una bolla che gravava per 100 miliardi di dollari di perdite su Wall Street. Le sanzioni contro il gas russo e l’offerta che non si poteva rifiutare del gas americano a 80dollari al mq, provocarono un meccanismo perverso, il prezzo di questo gas “made in USA” indicizzato alla Borsa Olandese fu usato nei contratti commerciali per rivendere il gas russo, mentre il gas russo, al prezzo stimato dai 2 ai 10 dollari, continuava a fluire nei gasdotti per i contratti in essere. Le Compagnie che ricevevano il gas russo fecero guadagni stellari alle spalle della popolazione europea, salutando questa guerra come un bengodi ed ovviamente erano poco interessate a fermarla. Anche questa guerra commerciale ha provocato sofferenze e disagi.

Il governo Meloni partecipa attivamente al conflitto ucraino , continuando a stanziare miliardi di euro in finanziamenti e ad inviare armi e istruttori assieme alla NATO.

Anche perché dopo le armi e le distruzioni, il business della guerra continua e le industrie e le banche italiane sono pronte a partecipare al grande affare della “ricostruzione dell’Ucraina”. che implica liberismo sfrenato, sfruttamento di masse ridotte alla fame.

Chi paga tutto ciò? L’85% degli Italiani che non vogliono la continuazione della guerra, ma la pace, ora e subito!

Gli USA dichiarano di volere la pace in Palestina, intanto riforniscono di armi il governo israeliano e pongono nelle sedi ONU il veto a tutte le proposte finalizzate ad interrompere la carneficina in atto: la pulizia etnica continua, a Gaza e in Cisgiordania.

I conflitti in corso non cessano, anzi aumentano, sono ormai innumerevoli: Ucraina – Russia, Palestina – Israele, Mar Rosso – Yemen,

Libano, Tigray, Sudan, Siria, Iraq, Rojava…

L’Italia, nell’area mediorientale e mediterranea, mantiene 35 Missioni Militari, con una spesa di oltre 1,4 miliardi nel 2023. Inoltre partecipa, con un contingente, in Bulgaria, Lettonia e Ungheria alle attività di addestramento del Multinational Battle Group Bulgaria,  operazioni che sono svolte congiuntamente ai gruppi tattici NATO già esistenti in Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania e Slovacchia e si estendono lungo il fianco orientale della NATO, dal Mar Baltico al Mar Nero.

L’Unione europea era nata in forma di Comunità solidale, per affermare un «mai più» la guerra sul proprio territorio. Ha continuato, silenziosamente, ad appoggiare  l’estensione a est della NATO, pur tenendo fermi gli affari in corso; ha chiuso gli occhi sul conflitto armato nel Donbass e sul mancato rispetto degli accordi di concessione dell’autonomia, fino all’annessione della Crimea. Quando la Federazione Russa ha invaso l’Ucraina avrebbe potuto, e anzi dovuto, far sentire tutto il peso  diplomatico per dirimere lo scontro, per fermare la guerra. Invece ha accettato di  svolgere una funzione ancillare, subendo le conseguenze di sanzioni dirette contro la Russia, senza danno per gli Stati Uniti e per il Regno Unito, con gravi perdite economiche per le popolazioni dell’Unione, soprattutto italiane e tedesche.

In questi mesi è emersa la miopia politica del Partito Democratico in Italia e dei Grunen in Germania, lesti entrambi a ricoprire il ruolo di falchi e di promotori di un costante invio di armi al fronte ucraino, sottraendo al tempo stesso risorse alla spesa sociale interna, in sostanza segando il ramo dell’albero su cui sedevano quali rappresentanti progressisti dei ceti più deboli. Così hanno consentito al partito neofascista di Giorgia Meloni e all’estrema destra tedesca di recuperare un ampio consenso popolare, di essere ammessi nel contenitore democratico complessivo, di prepararsi al sostegno di Ursula Von der Leyen dopo le ormai prossime elezioni europee, magari estromettendo dal governo dell’Unione questi sciocchi apprendisti stregoni di sinistra, o, comunque, partecipando alla divisione della torta.

