Sergio Tardetti

ORE DIECI

di Sergio Tardetti

Chi sarà che chiama a quest’ora? Perché, almeno questo è sicuro, qualcuno sta chiamando, e perfino con una certa insistenza. Ho ignorato, finora, gli squilli del telefono, dieci per l’esattezza, ma costui – o costei? – insiste nel non desistere e, dunque, allora dovrò decidermi, se sia il caso di rispondere o no. Da come insiste, si direbbe qualcosa di importante, ma oggi tutti sono convinti che quello che hanno da dirti sia qualcosa di importante. Qualcuno arriva a usare addirittura “importantissimo”, e, si sa, non c’è niente di più falso di un superlativo, forse solo un avverbio può superarlo in falsità. Allora, mi decido? O, magari, rispondendo, mi trovo in mezzo a un’altra grana? E sì che di questi tempi me ne capitano e me ne sono capitate, e un’altra in più non mi servirebbe, decisamente no. L’ultima, per esempio, me la sono proprio cercata e, guarda caso, rispondendo al telefono. Com’è andata? È presto detto: ho accettato di entrare in un certo affare, che adesso preferisco non nominare, per correttezza verso chi me lo ha proposto. Intanto, però, il telefono ha smesso di squillare, forse sono salvo. Almeno per ora, forse. Vediamo un po’ se riesco a rilassarmi – cinque minuti, non chiedo di più, vi prego! – sì, cinque minuti, ne ho proprio bisogno. Sto per mettere la parola fine a un nuovo racconto, mancano, forse, al più, una decina di righe e poi l’opera sarà compiuta. Intendiamoci, niente di così prezioso e di così fondamentale importanza per la storia della letteratura e per la mia personale. Però, devo ammettere che ci tengo. Ci tengo perché, infine, questo sarebbe il primo racconto che porto a termine e che, una volta concluso, potrò infilare nel solito cassetto, in attesa di tempi migliori. Intanto, il telefono ha ripreso a squillare, ma, a voler essere sincero, non ho proprio alcuna voglia di rispondere.
Provo a concentrarmi sull’ultima frase del testo, per riprendere il filo del discorso interrotto. Se almeno questo maledetto telefono la smettesse! Ecco che, come se mi avesse letto nel pensiero, ad un tratto, tutto tace. Finalmente, che liberazione! Adesso posso tornare alla frase che avevo lasciato a metà. Una bella frase, non c’è che dire, parole curate, contate, pesate e misurate, tutto dentro la mia testa, lucidate perfino, perché risaltino maggiormente, una volta adagiate sulla pagina. Parole fresche, non certo nuovissime, ma, insomma, nemmeno troppo abusate o consumate. Qualcuna, forse, arrugginita dal modestissimo uso che se ne fa al giorno d’oggi, ma pur sempre valida per esprimere quello che sento attraversare la mente, quel pensiero che continua a non darmi tregua. Eccolo di nuovo! Credevo di essermi liberato dall’incubo e dal fastidio di questo telefono che squilla, ma… Niente! Rispondere, forse, sarà il caso? Più il telefono squilla, più il fastidio cresce, più mi intestardisco nell’idea di non rispondere. Che aspetti, chiunque sia, che si arrangi, che faccia e decida come meglio crede! Chi sarà, poi? Certo, la curiosità di conoscere l’identità del seccatore – ma potrebbe trattarsi anche di una seccatrice, non lo escluderei a priori – aumenta di squillo in squillo, ma la volontà di non risponde va ancora ben oltre il fastidio. Ancora, dico, perché magari, tra poco, oppure anche subito, prenderò la comunicazione, se non altro per fare smettere questo insistente e fastidioso squillare. Difatti, quasi a voler materializzare il pensiero, accetto la conversazione con il più banale e asettico dei “pronto”, e mi preparo a respingere qualunque tentativo di dialogo. Ho già in mente le parole da pronunciare, nel caso in cui  si tratti di un call center o di un venditore petulante: “Il signore che lei cerca è morto, io sono un parente. Sono qui per la veglia funebre”.
Sono curioso di ascoltare la reazione del mio interlocutore – o della mia interlocutrice, visto che non ne conosco l’identità. Devo solo stare attento a condurre il gioco con la dovuta attenzione, per non farmi smascherare subito. “Giacomo!”, urla la voce nel telefono, una voce di donna entusiasta, per la quale non posso certo essere morto, perché mi ha riconosciuto. “Angelica!”, rispondo a mia volta urlando, dimostrando così di averla riconosciuta, senza che si sia dovuta annunciare ulteriormente. Per Angelica potrei mandare al diavolo un’intera frase ben fatta, anzi un’intera pagina e perfino un intero capitolo. Insomma, è chiaro, Angelica merita queste e altre attenzioni. Stupisco soltanto per il fatto che mi abbia chiamato; da come ci eravamo lasciati l’ultima volta sembrava che ormai non