Sergio Tardetti

ISOLE BIOGRAFICHE

di Sergio Tardetti

Se non fosse per l’evidente scarto temporale che li separa, si direbbe che Marc Chagall abbia tratto ispirazione dalle poesie di Antonella Coletti per dipingere i suoi quadri. Entrare in questo libro è quasi voler smarrire le nozioni di tempo e di spazio, per assumere quelle di eternità e di infinito. Quella che traspare dai versi è la stessa atmosfera visionaria di fissità instabile e onirica che si ammira nei dipinti di Chagall. È la compiuta soddisfazione di un desiderio travolgente quella che propone la raccolta “Isole biografiche”, il desiderio di evadere da questa dimensione, nella quale ci sentiamo costretti e prigionieri, per immergerci in quella immaginata dall’autrice, che, avvertendo tutta la freddezza di questo mondo, cerca in qualche modo di allontanarsene, fosse pure per il tempo di una poesia. La scrittura sembra avvolgere il lettore in un abbraccio caldo, accarezzarlo quasi a volerlo consolare delle tristezze e delle miserie di una realtà che, spesso, non dà scampo né offre vie di fuga a chi, invece, vorrebbe immergersi profondamente nel sogno, per ritrovare la serenità smarrita della propria anima.
Le parole riversate sulla pagina ci lasciano temporaneamente sospesi tra la fantasia e la realtà, una realtà trasfigurata, rappresentata con termini che riusciamo a visualizzare attraverso immagini dai caldi colori pastello. A tutto questo si accompagna sinesteticamente l’armoniosa musicalità dei versi, realizzata mediante la sonorità attenta e accurata di parole opportunamente accostate ad altre, per amplificarne il potere di suggestione. Ci sentiamo, così, travolti in una danza che vorremmo non avesse più fine, neppure quando, all’ultimo verso, all’ultima parola, la musica si attenua e infine tace. Ma il ricordo di quelle emozioni, suscitate dalla lettura, perdura in noi per un tempo indefinito, risultato di una perfetta sintesi di forma e contenuto, realizzata con versi liberati da schemi metrici tradizionali, che obbediscono solamente alla musicalità interiore dell’autrice.
Quando un’autrice non pubblica più da tempo – ma certamente continua a scrivere, perché scrivere, per chi ama farlo, è una potente tentazione (la tentazione di esistere, direbbe Cioran) – la sua assenza si avverte fortemente, sotto forma di un vuoto che deve essere decisamente colmato. La sua poesia si fa necessaria, come terapia contro i malesseri e i malumori dell’esistenza. Dei versi di Antonella Coletti, pur condivisi di tanto in tanto da lei nella sua bacheca Facebook, si avverte fortemente la mancanza e si fa più sentita la necessità di una raccolta organica e organizzata. Sarà magari un semplice effetto placebo quello che se ne ricava, più che un farmaco contro la malinconia e l’inerzia dell’esistenza, ma la consolazione che avvertiamo leggendoli vale la pena di più di un tentativo di sollecito appello al suo ritorno a pubblicare.

© Sergio Tardetti 2024

Antonella Coletti – Isole biografiche. Bertoni editore, 2019

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UNA RONDINE NON FA PRIMAVERA

di Sergio Tardetti

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

Dopo avere sostenuto per centinaia di anni che “Una rondine non fa primavera”, vale a dire l’impossibilità di generalizzare, di trarre conclusioni certe da un’unica isolata occorrenza di un qualunque evento, abbiamo deciso di cambiare. Adesso persino nessuna rondine fa primavera, o piuttosto una rondine immaginaria o immaginata, che abbiamo creduto di avere visto o che, addirittura, altri hanno creduto di avere visto per noi. Dove è andata a finire l’antica saggezza, che era sempre accompagnata da un’antica cautela, qualcosa di tommasiana memoria? “Non credo se non vedo”, diceva l’apostolo, a chi veniva ad annunciargli la resurrezione di Gesù. A questo fa da contraltare l’ipse dixit riferito ad Aristotele, con il quale la Chiesa chiudeva ogni discussione in fatto di tentativi di far nascere dubbi nella mente del popolo. Il sole gira intorno alla terra? Ipse dixit. E al rogo chi osa affermare il contrario! Ne sanno qualcosa Giordano Bruno e Galileo che con quell’ipse dixit hanno dovuto fare i conti, anche se a Galileo alla fine è andata un po’ meglio. Oggi l’ipse dixit è ormai sepolto sotto montagne di evidenze scientifiche – e sia sempre lode a Galileo e al suo metodo di indagine, oltre che a Cartesio, per il suo “dubitans cogito” – e soltanto i grandi e potenti mezzi di comunicazione di massa, altrimenti detti media, sono in grado di seminare certezze, laddove i dubbi dovrebbero farla da padroni. Una rondine, va detto, continua a non fare primavera, tranne per quanti sono facili a lasciarsi suggestionare dal desiderio di primavera ad ogni costo. E che, purtroppo, sembrano essere molti di più di quanti si possa immaginare. Ad avvalersi di questa capacità di lasciarsi abbindolare facilmente oggi non è più la Chiesa, ma la politica, quella meschina, con la p minuscola, essa stessa minuscola e in estrema malafede. Caro elettore, dice la politica, quello che farò per te sarà un vero e proprio miracolo. E qui si apre il lungo elenco dei possibili “miracoli”, anche questi minuscoli, ma enunciati con parole che parlano direttamente alla pancia e al portafoglio del cittadino-elettore. Intanto, quella primavera che attendiamo con ansia è ben lungi dall’arrivare, nonostante l’ottimismo gramsciano della volontà. Ma, forse, è sempre andata così, è stato sempre il pessimismo della ragione a prevalere, consigliandoci di accontentarci anche di una mezza rondine e perfino di una mezza primavera.