Invece di cercare con pazienza e pervicacia una mediazione, magari con attente concessioni pur di chiudere le ostilità, l’esecutivo europeo, alla testa di una vasta maggioranza parlamentare, si è messo al servizio degli USA e della NATO, vaneggiando di “Resistenza” cui fornire di armi, proprio quando l’esodo di milioni di ucraini dimostrava una crescente tendenza popolare alla diserzione. Secondo le stime dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) sono più di 8 milioni i profughi ucraini che si trovano in Europa (e, aggiungiamo noi, che non sembrano avere alcuna intenzione di rientrare a casa). L’alto commissariato rileva inoltre quasi 22 milioni di attraversamenti in uscita dal paese dal 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione russa in Ucraina, al 16 maggio 2023, malgrado l’arruolamento forzoso e violento degli uomini dai 18 ai 60 anni decretato dal Presidente Zelensky. L’alto tasso di corruzione si è tradotto in un lucroso commercio di visti, lasciapassare, esenzioni, deroghe; improbabile che l’attuale governo di Kiev abbia davvero la possibilità di arginare questa fuga di massa. La “Resistenza” è, per definizione, l’opposizione armata nei territori occupati da un invasore, dopo la caduta del governo istituzionale prima in carica, sotto i colpi del nemico esterno; dunque, tecnicamente, potremmo parlare di “Resistenza” in Crimea o a Mariupol, ove però non se ne trova traccia. Infatti gli addetti militari la chiamavano non “Resistenza” ma “Controffensiva”; ma, con buona pace di chi straparla di invio di armi fino alla “vittoria certa”, non pare abbia avuto  successo. Non basta dirlo. Il Duce, che tanto piace a Giorgia Meloni, gridò VINCERE! dal balcone romano di Palazzo Venezia prima di invadere, a sua volta, l’Ucraina (all’epoca parte dell’URSS) ma il motto  non gli portò bene.

Occorre dire qualcosa su questo onnipresente attore, sempre in tenuta militare, quasi sempre in maglietta verde, per mostrare i muscoli: Zelensky diventò presidente nel 2019, dopo essere stato inventore e protagonista di una serie televisiva, in onda con enorme successo su un canale di proprietà dell’oligarca ucraino Igor Kolomoisky. Recitava la parte di un presidente integerrimo, un po’ ingenuo; ciò lo rese molto popolare, soprattutto molto ricco, tanto che in soli due anni di presidenza Zelensky si era già ”guadagnato” due ville milionarie: una a Forte dei Marmi e una a Miami, più vari conti esteri e offshore. Fu il trampolino che lo portò alla presidenza. Niente ci impedisce di pensare che la sceneggiatura di questa serie sia stata fin da subito concepita come una campagna elettorale anticipata e che ci sia stata la guida oculata della CIA, per giungere al controllo del territorio. O forse hanno solo colto l’occasione al volo. Poco cambia.

Cinque giorni prima dell’invasione sovietica il cancelliere tedesco Scholz propose a Zelensky aderire a un accordo di pace tra Russia e Ucraina, preparato nella primavera del 2022, a seguito degli incontri di Istanbul che prevedeva che l’Ucraina avrebbe avuto uno status di neutralità non allineata e non nucleare e Zelensky avrebbe rinunciato alla richiesta di aderire alla NATO.

Il documento fu rifiutato da Joe Biden e dall’allora primo ministro britannico Boris Johnson  i quali misero alle strette Zelensky che, dopo qualche titubanza, rifiutò il compromesso proposto da Erdogan, avendo avuto ampie promesse di sostegno militare e mediatico, oltre che un ampio riconoscimento economico.

Varò allora una legge che vietava ogni trattativa, in qualità di interprete del popolo ucraino, a suo dire irremovibile nel pretendere l’ingresso del Paese nella NATO. La guerra divenne la ribalta a cui Zelensky non può più rinunciare.

L’attentato in cui fu distrutto il gasdotto che portava il gas russo in Germania, convinse Scholz a ad adeguarsi alle decisioni americane e inglesi.

La guerra “per procura” sul suolo europeo, presente nella strategia americana di destabilizzazione della Russia, poteva iniziare.

Inizialmente gli Americani cercarono di sbarazzarsene, tanto da proporgli la fuga come alternativa. Per poi sostituirlo con altro soggetto più affidabile. Lui preferì rimanere, cercando, da avventuriero, un posto nella storia, vestendo da attore consumato i panni dell’irriducibile combattente, pronto a scambiare il permanere a oltranza della guerra e la carneficina degli Ucraini con il potere e il bottino.

Attualmente si contende la scena di guerra con Netanyahu; pure lui è impegnato a dare continui ordini di uccidere, a provocare una carneficina. E ha il controllo del fronte, colpisce una folla inerme, tanto che si discute se ormai si tratti di strage o di genocidio.

Sia quel che sia, questo è il suo salvacondotto per rimanere Presidente di Israele.

