Sergio Tardetti

ORE DICIASSETTE

di Sergio Tardetti

Tratto dalla raccolta (ancora assolutamente inedita) “VENTIQUATTRO ORE”…

Ora infelice, le diciassette, pur nella sua felicità, perché è a quest’ora che quasi tutte le attività cessano, soprattutto per chi lavora in un ufficio come dipendente. L’ora che segna il distacco tra lavoro e riposo, tra l’essere e il non-essere. Difficile, a dire il vero, stabilire quale tra lavoro e riposo sia l’essere e quale invece il non-essere. C’è chi vorrà affermare che per lui – opinione del tutto soggettiva, questo tiene a precisare! – l’essere è il lavoro e il non-essere il riposo. C’è poi chi si affannerà a sostenere il contrario, con buona pace di chi vorrebbe che in questo mondo tutto sia chiaro, semplice, univoco e definitivo, vale a dire esattamente identico a quello che desidera lui. L’umanità, al crepuscolo, si presenta come un ammasso indifferenziato di anonimi, il cui unico desiderio sembrerebbe quello di poter tornare a casa e confondersi finalmente con gli umori, colori e silenzi delle proprie quattro stanze (anche due, e perfino un monolocale, potrebbero comunque andare bene allo scopo). Ma per ogni buona intenzione c’è sempre un ostacolo che si frappone, e, come sempre, l’ostacolo ha un nome preciso e una altrettanto precisa consistenza fisica, stavolta si chiama traffico. Che è poi, dopotutto, l’analogo, seppure inverso, della mattina, quando si è dovuto percorrere il tragitto casa-lavoro, incontrando altrettanto traffico, essendovi completamente immersi con timore e tremore. Timore per la fondata preoccupazione di non arrivare in orario a marcare il virtuale cartellino, che attesta, con la precisione al centesimo di secondo, l’ingresso nel luogo di lavoro. Tremore, perché quella sosta acuisce il dolore dell’abbandono del proprio tetto e la nostalgia di quelle quattro stanze – a volte anche due e perfino, in casi estremi, un monolocale – nelle quali si trascorre quella parte della giornata che si è sempre incerti a definire se migliore o peggiore.
Intanto, le diciassette bussano alla porta del giorno, chiedendo di entrare, e già in ogni stanza di ogni luogo di lavoro si procede con le manovre di chiusura. Si chiude la cartellina aperta sulla scrivania fin dalle prime ore della giornata, che racchiude pagine e pagine di un noioso verbale che attende da giorni di essere completato, e che anche oggi dovrà accontentarsi di vedersi aggiunte un paio di pagine, poche forse, ma essenziali per arrivare alla fine. Si chiude il computer che almeno un paio di volte ha deciso di fare di testa sua, impallandosi e poi resettandosi, facendo perdere tanto di quel tempo e tanto di quel lavoro non salvato da evocare l’intervento di un esorcista, per cercare almeno di domare gli spiriti ribelli che, sicuramente, devono essersi insediati all’interno di quella macchina infernale. Si dà, infine, un’ultima occhiata intorno, per verificare che tutto sia esattamente in ordine come è stato trovato all’arrivo in quella mattina, infine si spegne la luce. All’uscita, ecco i soliti capannelli di colleghi che si attardano per le solite quattro chiacchiere, per il consueto scambio di osservazioni e pettegolezzi, magari dirigendosi a passi lenti verso il primo locale nei dintorni disponibile a fornirli di aperitivi. Anche se si è attesi presso le proprie abitazioni, l’aperitivo non può e non deve mancare, del resto nessuno vorrebbe rinunciare a quel minimo di socializzazione, tanto per non dover venire escluso dal novero dei confidenti, quelli ai quali si raccontano le ultime novità – leggi pettegolezzi – raccolte nei corridoi e nei bagni dell’azienda, durante le brevi soste quotidiane per necessità fisiologiche più o meno impellenti.
Chi sta con chi, chi ha lasciato chi, chi ha intenzione di mettersi con chi, dunque, argomenti di scottante attualità che vanno subito distribuiti equamente tra i presenti che, naturalmente, non appartengono alla categoria degli spettegolati. Almeno non in quel capannello di gente, magari in un altro, magari in quello accanto, dove si sta ridendo di qualcuno, magari di qualcuno di loro. È così che sembra sia andato sempre il mondo, forse già dall’epoca in cui gli uomini vivevano nelle caverne, perché anche allora, una volta provveduto alle necessità primarie, di tempo a disposizione ce ne doveva essere più che a sufficienza. E, quasi certamente, anche lì, giù a spettegolare, magari senza aperitivo, ma con qualcosa da mettere sotto i denti, una costoletta di mammut, una noce di cocco dalla corteccia a prova di molare, insomma qualcosa con cui tenere la bocca impegnata tra una risata e un’altra, tra un fonema nuovo di zecca e un altro. Infine, anche il rituale dell’aperitivo ha termine, oppure, come capita a volte, può prolungarsi in un apericena, ma solo se non si è attesi presso la propria abitazione, o, quanto meno, si sono avvertiti i propri familiari a tempo debito per quel ritardo aggiuntivo o per quella mancata presenza intorno alla tavola apparecchiata. Intanto le diciassette sono scivolate via in silenzio, tra una risata e l’altra, fra un brindisi e l’altro, ma anche fra un insulto e l’altro, scambiato con chi all’improvviso ti si para davanti tagliandoti la strada, solo perché, ad un tratto, si è ricordato di dover svoltare per qualche commissione che gli era quasi passata di mente. Alla frenesia sul posto di lavoro adesso fa da controcanto la frenesia lungo la strada del ritorno, con in più una stanchezza sulle spalle che si vorrebbe tanto posare sul familiare divano di casa. Ancora qualche chilometro da percorrere e poi anche quest’ultimo desiderio verrà soddisfatto, si ritroveranno le comode pantofole domestiche per le quali verranno immediatamente rimosse le scarpe eleganti che hanno stretto come in una morsa i piedi per l’intera giornata. È la felicità delle piccole cose che prende il posto della malinconia che ci siamo trascinati dietro per tutta la mattina e per gran parte del pomeriggio, perché ad un tratto, senza neppure rendercene conto, torniamo a godere di quella libertà che si conquista solamente tra le mura della propria casa. Quella che potremmo chiamare la libertà di essere sé stessi.
 
