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Chi ha paura del migrante?

di Gianni Giovannelli

Gli uomini sopportano
più agevolmente e con minor
pena il presente se nutrono
buone speranze per il futuro.

Procopio di Cesarea
(Carte segrete, VII, Garzanti, 1981, pag. 40)

Qualche giorno addietro Roberto Faure mi ha segnalato un volume scritto da un naturalista (genovese come lui), Alfredo Lucifredi, sul tema della sovrappopolazione umana nel pianeta: Troppi, Codice Edizioni, Torino, agosto 2024. Contiene molti dati statistici, non sempre scontati, e si avvale di una bibliografia assai corposa: senza tuttavia indicare soluzioni, limitandosi piuttosto a porre una serie di problemi irrisolti con i quali, quasi quotidianamente, tutti noi ci troviamo a fare i conti, sia nella vita sociale, sia nello scorrere dell’esistenza personale. Una lunga sequenza di numeri si accompagna ad alcune interviste rilasciate da tecnici, studiosi, attivisti, diversi fra loro per età anagrafica, posizione politica, lingua e nazionalità. Un mosaico composto da tasselli difformi, che tuttavia costruiscono un’immagine non priva di logica armonia. Il decimo capitolo, Niente più figli?, mi ha riportato alla mente il tema dell’estinzione, che Franco Bifo Berardi ha più volte sollevato perché secondo lui deve essere posto al centro delle nostre riflessioni; io, per via di una certa mia resistenza ad una simile ipotesi, mi sono guadagnato qualche affettuosa frecciata ma lo scambio di vedute fra noi non ha minimamente incrinato il nostro rapporto di oltre mezzo secolo. Ebbene, nel decimo capitolo, troviamo l’intervista a Les U. Knight, fondatore nell’ormai lontano 1991 del movimento per l’estinzione umana volontaria, o VHEMT, oggi un tranquillo signore sulla settantina, con modi gradevoli e un tono di voce pacato.

Knight osserva che ci sono due posizioni: ecologia sociale ed ecologia profonda. Lui dichiara di avere scarso interesse per la prima, e di essere orientato verso la seconda, la biosfera terrestre nel suo complesso. E conclude: noi esseri umani siamo il pericolo maggiore e per questo motivo mi sembrò chiaro che la risoluzione del problema passasse attraverso un azzeramento complessivo della crescita della popolazione umana….smettiamo di aggiungere altre persone al nostro totale e andiamo infine all’estinzione. Lasciando da parte un facile sarcasmo o una scontata ironia le questioni che hanno originato un movimento che ha compiuto l’età del Cristo (33 anni) rimangono. Ma, al tempo stesso, non c’è dubbio che nel nostro pianeta, ad oggi, il numero di viventi rimane caratterizzato da crescita costante: 4 miliardi nel 1974, 8 miliardi nel 2022 (erano 7 miliardi nel 2011, in 10 anni un miliardo di nuovi nati!). Le previsioni ritengono che saremo circa 10 miliardi nel 2080 (ulteriore incremento) ma, personalmente, alle previsioni credo poco, specie in questo tempo caratterizzato da progetti sempre più a breve termine; tuttavia l’aumento complessivo degli umani, giorno dopo giorno, è un dato di fatto. E questo neppure il mio amico Bifo può negarlo; e infatti non lo nega, propone invece un altro approccio, che muove dalla constatazione di un calo (pure questo oggettivo) delle nascite nei paesi caratterizzati da maggior sviluppo.