I nazisti perseguitavano gli ebrei in tutto il mondo (non in un solo paese). Ne uccisero circa sei milioni; un po’ meno di quanti sono oggi gli ebrei di Israele (6.600.000), un po’ di più di quanti sono oggi gli ebrei nordamericani (5.700.000). Come gli ebrei anche i palestinesi sono oggi in tutto circa 15 milioni; metà degli ebrei e metà dei palestinesi non vivono nell’area di guerra, ma all’estero, altrove.  Gli ebrei di Israele sono una minoranza (45% del totale nel mondo); i palestinesi di Israele sono il 20% della popolazione, nell’area del conflitto sono pure loro il 45% del totale nel mondo. Gli arabi sono invece ben 450 milioni, abitano un territorio vastissimo, tutto intorno alla Palestina, un puntino nel mezzo! Basterebbe analizzare l’oggettività i numeri per comprendere che ci troviamo di fronte ad una follia cui bisogna porre termine al più presto.

Non è affatto impossibile, ma bisogna volerlo, e imporlo. Il 22 luglio 1946 un gruppo armato sionista fece esplodere l’hotel King David a Gerusalemme, attaccando la sede diplomatica inglese e provocando 91 morti. Eppure i fili furono riannodati, si giunse infine ad un accordo. Il primo governo di Israele  era presieduto da Ben Gurion, un polacco. Il suo partito di origine, Akhadut, era sionista, ma anche marxista; divenne il Mapai, una specie di Labour Party. Il sionismo delle origini aveva due (o più) anime. La migliore somigliava più alle comunità utopiche del socialismo ottocentesco che ai nazionalisti autoritari; la peggiore ci ricorda invece da vicino la linea boera dell’apartheid sudafricana. “Razzista” è solo chi appiattisce sionisti ed ebrei dentro una scelta di strage che il governo israeliano sta attuando; non sono entità in alcun modo sovrapponibili, umanamente e storicamente.

Il pericolo europeo sta in personaggi come Emanuel Macron o Ursula von der Leyen; entrambi, invece di organizzare negoziati di pace, pensano di trovare un ruolo nell’Europa belligerante. Vanno fermati. La “pace”, qui e oggi, non è solo legittima  autodifesa, o ragionevole desiderio. E piuttosto un programma politico, il primo punto all’ordine del giorno. L’alternativa è il baratro. Socialisme ou Barbarie si traduce qui, ora, in Pace o Morte.

I deliri dei dementi

I tiranni lottano per impedire la pace. Hanno bisogno della guerra. Si trastullano con dichiarazioni improvvide, prospettano la possibilità di mandare in Ucraina soldati degli eserciti nazionali europei, visto che la carne da cannone locale non è per loro sufficiente.

Abbiamo visto Macron, Scholz e Tusk, uniti da un intreccio di mani e sorridenti come tre compagnoni usciti un po’ brilli dall’osteria, dichiarare la loro indissolubile volontà di “difendere” l’Ucraina. Governa l’Europa chi la vuole distruggere.

Abbiamo sentito Ursula von der Leyen invocare il motto latino “Si vis pacem, para bellum” con il quale pretende di aver trovato la chiave di volta del suo pensiero, l’ignoranza si appaga sempre dell’idea più scontata, eppure c’è un altro motto latino su cui dovrebbe riflettere e su cui noi riflettiamo “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”

Che si allarghi l’area del conflitto non pare preoccupare il presidente francese e gli altri leader, infatti il potere ha preparato da tempo cittadelle di rifugio e di comando, accentrando in modo spasmodico risorse economiche e finanziarie, promuovendo guerre distruttive alle periferie.

Gli USA hanno finora ottenuto di tenere la guerra, ancora una volta, sul palcoscenico della vecchia Europa: solo il popolo, quindi, è carne da macello.

«Non c’è più spazio per le illusioni, Putin ha usato il dividendo della pace per prepararsi alla guerra. L’Europa deve svegliarsi», ha scandito la scorsa settimana al Parlamento europeo Ursula von der Leyen.

La maggioranza si è abbandonata ad una scandalosa ovazione. Ursula propone la giunta dei tiranni: la via maestra per farlo si chiama Strategia europea per l’industria della difesa (Edis), il Programma che ne dovrebbe derivare prevede lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro di qui alla fine del 2025 per costruire, appunto, la «prontezza della difesa europea» (cioè la guerra).