© Sergio Tardetti 2024

La foto è tratta da pixabay

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NOTTETEMPO

NOTTETEMPO di Carlo Alessio Cozzolino – Editore Bertoni Collana Aurora a cura di Bruno Mohorovich

recensione di Sergio TARDETTI

Carlo Alessio Cozzolino è uno di quegli scrittori le cui opere appartengono a buon diritto al genere “da meditazione”, testi poetici i cui versi vanno assaporati, concedendosi tutto il tempo e la calma necessari a degustarli a fondo. Occorre, infatti, riuscire ad introiettarli, ad accoglierli in sé e a farli propri fino all’ultima sillaba per poterli gustare a pieno, come avviene per un raffinato liquore o per un ottimo vino di annata. Ed è tale la capacità di far rilassare il lettore, estraniandolo dal mondo che lo circonda, che se ne consiglia la lettura a tutti quelli che sono afferrati, trascinati e consumati dalla frenesia del vivere quotidiano e corrono continuamente il rischio di smarrirsi dentro un turbine di eventi. Dei versi di Carlo Alessio si fa apprezzare particolarmente la “levigatezza”, una caratteristica che rinvia alla poesia della classicità greca, quando le parole di Alcmane e Saffo sembravano scolpite nel candore del marmo pario. Amanti anche loro della serenità delle ore notturne, da contrapporre alla frenesia delle ore diurne, in cui ognuno sembra vagare senza meta in cerca di qualcosa di indefinito e indefinibile. In questa raccolta, dall’emblematico titolo “Nottetempo”, si avverte spesso la sensazione che il poeta tenda a voler scomparire, a nascondersi dietro ai propri versi, per lasciare al lettore campo completamente libero nell’assaporare sensazioni trasmesse attraverso componimenti tanto brevi quanto efficaci. “Giudica tu”, sembra volergli dire, perché il poeta è quasi sempre un essere schivo, al punto da voler mascherare la propria fisicità dietro le parole. Ed è attraverso l’accorta e calibrata scelta delle parole che avviene il passaggio dal mondo materico all’immateriale, dalla realtà alla poesia, che sempre più spesso non è altro che la propria realtà trasfigurata. Si avverte, nel corso della lettura, anche un riflesso sonoro di altri generi di componimenti brevi, come gli haiku giapponesi, con il loro minimalismo, talmente denso che, a volte, sembrano voler concentrare in sé un intero universo. Come in una implosione dell’essere che raggrumi l’energia vitale, per poi poterla sprigionare durante la lettura.

