Sergio Tardetti

CATASTROFISTI E POSSIBILISTI


di Sergio Tardetti

(Un eterno confronto tra chi si lascia trascinare dagli eventi e chi invece prova a fare qualcosa per cambiarli)
Da grande sarei voluto rimanere come da ragazzo, potenzialmente aperto ad ogni possibilità. Questo era, ed è rimasto tuttora, il mio più vivo desiderio. D’altra parte, tutto incoraggiava a poter mantenere questo atteggiamento positivo e propositivo, dalle parole di elogio pronunciate in ogni occasione dagli amici per il mio modo di condurmi, alle azioni compiute per mettere in pratica quello che era stato enunciato in teoria, fino agli attestati di stima e di solidarietà provenienti da ogni parte, per tutte le volte che mi mostravo disponibile al confronto con gli altri e con il futuro. Il mio possibilismo era universalmente conclamato, accompagnato ogni volta da riconoscimenti e apprezzamenti che mi invitavano a mantenere ben salda la rotta, senza deviarne minimamente, quasi fossi considerato unastella polare per la linea di condotta degli altri. Col passare del tempo, mi rendevo conto di quanta fatica cominciasse a costarmi mantenere quella rotta, continuare a rimanere possibilista, malgrado il duro quotidiano confronto con la realtà mi spingesse verso altre direzioni. Quello che accadeva intorno a me non faceva ben sperare chepotessi rimanere ancora a lungo su quella strada, ormai solo apparentemente tracciata, ma in realtà ancora tutta da tracciare. Intanto, però, i possibilisti che mi avevano accompagnato lungo quel cammino cominciavano a diradarsi, come foglie d’autunno, incalzati e sopraffatti dal turbine della realtà.
Man mano che i giorni passavano, mi accorgevo di essere sempre più isolato, perché molti avevano ceduto e si erano ritrovati a far parte della folla dei catastrofisti. “Come va?”, chiedevo di tanto in tanto a qualcuno. “Male, male! Va tutto male!”, era l’inevitabile risposta che mi giungeva. Quando, però, si trattava di entrare nei particolari, si finiva per scoprire che, infine, così male non stava andando, intanto perché, a differenza di altri che ci avevano accompagnato per un lungo tratto, noi eravamo ancora lì a poterci lamentare e a ricordare le figure e le vicende degli assenti. “Da quando mi stancai di cercare, cominciai a trovare”, mi ripetevo mentalmente come un mantra, e dovevo in effetti riconoscere che era vero. La catastrofe, nella maggior parte dei casi, nasceva proprio dalla furia della ricerca di un qualcosa che non si riusciva a trovare, pur investendo tempo e denaro, soprattutto denaro, in quella impresa. Denaro speso in serate trascorse a stordirsi con musica e alcool, sperando di riuscire ad osservare la realtà sotto un altro nuovo aspetto, oppure in lunghi ed estenuanti viaggi, per cercare di tenersi lontano da quella realtà che continuava a provocare in ciascuno un così pesante turbamento. Ogni volta che ci si riprendeva dallo stordimento o si rimetteva piede sul suolo natio, però, ritornava quella sensazione dolorosa di scoraggiamento, che continuava a far vedere un presente sconfortante e un futuro ancora più nero.
Passati i primi dieci minuti, in cui era ancora vivo e presente il disorientamento euforico, causato dal temporaneo cambiamento di stato o di luogo, ognuno riprendeva a lamentarsi della propria vita e di quel mondo che lo circondava. L’eco di quei “Male, male, va tutto male!” tornava a risuonare nell’aria come il lamento di una generazione moribonda e ormai senza più via di scampo. Che fare, a questo punto? Continuare lungo la stessa strada, sempre più soli e sempre più stanchi? O cominciare a pensare a qualche forma di cambiamento? Le litanie e i cori dei catastrofisti giungevano alle orecchie da ogni direzione, fino al punto da contagiare gli amici più stretti e persino i familiari. Quando, però, si trattava di scendere nei dettagli, specificando cos’era che andasse “Male, male, tutto male”, nessuno riusciva ad essere particolarmente preciso. Si trattava per lo più di sensazioni, forse anche del fatto che, con l’avanzare dell’età, certamente molti compagni di strada avevano cominciato a mancare, altri iniziavano a cedere, ma per il resto non c’era poi così tanto da lamentarsi. Alla fine, ci si era soltanto uniti al coro dei più, perché il ruolo del catastrofista è meno faticoso da sostenere. Al possibilista, invece, è sempre richiesto di indicare direzioni da prendere, mete da raggiungere, sapendo già egli stesso che raggiungerle sarà possibile, ma non sempre certo. A quel punto, quando la meta agognata e profetizzata non apparirà all’orizzonte, tornerà a levarsi il coro dei catastrofisti e quel “Male, male, va tutto male!” finirà per diventare l’enorme buco nero che inghiottirà al suo interno anche l’ultimo dei possibilisti.


