recensioni

Si può ancora pensare dopo Gaza? Bifo e la fine dell’umano


di coltrane59

Si può davvero ancora pensare dopo Gaza?
Pensare dopo Gaza è un saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, come indicato  nel sottotitolo del libro di Bifo uscito nel febbraio 2025 per la casa editrice indipendente Timeo.
Ultimamente recensire i libri di Bifo è veramente difficile ma proveremo a definire delle linee di lettura e di pensiero che si sforzano di capire, aprire varchi, indicare cosa vuol dire pensare oggi, dopo Gaza e dopo quel 1900 che sembrava, dopo Auschwitz e Hiroshima, dirci “mai più”…

La ferocia

Proprio dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, dopo i continui avvertimenti sui rischi di guerre, povertà, miserie culturali e falsi miti, dittature e tecnologie usate per uccidere, siamo di fronte, in quel cimitero spettrale a cielo aperto che è Gaza, al “ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna il processo di estinzione della cosiddetta civiltà”, dove ogni forma di linguaggio e di spettacolo di tv, media, social diventa uno strumento di sterminio. La politica e la società diventano i grandi assenti di questa crisi epocale dove la stessa cultura ebraica tradisce se stessa e l’universalità della ragione umana e della democrazia falliscono qualsiasi tentativo di mediazione e di risoluzione del conflitto, o meglio del genocidio in corso. Perché in quelle bombe ci siamo anche noi, inermi e responsabili, occidentali, stati, istituzioni, colonialismo interminabile, Orientalismo pervasivo, tecno-capitalismo e neoliberismo sfrenato. Se tutto poi viene mediato dalla ferocia vuol dire che gli spazi della politica sono ormai vuoti gusci fini a se stessi.
Cosa fare di fronte a questa ferocia pervasiva? Disertare forse, cercare una pace senza condizioni, la rinuncia a vincere, l’alleanza tra le vittime…Ma in realtà siamo solo parte inerme e privilegiata di un Occidente che si sta sgretolando in maniera irreversibile: no, non abbiamo la forza di fermare questo genocidio inarrestabile.

Gaza è Auschwitz con le telecamere

Bifo è sicuro: “la differenza tra Auschwitz e Gaza sta nel carattere pubblico, orgogliosamente ostentato dell’Olocausto inflitto ai palestinesi” dove  l’orgia degli orrori su tv, computer e telefonini produce “una sorta di nichilismo visuale” che porta a una pericolosa assuefazione estetica dell’orrore.
Ricordando il libro Mille piani di Deleuze e Guattari, l’autore definisce il fascismo come una situazione in cui la guerra è dappertutto, in ogni nicchia e in ogni luogo: siamo nelle tenebre davvero: “un tecno fascismo che si manifesta biopoliticamente come sterminio illimitato”.

Basta con la memoria

La memoria non esiste più e non crea più resistenza, conoscenza, storia, intensità. Inoltre si tratta di una memoria bianca, occidentale, patriarcale che non ricorda le varie stragi del colonialismo e dell’imperialismo: per esempio la popolazione della più grande democrazia al mondo, che deve diventare di nuovo grande, ha nella sua pelle lo sterminio delle popolazioni indigene del Nord America. Inoltre non ci ricordiamo mai che non sono gli ebrei che hanno voluto tornare in Palestina ma “sono i nazisti europei che li hanno spinti ad andarsene, sono i sionisti che insieme agli inglesi hanno preparato la trappola in cui gli ebrei sono caduti: quella trappola si chiama Israele”. Allora per Bifo la vera lotta per allontanarsi dal potere è “liberazione dalla memoria, da tutte le memorie”.
L’odio, le barbarie, il nazionalismo, il fascismo, il sovranismo, le guerre in corso hanno la loro memoria e ne traggono linfa vitale ma la memoria è ingannevole e si può trasformare in rancore: “perciò la memoria può essere nemica dell’amicizia”.

Disintegrazione

Non esiste nessuna democrazia liberale e il potere dei vari Putin, Trump, Milei, intesi come tiranni, sono soltanto “la manifestazione politica (cioè spettacolare) del potere sempre più ineludibile del sistema finanziario e del sistema tecno militare”. Ma Bifo ci ricorda continuamente che se la differenza tra democrazia liberale e sovranismo è ormai vuota invece la disintegrazione è reale. E comunque le bande di mafiosi attuali che governano Israele e Usa non faranno altro che accelerare questa disintegrazione di ogni valore sociale, culturale, politico ed esistenziale della nostra civiltà.