Carlo Alessio CozzolinoNottetempo. Bertonieditore, 2024 

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LA QUINTA DIMENSIONE

E’ in uscita presso l’editore Bertoni una pregevole raccolta poetica, autrice Simona Chiesi, dal titolo “Diorami notturni”. Ne ho curato la pubblicazione nella mia collana “Emergenze” e ne ho scritto la prefazione…

LA QUINTA DIMENSIONE – prefazione

Ogni volta che prendiamo in mano un libro, per aprirlo e iniziarne la lettura, avvertiamo in noi prepotente l’aspettativa di volerne essere sorpresi. Sorpresi dalle parole che ci avviamo a leggere, sorpresi dalla sapiente abilità con la quale l’autore/ autrice si impegna a combinare quelle parole per rappresentare situazioni, descrivere sensazioni, suscitare emozioni che non dimenticheremo facilmente, una volta giunti all’ultima pagina, perfino a distanza di tempo. La raccolta poetica di Simona Chiesi, “Diorami notturni”, riesce ad andare ben oltre queste attese, proiettandoci in una dimensione che si aggiunge alle quattro classiche dello spazio-tempo. È quella che definisco la “quinta dimensione”: la dimensione “poetica”. Libera e non dipendente dal qui e ora, al di là e al di fuori di questi parametri, è una dimensione costituita di sensazioni, di voli fantastici tesi ad inseguire i pensieri e ad inoltrarsi nelle profondità dell’infinito. Tutto quello che è dotato di una qualche fisicità scompare lentamente, si dissolve, svapora, fino a sublimarsi, disperdendosi oltre una muraglia fatta di parole che rimandano a suoni, i quali, a loro volta, rimandano a immagini, sogni e visioni. È l’insormontabile muraglia di montaliana memoria, “che in cima ha cocci aguzzi di bottiglia”, quella che noi seguiamo, costeggiando un territorio invisibile del quale proviamo a immaginare geografia e consistenza attraverso fonemi che appartengono ad un linguaggio comune.

Quello che viene percepito e appare ai nostri sensi, nella dimensione dello spazio-tempo, non è che una rappresentazione – una delle tante possibili – della quale ci serviamo per dare corpo e forma alla dimensione ideale che riusciamo a raggiungere attraverso l’Arte, in particolare attraverso la poesia. È in questo modo che avviene la “sublimazione” del significante, operazione questa che ne amplifica il significato e la potenza espressiva. Così avviene l’elevazione della parola, che consente di prendere le distanze dall’immanente, per riuscire ad aprirsi un varco nella siepe oltre la quale si immagina la presenza dell’infinito, con la mente rivolta verso il trascendente che a volte, tramite la potenza evocativa delle parole, riusciamo persino a percepire. Impossibile non sentirsene attratti, coinvolti e quasi ammaliati, con il costante desiderio di andare oltre una forma letteraria costruita con parole sceltissime e giungere al nucleo – o meglio, al cuore – della poesia passando, come Alice di Lewis Carroll, attraverso lo specchio.

