Scrittura

ORE DIECI

di Sergio Tardetti

Chi sarà che chiama a quest’ora? Perché, almeno questo è sicuro, qualcuno sta chiamando, e perfino con una certa insistenza. Ho ignorato, finora, gli squilli del telefono, dieci per l’esattezza, ma costui – o costei? – insiste nel non desistere e, dunque, allora dovrò decidermi, se sia il caso di rispondere o no. Da come insiste, si direbbe qualcosa di importante, ma oggi tutti sono convinti che quello che hanno da dirti sia qualcosa di importante. Qualcuno arriva a usare addirittura “importantissimo”, e, si sa, non c’è niente di più falso di un superlativo, forse solo un avverbio può superarlo in falsità. Allora, mi decido? O, magari, rispondendo, mi trovo in mezzo a un’altra grana? E sì che di questi tempi me ne capitano e me ne sono capitate, e un’altra in più non mi servirebbe, decisamente no. L’ultima, per esempio, me la sono proprio cercata e, guarda caso, rispondendo al telefono. Com’è andata? È presto detto: ho accettato di entrare in un certo affare, che adesso preferisco non nominare, per correttezza verso chi me lo ha proposto. Intanto, però, il telefono ha smesso di squillare, forse sono salvo. Almeno per ora, forse. Vediamo un po’ se riesco a rilassarmi – cinque minuti, non chiedo di più, vi prego! – sì, cinque minuti, ne ho proprio bisogno. Sto per mettere la parola fine a un nuovo racconto, mancano, forse, al più, una decina di righe e poi l’opera sarà compiuta. Intendiamoci, niente di così prezioso e di così fondamentale importanza per la storia della letteratura e per la mia personale. Però, devo ammettere che ci tengo. Ci tengo perché, infine, questo sarebbe il primo racconto che porto a termine e che, una volta concluso, potrò infilare nel solito cassetto, in attesa di tempi migliori. Intanto, il telefono ha ripreso a squillare, ma, a voler essere sincero, non ho proprio alcuna voglia di rispondere.
Provo a concentrarmi sull’ultima frase del testo, per riprendere il filo del discorso interrotto. Se almeno questo maledetto telefono la smettesse! Ecco che, come se mi avesse letto nel pensiero, ad un tratto, tutto tace. Finalmente, che liberazione! Adesso posso tornare alla frase che avevo lasciato a metà. Una bella frase, non c’è che dire, parole curate, contate, pesate e misurate, tutto dentro la mia testa, lucidate perfino, perché risaltino maggiormente, una volta adagiate sulla pagina. Parole fresche, non certo nuovissime, ma, insomma, nemmeno troppo abusate o consumate. Qualcuna, forse, arrugginita dal modestissimo uso che se ne fa al giorno d’oggi, ma pur sempre valida per esprimere quello che sento attraversare la mente, quel pensiero che continua a non darmi tregua. Eccolo di nuovo! Credevo di essermi liberato dall’incubo e dal fastidio di questo telefono che squilla, ma… Niente! Rispondere, forse, sarà il caso? Più il telefono squilla, più il fastidio cresce, più mi intestardisco nell’idea di non rispondere. Che aspetti, chiunque sia, che si arrangi, che faccia e decida come meglio crede! Chi sarà, poi? Certo, la curiosità di conoscere l’identità del seccatore – ma potrebbe trattarsi anche di una seccatrice, non lo escluderei a priori – aumenta di squillo in squillo, ma la volontà di non risponde va ancora ben oltre il fastidio. Ancora, dico, perché magari, tra poco, oppure anche subito, prenderò la comunicazione, se non altro per fare smettere questo insistente e fastidioso squillare. Difatti, quasi a voler materializzare il pensiero, accetto la conversazione con il più banale e asettico dei “pronto”, e mi preparo a respingere qualunque tentativo di dialogo. Ho già in mente le parole da pronunciare, nel caso in cui  si tratti di un call center o di un venditore petulante: “Il signore che lei cerca è morto, io sono un parente. Sono qui per la veglia funebre”.
Sono curioso di ascoltare la reazione del mio interlocutore – o della mia interlocutrice, visto che non ne conosco l’identità. Devo solo stare attento a condurre il gioco con la dovuta attenzione, per non farmi smascherare subito. “Giacomo!”, urla la voce nel telefono, una voce di donna entusiasta, per la quale non posso certo essere morto, perché mi ha riconosciuto. “Angelica!”, rispondo a mia volta urlando, dimostrando così di averla riconosciuta, senza che si sia dovuta annunciare ulteriormente. Per Angelica potrei mandare al diavolo un’intera frase ben fatta, anzi un’intera pagina e perfino un intero capitolo. Insomma, è chiaro, Angelica merita queste e altre attenzioni. Stupisco soltanto per il fatto che mi abbia chiamato; da come ci eravamo lasciati l’ultima volta sembrava che ormai non avessimo