© Sergio Tardetti 2025

Foto di Pete Linforth da Pixabay



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IL PIACERE DI (FARSI) LEGGERE

di Sergio Tardetti

Di fronte a un libro un lettore non è mai solo con se stesso. C’è sempre un compagno invisibile che lo affianca, qualcuno con cui stabilire un dialogo, ancorché muto, qualcuno a cui chiedere conferma o smentita del poco che ha intuito della vita fino a quel momento. È lì, davanti a lui, che gli parla con una lingua a volte conosciuta, più spesso nuova, a volte si lascia interrogare, altre volte interroga, finché il monologo iniziale che nasce dalla voce del narratore diventa una conversazione. Ed è proprio così che nascono e fioriscono le amicizie e gli amori, continuano a durare nel tempo fino a dare frutti maturi ogni volta che il lettore riesce ad anticipare il pensiero dell’autore. E non parlo, naturalmente, di un pensiero banale o scontato, ma di qualcosa di originale, scaturito dalla mente di chi scrive e passato a quella di chi legge, perché lo faccia suo e lo usi al meglio. È un po’ quello che accade con gli amici di sempre, ogni volta sappiamo a cosa stanno pensando, tradiscono i loro pensieri attraverso piccoli indizi dai quali è facile ricostruire il tutto per chi ha una conoscenza profonda dell’altro. Così avviene tra lettore e scrittore, quella che un autore del passato chiamava “corrispondenza d’amorosi sensi”, un sentimento che può sorgere tra il lettore e l’autore presente a questo tempo, ma anche tra il lettore e chi di questo tempo ormai non fa più parte. L’autore, a qualunque epoca appartenga, coltiva il piacere di farsi leggere come si coltiva un fiore raro e prezioso che si vuole continuare a far fiorire anche in epoche future.
C’è un momento preciso in cui il lettore diventa protagonista di questa storia, quello in cui decide in merito alla scelta dell’autore e del suo libro. Spesso è amore a prima vista, piace il titolo, accattivante e sorprendente quanto basta per ammaliare, un titolo che dà da pensare o che fa pregustare future evasioni da una routine quotidiana senza sorprese né scossoni, una vita piatta, insomma, una linea continua come l’ EEG di un defunto. Lo stesso può accadere per la copertina, una grafica bene impostata capace di sollecitare l’attenzione dello sguardo aiuta ad essere scelti dal lettore curioso, che ama farsi affascinare da apparizioni improvvise, lampi nel buio che rompono la piatta uniformità di un panorama spesso fin troppo deludente. Ed è così che nascono gli innamoramenti, le folgorazioni sulla via di Damasco, le conversioni nei confronti di temi dei quali fino a quel momento non si era nemmeno voluto sentire parlare. Per il lettore il “non mi piace” è soltanto un’impuntatura temporanea, un’antipatia nata per qualche fortuito accidente – una giornata storta, un affare andato male, un amore non corrisposto – ma che è destinata a dissolversi nel tempo. Sarà sufficiente che le circostanze sfavorevoli cambino di segno – una giornata felice, un affare andato in porto, un sorriso apparso sul volto dell’amata – per cambiare parere anche in merito a certe letture fino a quel momento non particolarmente gradite. La lettura è e resta un piacere che non può che crescere nel tempo.


