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La razza umana è un’infezione


Raúl Zibechi intervista Franco Berardi Bifo

In vari articoli e lavori indichi che l’umanità, come sta accadendo negli ultimi decenni, sembra essersi diretta alla sua autodistruzione. Quali pensi siano le cause di fondo, diciamo antropologiche, di questa deriva? Perché non voglio mettere tutto dalla parte dei cattivi, dell’impero, del sionismo, ecc. Come vedi l’idea di Pasolini di “mutazione antropologica” provocata dal consumismo?

Negli ultimi due secoli si sono innescati diversi processi che convergono verso la fine della civiltà umana e, probabilmente, l’estinzione dell’animale chiamato Homo sapiens. Il primo è stata la devastazione dell’ambiente fisico del pianeta: estrazione sistematica, inquinamento dell’aria e dell’acqua, ecc. Un secondo processo è la creazione di tecnologie militari in grado di eliminare la vita umana dal pianeta. Ma questi e altri processi distruttivi potrebbero forse essere affrontati positivamente se esistessero le condizioni soggettive affinché un governo razionale ripristinasse le condizioni di sopravvivenza. Il problema, quindi, risiede nella capacità della mente umana di agire razionalmente e con solidarietà. Ciò che, a mio avviso, impedisce qualsiasi recupero di sopravvivenza e crea le condizioni per la fine dell’esistenza umana sulla Terra è proprio questo: la distruzione delle capacità affettive e cognitive, una distruzione cominciata quando l’economia capitalista ha dato la priorità alla passione accumulativa su tutte le altre emozioni. Ma negli ultimi trent’anni, questo processo ha subito un’accelerazione catastrofica e, a questo punto, credo irreversibile. Secondo l’Oxford Dictionary, la parola più usata su internet nel 2024 era “decomposizione cerebrale”.

Autoconsapevolezza dell’esaurimento della coscienza. Un limite del marxismo, a mio avviso, è proprio la sottovalutazione della questione della mente. Non mi riferisco all’ideologia, che può essere considerata qualcosa di sovrastrutturale, ma alla patologia, alla psicosi, effetto della sofferenza e causa di ulteriore sofferenza. L’isolamento portato dalla digitalizzazione, l’accelerazione dell’infosfera che ha prodotto un disturbo generalizzato da deficit di attenzione e la progressiva eliminazione di ogni capacità di pensiero da parte delle macchine che pensano per noi, ma pensano secondo criteri non umani, cioè non pensano, si limitano a ricombinare i segni, hanno creato le condizioni per una psicosi di massa che ora vediamo svilupparsi in varie forme: dalla depressione epidemica alla psicosi aggressiva, compresi gli impulsi suicidi sistemici.

Il pensiero critico non è una condizione naturale della mente umana: è stato reso possibile all’interno di condizioni specifiche dell’infosfera, le condizioni della comunicazione scritta che sono state cancellate negli ultimi decenni. Anche la solidarietà non è una condizione naturale delle relazioni sociali. È legata a condizioni relazionali, produttive, prossemiche e ambientali… che sono state distrutte dalla convergenza tra iperliberismo e digitalizzazione. La mente umana è sempre meno capace di generare solidarietà e di discernere criticamente tra vero e falso, tra bene e male. Non abbiamo più gli anticorpi per prevenire l’aggressività e il suicidio.

Pasolini intravide qualcosa di questo tipo di tendenza quando parlò di mutazione antropologica, di un nuovo fascismo consumistico. Ma la sua cultura essenzialmente puritana e reazionaria gli impedì di comprendere che solo il movimento operaio organizzato poteva contrastare questa mutazione, o meglio, trasformarla gradualmente. Il mio punto di riferimento principale, tuttavia, non è Pasolini, ma Günther Anders, che comprese che il potere tecnico, in condizioni di potere capitalista, non poteva che aprire la strada alla distruzione finale.