Una nazione bagnata di sangue

Bifo ci ricorda anche che Paul Auster, prima di morire, scrive un libro fondamentale (Una nazione bagnata di sangue) per i suoi Stati Uniti: “Questo è un paese nato nella violenza, con 180 anni di preistoria vissuti in continuo stato di guerra con gli abitanti delle terre di cui ci siamo impossessati e continui atti di oppressione contro la nostra minoranza schiavizzata”.
Adesso, e non solo negli USA, ci sono guerre, gang, armi, sparatorie, psicosi di massa, complottismo, suicidi, depressioni, sonno dimenticato, gaming permanente, crescente antinatalismo, schiavismo digitale e molto altro ancora.
Bifo rincara la dose: “lo schiavismo fa parte del bagaglio psichico della nazione americana… come può questa nazione pretendere di essere considerata come un esempio per qualcun altro? E forse gli americani votano Trump proprio perché è uno stupratore e un bugiardo nella stessa misura gli Israeliani votano Netanyahu proprio perché pratica il genocidio…
Nel suo libro Franco Berardi analizza anche concetti come l’ipercolonialismo, inteso come estrattivismo delle risorse mentali attraverso l’unione micidiale del capitalismo finanziario con il capitalismo delle piattaforme digitali e come il darwinismo sociale, inteso come esaltazione del mercato e della competitività, cioè della capacità di adattarsi e di rispondere alle esigenze sociali.
Le pagine finali del testo rappresentano, quasi come un piccolo Urlo di Munch, un grido doloroso e un appello alla cultura, alla poesia, a ogni forma di movimenti e solidarietà possibili, a una sorta di diserzione permanente verso le forme e i caratteri brutali e feroci di questa società per cercare di evitare la terminazione della civiltà umana.
Sabato 12 aprile 2025, in una libreria di Castelnuovo Berardenga, la “Libreria del Mondo Offeso”, Bifo ha raccontato che, presentando il suo libro in varie parti d’Italia, esponendo le sue idee e le sue linee di pensiero, si è trovato di fronte a due tipi di reazioni: i suoi amici di un tempo, i vecchi compagni del 68 e del 77, i marxisti più o meno ortodossi si sono meravigliati del nichilismo di fondo e dell’appello a disertare di fronte a queste barbarie che ci avvolgono; ma le nuove generazioni invece non si sono stupiti di questo mondo feroce e barbarico, di questa crisi nella crisi, di queste depressioni e psicosi pervasive, di questo paesaggio disincantato privo di ideali politici e di sogni collettivi. Non vorrei aggiungere altro, ma bisogna sforzarsi di ripensare profondamente le possibilità a venire delle nostre vite per non poter più affermare che “la sospensione della procreazione è la sola speranza per evitare un futuro di tormento e di orrore”.

Per Gaza, oltre Gaza.


L’articolo è stato pubblicato su Codice Rosso il 26 Aprile 2025


Franco Beradi Bifo – Si può ancora pensare dopo Gaza? Bifo e la fine dell’umano. https://timeo.store/ 2025