È a questo punto che facciamo il nostro ingresso nel gioco della “fruizione” del testo poetico, del come e perché avvicinarsi a un testo che richiede la nostra attenta e continua partecipazione. Possiamo scoprire, leggendo, che una poesia parla di noi, avvertiamo la sua vicinanza nel sentircene rappresentati, talvolta perfino ritratti, ma più spesso ci limitiamo soltanto a vederci riflessi in lei, come se si trattasse di uno specchio per la nostra anima. L’invito che rivolgo al lettore è quello verso una “fruizione attiva”, l’incoraggiamento ad “attraversare lo specchio”, per ritrovarsi in un mondo del quale siamo parte da sempre, entrare nella dimensione poetica, per l’appunto. Tutto questo con l’obiettivo di “comprendere” la poesia, non certo di “capirla”, operazione quest’ultima priva di senso e di scopo, limitata spesse volte ad una mera parafrasi del testo. “Comprendere” la poesia equivale, in un certo qual modo, a stringerla in un abbraccio e a farsi abbracciare da lei, per lasciarsi emozionare dalle sensazioni che è capace di suscitare nell’anima, più che raccogliere gli stimoli che dovrebbero raggiungere la mente. Tutto questo, e molto altro, accade nel corso della lettura di “Diorami notturni”, raccolta poetica di rara fascinazione. Un lettore appassionato ed attento può sperimentarlo pagina dopo pagina, verso dopo verso, come ad esempio quelli che rivelano il senso del titolo della raccolta. Il misterioso e fascinoso titolo trova la sua esplicitazione nei versi di una poesia “Diorami”: Inutili costruzioni/ di una irrealtà latente/ che non avrà il sopravvento/ su quella prepotente e vera./ Vivono notturni,/ Vibratili, evanescenti.

Nei versi di Simona Chiesi predomina la frequente e attenta riflessione sull’essere e sul divenire, il voler mettere alla prova la consistenza e la ricchezza di una lingua che si trova a dover esprimere profondi stati d’animo e originali punti di vista sulla realtà. Testi ricchissimi di un lessico prezioso, elegante e a tratti ricercato, per quanti cercano, attraverso un personale muto dialogo con la poesia, di scavare a fondo nella propria anima, per interrogarla e chiederle conforto sulla propria visione della realtà e del mondo. Il fare, l’agire, l’attualizzare quella affermazione di padre David Turoldo, secondo la quale “poesia è rifare il mondo” sembrano gli stimoli, gli spiriti guida che danno impulso e vitalità alla scrittura della autrice, che sollecita il lettore, affermando: “basta non restare nel limbo/ ad attendere indicazioni/ e indugiare arresi.” Si avverte costante la tensione di una ricerca della perfezione, dell’incastro ben connesso, che possa far ammettere che lì e soltanto lì poteva trovare collocazione quella parola o quella frase; è trasparente la ricerca di un lessico personale che mira a prendere le distanze da un frasario quotidiano, frammisto di ovvietà replicate all’infinito e di rinuncia a qualsiasi forma di dubbio. Istintivo corre, d’altra parte, anche il richiamo al verso montaliano “Non chiederci la parola…”. I limiti della poesia, i confini in cui opera e agisce, sembrano tracciati e definiti, anche se, passo dopo passo e metro dopo metro, il suo territorio, grazie all’azione dei poeti, è in continua espansione. Forse, fra le tante parole delle quali è intessuta la raccolta, ognuno potrà trovare quella che va cercando, magari l’unica e la sola che possa motivarlo a cercare una personale ragione di continuare a resistere ogni giorno agli attacchi dell’esistenza. Una poesia-approdo, una poesia che possa salvarci dagli inevitabili naufragi ai quali possiamo andare incontro nel corso della vita. Una poesia, insomma, alla quale poter fare continuo ricorso nelle proprie letture, per raccogliere preziose forme di alchemiche trasformazioni dei propri sentimenti in parole di velate verità.