Popolazione che cala, popolazione che cresce

In Italia la popolazione diminuisce e ogni anno la comparazione fra decessi e nascite porta un segno negativo. Gli appelli in favore della procreazione nazionale bianca e cristiana diffusi dal governo neofascista sono rimasti inascoltati; le uniche famiglie con elevato tasso di natalità sono proprio quelle che la coalizione al potere vorrebbe cacciare oltre confine, accentuando in questo modo il calo demografico già inarrestabile. La maggioranza parlamentare non riesce a cogliere la contraddizione in cui si è impantanata, prigioniera di vuote parole d’ordine, incapace di saldare i segmenti separati delle popolazioni metropolitane e rurali e fomentando invece la divisione dentro le comunità. La composizione attuale di una qualsiasi scuola elementare milanese, torinese o romana dovrebbe far comprendere la tendenza; invece prevalgono il rancore ostinato, la nostalgia irrazionale per un mai esistito fascismo di operoso ordine sociale, il sogno irrealizzabile di poter dominare il mondo con prepotenza. Calo demografico e xenofobia, razzismo e fondamentalismo religioso, questi sono gli ingredienti che vanno alimentando in quasi tutti i paesi della vecchia Europa il sostegno alle formazioni di estrema destra; avviene in Spagna, in Austria, in Francia, in Germania, in Ungheria, in Polonia, ovunque disagio (anche psichico) e malessere (non solo sociale) si sono andati radicando, grazie al diffondersi della condizione precaria e alla continuità dei conflitti armati. Il debito statale aumenta, per farvi fronte la scelta è stata (sia a destra sia a sinistra) quella di tagliare la spesa pubblica, così che si è allargata la forbice ricchi/poveri, dilatando la platea degli indigenti. Crisi, guerra e calo demografico non sono prerogativa del vecchio continente; anche Corea del Sud e Giappone hanno intrapreso la medesima via. Gli Stati Uniti, per ora, non ne risentono per via del flusso migratorio, ma Donald Trump sta provvedendo con raffiche di decreti a rimuovere questa anomalia nel mondo sviluppato, segando l’albero su cui sta seduto.

Mentre gli abitanti calano e invecchiano nei paesi ricchi l’incremento demografico prosegue incessante nel resto del pianeta. In Africa il fenomeno dilaga: attualmente il paese più prolifico è il Niger (7,1 figli per donna), seguito dalla Somalia (6,20), e, via via, dalla repubblica Democratica del Congo, dal Sud Sudan, Angola, Tanzania, Zambia. Ma anche alcuni paesi dell’Asia, soprattutto il Bangladesh (da 50 milioni del 1960 ai 180 di oggi), l’Indonesia (da 90 a 280) e il Pakistan (da 33 milioni nel 1947 ai 240 milioni di oggi) non accennano a diminuire il ritmo delle nuove nascite.

Incremento demografico, risorse, migrazione

Specialmente in Africa, ma anche negli altri continenti, l’incremento della popolazione si accompagna ad una diminuzione delle risorse alimentari. In Madagascar (grande il doppio dell’Italia, con 28 milioni circa di abitanti) (erano 7 milioni nel 1970), la carenza di mezzi spinge la popolazione rurale (20 milioni) a deforestare in forme incontrollate, per procurare legna necessaria a cucinare, o allevare zebù, o coltivare riso; l’agricoltura slash and burn rende il terreno argilloso, procurando danni permanenti e causando una sorta di pseudonomadismo (cfr. Kate Thompson, Tavy: slash and burn, Safina Center, aprile 2019). Non deve stupire allora che la contestualità del picco demografico e del dilagare della povertà (spesso vera e propria fame), in un quadro di guerra, epidemie e colonialismo, produca esodi di massa, fuga dalla miseria, conseguentemente flusso migratorio verso le terre che dispongono di risorse. Il conflitto nel Sudan (provocato e gestito da contrapposti stati civili tramite milizie locali) ha determinato uno spostamento (a piedi) di un numero incerto, indicativamente fra 8 e 10 milioni di persone, intenzionate a raggiungere cibo e tetto; più di recente sono ripresi gli scontri militari nella Repubblica Democratica del Congo, fra i ribelli filo Rwanda del Movimento M23 e l’esercito regolare, e, secondo l’ISPI, gli sfollati interni vanno calcolati fra 6 e 7 milioni, privi di mezzi e di prospettive, in balia delle numerose soldatesche regionali. Il territorio al centro della battaglia, quello del lago Kiwu, è ricco di Coltan, materiale necessario per le comunicazioni telematiche e conteso dalle grandi imprese multinazionali. Infatti la situazione è a dir poco ingarbugliata. Il governo della Repubblica Democratica del Congo (paese cristiano per oltre il 90%) è, oggi, uno degli alleati più stretti di Israele, cui vende appunto il coltan, tanto da perorare una sorta di amnistia liberatoria in favore del miliardario Dan Gertler, monopolista storico nel commercio dei prodotti minerari congolesi (dal diamante al coltan), posto sotto sanzione economica americana per scalzarlo dalla posizione e sottrargli l’affare. In questo intrigo di commerci, corruzioni, complotti e stragi si inserisce la tratta dei migranti, in forma di deportazione: il Regno Unito aveva deciso di sistemare in qualche lager del Rwanda gli irregolari espulsi mentre la Repubblica Democratica del Congo, in anticipo su Donald Trump, si era detta disponibile ad ospitare profughi volontari sfollati dalla striscia di Gaza. Entrambi i disegni non si sono realizzati, ma rimangono pur sempre il segnale di quanto intrecciati siano i percorsi di guerra, finanziarizzazione, migrazione, clima, fame, valore.