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I TRENI DELLA VITA

Recensione del libro “LE CAREZZE DEI LAMPI” di Fabio Mongardi

di Sergio Tardetti

Ammetto sinceramente – e confesso – che l’ultimo romanzo di Fabio Mongardi, “Le carezze dei lampi”, mi ha dato molto da riflettere, a cominciare dal titolo. Per l’intero volume ho rincorso l’indizio/ chiave di lettura celato in quel titolo, sperando in una sua incarnazione in una scena, in un avvenimento, in un dialogo, in un personaggio che ne rivelasse l’essenza reale. L’ho rincorso avendo trascurato, per mia distrazione, il fatto che l’enigma si era praticamente chiarito da sé fin dalle prime pagine, con quel riferimento in esergo ai versi di Isacco Turina, la cui citazione, nelle intenzioni dell’autore, voleva essere un suggerimento che indirizzasse verso la comprensione del titolo, e che, di fatto, ha acceso una luce soltanto a lettura avanzata. Dimostrazione questa che, ancora una volta, il lettore va in cerca di qualcosa che si nasconde proprio davanti ai suoi occhi.
Parole del titolo che poi rinviano ad un avvenimento non secondario, che coinvolge due dei protagonisti del romanzo. E qui mi fermerei, per evitare di rivelare eccessivi dettagli della trama e dei personaggi, ma proseguirei piuttosto con considerazioni che sono emerse nel corso della lettura. Una lettura – posso affermarlo senza tema di smentita – che scorre via continua e fluida, non senza lasciare profonde tracce di sé sotto forma di sensazioni e di impressioni, che risultano così note (vorrei dire comuni) a quanti, come me, sono cresciuti e continuano a vivere in un contesto di provincia. L’immagine che mi ha accompagnato per tutto il corso della lettura è stata quella del treno che apre la storia e che poi ne determina lo sviluppo. Da lì a trasformare quell’immagine in metafora dell’esistenza il passo è stato breve, complice un’espressione francese, train de vie, “stile di vita”, che mi è tornata in mente seguendo qualche percorso contorto e accidentato della memoria. Da qui a ricondurla agli accadimenti di una comune esistenza il passo è stato breve.
Così sono le vite di provincia, inquiete nel profondo e fintamente serene di fuori, quella provincia avvertita a volte come ambiente del quale si è prigionieri, ridotti in catene dalle convenzioni di rapporti instaurati nel corso di intere esistenze. Una provincia apparentemente perdente nel confronto con la megalopoli, luogo di sfrenate libertà, dove nessuno ti giudica per quello che sei né per quello che fai, ma in cui ciascuno si tiene a distanza dalle vite di chi l’abita, senza nemmeno tentare di avvertirne lo scorrere sulla pelle. La megalopoli spesso dura e ostile, corazzata contro ogni vizio ma anche contro ogni virtù, indifferente al bene così come al male. Si pensa, invece, alla provincia come a una miriade di piccoli e piccolissimi borghi, dove tutti si conoscono e ognuno sa tutto – o almeno immagina di sapere tutto – di tutti gli altri, dove l’osservanza della regola è elogiata e l’eccezione è considerata devianza dagli schemi sociali imposti da secolari tradizioni e comportamenti. Ed è così che viene chiesto, spesso anche preteso, dalle vite di provincia il rispetto di questi vincoli, dai quali non consentito deviare se non “deragliando”, uscendo cioè dai binari della norma. Tenendo costantemente presente che ci sono sempre, comunque e ovunque, prezzi da pagare per il proprio “train de vie”.
I treni della vita sono quelli che, a volte, decidiamo di prendere, altre volte, invece, di perdere, per libera scelta, per distrazione o perché semplicemente li ignoriamo. Sono treni che, una volta presi, portano un po’ ovunque, a volte ci travolgono, più spesso ci limitiamo a guardarli passare, mentre altri personaggi ne scendono e salgono di continuo. Accade ad ogni esistenza, in ogni luogo. L’incidente rimane in ogni caso l’evento traumatico che cambia vite e destini, quello che fa deragliare il treno, lo fa uscire dai binari della quotidianità e delle abitudini. Le vite subiscono in questo modo uno scossone violento, alcune diventano incontrollabili e irrecuperabili, perché ognuno è legato a tutti gli altri, che lo desideri o no. Complice del “deragliamento” diventa anche la distrazione di chi “guida” questo treno, ma che poi, alla fine, può fare ben poco per evitare l’evento traumatico che costringe a ripensare le vite di molti e a modificarne il percorso attuando nuove scelte e nuove decisioni. “Le carezze dei lampi” è un romanzo “corale”, in cui ogni personaggio è, in qualche modo, oltre che protagonista della propria vicenda personale, anche di quella collettiva, passeggero volontario o involontario, consapevole o meno, di quel treno che sconvolge il piccolo mondo in cui si sviluppa la storia.
Chiudo con un’ultima annotazione, della quale mi corre l’obbligo di non tacere. È interessante sottolineare come il paesaggio, così come minuziosamente descritto, diventa non solo spettatore e fondale animato – nel senso di “dotato di anima” -della vicenda, ma anche esso stesso personaggio, insinuandosi in molte pagine, per attribuire alla narrazione una precisa collocazione spaziale e temporale; un “personaggio” che fa da collante allo sviluppo della trama, rappresentato attraverso descrizioni di tale intensità e realismo che non può essere ignorato né dimenticato, anche molto tempo dopo il termine della lettura.