Simona Chiesi – Diorami notturni. Bertoni editore, 2024

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ORE CINQUE

Tratto da “VENTIQUATTRO ORE”, raccolta inedita di racconti brevi, a volte brevissimi…

Insonnia, Taccuino Sanitatis (ritaglio)

di Sergio Tardetti

Eccomi ancora qui! È già la terza volta che mi sveglio e sono costretto ad alzarmi, per andare… in bagno, naturalmente! Quando si raggiunge – e a volte, addirittura, si supera – una certa età, ecco che si può finalmente godere di qualche privilegio. Per esempio… Per esempio? A dire il vero, in questo momento non me ne viene in mente nessuno, avrei voluto dire “poter disporre liberamente del proprio tempo”, ma vedo che la strada che conduce alla dimostrazione di questa affermazione è lunga e irta di ostacoli. Chi potrebbe affermare, infatti, di poter disporre liberamente del proprio tempo? E dimostrarlo, per giunta? Forse alle cinque di mattina, quando anche gli altri sono impegnati in qualche sonno profondo, o impigliati nella rete di un sogno assurdo, dalla quale non riescono a districarsi, allora potrebbe essere anche probabile che lascino agli altri la possibilità di poter disporre liberamente del proprio tempo. Ma solo fino al risveglio, perché, da quel momento in poi, il loro tempo sarà a disposizione degli altri. E se c’è qualcuno disposto a smentirmi, che si faccia pure avanti! Ma, per tornare all’elenco dei privilegi concessi dall’avanzare degli anni, direi che uno di questi è non avere orari che vincolano la giornata. Per esempio, puoi essere in piedi già alle cinque di mattina, anche senza una motivazione precisa. Ormai per te non è più quel tempo e quell’età in cui avevi forti e pressanti motivazioni per essere in piedi a ore improprie – come le chiamavi allora – ormai ti svegli, ti alzi, e basta.

Naturalmente, facendo attenzione a non svegliare gli altri, quelli che vivono con te nella casa, o, peggio ancora, i vicini – giovani, beati loro! – che tra poco dovranno alzarsi davvero per andare al lavoro. Cercherai di muoverti con la massima cautela, per evitare che qualche rumore improvviso li svegli; e allora sai benissimo che qualche parola fuori luogo, rivolta al vicino insonne, potrebbe uscire fuori anche da quelle loro bocche, di solito sempre vocate al sorriso. È capitato un po’ a tutti, in quella fase che segue immediatamente il risveglio, di avere pensieri piuttosto violenti nei confronti del prossimo, non tanto per un prossimo specifico, ma così, in generale. Perfino per quel prossimo mai conosciuto, che non ti ha mai fatto niente, eppure in quel momento preciso ti si propone come un nemico da combattere e da abbattere. Le cinque del mattino ridestano in ciascuno di noi gli istinti primordiali, di quando ancora si riteneva che ogni uomo fosse un lupo per un altro uomo. A quest’ora è piuttosto facile essere aggressivi, soprattutto se si è trascorso il resto della nottata in un aggirarsi insonne tra le stanze di casa. I motivi? Anche qui possono essere i più disparati, ma il più comune è certamente un pensiero che si è insediato nella mente al momento di coricarsi e non ne è venuto più fuori. Non necessariamente un pensiero importante, ne basta uno qualunque, ad esempio dover chiamare l’idraulico il giorno dopo per un rubinetto o uno scarico che perde.

Conosciamo tutti per esperienza quanto possa dare da pensare la necessità di chiamare un idraulico, che di solito non ha mai tempo da dedicare a te, sempre così oberato di altri impegni. E, se per caso si rende disponibile, allora sì che cominci a pensare seriamente. E a preoccuparti, come è naturale. Prima di tutto per il conto che ti presenterà, e anche per la lunga lista di difetti che sembra presentare il tuo impianto idraulico, quello che a prima vista sembrava perfettamente funzionante. Non sai che le normative cambiano di anno in anno? E che una corretta manutenzione ti farà risparmiare spese future e, soprattutto, futuri problemi? Alla richiesta di un preventivo, sai già che l’idraulico scuoterà la testa, impossibile farne uno come si deve senza prima aver potuto visionare l’intero impianto. Sotto quel fuoco di fila di future domande e future spese, la tua mente difficilmente sarà capace di abbandonarsi al sonno. E allora non ti resta che continuare ad andare avanti e indietro, fra la camera da letto e il bagno, e ritorno, in attesa che arrivino le sei e con loro la luce di un nuovo giorno. A quel punto, come per un incantesimo al contrario, l’idraulico con i suoi conti, i suoi preventivi e le sue minacce di dover rifare l’impianto ex novo, si dissolveranno insieme alle foschie mattutine, all’apparire del primo raggio di sole. Intanto, però, sono ancora poco più delle cinque e per l’incantesimo che fa sparire gli idraulici c’è ancora molto da aspettare. Così non resta che rimettersi a letto e sperare di non doversi alzare di nuovo per qualche impellente necessità, anche se è vero che è impossibile fare pronostici su questi argomenti.