Il flusso migratorio è inarrestabile, con buona pace di chi sostiene il contrario

Nella città di San Paolo, in Brasile, circa 6 milioni di residenti hanno almeno un ascendente italiano; e nello stato di Espirito Santo gli italiani sono circa 2 milioni, il 60% della popolazione. A New York l’ultimo censimento ne ha contati 3.372.512: sono molti di più di quelli che vivono a Milano o a Roma. Sono il risultato della grande migrazione del XIX secolo.

Ma gli spostamenti di intere comunità sono ben presenti anche nel secolo scorso nella nostra vecchia Europa, causati dall’instabilità politica o dalla guerra mondiale in arrivo. Con la pace di Losanna, nel 1923, oltre un milione di greci ortodossi furono obbligati a lasciare l’Anatolia e a trasferirsi nelle regioni elleniche; percorso inverso fu imposto a circa 350.000 musulmani turchi che abbandonarono le loro case sotto minaccia delle armi. La composizione dei due paesi, sociale e culturale, mutò profondamente per una ragion di stato. Nel biennio 1930-31 l’intera etnia coreana che abitava nella parte orientale dell’Unione Sovietica ricevette ordine di andare a vivere in Kazakistan, al fine di spezzare il legame con il Giappone, che governava la Corea come un proprio dominio. E il mitico Laurent Berija, in vista della guerra contro la Germania nazista, organizzò un gigantesco esodo dei c.d. Tedeschi del Volga (minoranza etnica con radici antiche) nelle repubbliche asiatiche dell’URSS. Toccò poi a ceceni e ingusci, nel 1944, con i soggetti più refrattari al socialismo improvvisamente trasferiti dal Caucaso al Kirghizistan; nella notte fra il 17 e il 18 maggio 1944 i tatari della Crimea vennero accompagnati con grande dispiego di mezzi in Uzbekistan e in Tagikistan, rifondando le singole esistenze in luoghi sconosciuti.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale le potenze vincitrici organizzarono alcuni riposizionamenti etnici. Polonia e Ucraina si scambiarono le rispettive minoranze linguistiche (qualche milione, 400/500 mila morirono durante l’operazione, ma pazienza, sono incidenti che capitano); nelle file degli sconfitti i tedeschi di Boemia, Moravia, Romania e Polonia furono rialloggiati in Germania (anche se l’avevano vista solo in cartolina) mentre gli italiani dell’Istria o della Dalmazia pagarono salato il conto lasciato aperto dal fascismo in quelle zone. Nel 1949, ed è storia ormai recente con ricaduta contemporanea, possiamo ricordare, quali ulteriori esempi, lo sgombero dei palestinesi dall’odierno Israele o la ricollocazione di intere popolazioni nell’India a seguito della nascita di Pakistan e Bangladesh

Queste furono deportazioni, di natura geopolitica, che affiancarono e integrarono il permanere di flussi migratori più tradizionali, ovvero legati alla richiesta di manodopera a buon prezzo da parte delle imprese operanti nel cuore dell’impero: gli operai maghrebini dell’auto in Francia, i messicani in California e in tutti gli USA, i filippini, i cingalesi, gli slavi ….. l’intero pianeta, nel XX secolo, ha registrato un movimento ininterrotto di esseri umani che ha cambiato il volto delle metropoli, non soltanto di quelle occidentali, ridisegnando la nuova composizione sociale. Il vecchio mondo, che i partiti reazionari vorrebbero far rivivere, trasformando il loro sogno in una impossibile realtà, è irrimediabilmente defunto, anche se in molti non lo hanno ancora capito.