più niente altro da dirci. Con tutto quello che ne può conseguire, dopotutto in tre anni di incontri i nostri rapporti non si sono certo limitati a semplici conversazioni. Adesso dovrei subito stupirla con una parola, una frase, insomma, qualcosa di particolarmente intelligente, come si aspetta da me; invece, me ne resto in silenzio, in attesa di capire, o anche soltanto intuire, le sue intenzioni. Perché, se mi ha chiamato, un motivo, vero e anche serio, deve pur esserci. “Angelica…”, mi limito a mormorare nel telefono. “Giacomo, che succede? Ti sento strano”. Angelica fa spesso così, le capita di “sentire strani” molti dei suoi amici o conoscenti, che, a loro volta, sono fermamente convinti che la “strana” sia piuttosto lei. Angelica è una persona apprensiva, sempre in ansia più per gli altri che per se stessa, perché, a voler essere un po’ psicologi, Angelica senza gli altri si sente perduta. Sarà forse per questo che mi ha chiamato? Allora questo sarebbe il modo peggiore di continuare una giornata iniziata sotto una stella rassicurante. Di stelle simili, a dire il vero, non ne sono apparse ormai da tempo nel mio cielo, così vanno a volte le cose in certi periodi della vita.
Spesso ci si deve accontentare di stelle semplicemente tranquille, e perfino ringraziare di averle ottenute. Angelica non è quella che si potrebbe definire una “stella” tranquilla, con tutti i suoi dubbi e il suo pesante carico di perché, con cui è capace di assillarti per ore e ore e perfino svegliarti alle tre di notte, perché un dubbio o un perché non la fa dormire. Stavolta sembra che si sia convinta ad allineare i suoi orari con quelli del resto dell’umanità – o, per lo meno, di una gran parte, me compreso – dopotutto, un dubbio o un perché alle dieci di mattina possono essere anche ammessi e concessi. Difatti, come sospettavo, l’esordio è da dubbio o da perché. “Secondo te…”, si premura di precisare Angelica, e già in questa premessa c’è l’anticipo del senso della domanda, che non tarda ad arrivare. “Secondo te… è giusto quello che mi hanno detto?”. Ecco, è lei, è proprio lei, la riconosco, nel preciso istante in cui formula una domanda che potrebbe riferirsi a qualunque argomento, dalle tecniche di dissalazione dell’acqua di mare ai tempi di cottura di legumi di vario tipo. Perché è proprio questo che Angelica pensa di me, che io sappia tutto, anche se ho tentato più volte di spiegarle che quello che so lo so, e quello che non so non lo so. Ma, magari, mi informo, se vuoi, se hai tempo e soprattutto pazienza di attendere. Dovrei procedere a formulare qualche domanda di approfondimento, tipo “a cosa ti riferisci?” oppure “cosa ti hanno detto?”, ma so che, a questo punto, mi troverei costretto ad inoltrarmi in un ginepraio di domande e risposte dal quale potrei venirne fuori dopo svariate ore. Angelica è fatta così, di angelico spesso ha soltanto il nome, il resto è decisamente diabolico. Con lei ho coltivato l’arte di aspettare, perché so che alla prima domanda segue sempre una seconda, e spesso anche una terza. Così aspetto, prendo tempo, in attesa di poterne sapere di più, sperando anche che tutto si sgonfi come una bolla di sapone. A volte, se si incappa nella giornata fortunata, con Angelica può capitare.
Al mio silenzio, però, stavolta segue altro silenzio da parte di lei, evidentemente è convinta che la sua domanda possa essere più che sufficiente ad inquadrare l’argomento. Per evitare la fine prematura di questa improbabile conversazione, conviene a questo punto che mi armi di santa pazienza e mi riscuota dall’improvviso fastidio che mi ha assalito. “Domanda… insisti… approfondisci”, mi dico, preparandomi a mettere in campo l’inevitabile domanda. “Cosa ti hanno detto?”. Mai domanda potrebbe sembrare più banale o più ovvia, ma neppure più necessaria, dopotutto un chiarimento qualunque, uno scendere in ulteriori dettagli necessita. Provo a fare il giro largo, prima di arrivare al punto. “Non saprei… Forse è la stessa cosa che hanno detto a me?”. “Impossibile che te l’abbiano detta, ti riguarda!”. “Cioè? Spiegati meglio!”. “Ma sì, insomma… Sai, quella faccenda che…”. “Potresti essere un po’ più precisa?”. “Dai, che hai capito benissimo!”. Qui, però, si rischia di andare avanti alla cieca, e chissà per quanto tempo, occorre un diversivo. “Scusami, scusami Angelica, mi stanno chiamando sul fisso!”. “Va bene, ci sentiamo più tardi”. “D’accordo”, chiudo rapidamente la conversazione. Salvo anche questa volta. Però, bisogna che stia un po’ più attento quando rispondo. Intanto mi segno che questo è il numero di Angelica. Il resto… si vedrà! 