Si profila la possibilità di acquisti congiunti europei – operati dunque direttamente dalla Commissione per conto degli Stati membri – di materiale bellico. «Proprio come abbiamo fatto con grande successo coi vaccini o col gas naturale» nell’ultimo triennio, aveva anticipato Ursula von der Leyen al Parlamento. Dopo il colpo grosso dei vaccini con i contratti segretati, la von der Leyen si prepara a farne un altro con le armi.

Queste spese saranno finanziate tagliando ulteriormente welfare, energie alternative, ecologia.

La componente verde, in versione tedesca e francese soprattutto, non comprende che ecologia e guerra non possono convivere.

I Verdi hanno tradito il loro stesso programma, hanno perduto le loro origini. Non lo capiscono, ma stanno diventando le mosche cocchiere del  nuovo dispotismo, dell’inquinamento, delle armi; preparano l’arrivo di un ceto politico che non avrà certo pietà per i comunisti, ma neppure risparmierà loro.

Non ci sono alternative alla pace!

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 25 marzo 2024

L’immagine di apertura è ”Carica dei lancieri” di Umberto Boccioni. Fonte/Fotografo: Opera propria, RiottosoWikimedia

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Rabbini americani entrano nel Palazzo di Vetro per chiedere il cessate il fuoco a Gaza

di Pressenza – Redazione Italia

Il 9 gennaio trentasei rabbini americani sono entrati nell’aula del Consiglio di sicurezza e in quella dell’Assemblea Generale al Palazzo di Vetro, sede delle Nazioni Unite, chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza e invitando Joe Biden a “smettere di porre il veto alla pace”.

Siamo qui all’ONU per ricordare a Biden che tutto il mondo dice: Cessate il fuoco. Smettete di porre il veto alla pace” si legge nei post di Rabbis 4 Ceasefire.

Siamo qui per dire: Non c’è soluzione militare a questa violenza. L’ONU è il luogo in cui è possibile intraprendere un’azione diplomatica significativa per fermare la violenza. Siamo qui per sostenere l’ONU e respingere l’iniziativa della delegazione degli Stati Uniti e rifiutare il suo veto. Siamo qui per sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite verso un cessate il fuoco.

L’ONU può svolgere un ruolo chiave nel fermare questa guerra, nel salvare vite umane e nel portare la pace. Siamo qui per sostenere le Nazioni Unite in questo senso. Siamo qui per dare voce al nostro sostegno per ottenere assistenza umanitaria ai palestinesi sfollati, affamati e senza un posto sicuro dove andare.

L’ONU è stata creata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto, proprio per dire “Mai più”. Siamo qui come ebrei, come rabbini, per esortare le Nazioni Unite a portare avanti questa nobile missione. Mai più significa mai più per nessuno di noi.

L’Assemblea Generale ha già votato a stragrande maggioranza a favore del cessate il fuoco, ma la delegazione americana sta ostacolando gli sforzi del Consiglio di Sicurezza per intraprendere un’azione significativa per il cessate il fuoco. Gli Stati Uniti stanno ostacolando l’azione della comunità internazionale per salvare vite umane”.

L’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 10 gennaio 2024

La foto è di Rabbis for Ceasefire 

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Raffaele Crocco: “La pace non dev’essere la fine di una guerra, ma la normalità”

di Laura Tussi

Quella di Raffaele Crocco è una vita spesa a costruire e montare reportage e a portare testimonianze dai vari luoghi di conflitto armato nel mondo per contribuire prima di tutto a un’informazione seria, vera, equa, giusta. Oltre a essere giornalista Rai e inviato di guerra infatti, Raffaele è anche direttore di due progetti divulgativi, Unimondo e Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, che trattano di vari temi che spaziano dalla nonviolenza ai conflitti nel mondo, senza dimenticare ovviamente l’attuale e stringente situazione in Ucraina.

Come si pongono Unimondo e Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo rispetto a queste prospettive apocalittiche, ma che possono con il tempo concretizzarsi e diventare realtà, soprattutto tramite l’escalation bellica tra le due superpotenze coinvolte nel conflitto ucraino?
Noi che siamo pacifisti e nonviolenti non parteggiamo per una parte o per un’altra, anche se cerchiamo di comprendere e studiare le motivazioni geopolitiche di entrambe. Ma ci si rende sempre più conto che la ragione non sta e non sarà mai con il potere guerrafondaio, con il militarismo a oltranza, con il reclutamento di miseri uomini per la guerra, con il continuo invio di armi in questa congiuntura bellicista e oscurantista e guerrafondaia.

