L’economia dei soldi contro l’economia della natura
di Paolo Cacciari
Norberto Bobbio diceva che “potere” è una parola “paravento”, perché nasconde molte diverse forme di esercizio del potere e di organizzazione dello stato, diversi modelli di “governance” – diremmo oggi – più o meno democratici, più o meno oligarchici, più o meno burocratizzati, più o meno comunitari. Il potere, infatti, viene esercitato attraverso una mistura di strutture e di strumenti di consenso e repressivi, simbolici e militari, economici e ideologici, consuetudinari e tecnologici. La posta in gioco del potere è il possesso di risorse naturali e umane tale da far valere la volontà di chi le gestisce.
È convinzione comune che nella società contemporanea il potere economico abbia via via assunto una posizione dominante su tutti gli altri ambiti della condizione umana. Assistiamo infatti alla subordinazione di tutte le sfere della vita – materiale e spirituale – al sistema economico. Attraverso il denaro l’economia ha catturato totalmente l’interesse delle persone, meritando assoluta obbedienza e religiosa venerazione. Di “dittatura dell’economia” ne parlò anche papa Bergoglio all’inizio del suo mandato (Papa Francesco, La dittatura dell’economia, a cura di Ugo Mattei, prefazione di Luigi Ciotti, Edizioni Gruppo Abele, 2020).
Economia vs politica
Il potere economico si è impadronito della sfera politica, qualunque sia la sua configurazione. Non mi riferisco solo al clientelismo, alla corruzione, al finanziamento delle campagne elettorali e al lobbismo – che pure hanno assunto una dimensione imbarazzante per gli stessi protagonisti; basti pensare a cosa sono diventate le campagne elettorali negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte suprema del 2010 che ha abolito ogni limite alle donazioni delle corporation a favore dei candidati (solo Musk ha speso più di 130 milioni di dollari nella campagna a favore di Trump) o al ruolo delle lobby nella UE dove operano 10 lobbisti accreditati per ogni parlamentare europeo. L’imperativo della crescita economica è stato introiettato dai partiti – sia da quelli conservatori che da quelli progressisti – come fine ultimo dell’agire politico. La pseudo competizione tra le forze politiche che si contendono il governo degli stati avviene per lo stesso obiettivo: far ottenere maggiori profitti alle imprese. Procedendo in tal modo i board (amministratori delegati, presidenti, consigli di amministrazione) delle compagnie più potenti sul mercato smettono di aver bisogno della mediazione politica, elaborano direttamente le policy e costituiscono le loro istituzioni finanziarie transnazionali (Fondo Internazionale Mondiale, Banca dei Regolamenti internazionale, ecc.), giuridiche (arbitrati), culturali (fondazioni filantropiche), di informazione (social), persino militari (Consiglio atlantico della Nato). Vedremo poi dove conduce l’errore di confondere la crescita del Pil con il bene comune e il benessere sociale.
Economia vs etica
Il potere economico esercitato attraverso il denaro si è impadronito anche della sfera etica e spirituale. Come ci hanno a suo tempo spiegato Max Weber e Walter Benjamin, l’economia è stata elevata a religione che professa il culto della crescita, officiato dagli economisti con i governanti nelle vesti di chierichetti. Il Bene è passato dalla Provvidenza alla “mano invisibile”, o – come si conviene nell’era tecnologica – al “pilota automatico” evocato dal banchiere Mario Draghi. Non è rimasto più nulla di sacro, di incommensurabile, di rispettabile in sé e per sé. Né l’umano, né il naturale.
L’economia di mercato sembra regolata da una legge sovrannaturale e si riproduce come per istinto, mossa dall’avidità, dall’egoismo, dall’interesse personale. A ciò fanno coerentemente seguito un’etica, una antropologia e persino una particolare psicologia. L’homo oeconomicus deve essere individualista, competitivo, virile, aggressivo, identitario, anaffettivo… ora anche patriottico, pronto, cioè, se non proprio ad impugnare le armi, a donare ai militari il 3 per cento, forse anche il 5% della ricchezza sociale.