© Sergio Tardetti


La foto è di Alejandro Escamilla da Wikimedia

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ORE DICIOTTO


di Sergio Tardetti

La campana della Chiesa Madre ha un suono più allegro del solito stasera. La gente del piccolo borgo è accorsa a frotte, vestita degli abiti migliori, come se andasse ad una festa. E festa sarà davvero, sempre che i protagonisti si decidano ad arrivare. L’attesa è iniziata ormai da più di un’ora, e un’altra ancora manca all’istante in cui l’evento, così tanto a lungo evocato, accadrà, finalmente. Giorni e giorni, ore e ore di preparativi, di prove, di correzioni di piccoli impercettibili errori, che solo ai protagonisti sono apparsi tali al momento. E, finalmente, il visto, il si proceda, l’imprimatur sono stati concessi da entrambe le parti, dai numerosi e non sempre richiesti supervisori, che hanno voluto dire la loro in merito all’evento, alle sue dinamiche e alle sue varie fasi. Sono intervenute, innanzi tutto, le madri, future consuocere, sempre in lizza per definire la supremazia del rispettivo figlio o figlia nella gerarchia familiare, considerando come sempre in queste situazioni il loro parere “vincolante”, una condizione – anzi, una serie di condizioni – senza la quale – e senza le quali. Insomma, basta, va da sé, ci siamo capiti. Chi non si è capito sono state proprio loro, le amiche-rivali, che si sono fronteggiate per giorni e giorni, a volte per settimane e mesi, una volta rese edotte della tanto attesa notizia – Ci sposiamo! – a colpi di “questo sì, quest’altro no, questo forse, quest’altro è impossibile!”. Fino allo sfinimento, fino alla necessaria discesa in campo dei consorti, che, fino a quel momento, avevano osservato dall’alto della loro esperienza l’evoluzione delle schermaglie, sfociate infine in aperti combattimenti, tra le di loro coniugi.

