Scrittura

UNA RONDINE NON FA PRIMAVERA

di Sergio Tardetti

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

© Sergio Tardetti 2024

Foto di Kev da Pixabay

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ORE DICIASSETTE

di Sergio Tardetti

Tratto dalla raccolta (ancora assolutamente inedita) “VENTIQUATTRO ORE”…

Ora infelice, le diciassette, pur nella sua felicità, perché è a quest’ora che quasi tutte le attività cessano, soprattutto per chi lavora in un ufficio come dipendente. L’ora che segna il distacco tra lavoro e riposo, tra l’essere e il non-essere. Difficile, a dire il vero, stabilire quale tra lavoro e riposo sia l’essere e quale invece il non-essere. C’è chi vorrà affermare che per lui – opinione del tutto soggettiva, questo tiene a precisare! – l’essere è il lavoro e il non-essere il riposo. C’è poi chi si affannerà a sostenere il contrario, con buona pace di chi vorrebbe che in questo mondo tutto sia chiaro, semplice, univoco e definitivo, vale a dire esattamente identico a quello che desidera lui. L’umanità, al crepuscolo, si presenta come un ammasso indifferenziato di anonimi, il cui unico desiderio sembrerebbe quello di poter tornare a casa e confondersi finalmente con gli umori, colori e silenzi delle proprie quattro stanze (anche due, e perfino un monolocale, potrebbero comunque andare bene allo scopo). Ma per ogni buona intenzione c’è sempre un ostacolo che si frappone, e, come sempre, l’ostacolo ha un nome preciso e una altrettanto precisa consistenza fisica, stavolta si chiama traffico. Che è poi, dopotutto, l’analogo, seppure inverso, della mattina, quando si è dovuto percorrere il tragitto casa-lavoro, incontrando altrettanto traffico, essendovi completamente immersi con timore e tremore. Timore per la fondata preoccupazione di non arrivare in orario a marcare il virtuale cartellino, che attesta, con la precisione al centesimo di secondo, l’ingresso nel luogo di lavoro. Tremore, perché quella sosta acuisce il dolore dell’abbandono del proprio tetto e la nostalgia di quelle quattro stanze – a volte anche due e perfino, in casi estremi, un monolocale – nelle quali si trascorre quella parte della giornata che si è sempre incerti a definire se migliore o peggiore.
Intanto, le diciassette bussano alla porta del giorno, chiedendo di entrare, e già in ogni stanza di ogni luogo di lavoro si procede con le manovre di chiusura. Si chiude la cartellina aperta sulla scrivania fin dalle prime ore della giornata, che racchiude pagine e pagine di un noioso verbale che attende da giorni di essere completato, e che anche oggi dovrà accontentarsi di vedersi aggiunte un paio di pagine, poche forse, ma essenziali per arrivare alla fine. Si chiude il computer che almeno un paio di volte ha deciso di fare di testa sua, impallandosi e poi resettandosi, facendo perdere tanto di quel tempo e tanto di quel lavoro non salvato da evocare l’intervento di un esorcista, per cercare almeno di domare gli spiriti ribelli che, sicuramente, devono essersi insediati all’interno di quella macchina infernale. Si dà, infine, un’ultima occhiata intorno, per verificare che tutto sia esattamente in ordine come è stato trovato all’arrivo in quella mattina, infine si spegne la luce. All’uscita, ecco i soliti capannelli di colleghi che si attardano per le solite quattro chiacchiere, per il consueto scambio di osservazioni e pettegolezzi, magari dirigendosi a passi lenti verso il primo locale nei dintorni disponibile a fornirli di aperitivi. Anche se si è attesi presso le proprie abitazioni, l’aperitivo non può e non deve mancare, del resto nessuno vorrebbe rinunciare a quel minimo di socializzazione, tanto per non dover venire escluso dal novero dei confidenti, quelli ai quali si raccontano le ultime novità – leggi pettegolezzi – raccolte nei corridoi e nei bagni dell’azienda, durante le brevi soste quotidiane per necessità fisiologiche più o meno impellenti.
Chi sta con chi, chi ha lasciato chi, chi ha intenzione di mettersi con chi, dunque, argomenti di scottante attualità che vanno subito distribuiti equamente tra i presenti che, naturalmente, non appartengono alla categoria degli spettegolati. Almeno non in quel capannello di gente, magari in un altro, magari in quello accanto, dove si sta ridendo di qualcuno, magari di qualcuno di loro. È così che sembra sia andato sempre il mondo, forse già dall’epoca in cui gli uomini vivevano nelle caverne, perché anche allora, una volta provveduto alle necessità primarie, di tempo a disposizione ce ne doveva essere più che a sufficienza. E, quasi certamente, anche lì, giù a spettegolare, magari senza aperitivo, ma con qualcosa da mettere sotto i denti, una costoletta di mammut, una noce di cocco dalla corteccia a prova di molare, insomma qualcosa con cui tenere la bocca impegnata tra una risata e un’altra, tra un fonema nuovo di zecca e un altro. Infine, anche il rituale dell’aperitivo ha termine, oppure, come capita a volte, può prolungarsi in un apericena, ma solo se non si è attesi presso la propria abitazione, o, quanto meno, si sono avvertiti i propri familiari a tempo debito per quel ritardo aggiuntivo o per quella mancata presenza intorno alla tavola apparecchiata. Intanto le diciassette sono scivolate via in silenzio, tra una risata e l’altra, fra un brindisi e l’altro, ma anche fra un insulto e l’altro, scambiato con chi all’improvviso ti si para davanti tagliandoti la strada, solo perché, ad un tratto, si è ricordato di dover svoltare per qualche commissione che gli era quasi passata di mente. Alla frenesia sul posto di lavoro adesso fa da controcanto la frenesia lungo la strada del ritorno, con in più una stanchezza sulle spalle che si vorrebbe tanto posare sul familiare divano di casa. Ancora qualche chilometro da percorrere e poi anche quest’ultimo desiderio verrà soddisfatto, si ritroveranno le comode pantofole domestiche per le quali verranno immediatamente rimosse le scarpe eleganti che hanno stretto come in una morsa i piedi per l’intera giornata. È la felicità delle piccole cose che prende il posto della malinconia che ci siamo trascinati dietro per tutta la mattina e per gran parte del pomeriggio, perché ad un tratto, senza neppure rendercene conto, torniamo a godere di quella libertà che si conquista solamente tra le mura della propria casa. Quella che potremmo chiamare la libertà di essere sé stessi.
 