© Sergio Tardetti 2025

La Foto è di felix_w da Pixabay

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Nel Giorno della Memoria…

di Sergio Tardetti

CANCELLO

Oltre questo cancello c’è la vita
Oltre questo cancello c’è la morte
Entrare o uscire non è indifferente
Cambia le vite e la storia, cambiano
Le coscienze degli uomini indolenti
L’umanità non va oltre quella soglia
Resta dentro, al di fuori disumani
Quelli che ci somigliano e si fingono
Sconcertati o sorpresi. Come è stato
Possibile, si chiedono, e perché
Dove eravate quando ci hanno preso?
Dove eravate quando ci hanno ucciso?
Non potevate non sapere, dopotutto
Abitavamo accanto a voi, possibile
Che non vi siate mai chiesti: dove sono?

© Sergio Tardetti

L’immagine è di Dnalor_01, opera propria, (CC-BY-SA 3.0) da Wikimedia Commons 

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UN PAESE PER SOLI GIOVANI

Fonte: pixabay


di Sergio Tardetti

Se un paese per soli giovani esistesse, quello sarebbe senz’altro il paese della Poesia. Non è di certo un paese per vecchi, perché la poesia richiede energie fisiche, oltre che mentali, perché possa diventare davvero una professione, così come, in generale, si può pensarlo della scrittura. Chi ha molto vissuto potrà ricavare dalla sua esperienza motivi e situazioni da stendere in prosa o tradurre in versi, ma resta poi sempre aperto il problema di farli conoscere a un pubblico più o meno nutrito. E qui, giunti a questo punto, si tratta di partecipare a reading e organizzare presentazioni un po’ ovunque, girando per la provincia, per la regione e per il resto del paese. Impresa davvero epica, quando si raggiunge una certa età, specialmente poi se il caldo e l’afa dominano incontrastati per gran parte della stagione migliore. Il poeta – e lo scrittore in generale – si deve fare promotore di se stesso, ma anche e soprattutto della poesia, se vuole dare davvero un senso a quello che scrive e al tempo che gli dedica. Da qui la necessità, e perfino l’urgenza, di mantenersi perfettamente integri, perché girare di villa in villa è fisicamente spossante e anche economicamente poco redditizio, specialmente se si confronta il ricavato con la spesa, come sa bene ogni buon contabile, anche quello che si occupa di quotidiana economia domestica. In ogni caso questo proporsi al pubblico, specialmente in giovane età, deve essere visto come un investimento per il futuro, senza però dimenticare che bisogna anche trovare il tempo per produrre quello che si vuole proporre al pubblico, altrimenti non ha senso proporre né proporsi.
Così, il paese della Poesia è sempre più affollato di giovani, che scalpitano perché venga riconosciuto il loro valore. C’è, poi, tutta una categoria di scrittori che hanno iniziato a scrivere per pubblicare in tarda età, perché – a domanda rispondono – prima dovevano lavorare, vale a dire dedicarsi a procurare il pane quotidiano per sé e per la famiglia. Una volta raggiunta l’agognata quiescenza, mettono da parte ogni tentazione di tornare al travaglio usato e prendono in mano la penna o cominciano a digitare sulla tastiera del computer per dare forma e corpo ai sogni, ai ricordi e alle pulsioni giovanili. Senza fare i conti con la realtà, che domanda un corrispettivo economico al tempo dedicato allo scrivere, solo perché ormai in pensione e quindi al riparo da problematici vuoti alle proprie finanze o nelle proprie tasche. Resta il fatto che i tanti, troppi testi originati dalla continua frequentazione con la Musa giacciono inerti e polverosi in qualche cassetto o in qualche cartella del computer, in attesa di essere rivelati, di essere messi a confronto con un pubblico che possa almeno decretarne la leggibilità o l’insuccesso. Che “carmina non dant panem” lo ammetteva anche il vecchio Orazio, e lo imparano a proprie spese anche i tanti orazi di quest’epoca arida, sordida e malpensante, che nemmeno una dose massiccia di poesia potrebbe rendere appena accettabile.
Forse è per questo che sempre meno giovani e sempre più anziani si danno alla poesia, consapevoli i primi dell’inutilità di voler cambiare il mondo a colpi di endecasillabi e di versi liberi, i secondi, ormai incamminati sul viale del tramonto, per trattenere nelle parole di quei versi quel tanto o quel poco del tempo trascorso, perché possano accettare meno dolorosamente l’idea di essere vissuti, o di avere vissuto. Una confessione “in limine”, sulla soglia tra l’oltre e il qui e ora, che, se non varrà a procurarsi l’effimera gloria di uno dei tanti premi assegnati dai troppi concorsi, spuntati ovunque come funghi, servirà almeno a liberarsi da fardelli che da troppo tempo gravano sulle spalle e sulla coscienza dei folgorati sulla via del Parnaso. Intanto, si continua a versificare, in attesa del giudizio più severo, quello del Tempo, che, con buona pace della folla degli scriventi e pubblicanti, dirà l’ultima parola sui vari testi che vengono proposti a getto continuo, con la segreta speranza di centrare il bersaglio grosso, quello dei premi di prima categoria, universalmente riconosciuti come segnacolo del raggiunto successo. Ma il confronto più aspro resta sempre quello con sé stessi, specialmente per i più scettici e tormentati, convinti sempre che tanto scrivere non valga infine nemmeno il prezzo della carta e degli alberi abbattuti per produrla. Resta perennemente accesa una speranza, quella di un incontro con uno sconosciuto che, al solo sentirti nominare il tuo luogo di provenienza, azzardi a chiederti se per caso tu conosca il tale “autore”, del quale arriverà perfino a recitarti alcuni versi, che inevitabilmente potrai finire per riconoscere come tuoi. Ma questo accade in quel genere di sogno dal quale è sempre previsto l’inevitabile obbligatorio risveglio