Ad imporre per primo la tregua – armata, ma pur sempre tregua – era stato il signor Orlando, che aveva tuonato un baritonale “Adesso basta!”, alle ennesime rimostranze che la di lui legittima consorte, signora Franca, gli aveva sottoposto tra una portata e l’altra del pranzo domenicale. Assenti i “ragazzi”, strategicamente defilatisi per una sana boccata di aria marina, la signora Franca aveva potuto finalmente dare libero sfogo a tutta la sequela di ripicche con le quali, a suo dire, la futura consuocera l’aveva tormentata e torturata fino a quel momento, negandole persino la facoltà di esporre, civilmente s’intende, il suo parere in merito all’organizzazione dell’intera cerimonia. E dire che lei, la consuocera, si era permessa di dare consigli sul come disporre i posti a tavola al banchetto nuziale. E, sulla torta, aveva potuto dire qualcosa lei? Sulla torta, per mantenere la pace familiare, era stato opportuno tacere. Anche se. Anche se di parole da aggiungere al già detto la signora Franca ne avrebbe avute e ne aveva ancora, in abbondanza, perfino in sovrabbondanza. E tutte quelle parole, trattenute a stento, pro bono pacis, s’intende, le avevano provocato un mezzo travaso di bile che, insomma. Basta. “Basta” lo aveva detto anche il signor Orlando, sempre con quella bella voce baritonale impostata, perché lui cantava nel coro della chiesa, e peccato che nel giorno della cerimonia non avrebbe potuto farlo, impegnato ovviamente in tutt’altro ruolo. E lo aveva fatto notare, tutto questo, alla signora Franca, le aveva fatto notare a cosa avrebbe dovuto rinunciare anche lui nell’occasione.

E che, dunque, lei la smettesse di fare i capricci per una torta sulla quale avrebbero dovuto decidere, in fondo, soltanto gli sposi. Ed era stato allora che la signora Franca si era temporaneamente azzittita, ma dentro di sé continuava a ribollire come un vulcano prossimo all’eruzione. Ma, tornando a noi e al presente, un improvviso ondeggiare della folla, radunata sulla piccola piazza antistante la chiesa, segnala l’arrivo di qualcuno di importante ai fini della riuscita della cerimonia. Si tratta forse dello sposo? Impossibile, ancora troppo presto per poterne ammirare l’arrivo, la discesa dalla macchina condotta dal fidatissimo amico Gianriccardo, l’elegante ascesa dei pochi gradini che conducono al portone della chiesa, spalancato come deve essere nell’occasione. Il tutto in una salva di applausi e di auguri che sembrano rendere ancora più leggero ed elastico il passo dello sposo. A proposito, si chiama Andrea, lo sposo. Ma non è lui a destare l’interesse della folla, si tratta invece di una ragazza elegantissima – amica della sposa, prontamente riconosciuta come tale da alcuni e subito conosciuta e ammirata anche dal resto degli spettatori. Ma anche amica dello sposo, mormora qualcuno dei presenti, amica “particolare” spettegola qualcun altro, evidentemente bene informato, perché sono davvero in pochi a conoscere i dettagli di una breve relazione che ha tenuto legati Angelica – la nostra invitata in arrivo – e Andrea, come già detto, lo sposo. Le cose, però, finiscono sempre per andare come devono andare, mai come vorremmo che andassero, noi semplici spettatori di vicende nelle quali l’unico coinvolgimento avviene attraverso le decine di pareri non richiesti, che ci permettiamo di sottoporre alla attenzione di chi di dovere. Che poi, alla fin fine, decide sempre secondo la propria volontà, o almeno così dovrebbe accadere, di solito.