Fabio Mongardi – Le carezze dei Lampi. Morellini Editore, 2023.

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DI VENTO E DI GINESTRA (Recensione)

di Sergio Tardetti
Cosa va cercando il lettore in un libro di poesia? Un elemento di contatto con l’autore, un filo diretto con l’anima di chi scrive, mediato dalle suggestioni scaturite dal titolo in copertina, consapevole fin dall’inizio che riuscirà a trovare soltanto quello che va cercando. L’autore, d’altro canto, deve far fronte a centinaia di interrogativi, moltiplicati per quanti sono i lettori, consapevole delle difficoltà del suo compito, certo che non potrà mai fornire una risposta esaustiva a tutti gli interrogativi. Intanto, il lettore, procede a sfogliare le pagine, compulsandole con un’idea ben precisa in mente, che troverà o meno conferma nel corso della lettura. Quasi sempre si giunge a un apparente punto di incontro, finendo per trovare risposta a qualcuna delle tante domande, anche se il prezzo da pagare è rappresentato spesso dal fraintendimento delle intenzioni di chi scrive. Del resto, il fraintendimento è lo strumento moltiplicatore dei significati di un testo, il necessario rischio che un autore sa di correre nel momento in cui inizia a mettere i suoi pensieri nero su bianco. In questo caso, l’autrice Elisa Piana opera un tentativo di esplicitare il senso del titolo nella breve prefazione, lasciando tuttavia al lettore la libertà e il margine sufficienti per individuare tra le pagine un senso più proprio e personale, anche distante da quello che chi scrive si era proposto. In apertura, i versi di Giovanni Ciao, prezioso ed elegante omaggio alla raccolta poetica di Elisa, vanno a costituire la più delicata delle prefazioni e suggeriscono una ulteriore possibile chiave di lettura.
Eccoli, dunque, gli elementi costitutivi delle poesie che arricchiscono il testo: il vento e la ginestra. Il vento che trascorre tra le pagine della memoria, rapido e fuggitivo, muovendosi irrequieto in ogni direzione; la ginestra che rimane ben salda, aggrappata al terreno con le sue radici solide piantate ovunque possa germogliare e crescere. Ecco due nature così dissimili che, mescolandosi, hanno la capacità di produrre un’anima che, al tempo stesso, vorrebbe essere ovunque e cercare la sicurezza in un luogo nel quale potersi riconoscere e identificare. Entrando nelle pagine del volume e percorrendone i testi, si coglie fin dal principio la notevole capacità di Elisa di scegliere le parole più appropriate per comunicare con chi legge, rendendolo partecipe delle proprie emozioni e delle proprie esperienze di vita. Elisa Piana è poetessa convincente e “solida”, aggettivi forse inusuali per riferirsi a chi scrive poesie, ma che intendono denotare la capacità di scegliere modalità espressive in grado di trasmettere suggestioni e musicalità e realizzare componimenti dal contenuto complesso e concreto e al tempo stesso intellegibile e accessibile. L’autrice ha la particolare e non comune capacità di avvicinare alla poesia anche chi non la frequenta abitualmente, senza indulgere tuttavia in concessioni al lettore che rischierebbero di banalizzare i testi. Essere leggibili e accessibili da parte di certi autori è considerato un limite, perfino un difetto, tanto che si impegnano con tutte le loro forze a rendersi, per quanto più possibile, oscuri e incomprensibili. Tra i componimenti mi piace citare, perché particolarmente degna di nota, la poesia dedicata ad Alda Merini, nella quale Elisa delinea un ritratto intenso con pochi accenni non banali alla vita dell’autrice, senza mai scivolare nel luogo comune.
Riesce a emergere dalla lettura il ritratto di Elisa? Non il ritratto, ma un ritratto, uno dei tanti possibili, quello percepito attraverso la sensibilità del lettore, guidata e condizionata dalle personali esperienze di vita. Quanto a me, colgo nei versi il ritratto di un’autrice che sembra avere acquisito ulteriore sicurezza e maturità nello scrivere e che merita sicuramente un pubblico attento e partecipe. A tratti, nel corso della lettura, compare e si fa più pronunciata una nota di durezza; le parole non scorrono fluide, ma sembrano come impigliarsi in qualche asperità, quasi a voler indicare che la superficie della vita non è mai del tutto liscia. Il segno che le esperienze della vita lasciano un po’ a tutti sull’anima, si fa più marcato, ma viene subito stemperato da una parola o una frase delicata, come a voler dire che, in fondo, non importa se la vita è così, la si accetta come viene, non supinamente ma cercando di comprenderla e farne una propria costruzione. Tra i tanti pregi, si sottolinea la presenza di due elementi che, a mio parere, determinano la qualità poetica di un testo. Il primo è l’utilizzo del meccanismo dell’ellissi, quello che serve a costruire il massimo coinvolgimento del lettore, nella consapevolezza che il non detto aiuti chi legge a riflettere e ad immedesimarsi nei pensieri di chi scrive. Il secondo, aspetto non secondario, è rappresentato dalla qualità della scrittura usata nei versi, che risultano curati, veri, torniti, musicali e ritmici, capaci di avvolgere il lettore in un abbraccio che lo rende compiutamente partecipe dell’atmosfera creata di volta in volta dalla poesia. Leggere questo libro significa immergersi per tutto il tempo nella vera e lucida poesia. Consigliato a chi ha fatto della poesia una sua condizione di vita.
© Sergio Tardetti 2022
Elisa Piana – DI VENTO E DI GINESTRA.  Bertoni Editore, 2022