Conseguenze della attuale tendenza demografica. Guerra o pace?

In questo primo quarto del XXI secolo gli abitanti della vecchia Terra (dell’orbe terraqueo in cui Meloni nei suoi deliri insegue frotte di scafisti) sono cresciuti a dismisura, fino a superare il traguardo degli otto miliardi. Con l’interessante e significativa eccezione degli Stati Uniti (in piccola parte anche della Francia) nei paesi ricchi il calo delle nascite è assai elevato, tanto che le formazioni elettorali nazionaliste e sovraniste si caratterizzano per una ferma opposizione alla legalizzazione dell’aborto e per le proposte di incentivare a suon di bonus la procreazione (nelle famiglie di bianchi nativi ovviamente). Contraddittoriamente queste posizioni ideologiche raccolgono consenso nelle urne, ma si rivelano fallimentari nei comportamenti concreti: anche nella comunità indigena italiana il numero dei morti continua a superare quello dei partoriti, proseguono dunque la diminuzione e l’invecchiamento. Ma l’ultradestra non demorde.

Negli Stati Uniti l’ultimo censimento decennale del 2020 conferma invece la crescita in termini assoluti, ma al tempo stesso muta la composizione etnica interna. Nel 1945 i bianchi erano il 77,7%, i neri 8,4%, gli ispanici 10,7%, gli asiatici 2,7%; ma nel 2020 i nati dopo il 2012 sono bianchi solo per il 49,6% (per la prima volta non la maggioranza), gli ispanici il 25,9%, gli asiatici il 20,4%, i neri il 13,7%. Fra luglio 2023 e luglio 2024 la popolazione è aumentata di 1% (in Italia -0,3%), 3,3 milioni; nello stesso periodo il saldo migratorio (differenza fra insediati più o meno regolari ed espulsi) risulta essere circa 2,79 milioni. In buona sostanza i vecchi americani calano, la curva demografica rimane in salita per il permanere di una rilevante quota di arrivi dalle più diverse parti del mondo. In questo quadro si inserisce il progetto di Trump, deciso a mettere in esecuzione una gigantesca cacciata degli stranieri irregolari dal paese, rimuovendo ogni residua forma di assistenza o di pacifica convivenza. Suona il corno di guerra.

L’incremento demografico non accenna invece a diminuire proprio dove non solo mancano risorse, ma vengono pure bruciate senza tregua le possibilità di utilizzarle. In America ogni singolo cittadino consuma in media 150 chilogrammi di carne all’anno, ma anche i 75 chilogrammi pro capite dell’europeo non sono sostenibili dal punto di vista ambientale (cfr. Mauro Mandrioli, Nove miliardi a tavola, Zanichelli, 2020). In Africa invece si muore di fame, manca l’acqua e dilaga la siccità, l’agricoltura non riesce a far fronte alle più elementari necessità di sussistenza, milizie di soldati predoni rubano quel che trovano e terrorizzano i popoli, una minoranza di faccendieri al governo viene pagata dalle imprese multinazionali per consentire l’esproprio di ogni bene comune. La comunicazione si cala in questa realtà, cancella il segreto, ogni povero affamato africano sa che altrove vivono esseri umani che mangiano, bevono, si vestono, hanno un tetto, consumano. E sognano di muoversi, di partecipare alla spartizione, in mancanza di cibo o medicinali si nutrono di speranza. In queste comunità l’invito ad estinguersi di Les U. Knight non riuscirà mai ad attecchire, sono i moderni barbari, non vogliono estinguersi, vogliono migrare, migliorare la loro sorte: non temono la morte, sono disponibili ad affrontarla, mirano a un futuro che si colloca in una dimensione ultra-generazionale.