È proprio da ogni singola persona, dalla gente che scende nelle piazze contro la guerra che deve partire un’emanazione di pace. Dobbiamo a tutti i costi costruire la pace. Fare convergenza di popoli, genti, minoranze con energie fisiche e emotive e creatività a oltranza per ottenere la pace tramite la nonviolenza attiva che parte da ogni singola persona – per approfondire questi concetti si legga il saggio Resistenza e Nonviolenza creativa. I cittadini dal basso in ogni angolo del pianeta possono fare la pace, parafrasando le parole di Gino Strada. È necessario una presa di posizione pacifista di tutte le popolazioni senza farsi intimorire dalle strategie belliciste, militariste, guerresche dei poteri forti.

Raffaele Crocco, come argomenti queste affermazioni sui tuoi canali divulgativi?
In realtà la risposta è più semplice di quanto sembri: la pace è la cosa più intelligente che possiamo proporre. Dobbiamo lavorare su questo, trasformando il pacifismo in atto politico, cioè nella costruzione concreta di una società che sappia misurare con esattezza e convenienza i benefici della pace. Una società che si fondi sul rispetto dei diritti umani e che in quel rispetto trovi nuove formule per la distribuzione della ricchezza, l’uso delle risorse naturali e l’applicazione dei diritti individuali e collettivi.

È una rivoluzione che va portata avanti anche sul piano culturale?
Se ci pensiamo, consideriamo normalità la guerra e questo è semplicemente stupido. È come se considerassimo normale vivere ammalati, con qualche momento eccezionale in cui siamo sani. Ora, questa idea che a molti appare irrealizzabile è invece una strada percorribile. Noi abbiamo gli strumenti e le conoscenze per rendere reale questo progetto. Allora, andiamo per gradi: la cosa magnifica sarebbe iniziare a parlare di Pace in tempo di Pace. Intendo che dovremmo smetterla di legarla sempre alla fine di una qualche guerra. Questo ci costringerebbe a usare parole nuove e diverse. Soprattutto ci porterebbe a leggere la storia in modo differente e a immaginare l’educazione, la scuola, come luoghi di costruzione della cittadinanza attiva.

Una costruzione e una costruzione lenta, inesorabile, difficile, inflessibile, quotidiana, che coinvolge tutti e ciascuno. Un agire – la pace è azione, non immobilismo o indifferenza – che trasforma “l’utopia” in concretezza. Noi sappiamo esattamente cosa fare. Sappiamo che la guerra è effetto, non causa. Vuol dire che arriva là dove diritti umani, libertà, equa distribuzione del reddito restano lettera morta.

In tutto questo il ruolo dell’informazione è fondamentale. Credo, con tutta la prudenza del caso, che lo sviluppo della rete abbia portato benefici abbattendo costi, pigrizie e creando buona informazione. Si sono moltiplicate le testate impegnate nel diffondere cultura della pace e nel dare notizie precise di ciò che accade nel Pianeta. L’informazione poi si è moltiplicata nelle occasioni pubbliche di incontro, stimolando curiosità e interesse.

Consideriamo normalità la guerra e questo è semplicemente stupido. È come se considerassimo normale vivere ammalati, , con qualche momento eccezionale in cui siamo sani

Qual è il ruolo del movimento pacifista in tutto ciò?
Altrettanto importante però è il lavoro “pratico”, creato da gruppi, associazioni e ONG pronte ad operare sul campo, sia intervenendo nelle emergenze e nella salvaguardia reale del diritto umanitario, sia operando nei territori per far crescere la cittadinanza consapevole, legando i principi del consumo responsabile, della crescita sostenibile, del rispetto dell’ambiente e dei diritti alla grande partita nella costruzione quotidiana della Pace. Nei fatti, oggi possiamo probabilmente contare su una rete operativa e consapevole molto più presente e solida di trent’anni fa. Magari è meno appariscente.

La militanza si manifesta molto meno nella partecipazione alla protesta in piazza, ma è forte e la troviamo nella piccola, ma diffusa e responsabile azione quotidiana. Abbiamo conoscenza, strumenti e voglia di cambiare le cose. È essenziale smetterla di pensare sia impossibile. È fondamentale mettersi alle spalle le grida e gli slogan di chi sguaina la spada e grida alla guerra come “inevitabile”. La storia non è non sarà dalla loro parte. Non per bontà. Semplicemente per intelligenza.

L’articolo è stato pubblicato su Unimondo il 12 maggio 2023

Foto di Kiều Trường da Pixabay

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