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Gravità (recensione)

di Sergio Tardetti

Quanto conta il titolo di un libro nella decisione di acquistarlo? E in quella di leggerlo? Perché, è inutile, si acquistano molti più libri di quanti se ne possano leggere, magari incuriositi proprio dal titolo, con l’intenzione di prenderli in mano, un giorno o l’altro, e quanto meno di assaggiarli, se non proprio di divorarli fino in fondo. Leggi “Gravità” in copertina ed è subito un richiamo immediato a quella forza che ci consente di stare con i piedi per terra, ma che, per poeti e narratori che amano circondarsi di poesia, è l’ostacolo che impedisce di volare, di librarsi in aria con disinvolta leggerezza. E già fin da questo punto si accendono in testa mille domande: si può essere “gravi” e al tempo stesso leggeri? Si può stare con i piedi per terra e insieme sollevarsi in volo? Si può essere duri e delicati al tempo stesso? Domande necessarie, preparatorie in qualche modo alla lettura di quello che troveremo all’interno, al netto delle conferme e delle smentite.
Ma è “Gravità” anche prendere le cose sul serio, dire pane al pane e vino al vino, senza finzioni né edulcorazioni, perché così è la vita, e il non detto, o anche il semplicemente sottaciuto, spesso può causare più danni di ciò che viene detto a cuore aperto. Ed ecco, fin dalla prima pagina, fin dalle prime parole, la vita presentarsi come uno strenuo e incessante combattimento tra chi va perennemente alla ricerca della verità e chi invece, per convenienza, connivenza o quieto vivere, preferisce evitarla. Guendalina Pace vuole, fin dall’inizio, porre con insistenza la realtà sotto gli occhi del lettore, senza ipocrite finzioni né mistificazioni, perché così è la vita, ed è con la gravità, in ogni senso, che dobbiamo fare continuamente i conti. Il procedere in direzione temporale inversa, rispetto allo scorrere di una esistenza è già di per sé una scelta programmatica, quasi un voler ricordare che il senso della vita lo si comprende solo alla fine e che, se fosse possibile, sarebbe meglio conoscerlo da subito. Riprendendo la metafora della vita come viaggio, anche qui si insiste sul fatto che ciò che conta del viaggio è il viaggiare e della vita è il vivere.
Man mano che si avanza nella lettura, si avverte in ogni capitolo, pur nella crudezza della verità, una sensazione di piena e completa adesione al testo che si va leggendo, un invito a una riflessione ed a un ripensamento della propria esistenza. Colpisce particolarmente una considerazione che emerge a un tratto dalle pagine, un punto di vista che non si può non condividere, quello di non prendersi mai troppo sul serio, perché è proprio credersi superiori agli altri l’origine di tutti i malanimi e i dissapori, qualcosa capace di causare nel corso della vita danni irreparabili, fino al punto di odiare tutto e tutti e farsi odiare da tutti.