avessimo più niente altro da dirci. Con tutto quello che ne può conseguire, dopotutto in tre anni di incontri i nostri rapporti non si sono certo limitati a semplici conversazioni. Adesso dovrei subito stupirla con una parola, una frase, insomma, qualcosa di particolarmente intelligente, come si aspetta da me; invece, me ne resto in silenzio, in attesa di capire, o anche soltanto intuire, le sue intenzioni. Perché, se mi ha chiamato, un motivo, vero e anche serio, deve pur esserci. “Angelica…”, mi limito a mormorare nel telefono. “Giacomo, che succede? Ti sento strano”. Angelica fa spesso così, le capita di “sentire strani” molti dei suoi amici o conoscenti, che, a loro volta, sono fermamente convinti che la “strana” sia piuttosto lei. Angelica è una persona apprensiva, sempre in ansia più per gli altri che per se stessa, perché, a voler essere un po’ psicologi, Angelica senza gli altri si sente perduta. Sarà forse per questo che mi ha chiamato? Allora questo sarebbe il modo peggiore di continuare una giornata iniziata sotto una stella rassicurante. Di stelle simili, a dire il vero, non ne sono apparse ormai da tempo nel mio cielo, così vanno a volte le cose in certi periodi della vita.
Spesso ci si deve accontentare di stelle semplicemente tranquille, e perfino ringraziare di averle ottenute. Angelica non è quella che si potrebbe definire una “stella” tranquilla, con tutti i suoi dubbi e il suo pesante carico di perché, con cui è capace di assillarti per ore e ore e perfino svegliarti alle tre di notte, perché un dubbio o un perché non la fa dormire. Stavolta sembra che si sia convinta ad allineare i suoi orari con quelli del resto dell’umanità – o, per lo meno, di una gran parte, me compreso – dopotutto, un dubbio o un perché alle dieci di mattina possono essere anche ammessi e concessi. Difatti, come sospettavo, l’esordio è da dubbio o da perché. “Secondo te…”, si premura di precisare Angelica, e già in questa premessa c’è l’anticipo del senso della domanda, che non tarda ad arrivare. “Secondo te… è giusto quello che mi hanno detto?”. Ecco, è lei, è proprio lei, la riconosco, nel preciso istante in cui formula una domanda che potrebbe riferirsi a qualunque argomento, dalle tecniche di dissalazione dell’acqua di mare ai tempi di cottura di legumi di vario tipo. Perché è proprio questo che Angelica pensa di me, che io sappia tutto, anche se ho tentato più volte di spiegarle che quello che so lo so, e quello che non so non lo so. Ma, magari, mi informo, se vuoi, se hai tempo e soprattutto pazienza di attendere. Dovrei procedere a formulare qualche domanda di approfondimento, tipo “a cosa ti riferisci?” oppure “cosa ti hanno detto?”, ma so che, a questo punto, mi troverei costretto ad inoltrarmi in un ginepraio di domande e risposte dal quale potrei venirne fuori dopo svariate ore. Angelica è fatta così, di angelico spesso ha soltanto il nome, il resto è decisamente diabolico. Con lei ho coltivato l’arte di aspettare, perché so che alla prima domanda segue sempre una seconda, e spesso anche una terza. Così aspetto, prendo tempo, in attesa di poterne sapere di più, sperando anche che tutto si sgonfi come una bolla di sapone. A volte, se si incappa nella giornata fortunata, con Angelica può capitare.
Al mio silenzio, però, stavolta segue altro silenzio da parte di lei, evidentemente è convinta che la sua domanda possa essere più che sufficiente ad inquadrare l’argomento. Per evitare la fine prematura di questa improbabile conversazione, conviene a questo punto che mi armi di santa pazienza e mi riscuota dall’improvviso fastidio che mi ha assalito. “Domanda… insisti… approfondisci”, mi dico, preparandomi a mettere in campo l’inevitabile domanda. “Cosa ti hanno detto?”. Mai domanda potrebbe sembrare più banale o più ovvia, ma neppure più necessaria, dopotutto un chiarimento qualunque, uno scendere in ulteriori dettagli necessita. Provo a fare il giro largo, prima di arrivare al punto. “Non saprei… Forse è la stessa cosa che hanno detto a me?”. “Impossibile che te l’abbiano detta, ti riguarda!”. “Cioè? Spiegati meglio!”. “Ma sì, insomma… Sai, quella faccenda che…”. “Potresti essere un po’ più precisa?”. “Dai, che hai capito benissimo!”. Qui, però, si rischia di andare avanti alla cieca, e chissà per quanto tempo, occorre un diversivo. “Scusami, scusami Angelica, mi stanno chiamando sul fisso!”. “Va bene, ci sentiamo più tardi”. “D’accordo”, chiudo rapidamente la conversazione. Salvo anche questa volta. Però, bisogna che stia un po’ più attento quando rispondo. Intanto mi segno che questo è il numero di Angelica. Il resto… si vedrà! 