© Sergio Tardetti 2024

La foto è tratta da pixabay

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IL PIACERE DI FARSI LEGGERE

Considerazioni sul rapporto tra lettore e autore

di Sergio Tardetti

Di fronte a un libro un lettore non è mai solo con se stesso. C’è sempre un compagno invisibile che lo affianca, qualcuno con cui stabilire un dialogo, ancorché muto, qualcuno a cui chiedere conferma o smentita del poco che ha intuito della vita fino a quel momento. È lì, davanti a lui, che gli parla con una lingua a volte conosciuta, più spesso nuova, a volte si lascia interrogare, a volte interroga, finché il monologo iniziale che nasce dalla voce del narratore diventa una conversazione.
Ed è proprio così che nascono e fioriscono le amicizie e gli amori, continuano a durare nel tempo fino a dare frutti maturi ogni volta che il lettore riesce ad anticipare il pensiero dell’autore. E non parlo, naturalmente, di un pensiero banale o scontato, ma di qualcosa di originale, scaturito dalla mente di chi scrive e passato a quella di chi legge, perché lo faccia suo e lo usi al meglio. È un po’ quello che accade con gli amici di sempre, ogni volta sappiamo a cosa stanno pensando, tradiscono i loro pensieri attraverso piccoli indizi dai quali è facile ricostruire il tutto per chi ha una conoscenza profonda dell’altro.
Così avviene tra lettore e scrittore, quella che un autore del passato chiamava “corrispondenza d’amorosi sensi”, un sentimento che può sorgere tra il lettore e l’autore presente a questo tempo, ma anche tra il lettore e chi di questo tempo ormai non fa più parte. L’autore, a qualunque epoca appartenga, coltiva il piacere di farsi leggere come si coltiva un fiore raro e prezioso che si vuole continuare a far fiorire anche in epoche future.