Così è stato, infatti, per Andrea, quando si è trovato a dover scegliere la futura compagna della sua vita, senza dare ascolto alle voci che lo avrebbero voluto vincolato per l’eternità ad Angelica. A risolvere la questione ci ha pensato Gianriccardo, che ha trovato campo libero per far conoscere ad Angelica le sue intenzioni – difatti si sposeranno di lì a un mese, al ritorno dal viaggio di nozze degli sposi del giorno. La vita è scontata? La vita è monotona? Chi può dirlo? Intanto, mentre tentiamo di sciogliere la serie ininterrotta di interrogativi che si propongono alla mente in questa situazione, sta facendo il suo ingresso nella piazza antistante la chiesa l’auto della sposa. La cerimonia vera e propria, a questo punto, può avere inizio e, difatti, già lo sposo ha raggiunto la sua postazione, già il padre della sposa è sceso dall’auto per aprire lo sportello alla propria figlia e darle il braccio. Un sorriso soddisfatto gli sta affiorando alle labbra, quel genere di sorriso che equivale a un “finalmente” rassicurante e consolante, ormai è fatta e adesso non si torna più indietro. Attento, adesso, a non inciampare su qualcuno dei cinque gradini che conducono all’ingresso vero e proprio della chiesa. Del resto, non sarebbe la prima volta che accadono episodi del genere, sicuramente non di buon auspicio per l’esito della cerimonia e del matrimonio nel suo complesso. Ricorda ancora, il padre della sposa, quando qualcosa di simile accadde in occasione del suo matrimonio, al padre della sposa di allora, sua attuale consorte, a suo suocero, insomma, e ci vollero settimane e mesi per assorbire i malumori legati a quell’insignificante incidente e a quel tanto di ridicolo che ne era conseguito.

Ma, ormai, è fatta, c’è solo da percorrere la navata e consegnare la sposa nelle mani dello sposo, mani un po’ sudaticce, per la verità, dopotutto l’emozione comincia a prendere il sopravvento. Intanto, le prime note della Marcia Nuziale si spandono nell’aria della chiesa, è il segnale, non convenuto ma universalmente riconosciuto, che dà inizio alla cerimonia.

© Sergio Tardetti 2025

L’immagine è Generata dall’IA Piaxbay

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ALLA SVOLTA

di Sergio Tardetti

Quando arrivi a una svolta, la sola cosa che puoi fare è svoltare. Non puoi tirare dritto, ignorandola, perché presto o tardi finirai per pentirtene. A volte non puoi nemmeno farlo, al massimo puoi saltare l’incrocio senza fermarti e senza riflettere, ma essendo consapevole di farlo a tuo rischio e pericolo. La vita è piena di incroci ignorati o, peggio ancora, saltati, di occasioni per poter svoltare che non sono state colte, anzi, sono state semplicemente tralasciate. Tutto perché tirare dritto è sempre più facile e più comodo che svoltare. La strada che hai davanti, quella che stai percorrendo, ti sembra sempre ampia, liscia, bene illuminata. Potresti arrivare a scorgere fin quasi al suo termine, monotona quanto basta, ma comoda. Perché, allora, abbandonarla? Quando arrivi alla svolta, invece, riesci a intravedere a malapena un brevissimo tratto della nuova strada che ti troverai a percorrere, se e quando svolterai. Sembra sempre una strada buia, stretta, disagevole, spesso in salita. Chi te lo fa fare, allora, di abbandonare quella comoda che hai percorso fino a quel momento, per lanciarti in un sentiero che potrebbe riservare anche amare sorprese?
Ad ogni svolta, chissà perché, torna sempre in mente la figura di un personaggio mitico, quell’Ulisse che di svolte deve averne incontrate e conosciute tante, perfino troppe, se per coprire quel breve tratto di strada – o meglio, di mare – che lo avrebbe riportato a casa ci ha impiegato ben dieci anni. E alla fine, stando almeno ai bene informati, una volta tornato a casa – o forse, chissà, non doveva nemmeno esserci tornato! – ha deciso di riprendere il mare, continuando ancora a svoltare. E, una volta in mare aperto, cosa ha fatto? Anziché tirare dritto, ha preferito svoltare a sinistra – senza nessun riferimento politico, sia chiaro! In ogni caso sarebbe stato sempre e soltanto mare, una distesa d’acqua senza confini e senza segnali, senza incroci e senza svolte consigliate o obbligate. E a lui sì che le cose non sono andate bene, se il suo viaggio è terminato contro una montagna! Ma, forse, sapeva già che, anche tornando a casa, il viaggio sarebbe terminato contro un’altra montagna, la montagna di problemi che si sarebbe trovato ad affrontare nella vita di tutti i giorni in famiglia e a capo di quel regno, piccolo sì, ma litigioso da morire. Insomma, ci sono occasioni in cui svoltare ha un senso e aiuta persino a salvare la vita – o a salvarsi dalla vita – e ce ne sono altre in cui, invece, conviene tirare dritto. E noi, come disse Amatore Sciesa mentre veniva condotto al patibolo, siamo quelli che “tiremm innanz!”
© Sergio Tardetti 2024
La foto è di Niklas Jeromin da Pexels