Della scrittura di Guendalina Pace mi piace sottolineare soprattutto l’esattezza nell’uso delle parole e la leggerezza dello stile; la “lezione americana” di Italo Calvino è qui compresa e applicata magnificamente. L’esattezza è una virtù misconosciuta che si apprezza particolarmente in un’epoca di sciatteria grammaticale e sintattica; quanto alla leggerezza, non è certo da correlare all’idea di superficialità ma alla capacità di rendere piacevole e scorrevole anche la lettura di pagine di elevata intensità e densità di significati. Una scrittura, insomma, elegante e raffinata che si fa apprezzare soprattutto in certi passaggi che richiedono l’attenzione del lettore, quasi un implicito invito a inoltrarsi nella lettura della pagina, gustando il piacere di ogni singola parola. Per come è concepito e organizzato, il libro di Guendalina può anche considerarsi una specie di eserciziario di stile, mediante il quale l’autrice affronta e propone diverse modalità di scrittura, dalla narrativa alla prosa poetica alla poesia tout court, un romanzo senza protagonisti né antagonisti, tranne lo scrittore e il lettore al quale l’autrice si rivolge. Ne risultano una prosa rivestita dei toni morbidi della poesia e una poesia che ha la durezza e la ruvidezza della prosa. Particolarmente avvincente il capitolo scritto senza punteggiatura, un vero flusso di coscienza emozionante e coinvolgente, nel quale, nonostante l’assenza di segni di interpunzione, si riesce facilmente a individuare e seguire il filo della narrazione.
A un certo punto, da lettore curioso quale ammetto di essere, non ho resistito alla tentazione di accantonare la lettura sequenziale e correre direttamente alle pagine finali. Ed è stato proprio qui che ho trovato la vera sorpresa! È stato come se il realismo pessimistico delle pagine precedenti si fosse stemperato – non dico dissolto, perché continuava ancora ad aleggiare fra le righe. L’incoraggiamento che i due immaginari personaggi di un piacevole duetto – un medico e un’ostetrica – rivolgono al neonato che hanno appena aiutato a venire al mondo è decisamente commovente, soprattutto perché viene rivolto da adulti che hanno conosciuto e sperimentato tutte le durezze della vita, continuando tuttavia a trovarla ancora bella. È soprattutto l’invito ad essere un uomo in armonia con se stesso e con il mondo quello che si apprezza e si percepisce in quelle pagine e tra quelle righe, l’invito che quotidianamente, come un mantra o come una preghiera, mi sento anch’io di rivolgere a me stesso, in primo luogo, e poi anche agli altri. Un libro “differente”, che emerge in un panorama piuttosto povero di tentativi di innovazione, un libro che invito a leggere per apprezzare a pieno un’autrice che mi ha sinceramente stupito e coinvolto.
 
Guendalina Pace – GRAVITA’. Bertoni Editore, 2021

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Il quinto quarto

Lo Spirito e altri briganti di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli (Mondolibri)