© Sergio Tardetti


La foto è di Alejandro Escamilla da Wikimedia

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DICIAMO COSÌ


di Sergio Tardetti

Del resto, cos’altro ci sarebbe da dire, soprattutto quando non sai cosa dire? Diciamo così, ripetuto e intercalato fino alla nausea, per frammentare e sostenere il discorso nei momenti di vuoto spazio–temporale, in attesa che il treno dei pensieri si rimetta in corsa e che i vagoni delle parole riprendano a sfilare con il loro carico di idee e sentimenti da condurre a destinazione. Diciamo così. Ma cosa vorremmo dire, in realtà? Perché è proprio questo che non sappiamo fare, dire il pensiero giusto al momento giusto, l’idea che si è accesa in noi e dalla quale ci sentiamo animati e illuminati, ma che deve combattere contro la nebulosità delle parole, l’asprezza della grammatica e della sintassi, l’ineluttabile incostanza della retorica. E poi, quei vuoti, le improvvise e impreviste dimenticanze, che ci lasciano sospesi in un limbo, dal quale vorremmo uscire, ma solo dopo che quello che abbiamo dimenticato si sarà riaffacciato alla mente. Capita, un po’ tutti i giorni, nei momenti più imprevedibili, conosciamo la tal cosa o la talaltra, ma, come d’incanto, nel preciso istante in cui dovrebbe essere pronta a mostrarsi, d’improvviso e misteriosamente scompare. Tornerà, prima o poi, ne siamo certi, ma quando la sua utilità sarà divenuta pressoché nulla.

Tornerà solo per una nostra piccola soddisfazione personale, per dimostrare a noi stessi che, in fondo, non siamo così decrepiti né così malmessi e che possiamo ancora essere in grado di ricordare. Diciamo così, allora. E, quando lo diciamo, proviamo la stessa insoddisfazione che doveva provare Cristoforo Colombo al termine di ogni giorno di navigazione, quando, affacciandosi dalla murata per scrutare l’orizzonte, non vedeva altro che mare. Perché in fondo, anche noi stiamo avanzando verso l’ignoto, convinti che prima o poi approderemo da qualche parte con quel nostro discorso farneticante e farraginoso. “Diciamo così” è il respiro profondo che prendiamo prima di immergerci in apnea negli abissi della mente, con il solo scopo di riacciuffare una parola che stava affondando e provare almeno a riportarla a galla. Diciamo così, confidando nella buona sorte e nella temporanea possibile sordità dell’altro, il nostro provvisorio interlocutore, e che la divinità che presiede alle conversazioni possa mandarcela buona!

© Sergio Tardetti 2025


Nell’immagine esposizione mondiale a Chicago: Fac-simile delle tre caravelle di Colombo (xilografia) di autore sconosciuto. Wikimedia Commons