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UNA RONDINE NON FA PRIMAVERA

di Sergio Tardetti

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

© Sergio Tardetti 2024

Foto di Kev da Pixabay

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ORE DICIASSETTE

di Sergio Tardetti

Tratto dalla raccolta (ancora assolutamente inedita) “VENTIQUATTRO ORE”…

Ora infelice, le diciassette, pur nella sua felicità, perché è a quest’ora che quasi tutte le attività cessano, soprattutto per chi lavora in un ufficio come dipendente. L’ora che segna il distacco tra lavoro e riposo, tra l’essere e il non-essere. Difficile, a dire il vero, stabilire quale tra lavoro e riposo sia l’essere e quale invece il non-essere. C’è chi vorrà affermare che per lui – opinione del tutto soggettiva, questo tiene a precisare! – l’essere è il lavoro e il non-essere il riposo. C’è poi chi si affannerà a sostenere il contrario, con buona pace di chi vorrebbe che in questo mondo tutto sia chiaro, semplice, univoco e definitivo, vale a dire esattamente identico a quello che desidera lui. L’umanità, al crepuscolo, si presenta come un ammasso indifferenziato di anonimi, il cui unico desiderio sembrerebbe quello di poter tornare a casa e confondersi finalmente con gli umori, colori e silenzi delle proprie quattro stanze (anche due, e perfino un monolocale, potrebbero comunque andare bene allo scopo). Ma per ogni buona intenzione c’è sempre un ostacolo che si frappone, e, come sempre, l’ostacolo ha un nome preciso e una altrettanto precisa consistenza fisica, stavolta si chiama traffico. Che è poi, dopotutto, l’analogo, seppure inverso, della mattina, quando si è dovuto percorrere il tragitto casa-lavoro, incontrando altrettanto traffico, essendovi completamente immersi con timore e tremore. Timore per la fondata preoccupazione di non arrivare in orario a marcare il virtuale cartellino, che attesta, con la precisione al centesimo di secondo, l’ingresso nel luogo di lavoro. Tremore, perché quella sosta acuisce il dolore dell’abbandono del proprio tetto e la nostalgia di quelle quattro stanze – a volte anche due e perfino, in casi estremi, un monolocale – nelle quali si trascorre quella parte della giornata che si è sempre incerti a definire se migliore o peggiore.
Intanto, le diciassette bussano alla porta del giorno, chiedendo di entrare, e già in ogni stanza di ogni luogo di lavoro si procede con le manovre di chiusura. Si chiude la cartellina aperta sulla scrivania fin dalle prime ore della giornata, che racchiude pagine e pagine di un noioso verbale che attende da giorni di essere completato, e che anche oggi dovrà accontentarsi di vedersi aggiunte un paio di pagine, poche forse, ma essenziali per arrivare alla fine. Si chiude il computer che almeno un paio di volte ha deciso di fare di testa sua, impallandosi e poi resettandosi, facendo perdere tanto di quel tempo e tanto di quel lavoro non salvato da evocare l’intervento di un esorcista, per cercare almeno di domare gli spiriti ribelli che, sicuramente, devono essersi insediati all’interno di quella macchina infernale. Si dà, infine, un’ultima occhiata intorno, per verificare che tutto sia esattamente in ordine come è stato trovato all’arrivo in quella mattina, infine si