ORE DIECI

di Sergio Tardetti
Chi sarà che chiama a quest’ora? Perché, almeno questo è sicuro, qualcuno sta chiamando, e perfino con una certa insistenza. Ho ignorato, finora, gli squilli del telefono, dieci per l’esattezza, ma costui – o costei? – insiste nel non desistere e, dunque, allora dovrò decidermi, se sia il caso di rispondere o no. Da come insiste, si direbbe qualcosa di importante, ma oggi tutti sono convinti che quello che hanno da dirti sia qualcosa di importante. Qualcuno arriva a usare addirittura “importantissimo”, e, si sa, non c’è niente di più falso di un superlativo, forse solo un avverbio può superarlo in falsità. Allora, mi decido? O, magari, rispondendo, mi trovo in mezzo a un’altra grana? E sì che di questi tempi me ne capitano e me ne sono capitate, e un’altra in più non mi servirebbe, decisamente no. L’ultima, per esempio, me la sono proprio cercata e, guarda caso, rispondendo al telefono. Com’è andata? È presto detto: ho accettato di entrare in un certo affare, che adesso preferisco non nominare, per correttezza verso chi me lo ha proposto. Intanto, però, il telefono ha smesso di squillare, forse sono salvo. Almeno per ora, forse. Vediamo un po’ se riesco a rilassarmi – cinque minuti, non chiedo di più, vi prego! – sì, cinque minuti, ne ho proprio bisogno. Sto per mettere la parola fine a un nuovo racconto, mancano, forse, al più, una decina di righe e poi l’opera sarà compiuta. Intendiamoci, niente di così prezioso e di così fondamentale importanza per la storia della letteratura e per la mia personale. Però, devo ammettere che ci tengo. Ci tengo perché, infine, questo sarebbe il primo racconto che porto a termine e che, una volta concluso, potrò infilare nel solito cassetto, in attesa di tempi migliori. Intanto, il telefono ha ripreso a squillare, ma, a voler essere sincero, non ho proprio alcuna voglia di rispondere.
Provo a concentrarmi sull’ultima frase del testo, per riprendere il filo del discorso interrotto. Se almeno questo maledetto telefono la smettesse! Ecco che, come se mi avesse letto nel pensiero, ad un tratto, tutto tace. Finalmente, che liberazione! Adesso posso tornare alla frase che avevo lasciato a metà. Una bella frase, non c’è che dire, parole curate, contate, pesate e misurate, tutto dentro la mia testa, lucidate perfino, perché risaltino maggiormente, una volta adagiate sulla pagina. Parole fresche, non certo nuovissime, ma, insomma, nemmeno troppo abusate o consumate. Qualcuna, forse, arrugginita dal modestissimo uso che se ne fa al giorno d’oggi, ma pur sempre valida per esprimere quello che sento attraversare la mente, quel pensiero che continua a non darmi tregua. Eccolo di nuovo! Credevo di essermi liberato dall’incubo e dal fastidio di questo telefono che squilla, ma… Niente! Rispondere, forse, sarà il caso? Più il telefono squilla, più il fastidio cresce, più mi intestardisco nell’idea di non rispondere. Che aspetti, chiunque sia, che si arrangi, che faccia e decida come meglio crede! Chi sarà, poi? Certo, la curiosità di conoscere l’identità del seccatore – ma potrebbe trattarsi anche di una seccatrice, non lo escluderei a priori – aumenta di squillo in squillo, ma la volontà di non risponde va ancora ben oltre il fastidio. Ancora, dico, perché magari, tra poco, oppure anche subito, prenderò la comunicazione, se non altro per fare smettere questo insistente e fastidioso squillare. Difatti, quasi a voler materializzare il pensiero, accetto la conversazione con il più banale e asettico dei “pronto”, e mi preparo a respingere qualunque tentativo di dialogo. Ho già in mente le parole da pronunciare, nel caso in cui si tratti di un call center o di un venditore petulante: “Il signore che lei cerca è morto, io sono un parente. Sono qui per la veglia funebre”.