© Sergio Tardetti 2024

Foto di Kev da Pixabay

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COME ERAVAMO

recensione del libro “CORREVA L’ANNO…” di Marco SaioniFabrizio Fabbri Editore

di Sergio Tardetti

A lettura ormai ultimata, mi è corso non soltanto l’obbligo, ma anche il piacere, di dedicare qualche mia riflessione al volume “Correva l’anno…”, di Marco Saioni, autore dalla penna acuta, arguta ed elegante, oltre che caro amico di lunghissima data. “Autore” è per lui un titolo decisamente meritato sul campo, da intendersi nel significato letterale del termine, come di colui capace, attraverso i suoi scritti e le sue opere in generale, di accrescere non solo la nostra conoscenza ma anche la nostra capacità di osservare e comprendere il mondo che ci circonda. E, aggiungo io, con una modalità di comunicazione decisamente gradevole e accattivante, tanto alla prima lettura quanto alle successive riletture dei testi. Attraverso le rivisitazioni di cronache del passato, Marco ha la capacità di riportarci indietro nel tempo, riconducendoci ai giorni in cui quei fatti, commentati oltre che narrati, avvennero. Fonti d’ispirazione di questi brevi racconti si ricavano dalla lettura – e originale rilettura – di avvenimenti che, quasi certamente, non troveranno collocazione nelle pagine della grande Storia, quella fatta di luoghi, nomi e date altisonanti, ma concorreranno a darle forma e corpo attraverso la narrazione di piccole storie, incentrate sui personaggi che hanno reso celebre e leggendaria la città di Perugia.

Attraverso le pagine di questo libro vengono rievocate figure celebri, eternate anche nei nomi delle vie e piazze cittadine, accanto a personaggi di umili origini, popolani le cui gesta e i cui nomi, spesso anche soprannomi, sono diventati proverbiali, dando origine a consolidati modi di dire, radicati nel gergo cittadino. Ma l’operazione che l’autore compie, a partire dai testi originari, è di natura ancora più complessa, avviene attraverso un lavoro che potremmo definire “di restauro”, o meglio ancora “di restyling”, attualizzando e riportando alla luce, mediante una scrittura stilisticamente elegante e decisamente personale, eventi opacizzati e consumati dal continuo lavorio del trascorrere del tempo. Racconti brevi ed essenziali, che ho centellinato come un ottimo brandy, immaginandomi accanto al caminetto acceso in una fredda sera invernale o sul terrazzo, in un tiepido tardo pomeriggio, al tramonto del sole. Storie di vita vissuta che vanno assaporate poco alla volta, a piccole dosi – appena due o tre “Correva l’anno…” di tanto in tanto -per non fare terminare troppo in fretta il piacere che si ricava da queste letture. Cronache quotidiane del tramonto di un’epoca in cui la città era più viva e vitale, raccontate con parole che non invitano alla nostalgia, quanto, piuttosto, alla consapevolezza del proprio passato e delle proprie radici.
Nei testi che compongono il volume, Marco ha frequentemente profuso a piene mani, come perle e gemme rare incastonate in un tessuto artisticamente ricamato, molti riferimenti culturali, originati dalle sue letture ed esperienze di vita – posso affermarlo senza tema di essere smentito, avendo anch’io in gran parte condiviso quelle stesse esperienze – ed è possibile ad un abile e attento lettore ricavare da ciascuna pagina citazioni, suggestioni e modi di dire propri della vita di un’intera epoca, quella a partire dagli anni ‘60 ad oggi. A questo proposito, sarebbe interessante stimolare l’attenzione dei lettori, proponendo un gioco, il cui premio sarebbe la soddisfazione di esserci riusciti, quello di individuare nelle righe e tra le righe dei testi i frequenti riferimenti alla “cultura” di quell’epoca alla quale si è accennato. Personalmente, ne ho trovati moltissimi, ma conoscendo l’autore fin troppo bene per lunga frequentazione, avendone condiviso interessi, esperienze e momenti di vita, mi autoescludo dalla partecipazione. Ai lettori, invece, rinvio la sfida in questo gioco alla ricerca della cultura, dell’identità e del tempo perduti. E che vinca… il più accorto!