Foto di Evgeni Tcherkasski da Pixabay

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GIOVEDÌ

di Sergio Tardetti

Per la serie di mini racconti sul tema “I giorni della settimana”, oggi tocca al… GIOVEDÌ
Per non sentirmi espropriato del personale diritto al libero pensiero, ogni giovedì pomeriggio mi esercito a formularne qualcuno particolarmente originale. Ho scelto di farlo il giovedì perché, di solito, ho il pomeriggio libero e Caterina ha il suo allenamento settimanale, in preparazione dei tornei di burraco. Condizione ideale, quindi, per tentare di formulare pensieri originali, avendo la casa a mia completa disposizione e, soprattutto, immersa nel più assoluto silenzio. L’atmosfera giusta, insomma, per esplorare i contorti itinerari della mente, alla ricerca di qualche intuizione significativa. Negli altri giorni, di solito, appena inizio ad estraniarmi – perché è questo che occorre per formulare pensieri, originali o meno non ha importanza – ecco che vengo distolto dalla mia concentrazione dalla solita inevitabile domanda: “Che facciamo per pranzo?”. Alla quale può seguire l’eventuale classica alternativa, che si presenta nella forma: “Che facciamo per cena?”. Questa viene avanzata, generalmente, nella seconda parte della giornata, anche se non è del tutto impossibile che entrambe vengano formulate in un’unica soluzione, per assicurare così la completezza del menu del giorno in una sola tornata. “Non saprei”, è senza dubbio la risposta più frequente, seguita anche da altre più articolate, nelle quali, oltre alla denominazione del piatto del giorno, se ne enunciano anche gli ingredienti e la preparazione. Risposta fornita, questioni risolte?
Nemmeno per sogno, perché a risposte certe vengono opposte obiezioni altrettanto certe, come a cercare di voler scendere nei particolari e, in questo modo, perfezionare l’esito dell’estenuante interrogatorio. Una volta, per trovare una soluzione definitiva alla vexata quaestio, ho suggerito di stilare alcuni menu settimanali, da proporre a scelta e a rotazione nell’arco del mese. Apriti cielo! Ma vogliamo scherzare? Un tentativo, anche piuttosto maldestro, di imbrigliare la fantasia! E il libero arbitrio? Dove lo mettiamo il libero arbitrio? È così che l’alta speculazione filosofica finisce sempre per contaminare ordinari problemi di quotidianità, compresi quelli di nutrizione; che poi, alla fine, tanto ordinari non si dimostrano. Manca poco che venga convocata una apposita commissione, che giudichi nel merito della correttezza e della realizzabilità delle proposte dei menu settimanali. Il giovedì, specialmente il pomeriggio, è, dunque, atteso dal sottoscritto più che le sentinelle l’aurora. Diventa l’isola alla quale il naufrago desidera approdare, benché deserta e probabilmente priva di risorse per la sopravvivenza. Ma già approdare è di per sé stesso sopravvivere. E vi si approda con sguardo sereno proprio perché deserta. Così, liberi da scomode domande e altrettanto scomode presenze, si inizia l’ennesimo tentativo di formulare pensieri originali. Oddio, al principio l’originale è ampiamente sopraffatto dal banale, perché il tentativo di estraniarsi richiede tempo, impegno e fatica, e l’immanente prevale sempre di gran lunga sul trascendente.
Per formulare qualche lucido pensiero originale occorrono tempo e fatica, si sa, e non tutti sono propensi a impegnare l’uno e/o l’altra in una attività che non ha certo l’apparenza di trasformarsi in remunerativa. A pensare a lungo, tentando di pescare un pensiero fresco e originale nel grande mare dei pensieri inutili, si perde tempo e, direbbe qualcuno, anche denaro. Quello che si sarebbe potuto guadagnare dedicandosi ad altre attività più lucrative, compresa la pesca a mosca. Compresa perfino la scelta e l’organizzazione del menu del giorno, meglio ancora di menu settimanali, così da non dover essere distolti dal pensare dalla classica domanda: “Che facciamo per pranzo?”, che fa regolarmente il paio con l’altra, “Che facciamo per cena?”. E dedicare, infine, il proprio tempo e la propria intelligenza ad approfondimenti sul vero senso della vita. Oltre che, naturalmente, sulla preparazione di pietanze semplici e appetitose. Un modo, questo, di passare il tempo che raramente si disdegna, anzi, sembra quasi diventato una ragione di vita per un numero sempre crescente di esseri umani. Intanto, immerso in queste considerazioni, mi accorgo, ad un tratto, che il pomeriggio è ormai quasi al termine. Tra poco Caterina tornerà a casa e con lei tornerà anche l’ineludibile domanda: “Che facciamo per cena?”. E, a questo punto, mi accorgo di aver trascorso alcune ore baloccandomi in assurde fantasie, quando sarebbe stato più utile tentare di trovare una qualunque risposta alla domanda che attendo con ansia che venga formulata.
Provo a rifugiarmi nell’infondata speranza che Caterina stessa rientri in casa con la risposta, ma so già che dovrò scavare a fondo nella memoria, per cercare di recuperare qualcosa di abbastanza valido da poter chiudere il dibattito fin dal suo nascere, e passare subito dopo alla realizzazione della proposta. Anche per oggi, nessuna traccia di pensieri originali, solo un continuo rimestare dentro ricordi che non sembrano lasciare molto spazio alla novità. Intanto, uno scampanellare alla porta annuncia il ritorno di Caterina, come al solito senza chiavi. Deve averle lasciate per l’ennesima volta sopra il comò o in un’altra borsa, chissà poi quale tra le tante. Ormai sono abituato a certe sue distrazioni, così come so che non devo innervosirmi o preoccuparmi se il pensiero libero e originale non ha fatto la sua comparsa, questo pomeriggio. Pazienza, sarà per il prossimo giovedì!
© Sergio Tardetti 2023

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La polvere

di Fabio Mongardi

A Faenza, ora che il fango si è asciugato, te la ritrovi dappertutto. Si insinua in ogni cosa, la respiri, la mangi e la senti che ti incolla la gola. La polvere ricopre le macchine e le foglie degli alberi, ha pennellato di grigio tutta la città. Ci si muove all’interno di questa enorme nuvola di nebbia grigia che inquieta e intristisce gli animi.
Spaventa e fa paura, eppure è la stessa polvere della terra secca su cui ci si rotolava ridendo da bambini, la stessa polvere che ci riempiva le tasche e che ci colorava la faccia. Non è cambiata, è sempre lei; siamo noi che abbiamo paura perché pensavamo di averla lasciata alle spalle, di essercene liberati per sempre e invece ora la natura ci fa capire che nella polvere e nel fango siamo nati e per quanto facciamo, alla fine, è lì da lei che dovremo tornare…

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