Certo. Non hanno mezzi, soldi, armi. Ma sono in molti e, direbbe il nostro Karl Marx, hanno da perdere solo le catene. Pensiamo alla marcia, straordinaria, incredibile, di oltre duecentomila gazawi (gli abitanti di Gaza, ndr.) decisi a riprendersi un cumulo di rovine perché è l’unica cosa che hanno. Forse Donald Trump riuscirà a deportarli o a ucciderli tutti; ma non avrà risolto il problema, lo avrà solo aggravato. Sono i bianchi ad invecchiare, a rischiare l’estinzione, non gli africani, giovani, in crescita. Non esistono bombe atomiche o minacce nucleari capaci di fermare il cammino che miliardi di affamati saranno costretti ad intraprendere, spinti dalla necessità di sopravvivere, decisi a non soccombere, refrattari all’ipotesi di estinguersi.

Ancora esitano, incerti, spaventati. Lasciano al centro dell’impero ancora una residua possibilità di costruire un’alternativa: ecologica per salvare il pianeta danneggiato, etnica mediante la fusione in luogo di guerra e sostituzione violenta, sociale con più giustizia, politica proteggendo il comune. Il centro dell’impero sembra, oggi, preferire le barriere, i muri, i confini, l’emarginazione, la supremazia, la violenza; si tratta di una scelta destinata ad una cocente sconfitta perché i numeri non lasciano scampo. Il futuro sarà, piaccia o no, inevitabilmente meticcio.

 

L’articolo è stato pubblicato su Effimera il 17 febbraio 2025

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Mirabilia

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CATASTROFISTI E POSSIBILISTI


di Sergio Tardetti

(Un eterno confronto tra chi si lascia trascinare dagli eventi e chi invece prova a fare qualcosa per cambiarli)
Da grande sarei voluto rimanere come da ragazzo, potenzialmente aperto ad ogni possibilità. Questo era, ed è rimasto tuttora, il mio più vivo desiderio. D’altra parte, tutto incoraggiava a poter mantenere questo atteggiamento positivo e propositivo, dalle parole di elogio pronunciate in ogni occasione dagli amici per il mio modo di condurmi, alle azioni compiute per mettere in pratica quello che era stato enunciato in teoria, fino agli attestati di stima e di solidarietà provenienti da ogni parte, per tutte le volte che mi mostravo disponibile al confronto con gli altri e con il futuro. Il mio possibilismo era universalmente conclamato, accompagnato ogni volta da riconoscimenti e apprezzamenti che mi invitavano a mantenere ben salda la rotta, senza deviarne minimamente, quasi fossi considerato unastella polare per la linea di condotta degli altri. Col passare del tempo, mi rendevo conto di quanta fatica cominciasse a costarmi mantenere quella rotta, continuare a rimanere possibilista, malgrado il duro quotidiano confronto con la realtà mi spingesse verso altre direzioni. Quello che accadeva intorno a me non faceva ben sperare chepotessi rimanere ancora a lungo su quella strada, ormai solo apparentemente tracciata, ma in realtà ancora tutta da tracciare. Intanto, però, i possibilisti che mi avevano accompagnato lungo quel cammino cominciavano a diradarsi, come foglie d’autunno, incalzati e sopraffatti dal turbine della realtà.
Man mano che i giorni passavano, mi accorgevo di essere sempre più isolato, perché molti avevano ceduto e si erano ritrovati a far parte della folla dei catastrofisti. “Come va?”, chiedevo di tanto in tanto a qualcuno. “Male, male! Va tutto male!”, era l’inevitabile risposta che mi giungeva. Quando, però, si trattava di entrare nei particolari, si finiva per scoprire che, infine, così male non stava andando, intanto perché, a differenza di altri che ci avevano accompagnato per un lungo tratto, noi eravamo ancora lì a poterci lamentare e a ricordare le figure e le vicende degli assenti. “Da quando mi stancai di cercare, cominciai a trovare”, mi ripetevo mentalmente come un mantra, e dovevo in effetti riconoscere che era vero. La catastrofe, nella maggior parte dei casi, nasceva proprio dalla furia della ricerca di un qualcosa che non si riusciva a trovare, pur investendo tempo e denaro, soprattutto denaro, in quella impresa. Denaro speso in serate trascorse a stordirsi con musica e alcool, sperando di riuscire ad osservare la realtà sotto un altro nuovo aspetto, oppure in lunghi ed estenuanti viaggi, per cercare di tenersi lontano da quella realtà che continuava a provocare in ciascuno un così pesante turbamento. Ogni volta che ci si riprendeva dallo stordimento o si rimetteva piede sul suolo natio, però, ritornava quella sensazione dolorosa di scoraggiamento, che continuava a far vedere un presente sconfortante e un futuro ancora più nero.
Passati i primi dieci minuti, in cui era ancora vivo e presente il disorientamento euforico, causato dal temporaneo cambiamento di stato o di luogo, ognuno riprendeva a lamentarsi della propria vita e di quel mondo che lo circondava. L’eco di quei “Male, male, va tutto male!” tornava a risuonare nell’aria come il lamento di una generazione moribonda e ormai senza più via di scampo. Che fare, a questo punto? Continuare lungo la stessa strada, sempre più soli e sempre più stanchi? O cominciare a pensare a qualche forma di cambiamento? Le litanie e i cori dei catastrofisti giungevano alle orecchie da ogni direzione, fino al punto da contagiare gli amici più stretti e persino i familiari. Quando, però, si trattava di scendere nei dettagli, specificando cos’era che andasse “Male, male, tutto male”, nessuno riusciva ad essere particolarmente preciso. Si trattava per lo più di sensazioni, forse anche del fatto che, con l’avanzare dell’età, certamente molti compagni di strada avevano cominciato a mancare, altri iniziavano a cedere, ma per il resto non c’era poi così tanto da lamentarsi. Alla fine, ci si era soltanto uniti al coro dei più, perché il ruolo del catastrofista è meno faticoso da sostenere. Al possibilista, invece, è sempre richiesto di indicare direzioni da prendere, mete da raggiungere, sapendo già egli stesso che raggiungerle sarà possibile, ma non sempre certo. A quel punto, quando la meta agognata e profetizzata non apparirà all’orizzonte, tornerà a levarsi il coro dei catastrofisti e quel “Male, male, va tutto male!” finirà per diventare l’enorme buco nero che inghiottirà al suo interno anche l’ultimo dei possibilisti.