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ORE DICIASSETTE

di Sergio Tardetti

Tratto dalla raccolta (ancora assolutamente inedita) “VENTIQUATTRO ORE”…

Ora infelice, le diciassette, pur nella sua felicità, perché è a quest’ora che quasi tutte le attività cessano, soprattutto per chi lavora in un ufficio come dipendente. L’ora che segna il distacco tra lavoro e riposo, tra l’essere e il non-essere. Difficile, a dire il vero, stabilire quale tra lavoro e riposo sia l’essere e quale invece il non-essere. C’è chi vorrà affermare che per lui – opinione del tutto soggettiva, questo tiene a precisare! – l’essere è il lavoro e il non-essere il riposo. C’è poi chi si affannerà a sostenere il contrario, con buona pace di chi vorrebbe che in questo mondo tutto sia chiaro, semplice, univoco e definitivo, vale a dire esattamente identico a quello che desidera lui. L’umanità, al crepuscolo, si presenta come un ammasso indifferenziato di anonimi, il cui unico desiderio sembrerebbe quello di poter tornare a casa e confondersi finalmente con gli umori, colori e silenzi delle proprie quattro stanze (anche due, e perfino un monolocale, potrebbero comunque andare bene allo scopo). Ma per ogni buona intenzione c’è sempre un ostacolo che si frappone, e, come sempre, l’ostacolo ha un nome preciso e una altrettanto precisa consistenza fisica, stavolta si chiama traffico. Che è poi, dopotutto, l’analogo, seppure inverso, della mattina, quando si è dovuto percorrere il tragitto casa-lavoro, incontrando altrettanto traffico, essendovi completamente immersi con timore e tremore. Timore per la fondata preoccupazione di non arrivare in orario a marcare il virtuale cartellino, che attesta, con la precisione al centesimo di secondo, l’ingresso nel luogo di lavoro. Tremore, perché quella sosta acuisce il dolore dell’abbandono del proprio tetto e la nostalgia di quelle quattro stanze – a volte anche due e perfino, in casi estremi, un monolocale – nelle quali si trascorre quella parte della giornata che si è sempre incerti a definire se migliore o peggiore.
Intanto, le diciassette bussano alla porta del giorno, chiedendo di entrare, e già in ogni stanza di ogni luogo di lavoro si procede con le manovre di chiusura. Si chiude la cartellina aperta sulla scrivania fin dalle prime ore della giornata, che racchiude pagine e pagine di un noioso verbale che attende da giorni di essere completato, e che anche oggi dovrà accontentarsi di vedersi aggiunte un paio di pagine, poche forse, ma essenziali per arrivare alla fine. Si chiude il computer che almeno un paio di volte ha deciso di fare di testa sua, impallandosi e poi resettandosi, facendo perdere tanto di quel tempo e tanto di quel lavoro non salvato da evocare l’intervento di un esorcista, per cercare almeno di domare gli spiriti ribelli che, sicuramente, devono essersi insediati all’interno di quella macchina infernale. Si dà, infine, un’ultima occhiata intorno, per verificare che tutto sia esattamente in ordine come è stato trovato all’arrivo in quella mattina, infine si spegne la luce. All’uscita, ecco i soliti capannelli di colleghi che si attardano per le solite quattro chiacchiere, per il consueto scambio di osservazioni e pettegolezzi, magari dirigendosi a passi lenti verso il primo locale nei dintorni disponibile a fornirli di aperitivi. Anche se si è attesi presso le proprie abitazioni, l’aperitivo non può e non deve mancare, del resto nessuno vorrebbe rinunciare a quel minimo di socializzazione, tanto per non dover venire escluso dal novero dei confidenti, quelli ai quali si raccontano le ultime novità – leggi pettegolezzi – raccolte nei corridoi e nei bagni dell’azienda, durante le brevi soste quotidiane per necessità fisiologiche più o meno impellenti.
Chi sta con chi, chi ha lasciato chi, chi ha intenzione di mettersi con chi, dunque, argomenti di scottante attualità che vanno subito distribuiti equamente tra i presenti che, naturalmente, non appartengono alla categoria degli spettegolati. Almeno non in quel capannello di gente, magari in un altro, magari in quello accanto, dove si sta ridendo di qualcuno, magari di qualcuno di loro. È così che sembra sia andato sempre il mondo, forse già dall’epoca in cui gli uomini vivevano nelle caverne, perché anche allora, una volta provveduto alle necessità primarie, di tempo a disposizione ce ne doveva essere più che a sufficienza. E, quasi certamente, anche lì, giù a spettegolare, magari senza aperitivo, ma con qualcosa da mettere sotto i denti, una costoletta di mammut, una noce di cocco dalla corteccia a prova di molare, insomma qualcosa con cui tenere la bocca impegnata tra una risata e un’altra, tra un fonema nuovo di zecca e un altro. Infine, anche il rituale dell’aperitivo ha termine, oppure, come capita a volte, può prolungarsi in un apericena, ma solo se non si è attesi presso la propria abitazione, o, quanto meno, si sono avvertiti i propri familiari a tempo debito per quel ritardo aggiuntivo o per quella mancata presenza intorno alla tavola apparecchiata. Intanto le diciassette sono scivolate via in silenzio, tra una risata e l’altra, fra un brindisi e l’altro, ma anche fra un insulto e l’altro, scambiato con chi all’improvviso ti si para davanti tagliandoti la strada, solo perché, ad un tratto, si è ricordato di dover svoltare per qualche commissione che gli era quasi passata di mente. Alla frenesia sul posto di lavoro adesso fa da controcanto la frenesia lungo la strada del ritorno, con in più una stanchezza sulle spalle che si vorrebbe tanto posare sul familiare divano di casa. Ancora qualche chilometro da percorrere e poi anche quest’ultimo desiderio verrà soddisfatto, si ritroveranno le comode pantofole domestiche per le quali verranno immediatamente rimosse le scarpe eleganti che hanno stretto come in una morsa i piedi per l’intera giornata. È la felicità delle piccole cose che prende il posto della malinconia che ci siamo trascinati dietro per tutta la mattina e per gran parte del pomeriggio, perché ad un tratto, senza neppure rendercene conto, torniamo a godere di quella libertà che si conquista solamente tra le mura della propria casa. Quella che potremmo chiamare la libertà di essere sé stessi.
 