Non hai saputo da un po’ di tempo che noi siamo fatti essenzialmente di acqua? E, dunque, ne hai ancora a sufficienza per tornare a percorrere l’itinerario letto-bagno e ritorno almeno per tre o quattro volte, prima che sia ora di alzarsi. Ma poi, alla fine, questo idraulico bisognerà chiamarlo davvero, o proverai tu stesso a riparare il guasto? Sei ancora impegnato nel dover decidere sul da farsi, quando, ecco, di nuovo lo stimolo ad andare in bagno. Che nottataccia! Stavolta devi avere fatto più rumore del solito, perché ecco che nella tua stanza si accende una piccola luce, la torcia del cellulare, che sta ormai soppiantando la vecchia lampada sempre presente sul comodino accanto al tuo letto. “Che succede?”, chiede una voce impastata dal sonno. “Niente, niente. Dormi…”, rispondi sottovoce, perché non vorresti svegliare qualcun altro, magari il vicino o la vicina di casa, che potrebbe essere insonne a sua volta. Ti è sembrato, in effetti, di sentire i passi di qualcuno andare e venire da una stanza all’altra – nelle nuove abitazioni antisismiche i suoni si trasmettono facilmente, perfino amplificati da questo silenzio, raggiunto grazie ai nuovi vetri termicamente e acusticamente isolanti. E certamente, anche il tuo viavai non sarà sfuggito al vicino o alla vicina, a cui sfuggirà un sorriso di magra consolazione, al pensiero di qualcuno che condivide la stessa sorte. L’insonnia, madre di tutti i vizi e di tutte le virtù, regna sull’umanità persa nel tentativo di chiudere gli occhi, almeno fino al sopraggiungere delle prime luci dell’alba.

© Sergio Tardetti 2024

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VENERDÌ

di Sergio Tardetti

Mai e poi mai avrei potuto credere, nel corso della mia quasi dimenticata adolescenza, che il venerdì avrebbe finito per assumere nel tempo un’importanza così capitale. Ci sono voluti anni, a dire il vero, prima che il venerdì diventasse il Venerdì, con tanto di maiuscola. Ai tempi in cui ero un ragazzo, il venerdì era semplicemente il giorno che precedeva il sabato, un giorno come tutti gli altri, differente soltanto per certe pratiche quaresimali alle quali non avevamo l’abitudine di sottoporci in famiglia, vale a dire digiuno e astinenza dalle carni. Ma, mentre il digiuno era un rischio che poteva capitare di correre, a volte perfino una necessità, quando si aveva poco o anche niente da mettere in tavola, praticare l’astinenza dalle carni era impossibile. “Non di solo pane vive l’uomo”, infieriva in quel giorno il predicatore dall’alto del pulpito, tenendosi piuttosto distante dal bordo, impedito nell’accostarsi da un giro vita di tutto riguardo. Difatti, non doveva vivere di solo pane, ma anche di qualche abbondante gustoso companatico, che pure non nominava mai. Pane sì, tanto, companatico mai. A noi sarebbe bastato, e perfino avanzato, quel pane che veniva acquistato in modeste quantità per tutta la famiglia e terminava nel giro di un paio d’ore, assaggiato, sgranocchiato, masticato, trangugiato, consumato in ogni forma e modalità. Quanto al companatico, alla fine si cadeva sempre sulla carne, non certo di alta qualità e di prima scelta, ad esempio zampe di pollo e spuntature di ali di pollo, quelle che la cuoca del ristorante accanto scartava, perché non presentabili ai clienti.