© Sergio Tardetti 2024


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ALLA SVOLTA

di Sergio Tardetti

Quando arrivi a una svolta, la sola cosa che puoi fare è svoltare. Non puoi tirare dritto, ignorandola, perché presto o tardi finirai per pentirtene. A volte non puoi nemmeno farlo, al massimo puoi saltare l’incrocio senza fermarti e senza riflettere, ma essendo consapevole di farlo a tuo rischio e pericolo. La vita è piena di incroci ignorati o, peggio ancora, saltati, di occasioni per poter svoltare che non sono state colte, anzi, sono state semplicemente tralasciate. Tutto perché tirare dritto è sempre più facile e più comodo che svoltare. La strada che hai davanti, quella che stai percorrendo, ti sembra sempre ampia, liscia, bene illuminata. Potresti arrivare a scorgere fin quasi al suo termine, monotona quanto basta, ma comoda. Perché, allora, abbandonarla? Quando arrivi alla svolta, invece, riesci a intravedere a malapena un brevissimo tratto della nuova strada che ti troverai a percorrere, se e quando svolterai. Sembra sempre una strada buia, stretta, disagevole, spesso in salita. Chi te lo fa fare, allora, di abbandonare quella comoda che hai percorso fino a quel momento, per lanciarti in un sentiero che potrebbe riservare anche amare sorprese?
Ad ogni svolta, chissà perché, torna sempre in mente la figura di un personaggio mitico, quell’Ulisse che di svolte deve averne incontrate e conosciute tante, perfino troppe, se per coprire quel breve tratto di strada – o meglio, di mare – che lo avrebbe riportato a casa ci ha impiegato ben dieci anni. E alla fine, stando almeno ai bene informati, una volta tornato a casa – o forse, chissà, non doveva nemmeno esserci tornato! – ha deciso di riprendere il mare, continuando ancora a svoltare. E, una volta in mare aperto, cosa ha fatto? Anziché tirare dritto, ha preferito svoltare a sinistra – senza nessun riferimento politico, sia chiaro! In ogni caso sarebbe stato sempre e soltanto mare, una distesa d’acqua senza confini e senza segnali, senza incroci e senza svolte consigliate o obbligate. E a lui sì che le cose non sono andate bene, se il suo viaggio è terminato contro una montagna! Ma, forse, sapeva già che, anche tornando a casa, il viaggio sarebbe terminato contro un’altra montagna, la montagna di problemi che si sarebbe trovato ad affrontare nella vita di tutti i giorni in famiglia e a capo di quel regno, piccolo sì, ma litigioso da morire. Insomma, ci sono occasioni in cui svoltare ha un senso e aiuta persino a salvare la vita – o a salvarsi dalla vita – e ce ne sono altre in cui, invece, conviene tirare dritto. E noi, come disse Amatore Sciesa mentre veniva condotto al patibolo, siamo quelli che “tiremm innanz!”
© Sergio Tardetti 2024
La foto è di Niklas Jeromin da Pexels

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