Come potete vedere, la mia comprensione di queste tendenze non lascia molto spazio alla speranza di una via di fuga dalla catastrofe. Ma sono convinto che dobbiamo sempre pensare con due cervelli: uno è il cervello che comprende il prevedibile, l’altro è il cervello che immagina l’imprevedibile. Naturalmente, la mia comprensione è limitata. C’è molta realtà che non conosco. La mia ignoranza può diventare la mia forza, la mia possibilità. Ad esempio, non mi aspettavo l’ondata antisionista e anticolonialista che sta avendo luogo in Italia nelle ultime settimane: potrebbe trattarsi di un’esplosione improvvisa e passeggera, ma potrebbe anche essere il contrario: da questo movimento potrebbe emergere qualcosa di completamente sconosciuto. Lo so, l’equilibrio di potere è completamente sproporzionato. Ma il regime di Trump, Meloni in Italia, Netanyahu in Israele… potrebbe entrare in una crisi autodistruttiva.

È evidente che la classe operaia ha cessato da tempo di essere un soggetto collettivo capace di operare per l’emancipazione. Riesci a vedere altri soggetti capaci di sostituirla, anche se privi del suo carattere “universale”? Quale ruolo possono svolgere?

All’inizio degli anni Novanta, quando la sconfitta del movimento operaio portò a una trasformazione tecnica del processo produttivo e a una ristrutturazione del lavoro, mi convinsi dell’emergere di una nuova figura sociale: il lavoro intellettuale di massa, come lo chiamava Paolo Virno, o, se preferisci, il lavoro cognitivo. Il cognitariato, il proletariato della cognizione, mi sembrava allora una forza produttiva sfruttata capace di avviare un processo di autorganizzazione. Il cognitariato detiene le chiavi dell’innovazione tecnica, perché ne è il creatore. Ma egli vive in condizioni di soggiogamento psichico, per cui non è stato possibile organizzare un’autonomia cognitiva, che potesse generare un processo sociale di reinvenzione tecnica della macchina produttiva globale. Negli ultimi anni ci sono stati tentativi in ​​questa direzione in settori come la ricerca, l’insegnamento, il ciclo della produzione immaginativa e l’arte, ma in realtà tutto questo è rimasto moto marginale. Perché il cognitariato non è riuscito a raggiungere l’autonomia dal dominio sociale e culturale del semiocapitalismo? Credo che la questione dell’autonomia cognitiva e dell’autorganizzazione non sia una questione politica, ma piuttosto sociale e psicologica. L’incapacità del lavoro cognitivo di creare autonomia è legata alla precarietà dei rapporti lavorativi: le condizioni di lavoro sono così frammentate che ogni individuo vive la propria vita in isolamento. Inoltre, i processi mentali coinvolti nel lavoro cognitivo producono gli effetti di solitudine, isolamento e competizione.

In tutto il mondo stiamo assistendo all’espansione del capitalismo predatore, l’accumulazione per espropriazione (Harvey), il necrocapitalismo (Mbembe) e altre derive come il tecnofeudalismo, oltre a quelle che tu analizzi. A mio parere, di fronte a questa realtà non si possono più applicare concetti gramsciani come “egemonia” o “consenso”. Cosa diresti al riguardo?

La questione dell’egemonia culturale riconduce alla questione del consenso, e la parola consenso significa condividere un senso, un significato, uno scopo consapevole. Nella società industriale, l’egemonia si basava sulla persuasione. Il capitalismo aveva i suoi strumenti di persuasione, i suoi obiettivi: crescita, espansione, consumo; e il movimento operaio aveva i suoi: democrazia progressista, uguaglianza economica, libertà dallo sfruttamento… Ma l’accelerazione dell’infosfera ha completamente trasformato il problema dell’egemonia, se vogliamo continuare a usare questa vecchia parola. Non si tratta più di persuadere, ma di permeare. Non si tratta più di convincere su valori e scopi. Si tratta di permeare, di occupare lo spazio psicosferico, di assorbire l’attenzione, di saturare l’attività cognitiva. Il significato è scomparso, lo scopo è scomparso. Baudrillard lo diceva nel suo libro del 1976: Lo scambio simbolico e la morte. In passato, la questione era lo scopo. Ora non ci sono scopi, ma processi generativi.

In America Latina abbiamo subito cinque secoli di espropriazione, sebbene in alcuni paesi come l’Argentina ci sia stato un breve periodo di industrializzazione e welfare. Credo che questo ci faccia vedere il mondo di oggi da una prospettiva diversa, in particolare per quanto riguarda i popoli indigeni e neri. Voglio dire, non siamo così pessimisti come in Europa, dove questo modello si è affermato solo di recente. Quando viaggi nel Sud del mondo, percepisci questa differenza?