© Sergio Tardetti 2025

Foto di Pete Linforth da Pixabay



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Peccati essenziali

di Cristina Formica

I Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato è un libro da regalarsi e da regalare, da tenere vicino per riflettere e cambiare. È un testo fatto per amarsi e per criticarsi, perché solo guardando in faccia la realtà, la propria persona e la società si può veramente migliorare e stare meglio. Pubblicato dalla piccola casa editrice femminista LE PLURALI, è un testo che descrive un mondo recente ma non solo vicino, uno sguardo necessario per offrirci qualcosa di migliore e da coltivare. I peccati necessari sono quelli che le donne e tutte le identità LGBTQ+ hanno diritto ad agire, almeno quelle che non vogliono essere, o non vogliono più essere, le serve del patriarcato e che perciò possono imparare ad abitare, ad agire, a scagliarsi contro l’imperativo imperante di un mondo al maschile becero, quello bianco ed eterosessuale, quello capitalista e colonialista, anche quello nero e musulmano che ha gli stessi tratti di quello cattolico integralista e repressivo. Il patriarcato è il patriarcato in qualunque parte del mondo agisca, e questo libro lo spiega molto bene.
Peccare fa essere anche felici: la Rabbia, l’Attenzione, l’Ambizione, la volgarità, il Potere, la Violenza e la Lussuria possono essere il modo di riappropriarsi di se stesse e di lottare, anche da sole, contro tutti i mulini a vento che il patriarcato vuole mantenere per opprimere le donne. I peccati sono tali perché rompono muri, aboliscono proibizioni, urlano forte e lontano, trovano altre che donne che Mona Eltahawy nomina e unisce, scrivendo di donne che si muovono in tutto il pianeta, soprattutto in quelle zone di cui la tradizione patriarcale, secondo l’ottica occidentale, le vuole sempre sottomesse perché impossibilitate a lottare, incapaci di combattere per i propri diritti. Proprio questo elenco, lunghissimo e dettagliato, delle donne che lottano in Africa, nel Maghreb da cui l’autrice proviene, nel Medio Oriente e in tutta l’Asia, coniuga serenamente le lotte femministe nordamericane e australiane, quelle europee e sudamericane. Il rendere e pubblicizzare quello che le donne fanno in tutto il mondo non attenua la rabbia, ma la rende più forte per essere maggiormente potente, per essere insieme e non disperate, nonostante tutto, nonostante le sconfitte, l’umiliazione, la prigione e l’essere uccise, spesso non è solo un rischio di subire violenza: ma è proprio la rabbia che permette di affrontare la violenza subita.
Mona Eltahawy è una donna di più di 50 anni, è nata in Egitto e con la sua famiglia si è trasferita in Inghilterra e in Arabia Saudita; ha poi scelto di essere statunitense, dove si è trasferita nei primi anni del duemila e ha preso la cittadinanza, unendo i punti della sua vita e continuando a essere una giornalista e scrittrice importante, che gira il mondo con i capelli rosso fuoco; Mona è voluta diventare una femminista nota in tutto il mondo, come racconta di sé, per agitare le donne in ogni posto che va. Più di un anno fa era anche alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, dove arringava la folla, quasi solo di donne, non cedendo mai l’entusiasmo e la voglia di porsi avanti e guardare avanti. La scrittrice non nasconde mai la sua storia, parte fondamentale dei suoi cambiamenti e che hanno spesso rotto quegli equilibri ipocriti che nascondono le donne sotto, funzionali alla società degli uomini e anche delle donne: ci sono anche quelle, che Eltahawy definisce operaie del patriarcato, che mantengono e contribuiscono a mantenere l’oppressione delle donne, tutte le altre donne che non hanno raggiunto alcuna posizione ragguardevole per poter agire liberamente il loro essere. Non c’è carica politica, economica e sociale che tenga, anche se si arriva a una posizione “invidiabile” come donna bisogna saper mantenere uno sguardo che vada