Economia vs pace
Inutile dire che la sfera del potere economico è integrata nel “complesso militare-industriale”, come lo chiamava con timore uno che se ne intendeva, il generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti. Il connubio tra economia e militari funziona non solo in tempo di guerra – ci siamo vicini – ma “normalmente”. Non solo perché l’economia di guerra svolge una funzione “anticiclica” in periodi di scarsa accumulazione dei profitti (sembra che l’economia russa dopo tre anni di guerra stia andando a gonfie vele), non solo perché è dagli investimenti pubblici in armamenti che nascono le innovazioni tecnologiche che poi l’industria privata mette a frutto (“dualità” tra ricerca in campo militare e civile), ma perché la potenza militare è indispensabile per presidiare le sfere di influenza degli stati, i mercati di sbocco e le aree di approvvigionamento delle materie prime. Le guerre armate non sono altro che la prosecuzione delle guerre commerciali. L’idea illuministica secondo cui il libero commercio avrebbe avvicinato e pacificato i popoli si è rivelata nel suo opposto: una guerra economica generalizzata.
Economia vs saperi
Il potere economico è consustanziale alla scienza analitica-deduttiva galileiana, indispensabile per riuscire a trasformare la natura in un insieme di cose, di materiali e di energie da impiegare senza scrupoli nei cicli produttivi economici. Con Bacone e Cartesio l’ordine naturale si è rovesciato: sarà l’umano a dominare, assecondare, plasmare la natura. Le stupefacenti invenzioni che conosciamo nascono con una precisa intenzione e ubbidiscano ad un progetto predefinito di dominio utilitaristico ed “estrattivista”, diciamo oggi. Qualsiasi dispositivo tecnologico di cui ci siamo dotati è un prodotto socialmente determinato e cristallizza nel proprio disegno i valori e le visioni del mondo di chi l’ha pensato, creato e prodotto. Non tutti i ritrovati tecnologici possono essere usati a fin di bene; pensiamo all’energia nucleare. A chi crede che una lama sia solo una lama, ditegli di provate a sbucciare una mela con una scimitarra, o di uccidere una persona con un coltello da tavola.
Economia vs comunità
Vi è poi un’altra sfera di potere “derivato”, ma molto influente nella vita super-organizzata di tutti i giorni, quello amministrativo e giudiziario. Fino a qualche tempo fa questi poteri godevano di un’aura di indipendenza e neutralità costituzionalmente riconosciuta. Nelle teorie della pubblica amministrazione i “public services” sono i servitori dello Stato che devono limitarsi ad applicare leggi e regolamenti. In realtà i margini di autonomia nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme sono molto ampi. Con l’arretramento del ruolo delle assemblee elettive, l’uso dello spooling system e delle “porte girevoli” dei funzionari tra settore pubblico e privato, la sfera burocratica ha acquisito una crescente rilevanza. Inutile dire che la loro principale funzione è garantire la preservazione dei business as usual.
Economia, cioè crescita quindi benessere e democrazia?
Domandiamoci allora quali sono i motivi per cui la sfera economica è riuscita a prevalere su ogni altra dimensione del vivere umano e del vivente tutto. A mio avviso perché i più potenti agenti economici (coloro che posseggono i principali mezzi di produzione e di scambio e, quindi, di comunicazione) sono riusciti a far passare nella opinione comune due assiomi, due postulati che vengono presentati e assunti come verità evidenti in sé stesse. Il primo: la crescita economica aumenta la disponibilità di beni e servizi, quindi, migliora la vita e porta benessere. Il secondo: nel sistema economico di libero mercato la competizione avviene alla pari; quindi, colui che riesce ad offrire prodotti più convenienti agisce nell’interesse di tutti (Thomas Hobbes), pertanto merita di ottenere ciò che vuole. In forza della teoria dei vasi comunicanti, o della marea che sale nel porto e solleva tutte le imbarcazioni, o del tricky-down-effect, gli imprenditori capitalisti sono convinti che ciò che è utile a sé stessi sia utile a tutta l’umanità. Insinuare un dubbio in questa consolidata narrazione è faticoso e impopolare, poiché è tristemente vero che in questa società governata dal mercato solo chi possiede il denaro necessario può sperare di soddisfare le sue esigenze.
Il tema allora è: chi e a quali costi sociali e ambientali può permettersi di ottenere ciò che desidera? Sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono compatibili con le logiche dell’arricchimento personale?
Il denaro da mezzo a fine
In una società dominata dall’ordine di mercato (market system) ogni cosa dipende ed è connotata dal denaro. Il valore che attribuiamo al nostro lavoro, il valore delle cose che usiamo, il valore dei servizi pubblici a cui abbiamo accesso, il valore dei beni naturali… il valore di ogni cosa e ogni attività viene misurato, denominato e contabilizzato in valuta circolante. I frutti della terra, le attività che vengono svolte gratuitamente (pensiamo all’accudimento dei figli e delle persone non pienamente autosufficienti, alla presa in cura degli animali e delle piante, alla manutenzione delle proprie cose e del territorio) che non entrano nel circuito economico come merce perdono di visibilità e di considerazione sociale. In termini marxiani (e di tutte le teorie economiche classiche) ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso dei beni e dei servizi utili al vivere degli esseri umani. Per un economista, al pari di un commercialista e di un contabile, una attività che non genera denaro è priva di senso. Vedremo poi dove sta l’errore.