Negli ultimi vent’anni, il mio rapporto con il mondo ispanico, con la Spagna e con l’America Latina, è diventato molto importante per me. Oggi ho più amici e interlocutori in Argentina, Messico o Spagna che in Italia o Francia. Tuttavia, questo mondo, a cui mi sento emotivamente molto vicino, rimane un enigma, una negazione, parziale, della mia ipotesi. Per ragioni storiche e culturali che comprendo solo in parte, ad esempio, la continuità delle culture indigene, la persistenza di una pluralità di temporalità, l’umanità non sembra essere scomparsa dalla vita quotidiana e un’alternativa politica sembra ancora possibile. Colombia, Brasile, Uruguay, Messico, perfino l’Argentina, nonostante la parentesi Milei, e, senza dubbio, la Spagna di Sánchez, Yolanda Díaz e Pablo Iglesias, sono zone culturali in cui la tendenza al precipizio non sembra confermata. Si tratta di un ritardo fortunato? È una possibile alternativa? Non lo so. Non ho ancora una risposta. Forse c’è qualcosa che non capisco. In ogni caso, è chiaro che il Sud del mondo si sta organizzando contro l’aggressione ipercoloniale dell’Occidente. Ciò che abbiamo visto a Pechino il Primo settembre è un segno di questo processo. Ma questo non è un movimento anticoloniale. È la formazione di una coalizione politicamente eterogenea che si prepara a una guerra interimperialista.

Lo zapatismo ha deciso di non impegnarsi in una guerra capitalista perché sta facendo il punto sulle guerre precedenti, in particolare quelle in America Centrale, dove il popolo ha sofferto centinaia di migliaia di morti per una rivoluzione imprevedibile. Avendo discusso di questo argomento con Lazzarato, vorrei chiederti: pensi che la “guerra rivoluzionaria”, da Lenin a Mao e ai vietnamiti, abbia un futuro positivo o accettabile per il popolo?

Lazzarato scrive cose molto interessanti. È uno dei pochi pensatori contemporanei che continua a ragionare in modo anticonformista. Tuttavia, mi sembra che gli sfugga la novità radicale del nostro tempo: che la politica non è più l’arena decisiva. La guerra, che Lazzarato affronta con perspicacia e coerenza, non è più un fenomeno essenzialmente politico, né tantomeno un processo essenzialmente economico. È un processo psicotico. Il pensiero marxista non è mai stato in grado di vedere quello che ora è diventato il fenomeno decisivo a tutti i livelli: la psicopatia dilagante, il legame tra depressione e aggressività fascista.

Sándor Ferenczi affermò nel 1919 che la psicoanalisi può comprendere qualcosa della nevrosi individuale, ma non può comprendere o curare la psicosi di massa. La psicoanalisi è insufficiente ad affrontare la psicosi di massa del nostro tempo. È un compito che né la psicoanalisi né la politica possono assolvere. Solo un nuovo modo di pensare e un nuovo modo di praticare potrebbero realizzarlo. Ma un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di praticare non esistono.

Mi dispiace molto, ma l’espressione “guerra rivoluzionaria” non mi sembra appropriata per pensare al nostro futuro. Non esistono più le condizioni soggettive per un movimento organizzato, né quelle tecniche per affrontare gli armamenti iperpotenti a disposizione dell’ipercolonialismo. Non credo che un movimento rivoluzionario organizzato in grado di rovesciare il dominio dell’imperialismo o di gettare le basi per una nuova società esisterà mai più. Tutto questo appartiene a un passato conclusosi cinquant’anni fa; per essere precisi, direi conclusosi nel 1977, quando scoppiò l’ultimo movimento proletario in Italia e quando i Sex Pistols gridarono: “Non c’è futuro”.