© Sergio Tardetti 2024

La foto è tratta da pixabay

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NOTTETEMPO

NOTTETEMPO di Carlo Alessio Cozzolino – Editore Bertoni Collana Aurora a cura di Bruno Mohorovich

recensione di Sergio TARDETTI

Carlo Alessio Cozzolino è uno di quegli scrittori le cui opere appartengono a buon diritto al genere “da meditazione”, testi poetici i cui versi vanno assaporati, concedendosi tutto il tempo e la calma necessari a degustarli a fondo. Occorre, infatti, riuscire ad introiettarli, ad accoglierli in sé e a farli propri fino all’ultima sillaba per poterli gustare a pieno, come avviene per un raffinato liquore o per un ottimo vino di annata. Ed è tale la capacità di far rilassare il lettore, estraniandolo dal mondo che lo circonda, che se ne consiglia la lettura a tutti quelli che sono afferrati, trascinati e consumati dalla frenesia del vivere quotidiano e corrono continuamente il rischio di smarrirsi dentro un turbine di eventi. Dei versi di Carlo Alessio si fa apprezzare particolarmente la “levigatezza”, una caratteristica che rinvia alla poesia della classicità greca, quando le parole di Alcmane e Saffo sembravano scolpite nel candore del marmo pario. Amanti anche loro della serenità delle ore notturne, da contrapporre alla frenesia delle ore diurne, in cui ognuno sembra vagare senza meta in cerca di qualcosa di indefinito e indefinibile. In questa raccolta, dall’emblematico titolo “Nottetempo”, si avverte spesso la sensazione che il poeta tenda a voler scomparire, a nascondersi dietro ai propri versi, per lasciare al lettore campo completamente libero nell’assaporare sensazioni trasmesse attraverso componimenti tanto brevi quanto efficaci. “Giudica tu”, sembra volergli dire, perché il poeta è quasi sempre un essere schivo, al punto da voler mascherare la propria fisicità dietro le parole. Ed è attraverso l’accorta e calibrata scelta delle parole che avviene il passaggio dal mondo materico all’immateriale, dalla realtà alla poesia, che sempre più spesso non è altro che la propria realtà trasfigurata. Si avverte, nel corso della lettura, anche un riflesso sonoro di altri generi di componimenti brevi, come gli haiku giapponesi, con il loro minimalismo, talmente denso che, a volte, sembrano voler concentrare in sé un intero universo. Come in una implosione dell’essere che raggrumi l’energia vitale, per poi poterla sprigionare durante la lettura.

Carlo Alessio CozzolinoNottetempo. Bertonieditore, 2024 

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