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ORE DICIOTTO


di Sergio Tardetti

La campana della Chiesa Madre ha un suono più allegro del solito stasera. La gente del piccolo borgo è accorsa a frotte, vestita degli abiti migliori, come se andasse ad una festa. E festa sarà davvero, sempre che i protagonisti si decidano ad arrivare. L’attesa è iniziata ormai da più di un’ora, e un’altra ancora manca all’istante in cui l’evento, così tanto a lungo evocato, accadrà, finalmente. Giorni e giorni, ore e ore di preparativi, di prove, di correzioni di piccoli impercettibili errori, che solo ai protagonisti sono apparsi tali al momento. E, finalmente, il visto, il si proceda, l’imprimatur sono stati concessi da entrambe le parti, dai numerosi e non sempre richiesti supervisori, che hanno voluto dire la loro in merito all’evento, alle sue dinamiche e alle sue varie fasi. Sono intervenute, innanzi tutto, le madri, future consuocere, sempre in lizza per definire la supremazia del rispettivo figlio o figlia nella gerarchia familiare, considerando come sempre in queste situazioni il loro parere “vincolante”, una condizione – anzi, una serie di condizioni – senza la quale – e senza le quali. Insomma, basta, va da sé, ci siamo capiti. Chi non si è capito sono state proprio loro, le amiche-rivali, che si sono fronteggiate per giorni e giorni, a volte per settimane e mesi, una volta rese edotte della tanto attesa notizia – Ci sposiamo! – a colpi di “questo sì, quest’altro no, questo forse, quest’altro è impossibile!”. Fino allo sfinimento, fino alla necessaria discesa in campo dei consorti, che, fino a quel momento, avevano osservato dall’alto della loro esperienza l’evoluzione delle schermaglie, sfociate infine in aperti combattimenti, tra le di loro coniugi.

Ad imporre per primo la tregua – armata, ma pur sempre tregua – era stato il signor Orlando, che aveva tuonato un baritonale “Adesso basta!”, alle ennesime rimostranze che la di lui legittima consorte, signora Franca, gli aveva sottoposto tra una portata e l’altra del pranzo domenicale. Assenti i “ragazzi”, strategicamente defilatisi per una sana boccata di aria marina, la signora Franca aveva potuto finalmente dare libero sfogo a tutta la sequela di ripicche con le quali, a suo dire, la futura consuocera l’aveva tormentata e torturata fino a quel momento, negandole persino la facoltà di esporre, civilmente s’intende, il suo parere in merito all’organizzazione dell’intera cerimonia. E dire che lei, la consuocera, si era permessa di dare consigli sul come disporre i posti a tavola al banchetto nuziale. E, sulla torta, aveva potuto dire qualcosa lei? Sulla torta, per mantenere la pace familiare, era stato opportuno tacere. Anche se. Anche se di parole da aggiungere al già detto la signora Franca ne avrebbe avute e ne aveva ancora, in abbondanza, perfino in sovrabbondanza. E tutte quelle parole, trattenute a stento, pro bono pacis, s’intende, le avevano provocato un mezzo travaso di bile che, insomma. Basta. “Basta” lo aveva detto anche il signor Orlando, sempre con quella bella voce baritonale impostata, perché lui cantava nel coro della chiesa, e peccato che nel giorno della cerimonia non avrebbe potuto farlo, impegnato ovviamente in tutt’altro ruolo. E lo aveva fatto notare, tutto questo, alla signora Franca, le aveva fatto notare a cosa avrebbe dovuto rinunciare anche lui nell’occasione.

E che, dunque, lei la smettesse di fare i capricci per una torta sulla quale avrebbero dovuto decidere, in fondo, soltanto gli sposi. Ed era stato allora che la signora Franca si era temporaneamente azzittita, ma dentro di sé continuava a ribollire come un vulcano prossimo all’eruzione. Ma, tornando a noi e al presente, un improvviso ondeggiare della folla, radunata sulla piccola piazza antistante la chiesa, segnala l’arrivo di qualcuno di importante ai fini della riuscita della cerimonia. Si tratta forse dello sposo? Impossibile, ancora troppo presto per poterne ammirare l’arrivo, la discesa dalla macchina condotta dal fidatissimo amico Gianriccardo, l’elegante ascesa dei pochi gradini che conducono al portone della chiesa, spalancato come deve essere nell’occasione. Il tutto in una salva di applausi e di auguri che sembrano rendere ancora più leggero ed elastico il passo dello sposo. A proposito, si chiama Andrea, lo sposo. Ma non è lui a destare l’interesse della folla, si tratta invece di una ragazza elegantissima – amica della sposa, prontamente riconosciuta come tale da alcuni e subito conosciuta e ammirata anche dal resto degli spettatori. Ma anche amica dello sposo, mormora qualcuno dei presenti, amica “particolare” spettegola qualcun altro, evidentemente bene informato, perché sono davvero in pochi a conoscere i dettagli di una breve relazione che ha tenuto legati Angelica – la nostra invitata in arrivo – e Andrea, come già detto, lo sposo. Le cose, però, finiscono sempre per andare come devono andare, mai come vorremmo che andassero, noi semplici spettatori di vicende nelle quali l’unico coinvolgimento avviene attraverso le decine di pareri non richiesti, che ci permettiamo di sottoporre alla attenzione di chi di dovere. Che poi, alla fin fine, decide sempre secondo la propria volontà, o almeno così dovrebbe accadere, di solito.