E allora? Cosa possiamo aspettarci nei prossimi anni, nei prossimi decenni? La mia risposta lascia poco spazio alla soggettività politica. Ciò che prevedo è un peggioramento irreversibile del collasso climatico, che porterà a migrazioni sempre maggiori e, di conseguenza, a più razzismo e più guerra. La guerra è destinata a esplodere in forme completamente nuove. L’Europa è di nuovo il luogo in cui potrebbe scoppiare una guerra mondiale. La classe dirigente europea si sta preparando alla guerra, investendo risorse nella preparazione, e la Russia è pronta a rispondere, lo è già. Inoltre, è prevedibile una guerra civile psicotica negli Stati Uniti, che è già in pieno svolgimento: ogni giorno abbiamo decine di morti per sparatorie di massa, nelle scuole, nelle chiese, per strada, nei locali notturni. Questa guerra civile psicotica è la grande novità del nostro tempo perché accelera la disintegrazione delle società occidentali, che sono senili e furiosamente dementi. Le aggressioni quotidiane contro i migranti da parte di uomini armati e mascherati nelle strade degli Stati Uniti, le deportazioni di massa, sono fenomeni di guerra civile psicotica, di disintegrazione della vita civile. La disintegrazione è la tendenza inarrestabile delle società occidentali, dove la senilità genera demenza e razzismo. A questo livello, non c’è spazio per l’autonomia sociale. L’unica forma di autonomia sociale che vedo oggi è quella delle donne che hanno deciso, consapevolmente o inconsapevolmente, di non riprodursi. Questo sciopero delle nascite, questo rifiuto di procreare, si aggiunge al crollo della fertilità maschile, in calo del 58% in quarant’anni, e alla tendenza alla scomparsa della sessualità, in particolare della sessualità riproduttiva, nella generazione che giustamente si definisce l’ultima. La questione demografica non è mai stata oggetto di riflessione teorica da parte del marxismo, ad eccezione del dibattito tra Marx e Malthus. Ma la demografia non è qualcosa di naturale; è il prodotto di processi sociali, culturali ed economici. Allo stesso tempo, è causa di profondi cambiamenti nelle dinamiche sociali. Oggi, la demografia ci dice che l’espansione è terminata e che la contrazione sarà molto rapida, e poi vertiginosa. Una società che invecchia è ciò che già vediamo in Europa e altrove. In un certo senso, possiamo dire che la civiltà umana è già finita con il ritorno del genocidio di Gaza. Non c’è civiltà quando la ferocia sostituisce la legge, quando la follia aggressiva sostituisce la ragione. Pertanto, è del tutto ragionevole rifiutarsi di creare vittime di barbarie, crudeltà, schiavitù e orrore. Nulla è eterno, nemmeno la razza umana. Potremmo dire che la razza umana è un’infezione nell’evoluzione dell’universo: potremmo immaginare che il pianeta Terra si stia liberando di questa infezione.


Pubblicata su Brecha (titolo completo La razza umana è un’infezione nell’evoluzione dell’universo)

In lingua italiana è stata pubblicata su Comune-info il 4 novembre 2025

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Ripensando alla speranza con Kafka

Caserta 2ottobre 2025

di Emilia De Rienzo

In un tempo in cui tutto sembra potersi ottenere – informazioni, immagini, risposte immediate – Franz Kafka resta uno scrittore necessario. Ci ricorda che esiste un desiderio che non si appaga, una speranza che non coincide con il successo, un’inquietudine che non si lascia zittire.
Nel mondo della trasparenza e dell’efficienza, i suoi personaggi continuano a cercare ciò che non si trova: un senso, una giustizia, un riconoscimento. Eppure, nel loro fallimento, custodiscono qualcosa che noi rischiamo di perdere: la consapevolezza del limite, la dignità del domandare, la forza di non smettere di cercare.

Kafka ci parla oggi perché restituisce spessore al desiderio: non lo riduce a consumo o soddisfazione, ma lo riconosce come ferita, come tensione, come segno di una mancanza che è il cuore dell’umano. Kafka mette in scena esseri umani che cercano disperatamente un ordine, una legge, un riconoscimento, ma si trovano invece di fronte a un potere invisibile, impersonale, spesso assurdo. E tuttavia, in Kafka, il desiderio non scompare mai. Anche se irrealizzabile, rimane come spinta vitale che continua a bussare contro il muro del reale.

Ne La metamorfosi, Gregor Samsa si trasforma in insetto, ma dentro quella condizione disumana resta un desiderio umano di amore, di comprensione. Il desiderio rivela il vuoto del mondo così com’è. In questo senso Kafka non è un nichilista: mostra la mancanza di senso come una ferita che chiede risposta. Il desiderio non crea: urta, si infrange, si consuma contro ciò che non si lascia trasformare.