Sono curioso di ascoltare la reazione del mio interlocutore – o della mia interlocutrice, visto che non ne conosco l’identità. Devo solo stare attento a condurre il gioco con la dovuta attenzione, per non farmi smascherare subito. “Giacomo!”, urla la voce nel telefono, una voce di donna entusiasta, per la quale non posso certo essere morto, perché mi ha riconosciuto. “Angelica!”, rispondo a mia volta urlando, dimostrando così di averla riconosciuta, senza che si sia dovuta annunciare ulteriormente. Per Angelica potrei mandare al diavolo un’intera frase ben fatta, anzi un’intera pagina e perfino un intero capitolo. Insomma, è chiaro, Angelica merita queste e altre attenzioni. Stupisco soltanto per il fatto che mi abbia chiamato; da come ci eravamo lasciati l’ultima volta sembrava che ormai non avessimo più niente altro da dirci. Con tutto quello che ne può conseguire, dopotutto in tre anni di incontri i nostri rapporti non si sono certo limitati a semplici conversazioni. Adesso dovrei subito stupirla con una parola, una frase, insomma, qualcosa di particolarmente intelligente, come si aspetta da me; invece, me ne resto in silenzio, in attesa di capire, o anche soltanto intuire, le sue intenzioni. Perché, se mi ha chiamato, un motivo, vero e anche serio, deve pur esserci. “Angelica…”, mi limito a mormorare nel telefono. “Giacomo, che succede? Ti sento strano”. Angelica fa spesso così, le capita di “sentire strani” molti dei suoi amici o conoscenti, che, a loro volta, sono fermamente convinti che la “strana” sia piuttosto lei. Angelica è una persona apprensiva, sempre in ansia più per gli altri che per se stessa, perché, a voler essere un po’ psicologi, Angelica senza gli altri si sente perduta. Sarà forse per questo che mi ha chiamato? Allora questo sarebbe il modo peggiore di continuare una giornata iniziata sotto una stella rassicurante. Di stelle simili, a dire il vero, non ne sono apparse ormai da tempo nel mio cielo, così vanno a volte le cose in certi periodi della vita.
Spesso ci si deve accontentare di stelle semplicemente tranquille, e perfino ringraziare di averle ottenute. Angelica non è quella che si potrebbe definire una “stella” tranquilla, con tutti i suoi dubbi e il suo pesante carico di perché, con cui è capace di assillarti per ore e ore e perfino svegliarti alle tre di notte, perché un dubbio o un perché non la fa dormire. Stavolta sembra che si sia convinta ad allineare i suoi orari con quelli del resto dell’umanità – o, per lo meno, di una gran parte, me compreso – dopotutto, un dubbio o un perché alle dieci di mattina possono essere anche ammessi e concessi. Difatti, come sospettavo, l’esordio è da dubbio o da perché. “Secondo te…”, si premura di precisare Angelica, e già in questa premessa c’è l’anticipo del senso della domanda, che non tarda ad arrivare. “Secondo te… è giusto quello che mi hanno detto?”. Ecco, è lei, è proprio lei, la riconosco, nel preciso istante in cui formula una domanda che potrebbe riferirsi a qualunque argomento, dalle tecniche di dissalazione dell’acqua di mare ai tempi di cottura di legumi di vario tipo. Perché è proprio questo che Angelica pensa di me, che io sappia tutto, anche se ho tentato più volte di spiegarle che quello che so lo so, e quello che non so non lo so. Ma, magari, mi informo, se vuoi, se hai tempo e soprattutto pazienza di attendere. Dovrei procedere a formulare qualche domanda di approfondimento, tipo “a cosa ti riferisci?” oppure “cosa ti hanno detto?”, ma so che, a questo punto, mi troverei costretto ad inoltrarmi in un ginepraio di domande e risposte dal quale potrei venirne fuori dopo svariate ore. Angelica è fatta così, di angelico spesso ha soltanto il nome, il resto è decisamente diabolico. Con lei ho coltivato l’arte di aspettare, perché so che alla prima domanda segue sempre una seconda, e spesso anche una terza. Così aspetto, prendo tempo, in attesa di poterne sapere di più, sperando anche che tutto si sgonfi come una bolla di sapone. A volte, se si incappa nella giornata fortunata, con Angelica può capitare.
Al mio silenzio, però, stavolta segue altro silenzio da parte di lei, evidentemente è convinta che la sua domanda possa essere più che sufficiente ad inquadrare l’argomento. Per evitare la fine prematura di questa improbabile conversazione, conviene a questo punto che mi armi di santa pazienza e mi riscuota dall’improvviso fastidio che mi ha assalito. “Domanda… insisti… approfondisci”, mi dico, preparandomi a mettere in campo l’inevitabile domanda. “Cosa ti hanno detto?”. Mai domanda potrebbe sembrare più banale o più ovvia, ma neppure più necessaria, dopotutto un chiarimento qualunque, uno scendere in ulteriori dettagli necessita. Provo a fare il giro largo, prima di arrivare al punto. “Non saprei… Forse è la stessa cosa che hanno detto a me?”. “Impossibile che te l’abbiano detta, ti riguarda!”. “Cioè? Spiegati meglio!”. “Ma sì, insomma… Sai, quella faccenda che…”. “Potresti essere un po’ più precisa?”. “Dai, che hai capito benissimo!”. Qui, però, si rischia di andare avanti alla cieca, e chissà per quanto tempo, occorre un diversivo. “Scusami, scusami Angelica, mi stanno chiamando sul fisso!”. “Va bene, ci sentiamo più tardi”. “D’accordo”, chiudo rapidamente la conversazione. Salvo anche questa volta. Però, bisogna che stia un po’ più attento quando rispondo. Intanto mi segno che questo è il numero di Angelica. Il resto… si vedrà!
© Sergio Tardetti
La foto è di Alejandro Escamilla da Wikimedia