oltre sé e parli anche alle altre che non ce la fanno a realizzarsi, in molte situazioni a vivere dignitosamente proprio perché donne. Non esiste nessuna carica che possa effettivamente riuscire a cambiare il patriarcato se si agisce come un uomo, ne è un esempio perfetto Giorgia Meloni che infatti si definisce al maschile, contribuendo ad una visione del potere che è sempre e solo degli uomini. E come lei, le diverse donne nominate dalla prima presidenza di Trump, di cui l’autrice ricorda come non sia né sia mai stato dalla parte delle donne, lui che è accusato di violenza sessuale e che ha nominato Gina Haspel a capo della CIA nel 2018, una donna funzionale al patriarcato e che ha partecipato direttamente a sessioni di tortura di sospetti terroristi, distruggendone poi la documentazione di prova, atti orrendi per cui è stata accusata di crimini di guerra.
Molte sono le storie che Eltahawy racconta, a partire dalle molestie e violenze che ha subito e che l’hanno incoraggiata a combattere la violenza contro le donne in ogni posto in cui ha vissuto. Poi, ci sono le storie degli stupri etnici in Bosnia e in Rwanda, di cui nessuno vuole mantenere memoria. Ed ancora le storie delle donne indiane che lottano per andare nei templi nonostante le mestruazioni, periodo naturale che impedisce alle donne la preghiera, come se qualsiasi dio sia meno disposto ad essere riverito se lo fa una donna con il mestruo; la stessa lotta è stata fatta dalle donne musulmane di New York, che subiscono la stessa limitazione. Ma d’altronde, anche in Italia, fino a non molto tempo fa, si diceva che se una donna aveva le mestruazioni non doveva impastare il pane e fare tutta una serie di cose perché il sangue avrebbe influito negativamente. E poi l’autrice parla delle donne elette al parlamento statunitense nel 2018, quando sono state nominate anche figure fuori dalla casta politica come Ilham Omar, una donna di origine somala che ha continuato a portare il velo anche nell’emiciclo di Washington; oppure Alexandria Ocasio-Cortez, eletta dai sobborghi newyorkesi perché anche lei si era dovuta districare in una vita complicata, essendo di origine portoricana, povera e a rischio di perdere la casa. Donne che il potere non ha sostenuto, ma la gente sì, anche per questo sono espressione contraria del patriarcato che, di nuovo, Trump rappresenta e non solo lui purtroppo.
Così come il racconto delle lotte in tante nazioni africane per i diritti delle donne, delle persone gay, lesbiche e trans: in diversi stati infatti si rischia la prigione e la morte se non si è eterosessuali, o se si attacca un leader uomo che governa anche rispetto al fatto che le donne si vedono negare i propri diritti umani, tutti i giorni della loro vita, perché sono donne.
Un libro che esprime il bisogno di essere ribelli, di essere libere e liberi perché questo è il destino necessario per una vita ricca e realizzata. A seguire il potere (patriarcale) si rimane sempre sotto un sistema che forse individualmente salva, ma è un destino solitario, senza sbocchi se non quelli che qualcun altro vuole darti oppure, da un momento a un altro, toglierti. Un libro che non vuole assolutamente trovare una soluzione pacifica, ma che anzi sobilla ed agita perché è questo l’unico modo di cambiare ciò che non ci piace; Mona Eltahawy ci è riuscita, approfittando delle possibilità che ha avuto e mostrandosi sempre in prima linea, consapevole che la sua posizione di notorietà l’avrebbe protetta: ma soprattutto ha protetto altre donne, e su questo indica una strada che è ancora tutta da percorrere, perché realmente possiamo costruire quanto di meglio per noi se, e solo se, consideriamo anche le altre persone, anche se non sono come noi, anche se non vogliono essere come noi.
Alla fine, leggendo questo libro, rimane un confine molto più ampio da varcare, un coraggio più grande, un pensiero più forte, è proprio un libro di forza e ne abbiamo, mai come ora, assolutamente bisogno.