I personaggi di Kafka sono figure dell’attesa e della distanza. Josef K. non saprà mai di che cosa è accusato; l’agrimensore K. non entrerà mai nel Castello. Eppure entrambi continuano a cercare, a interrogare, a bussare. Non si arrendono, ma la loro ostinazione non produce salvezza: solo consapevolezza.

In Kafka la realtà è un muro, e il desiderio è la mano che continua a battervi contro, pur sapendo che non si aprirà. Non è un gesto inutile: in quel battere, in quella tensione senza sbocco, si rivela la condizione umana. L’uomo desidera ciò che non può ottenere, cerca un ordine che non trova, un senso che si nasconde. Ma proprio questo fallimento lo definisce: lo costringe a vedere la propria nudità, la propria fragilità, la sproporzione tra sé e il mondo.

C’è in Kafka una speranza paradossale. Non quella che promette un lieto fine, ma una speranza che resiste dentro il buio, come una brace che non si spegne. «C’è una quantità infinita di speranza, ma non per noi», scrive. È una frase terribile eppure consolante: significa che la speranza esiste, anche se non la possediamo. È altrove, in una regione che forse non appartiene all’uomo, ma che continua a illuminare le sue notti.

Il desiderio, in fondo, non serve a ottenere. Serve a ricordarci che qualcosa manca, che potremmo essere altro, che il mondo così com’è non basta. Kafka ci obbliga a restare in quella mancanza, a non voltare lo sguardo. È lì che si apre uno spazio fragile, ma reale, in cui la disperazione e la speranza non si escludono, ma si accompagnano: una dà forma all’altra, la tiene viva, la impedisce di diventare illusione.

Per questo Kafka non è solo uno scrittore del disagio, ma della resistenza, di quella resistenza che nasce quando, anche nel buio, una mano continua a bussare. Non per aprire una porta, forse, ma per dire che siamo vivi.


L’articolo è stato pubblicato su Comune.info il 17 ottobre 2025

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Raccontare un femminicidio senza uccidere due volte


di  Benedetta La Penna

I femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche

Ho scelto di non scrivere subito del femminicidio di Lettomanoppello, accaduto il 9 ottobre. Non per distacco, ma per rispetto. Perché troppe volte, dopo un femminicidio, assistiamo a una corsa a occupare lo spazio del dolore — politici in cerca di consenso, media affamati di titoli, commentatori pronti a riempire il silenzio con parole vuote. Io credo che prima di parlare, serva ascoltare. Perché le parole contano, e quando sono sbagliate, possono ferire una seconda volta.
E in effetti, ancora una volta, le parole sono state sbagliate.
Nei giorni successivi al FEMMINICIDIO di Cleria Mancini, uccisa dall’ex marito Antonio Mancini, il racconto mediatico si è subito piegato verso la giustificazione, verso la spettacolarizzazione. I titoli dei giornali hanno parlato di “raptus”, di “tragedia familiare”, di un uomo “fuori di sé”, “pazzo”, “accecato dalla gelosia”.

Ecco cos’è la narrazione tossica.
È quella che, invece di nominare la violenza per ciò che è — un atto di potere — la svuota di significato politico. È quella che sposta il focus dall’assassinio di una donna alla disperazione dell’uomo che l’ha uccisa. È quella che descrive il carnefice come una vittima delle proprie emozioni, riducendo la violenza patriarcale a un gesto di follia individuale.

Chiamare un femminicida “pazzo” non è solo un errore lessicale. È un modo per deresponsabilizzare — lui, e con lui la società intera. Se era “pazzo”, allora non poteva controllarsi. Se era “fuori di sé”, allora non c’era premeditazione. Se è “un raptus”, allora nessuno poteva evitarlo.
Così, in un colpo solo, si cancella l’origine sistemica della violenza maschile e si solleva la collettività dal dovere di interrogarsi su cosa l’abbia resa possibile.

Ma la verità è che non c’è nessun raptus.
Ci sono dinamiche di controllo, di possesso, di dominio. C’è un uomo che non accetta la libertà della donna accanto a sé, e una cultura che, in mille modi sottili, lo autorizza a pensare che quella libertà gli appartenga.
Emanuela voleva vivere la sua vita, e per questo è stata uccisa. È questo che bisogna dire. Tutto il resto — “il gesto di follia”, “il momento di buio”, “la mente malata” — sono tentativi di spostare lo sguardo, di allontanare la violenza da noi, di ridurla a un fatto privato.