Quando ero poco più che un bambino, mi presero a lavorare presso una macelleria a pochi passi da casa. Era l’estate al termine delle scuole elementari, ad ottobre avrei iniziato le medie e così, un po’ per necessità, un po’ per passare il tempo, avevo cominciato la mia modesta carriera di garzone di bottega. Fu in quell’occasione che conobbi Memmo, antico e nobile membro della confraternita dei norcini, forte come un toro, capace di mettersi in spalla mezzo bue e trasportarlo dal camion del mattatoio, parcheggiato nel cortile antistante il negozio, alla cella frigorifera della macelleria. Fu sempre in quell’occasione che sentii parlare di quarti di bue, due anteriori e due posteriori, com’era naturale che fossero.
Ma fu la scoperta dell’esistenza del quinto quarto a sconvolgere le conoscenze elementari di aritmetica che possedevo e riuscivo già a padroneggiare adeguatamente . Inutile cercare di capire il concetto, l’esistenza del fantomatico quinto quarto era categoricamente esclusa dal mio pur ristretto universo matematico. Per quanto continuassi a rifletterci, qualsiasi oggetto diviso in quattro, ad esempio la classica torta, che tanto piaceva alla maestra, produceva quattro quarti, era ovvio, logico, anzi, matematico. Da dove prendeva origine questo quinto quarto? Mi ci volle un po’ di tempo per capire che con questo termine venivano indicate le frattaglie, la testa, le zampe, la coda e  tutto quello che, pur facendo parte dell’animale, non era incluso negli altri quattro quarti. Il quinto quarto era la fortuna del macellaio, il suo guadagno vivo, quello su cui poter contare per soddisfare i clienti meno facoltosi e al tempo stesso incrementare con poca fatica i propri incassi.
Tutta questa storia mi è tornata in mente quando ho terminato di leggere il libro che Guccini e Macchiavelli hanno, per così dire, confezionato, ad uso e consumo di quanti avevano avuto modo, a suo tempo,  di gustare le saporite e robuste storie narrate nella trilogia che vede come protagonista il maresciallo Santovito e come sfondo l’Appennino tosco-emiliano e i piccoli borghi che lo popolano. E, difatti, come per segnalare e sottolineare una continuità con le storie precedenti, gli autori ricorrono all’espediente narrativo di far precedere ogni capitolo da una specie di monologo del maresciallo, che funge da raccordo tra le storie e da introduzione a ciascuna di esse. Senza questo espediente, ogni storia sarebbe un racconto a sé stante, al quale mancherebbe quel valore aggiunto costituito proprio dalla presenza in funzione di testimonial del maresciallo stesso, presenza essenziale per trainare un libro altrimenti destinato a passare nel dimenticatoio.
Uno degli aspetti del libro, quello che sorprende piacevolmente, mentre si legge, è la sensazione di “leggerezza” della scrittura, dimostrazione tangibile del fatto che i due autori si sono divertiti molto a mettere insieme i fili di una narrazione capace di dare vita a storie così gradevoli da leggere. Immagino conversazioni notturne accanto ad un camino acceso, col fiasco del vino a portata di mano e le castagne che arrostiscono sul fuoco, i ciocchi della legna che scoppiettano e le parole di Guccini, alle quali fanno eco quelle di Macchiavelli, che rimbalzano sui muri e sul soffitto di un’antica cucina, annerita dal fumo.
Si ritrova in ogni pagina, praticamente intatta, la stessa atmosfera che si respira nella trilogia del maresciallo, una serie di abiti – mi si conceda la metafora – confezionati con stoffe di ottima qualità, anche se di colori e tessuti diversi. La leggera nota stonata del libro è invece dovuta alla sensazione che, pur mantenendo l’ottima fattura dei precedenti, l’ultimo nato sia stato confezionato con ritagli di stoffe rimasti inutilizzati nella bottega della premiata sartoria Guccini – Macchiavelli.
Dare del “quinto quarto” ad un’opera, per quanto minore, dei due bravi scrittori potrà sembrare forse riduttivo, se non addirittura irriverente, si tratta pur sempre di storie di un certo pregio. Per chi ha potuto apprezzare a fondo i libri che vedono protagonista il maresciallo Santovito, però, è esattamente questa l’impressione che si avverte. Le pagine che scorrono sotto gli occhi del lettore trasmettono la sensazione di essere poco più che frattaglie, rimasugli di brani espunti dai libri precedenti e confluiti in questo, forse perché  si era venuta avvertendo la necessità di proporre ai lettori anche le parti meno “nobili” delle storie già narrate. Questo, naturalmente, a pensare bene, nella più favorevole delle ipotesi. Volendo, però, pensare male e, di conseguenza, fare peccato, si potrebbe intravedere in questo libro una banalissima e scontata operazione commerciale, a rimorchio del successo della trilogia di Santovito.
In conclusione, non so decidere se condannare o assolvere i due autori, per aver tentato di carpire la buona fede dei loro appassionati sostenitori. Anche se la tentazione di propendere per una condanna sarebbe forte, preferisco sospendere il giudizio. A loro va, in ogni caso, l’onore delle armi, per il merito di avere assolto un non facile compito, quello di essere riusciti a divertire il lettore, Anche se ogni tanto si lasciano affascinare dalle sirene del mercato, meritano tutta la nostra considerazione, se non altro per quello che hanno saputo darci, singolarmente o in sodalizio, durante questi anni.

Il piacere di leggere, 3 settembre 2008

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