Mercificazione e mercatizzazione
Diciamo che le cose stanno ancora peggio di così: il sistema di mercato per continuare ad espandersi ha bisogno di alimentarsi in continuazione annettendo tutto ciò che gli è attorno. Pensiamo ai cicli naturali dell’acqua, del clima, della fotosintesi clorofilliana, del cloro e del fosforo e così via. Ma pensiamo semplicemente agli oceani e allo spazio che stanno per essere intensamente colonizzati con i satelliti e con la geoingegneria. Passando dal macro al micro, pensiamo alla manipolazione genetica con la relativa brevettizzazione dei genomi. Passando dal materiale alla sfera delle relazioni sentimentali, pensiamo alle attività di cura personale tradizionalmente svolte in ambiti familiari, amicali e comunitari ed ora sempre più sussunti da imprese for profit assistenziali, sociosanitarie, educative, ecc.
Siamo già entrati nell’era distopica del post umano; l’azienda Neuralink di neurotecnologie di Mask ha chiesto l’autorizzazione per impiantare interfacce neurali (chip) nei cervelli delle persone. Siatene certi che nei laboratori ciò è già avvenuto con gli animali. Con l’editing genetico (tecnologia Crispr-Ca59 sperimentata in larga scala con i vaccini anti Covid) è già possibile sintetizzare un embrione (di topo) senza utilizzare spermatozoi e cellule uovo, partendo da cellule staminali. I pseudo embrioni sono già tra noi.
Denaro è potere
Forse è sempre stato così, fin dall’origine della divisione sociale del lavoro, dalla costruzione delle città, dalla fondazione dei regni e degli stati. Ma è certo che il sistema economico turbocapitalista neoliberale ha condizionato a tal punto la sostanza umana e naturale da ridurla a mero fattore di produzione: stock e flussi. Degradati a “capitale umano” e a “servizi ecosistemici” gli esseri viventi vengono incorporati come “risorse” nei cicli di valorizzazione dei capitali investiti. Tutto ciò che non diventa merce vendibile sparisce dall’ordine sociale e sembra non interessare la sfera delle relazioni pubbliche. Il capitalismo ragiona così, sulla base del calcolo della remunerazione degli investimenti, cioè della massimizzazione dei ricavi e dei profitti: payback e dividendi. L’economia nel capitalismo è: rendimenti alti e costi bassi. Il capitalismo è fatto di denaro, non ha anima e nemmeno ragionevolezza. Scrisse il padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti (1897 – 1989), dopo una lunga permanenza alla Olivetti di Ivrea: “La produzione industriale è qualche cosa di insaziabile. Non ci sono limiti: chi è preso dalla febbre del produrre trova sempre qualche cosa di nuovo da fabbricare.” (Io e le macchine, supplemento al n.6 di Genius, i mensili dell’Espresso, 1984).
Due “inconvenienti”
L’“economia dei soldi” (come la chiamava Giorgio Nebbia), il capitalismo, ha due caratteristiche congenite: la centralizzazione della ricchezza e la distruzione della natura.
Il dibattito in corso da più di due secoli negli ambienti più sensibili ai temi della giustizia sociale e della conservazione dell’ambiente naturale verte sul fatto se il sistema sociale capitalista sia o meno riformabile. I tentativi fin qui realizzati nel corso della storia in varie parti del mondo nel cercare di regolare la crescita economica in modo da incanalarla all’interno di obiettivi di equità e sostenibilità hanno dato esiti insoddisfacenti. Solo in alcune parti fortunate dell’enclave ricca del Nord globale, in alcune fasi storiche e a favore solo di alcune fasce sciali è stato raggiunto un livello di reddito e di benessere accettabile, mentre nel resto del mondo il modello di sviluppo industriale ha comportato tremendi squilibri sociali ed enormi devastazioni naturali. Non lasciamoci ingannare dalle bugie statistiche: misurare il benessere in “uno-virgola dollari/giorno” significa imporre un parametro universale neocoloniale ad ogni forma di civiltà diversa da quella mercantile.
La regolamentazione del mercato per via politica nel tentativo di correggerne i “fallimenti”, attenuare le più odiose “distorsioni” e mitigare gli impatti indesiderati (altrimenti definiti nei manuali di economia “esternalità negative”) hanno comportato vari compromessi tra gli interessi delle parti sociali in conflitto, ma non hanno impedito la progressiva e sempre più rapida erosione delle basi materiali della vita sulla Terra e l’accentramento della ricchezza accumulata.