Invece no: i femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche.
Accadono perché esiste un sistema che educa alla sopraffazione, che assegna agli uomini il potere e alle donne la colpa. Accadono perché lo Stato continua a tagliare risorse ai centri antiviolenza, perché la stampa continua a raccontare la violenza come un’anomalia, e non come un sintomo di un ordine sociale malato.

La narrazione tossica non è solo una cattiva abitudine giornalistica. È un dispositivo culturale di difesa. Serve a mantenere l’illusione che la violenza sia eccezionale, imprevedibile, non nostra.
Ma ogni volta che leggiamo “una donna è stata trovata morta” invece di “un uomo l’ha uccisa”, cancelliamo il soggetto. Ogni volta che scriviamo “lui l’amava troppo”, legittimiamo l’idea che l’amore possa essere una scusa per la violenza. Ogni volta che un giornale titola “tragedia della gelosia”, stiamo dicendo alle prossime Emanuele che la loro libertà è pericolosa.

Per questo oggi non scrivo per commentare, ma per denunciare.
Per dire che il modo in cui raccontiamo i femminicidi è parte del problema. Che il giornalismo, se non cambia sguardo, diventa complice.
Fare cultura femminista significa questo: smontare le parole che proteggono il potere, nominare la violenza per quello che è, ridare voce e dignità alle donne che non possono più parlare.

Cleria Mancini non è morta per un raptus. È stata uccisa da un uomo e da una cultura che gli ha permesso di credere che il suo corpo e la sua vita gli appartenessero.
Raccontarlo senza ipocrisie è il primo passo per impedire che accada ancora.
Le parole non bastano, ma sono l’inizio di ogni cambiamento.
E allora che questo cambiamento cominci da noi — da chi scrive, da chi legge, da chi ascolta, da chi insegna.
Perché ogni volta che scegliamo di raccontare la verità, togliamo ossigeno alla cultura della violenza e restituiamo giustizia a chi non può più difendersi.


L’articolo è stato pubblicato su pressenza il 15 ottobre 2025

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Marcia per la Pace Perugia Assisi 2025


di Arianna Ballotta

La marcia è partita domenica mattina alle 9. In testa al corteo è stato posizionato lo striscione “Fraternità”.
Un popolo in cammino ha percorso i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi per la storica Marcia per la Pace e la Fraternità, nata nel 1961 per volontà del “Ghandi italiano”, il filosofo Aldo Capitini.

Una marcia mai così partecipata, stupenda, una marea umana composta di fratelli e sorelle dai 0 ai 100 anni, a piedi, in bicicletta, in carrozzina, col triciclo … bandiere colorate, musica, canti, fratellanza.
Una gioia esserci!
Un forte gesto di resistenza alla cultura della guerra e un appello alla costruzione di pace.

Secondo la Protezione Civile hanno marciato circa 70mila persone arrivate da ogni angolo d’Italia e dall’estero: studenti e insegnanti, amministratori locali, parlamentari, religiosi, attivisti, sindaci con la fascia tricolore, intere famiglie, semplici cittadini e i rappresentanti di oltre 500 associazioni.
Una partecipazione davvero straordinaria, che in un altro anno dominato da guerre e conflitti, prende un significato ancora più radicale: l’Italia è un Paese che ripudia la guerra, come scritto nella nostra Costituzione, e la società civile chiede con forza e determinazione la fine di tutte le guerre.

«Questa è una marcia per la giustizia», ha detto Flavio Lotti, coordinatore della Tavola per la Pace. «Qualcuno ha tentato di boicottarla – ha sottolineato – ma la pace non si boicotta. La si costruisce, passo dopo passo».

COALIT era presente per ribadire ciò in cui crede da sempre: il rispetto dei diritti umani di ogni individuo.
Ed esserci è stato un onore.