Confesso che quel ristorante con i suoi scarti, nobilitati dall’arte culinaria di mia madre, ha salvato spesso il pranzo e la cena, soprattutto il venerdì. Come avrà fatto il venerdì a diventare Venerdì? È successo tutto da quando la gente ha scoperto che, con un’opportuna e differente organizzazione del lavoro, si poteva lasciare il sabato libero. Così è accaduto che il Venerdì sia diventato “di sette il più gradito giorno”, soppiantando quel sabato che aveva mantenuto per secoli la sua egemonia sopra tutti i fratelli della settimana. È nelle serate e nelle notti del Venerdì che si sfoga tutta la frustrazione repressa di chi è costretto spesso ad accontentarsi di un lavoro e di uno stipendio, che considera assolutamente inadeguati alle sue capacità e al suo titolo di studio. Così, nelle serate del venerdì si consuma il sacro rito dell’apericena, un qualcosa a metà strada tra l’aperitivo – quello, però, è previsto per tutti i giorni – e la cena, leggera per lo più, perché il piatto piange e il borsellino langue. L’apericena, con ulteriori rinforzi di bevande nel giro obbligato dei locali della movida, innesca poi comportamenti che definire trasgressivi è un eufemismo. È questo, dunque, “di sette il più gradito giorno”? Sicuramente lo è per l’inventore dell’apericena e per tutti coloro che si sono dedicati a coltivare questa passione, vuoi per piacere personale, vuoi per interesse economico, essendo i ricavi dell’apericena parte sostanziosa e integrante del bilancio della propria attività commerciale. A volte capita di domandarmi come abbiamo fatto noi cosiddetti boomers – noi nati e cresciuti negli anni ‘50 e ‘60 del 1900 – a sopravvivere fino a questi giorni senza la pratica ossessiva-compulsiva dell’apericena.

Che dire? Non se ne avvertiva la mancanza, specialmente nelle piccole città, nelle quali l’unico locale aperto dopo le ventitré era spesso il bar della stazione – là dove c’era una stazione ferroviaria, naturalmente. Il venerdì, in fondo, non era che un altro giorno della settimana, un giorno lavorativo che preludeva al sabato, anch’esso giorno lavorativo, l’unico a poter aspirare al riconoscimento di “più gradito” tra i sette giorni. “Le cose cambiano”, mi ha detto il barista quando gli ho chiesto quale, secondo lui, fosse il giorno più gradito dei sette. E ci ha tenuto a precisare che cambiano a seconda delle stagioni, delle mode e delle disponibilità economiche. C’è stato un tempo, infatti, in cui era impossibile distinguere tra i sette quale fosse il più gradito e se, in effetti, ce ne fosse uno in particolare. Tutti, senza alcuna distinzione, risultavano graditi, anzi graditissimi, almeno fino a quando le disponibilità economiche permettevano di potersi gratificare tutte le sere, rendendo ciascun giorno unico e insuperabile. Salvo poi superarlo con il giorno successivo, facendolo diventare il nuovo “più gradito” dei sette, e così via, fino alla fine della settimana. Oggi, però, come direbbe, non senza rimpianto, qualcuno, il mondo è cambiato. Ce ne accorgiamo da come spendiamo il nostro tempo, perché, in effetti, mai come oggi il tempo è diventato denaro. Ma, mi capita spesso di chiedermi, lo spendiamo o lo sprechiamo? Non ho mai osato rivolgere questa domanda agli altri, nessuno vorrebbe mai ammettere di stare sprecando il proprio tempo. Eppure, il dubbio resiste e insiste a proporsi con incredibile frequenza. E, quello del venerdì, sarà tempo speso o sprecato? Senza dover rinviare ai posteri l’ardua sentenza, gli interrogati, specialmente quelli più dotati di spirito, affermeranno che, piuttosto, tempo sprecato è il tuo che continui ad arrovellarti con simili domande e che non hai ancora capito che questa vita va attraversata ad occhi chiusi. Che dire? Quando si ha il vizio assurdo di porsi domande, è poi difficile smettere, sai già che continuerai a interrogarti fino all’ultimo istante, anche se le eventuali risposte non cambieranno il mondo, ma forse aiuteranno a rendere più sopportabile la tua vita.

© Sergio Tardetti 2024
Foto di di Rachel Claire da Pexels

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