Squilibri distributivi
Il sistema di mercato è forse capace di autoregolarsi sulla base di un’infinità di transazioni economiche effettuate da liberi cittadini che agiscono nel proprio interesse, ma è certo che il risultato finale non è affatto né anonimo, né impersonale. Il gioco non è alla pari e non determina un risultato “win-win”. Ogni “vincita” provoca un mare di sofferenze, crea una folla di “naufraghi dello sviluppo” (Serge Latouche), produce gerarchie di classe, di genere, di razza.
Il potere economico è esercitato da persone in carne ed ossa che agiscono secondo precisi progetti, plasmando modi di produzione, relazioni sociali, sistemi organizzativi e distributivi, influenzando stili di vita e di consumo, istituendo determinate forme di governance. Siamo giunti alla situazione inaudita in cui esistono 58 persone fisiche multimiliardarie che possiedono circa metà della ricchezza globale. I primi 10 maggiori Fondi di investimento (i “titani” della finanza) controllano 50 mila miliardi di dollari, pari alla metà del Pil mondiale. Nei loro Consigli di amministrazione siedono in tutto 117 signori. Poche conglomerate controllano la maggioranza degli scambi transnazionali.
Invece di scandalizzare, i dati che regolarmente pubblicano Oxfam e altri osservatori (vedi il Global Wealth Report della banca svizzera UBS) sulle ricchezze smisurate accumulate dai super-ricchi affascinano l’opinione pubblica. Ciò ci dà il senso di quanto in profondità sia penetrata nella cultura contemporanea l’ideologia dell’arricchimento.
Impatti antropogenici
Il secondo “difetto” del sistema economico di libero mercato riguarda l’uso spropositato delle “risorse” naturali. L’“economia dei soldi” entra in conflitto con l’“economia della natura” – per usare la metafora creata da Ernst Heinrich Haeckel (1834 – 1919) per far capire cos’è l’ecologia, ossia la scienza sistemica che studia i rapporti complessi tra organismi viventi e ambiente. Come noto, le crescenti pressioni ambientali generate dall’industrializzazione stanno provocando, con inaudita accelerazione, la riduzione degli spazi vitali necessari per la riproduzione delle specie animali e vegetali. La biofisica del pianeta sta mutando. Così come la composizione chimica dell’atmosfera (la concentrazione media di anidride carbonica è simile a quella esistente nel Pliocene, tre milioni di anni fa) e il ph degli oceani. L’estrazione mineraria è raddoppiata negli ultimi 20 anni. La massa antropogenica (l’accumulo di infrastrutture, macchinari, oggetti) supera in peso la biomassa vegetale globale. Conseguentemente emissioni, scorie e rifiuti saturano la superficie terracquea. Il “metabolismo naturale” della biosfera non è più in grado di rigenerare la materia utilizzata. Tre/quarti della superficie terrestre è pesantemente compromessa. La spoliazione, il saccheggio, lo “stupro” della Terra, in termini scientifici, si definisce ecocidio.
Inutile dire che le responsabilità, in un mondo disuguale, non sono equamente distribuite tra gli abitanti della Terra. Basti pensare che l’1% della popolazione più ricca emette il 66% dei gas climalteranti
Perché il sistema economico di mercato è irriformabile
Il sistema di mercato dominato dal denaro è irriformabile rimanendo all’interno delle sue regole di base. I fallimenti fin qui riscontrati dalle politiche sociali ed ambientali volte alla sostenibilità e all’equità, almeno da quando le evidenze scientifiche hanno dimostrato l’andamento esponenziale del trend della crescita economica (diciamo, per convenzione, dal rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo e dalla prima conferenza Onu sullo sviluppo umano, Stoccolma,1972), derivano dalla accettazione della stessa logica di fondo che sovraintende la crescita. Il procedimento usato dai decisori politici per impostare le azioni di correzione, mitigazione e adattamento del sistema socioeconomico (il punto più alto e organico della infinita serie di dichiarazioni, convenzioni, protocolli fin qui approvati è stato raggiunto con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, varata in sede Onu nel 2015, e poi con la strategia della Just Transition della Commissione Europea del 2019) è elementare: per invogliare le imprese a ristrutturare il proprio apparato produttivo (uscire dai fossili, ad esempio, e aumentare le quote di utili da destinate al fattore lavoro, occupazione e salari) è necessario offrire a loro delle opportunità economicamente più convenienti. Ciò significa creare nuovi mercati profittevoli, nuove domande di beni e di servizi, nuova crescita. La crescita tramite accumulazione di capitali da reinvestire (e remunerare) rimane la precondizione delle politiche riformiste sociali e ambientali di stampo keynesiano. Ed è qui che si forma il cortocircuito, come l’eterno ritorno alla casella iniziale nel gioco dell’oca: non esiste un aumento del Pil che non comporti un aumento dell’energia e delle materie impegnate nei cicli produttivi, distributivi e di consumo, da una parte e/o la diminuzione dei costi di produzione dall’altra. Non esiste un Pil smaterializzato, “angelizzato” (la battuta è di Herman Daly) che non si porti con sé un aumento del “consumo di natura” e una intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano. La formula magica del “decoupling” assoluto è una chimera.