L’aricolo è pubblicato sul sito della COALIT

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Una pace senza libertà: il linguaggio coloniale del piano Trump

Emily Jacir, Memoriale dedicato ai 418 villaggi palestinesi distrutti, spopolati e occupati da  Israele nel 1948, 2001

di Mariella Pasinati


L’annuncio della prima fase dell’accordo sul piano di pace proposto da Trump ha acceso la speranza che la stretta mortale sulla popolazione palestinese possa finalmente avvicinarsi alla conclusione. E certamente bisogna cogliere ogni opportunità, salutare con sollievo ogni spiraglio che possa porre fine al genocidio.
Ma una pace duratura non dovrebbe e non può essere costruita sull’abbandono dei diritti fondamentali del popolo palestinese.
Il piano infatti si limita a dichiarare che l’autodeterminazione e la sua sovranità finale saranno una mera “aspirazione”, attraverso un percorso che non potrebbe essere più vago, condizionato o incerto. Ogni volta che il potere parla di pace, dovremmo fermarci a chiedere: pace per chi, e a quale prezzo? Il Piano di pace Trump 2025 promette “ricostruzione” e “stabilità”, ma il suo linguaggio tradisce un intento opposto: non è la pace dell’ascolto, ma la pace dell’ordine imposto.

Nel documento compaiono parole come deradicalizzazione, prosperità economica, sicurezza, nuova leadership civile, Board of Peace. Ognuna di queste espressioni — apparentemente neutra — disegna un mondo dove la pace è amministrata dall’alto, da chi detiene già il potere, e dove ai palestinesi spetta solo la parte del soggetto da “rieducare”.
Dietro la parola deradicalizzazione si nasconde la retorica coloniale di sempre: trasformare la resistenza in malattia, la ribellione in deviazione da correggere. È la stessa logica con cui, nei secoli, il patriarcato ha preteso di “normalizzare” le donne, definendo follia ciò che in realtà era ricerca di libertà.
La promessa di prosperità è un’altra forma di dominio. Il piano parla di investimenti e infrastrutture, ma non restituisce sovranità. Sostituisce la libertà con la crescita, la dignità con la gestione economica. È la pace dell’“aiuto” che compra la resa, della ricostruzione che non passa mai per la restituzione del potere di decidere. Una pace paternalista, che offre risorse in cambio di obbedienza.

Nel linguaggio della sicurezza si rivela poi la radice patriarcale del piano: la sicurezza non è pensata per la popolazione civile palestinese, ma per Israele e per gli interessi occidentali. È la sicurezza di chi controlla, non di chi vive. Si disarma chi è già disarmato, si sorveglia chi è già sotto assedio. È una logica maschile e militarizzata, che confonde protezione con controllo e trasforma la paura in strumento politico. La pace, invece, non nasce dalla paura dell’altro, ma dal riconoscimento reciproco della vulnerabilità.
Il Board of Peace, organismo internazionale chiamato a “guidare” la ricostruzione, incarna perfettamente la struttura patriarcale del potere: pochi decisori esterni che amministrano la vita di chi ha già subito la distruzione. È la stessa scena che si ripete da secoli: la pace decisa da chi non ha sofferto la guerra.

Bisogna pensare un’altra grammatica della pace. Non ricostruzione, ma riconoscimento. Non normalizzazione, ma relazione. Non governance, ma autodeterminazione.
Invece di parlare di deradicalizzazione, occorrerebbe parlare di decolonizzazione: restituire al popolo palestinese la parola, la capacità di immaginare e ricreare la propria vita.

Non è quindi il momento di distogliere lo sguardo, ma occorre continuare quel movimento globale contro la guerra e la distruzione di Gaza che in queste settimane ha saputo nominare l’orrore e rispondere con la forza di chi si oppone senza cedere alla violenza, come ha dimostrato l’esperienza della Flottilla, un esempio di come sia possibile agire politicamente senza riprodurre la logica bellica.
La pace, per chi la pensa da una prospettiva femminista, non è un accordo ma un processo vivente: nasce dal basso, dal lavoro lento delle comunità, dal gesto quotidiano di chi continua a creare vita anche tra le rovine. È quella pace che non si concede, ma si costruisce insieme; che non silenzia, ma ascolta. Quella pace che — come ricorda Leymah Gbowee — non significa assenza di conflitto, ma presenza di voce.
Oggi quella voce attraversa il mondo, nei presìdi, nelle piazze, nelle università, nelle strade. È una voce che dice basta alla guerra e al colonialismo e che chiede una pace giusta, non l’ordine dei forti.


l’articolo è stato pubblicato su Pressenza il 10-10-2025

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