Mona Eltahawy – I Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato. LE PLURALI Editrice

L’articolo è stato pubblicato su Comune-info il 9 febbraio 2025




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Vorrei chiederti di quel giorno

Sinossi

«Sapere o ignorare sono forme simmetriche di salvezza.» È in questo dittico contraddittorio e duellante l’innesco del racconto di Lorenzo Tosa. E l’inchiesta privata e corale su Bruno, suo padre, morto suicida il 2 aprile 1986, non può che partire dall’ultimo giorno e dalle ultime ore trascorse insieme. Lorenzo aveva solo due anni e mezzo, non può ricordarle ma può rico- struirle e in parte immaginarle, e da lì avviarsi nel lungo e tortuoso viaggio per ricomporre i pezzi di una storia finora taciuta, in un’operazione di omissione concordata messa in atto dalla sua famiglia. Lo farà parlando con chi Bruno lo ha conosciuto e amato, gli amici, i compagni, le donne della sua vita; ricorrendo alla memoria e ricucendo i frammenti di Bruno arrivati fino a lui, senza sconti per nessuno e per se stesso; scavando anche nelle proprie insicurezze di bambino, di giovane adulto e di genitore a sua volta, per rispondere all’urgenza di conoscere e raccontare suo padre. C’è quindi Genova in queste pagine, c’è l’Italia degli anni Sessanta e Settanta e la generazione della politica e della contestazione, il turbinare nell’aria e nei cuori di nuovi modi di stare insieme nell’amicizia e nell’amore, e lo scontro tra i padri e i figli che sarà la cifra forse più paradigmatica di quegli anni. Dentro la vicenda di Bruno Tosa, ragazzo di trentatré anni, c’è la riflessione, così attenta e delicata nelle parole di Lorenzo, sul crollo psichico che porterà all’esito della vicenda, sullo stigma che il disagio mentale ancora si porta dietro, sulla cronaca di una morte non annunciata. Un racconto spietato e tenero, composto di silenzi e urla rabbiose, di presenze, assenze e abbandoni. Un cerchio che si chiude, nella salvezza che solo il conoscere può garantire, avvicinandosi un pezzo alla volta «a quell’utopia che chiamiamo anche verità».

Lorenzo Tosa – Vorrei chiederti di quel giorno. Rizzoli, 2024

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