Il sistema di mercato ha un difetto di fabbricazione, un “baco” congenito: non ammette limitazioni alla sua crescita, si crede esterno alla natura, non vede che a breve termine e si illude della inesauribilità del mondo materiale.
Le false soluzioni della crescita verde
Per tentare di aggirare l’ostacolo ed evitare di prendere in considerazione l’unica soluzione che sarebbe davvero efficace – la diminuzione diretta e netta del flusso di materie e di energie impiegate nei cicli economici – è stata tentata la strada delle compensazioni. Tanto prelevo e inquino, tanto pago/investo per rigenerare e disinquinare. A prima vista sembra una soluzione ragionevole. A tal fine (dal Protocollo di Kyoto,1997, per far fronte alla “emergenza” climatica) è stata inventata una serie di complessi meccanismi di mercato per disincentivare le imprese ad emettere CO2 e gas simili imponendo dei prezzi (carbon pricing) sotto forma di autorizzazioni e tasse (Cap end Trade). I ricavati avrebbero dovuto finanziare gli interventi di mitigazione e rigenerazione. Ancora una volta mercato e tecnologie sono stati chiamati a risolvere i problemi da essi stessi generati, con soluzioni “in house”. Tale meccanismo è stato proposto anche nelle Convenzioni per la conservazione della biodiversità.
Peccato che alla base del principio della compensazione ci sia un errore ontologico: gli ecosistemi e i cicli ecologici non sono valutabili in denaro, non sono inscrivibili in un semplice foglio di calcolo costi/benefici, poiché non tutta l’energia è rinnovabile, non tutti i nuovi materiali di sintesi che vengono immessi sono biodegradabili, quasi mai i tempi di metabolizzazione e assorbimento degli inquinati sono compatibili con i tempi di ritorno degli investimenti degli impianti industriali che li hanno prodotti e, pertanto, i loro “costi” non sono attualizzabili. “Balene, elefanti, torbiere, aria pura: pochissimo è sfuggito allo sguardo rapace dei contabili”, ha scritto Adrienne Buller (Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde, add editore, 2024).
Prendersi cura
Non potranno mai emergere delle green technologies, una green economy, una transizione ecologica che non siano guidate dalla volontà di instaurare una green and just society. Senza una intenzionalità e un progetto politico trasformativo del sistema economico oggi prevalente nel mondo sarà impossibile rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica e della sopportabilità sociale.
Per uscire dalla “dittatura economica”, per riuscire ad espellere il denaro dalla vita, è necessario rovesciare come un calzino il significato e il senso dell’agire economico (oikos). L’economia deve essere intesa come null’altro che l’insieme delle attività di presa in cura della riproduzione della vita. Su questa linea hanno scritto un gran numero di studiose ecofemministe e studiosi di economia ecologica e della decrescita. Cito qui un autore controverso, Hans Immler, che a me pare particolarmente efficace: “Se sotto il termine economia viene intesa la formazione razionale dei rapporti materiali di una società, cioè la concreta determinazione produzione e riproduzione, crescita e sviluppo, distribuzione e consumo, ecc., allora natura e lavoro non sono il mezzo nella produzione sociale, bensì anche e soprattutto il fine e il risultato di ogni modo di produzione. Ma ciò significa che il processo di natura come unità di lavoro umano e natura esterna deve essere punto di partenza e fine di ogni economia” (Hans Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Introduzione di Piero Bevilacqua, Donzelli, 1993). In definitiva si torna a Karl Polanyi: l’economia va reincorporata nella società che a sua volta dipende dalla “economia della natura”.
Un percorso di acquisizione di consapevolezza delle interrelazioni e interdipendenze che intrecciano ogni specie vivente, compresa quella umana.
L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 4 gennaio 2025
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