spegne la luce. All’uscita, ecco i soliti capannelli di colleghi che si attardano per le solite quattro chiacchiere, per il consueto scambio di osservazioni e pettegolezzi, magari dirigendosi a passi lenti verso il primo locale nei dintorni disponibile a fornirli di aperitivi. Anche se si è attesi presso le proprie abitazioni, l’aperitivo non può e non deve mancare, del resto nessuno vorrebbe rinunciare a quel minimo di socializzazione, tanto per non dover venire escluso dal novero dei confidenti, quelli ai quali si raccontano le ultime novità – leggi pettegolezzi – raccolte nei corridoi e nei bagni dell’azienda, durante le brevi soste quotidiane per necessità fisiologiche più o meno impellenti.
Chi sta con chi, chi ha lasciato chi, chi ha intenzione di mettersi con chi, dunque, argomenti di scottante attualità che vanno subito distribuiti equamente tra i presenti che, naturalmente, non appartengono alla categoria degli spettegolati. Almeno non in quel capannello di gente, magari in un altro, magari in quello accanto, dove si sta ridendo di qualcuno, magari di qualcuno di loro. È così che sembra sia andato sempre il mondo, forse già dall’epoca in cui gli uomini vivevano nelle caverne, perché anche allora, una volta provveduto alle necessità primarie, di tempo a disposizione ce ne doveva essere più che a sufficienza. E, quasi certamente, anche lì, giù a spettegolare, magari senza aperitivo, ma con qualcosa da mettere sotto i denti, una costoletta di mammut, una noce di cocco dalla corteccia a prova di molare, insomma qualcosa con cui tenere la bocca impegnata tra una risata e un’altra, tra un fonema nuovo di zecca e un altro. Infine, anche il rituale dell’aperitivo ha termine, oppure, come capita a volte, può prolungarsi in un apericena, ma solo se non si è attesi presso la propria abitazione, o, quanto meno, si sono avvertiti i propri familiari a tempo debito per quel ritardo aggiuntivo o per quella mancata presenza intorno alla tavola apparecchiata. Intanto le diciassette sono scivolate via in silenzio, tra una risata e l’altra, fra un brindisi e l’altro, ma anche fra un insulto e l’altro, scambiato con chi all’improvviso ti si para davanti tagliandoti la strada, solo perché, ad un tratto, si è ricordato di dover svoltare per qualche commissione che gli era quasi passata di mente. Alla frenesia sul posto di lavoro adesso fa da controcanto la frenesia lungo la strada del ritorno, con in più una stanchezza sulle spalle che si vorrebbe tanto posare sul familiare divano di casa. Ancora qualche chilometro da percorrere e poi anche quest’ultimo desiderio verrà soddisfatto, si ritroveranno le comode pantofole domestiche per le quali verranno immediatamente rimosse le scarpe eleganti che hanno stretto come in una morsa i piedi per l’intera giornata. È la felicità delle piccole cose che prende il posto della malinconia che ci siamo trascinati dietro per tutta la mattina e per gran parte del pomeriggio, perché ad un tratto, senza neppure rendercene conto, torniamo a godere di quella libertà che si conquista solamente tra le mura della propria casa. Quella che potremmo chiamare la libertà di essere sé stessi.
 
© Sergio Tardetti 2024

La foto è tratta da pixabay

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