Così è stato, infatti, per Andrea, quando si è trovato a dover scegliere la futura compagna della sua vita, senza dare ascolto alle voci che lo avrebbero voluto vincolato per l’eternità ad Angelica. A risolvere la questione ci ha pensato Gianriccardo, che ha trovato campo libero per far conoscere ad Angelica le sue intenzioni – difatti si sposeranno di lì a un mese, al ritorno dal viaggio di nozze degli sposi del giorno. La vita è scontata? La vita è monotona? Chi può dirlo? Intanto, mentre tentiamo di sciogliere la serie ininterrotta di interrogativi che si propongono alla mente in questa situazione, sta facendo il suo ingresso nella piazza antistante la chiesa l’auto della sposa. La cerimonia vera e propria, a questo punto, può avere inizio e, difatti, già lo sposo ha raggiunto la sua postazione, già il padre della sposa è sceso dall’auto per aprire lo sportello alla propria figlia e darle il braccio. Un sorriso soddisfatto gli sta affiorando alle labbra, quel genere di sorriso che equivale a un “finalmente” rassicurante e consolante, ormai è fatta e adesso non si torna più indietro. Attento, adesso, a non inciampare su qualcuno dei cinque gradini che conducono all’ingresso vero e proprio della chiesa. Del resto, non sarebbe la prima volta che accadono episodi del genere, sicuramente non di buon auspicio per l’esito della cerimonia e del matrimonio nel suo complesso. Ricorda ancora, il padre della sposa, quando qualcosa di simile accadde in occasione del suo matrimonio, al padre della sposa di allora, sua attuale consorte, a suo suocero, insomma, e ci vollero settimane e mesi per assorbire i malumori legati a quell’insignificante incidente e a quel tanto di ridicolo che ne era conseguito.

Ma, ormai, è fatta, c’è solo da percorrere la navata e consegnare la sposa nelle mani dello sposo, mani un po’ sudaticce, per la verità, dopotutto l’emozione comincia a prendere il sopravvento. Intanto, le prime note della Marcia Nuziale si spandono nell’aria della chiesa, è il segnale, non convenuto ma universalmente riconosciuto, che dà inizio alla cerimonia.

© Sergio Tardetti 2025

L’immagine è Generata dall’IA Piaxbay

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CATASTROFISTI E POSSIBILISTI


di Sergio Tardetti

(Un eterno confronto tra chi si lascia trascinare dagli eventi e chi invece prova a fare qualcosa per cambiarli)
Da grande sarei voluto rimanere come da ragazzo, potenzialmente aperto ad ogni possibilità. Questo era, ed è rimasto tuttora, il mio più vivo desiderio. D’altra parte, tutto incoraggiava a poter mantenere questo atteggiamento positivo e propositivo, dalle parole di elogio pronunciate in ogni occasione dagli amici per il mio modo di condurmi, alle azioni compiute per mettere in pratica quello che era stato enunciato in teoria, fino agli attestati di stima e di solidarietà provenienti da ogni parte, per tutte le volte che mi mostravo disponibile al confronto con gli altri e con il futuro. Il mio possibilismo era universalmente conclamato, accompagnato ogni volta da riconoscimenti e apprezzamenti che mi invitavano a mantenere ben salda la rotta, senza deviarne minimamente, quasi fossi considerato unastella polare per la linea di condotta degli altri. Col passare del tempo, mi rendevo conto di quanta fatica cominciasse a costarmi mantenere quella rotta, continuare a rimanere possibilista, malgrado il duro quotidiano confronto con la realtà mi spingesse verso altre direzioni. Quello che accadeva intorno a me non faceva ben sperare chepotessi rimanere ancora a lungo su quella strada, ormai solo apparentemente tracciata, ma in realtà ancora tutta da tracciare. Intanto, però, i possibilisti che mi avevano accompagnato lungo quel cammino cominciavano a diradarsi, come foglie d’autunno, incalzati e sopraffatti dal turbine della realtà.
Man mano che i giorni passavano, mi accorgevo di essere sempre più isolato, perché molti avevano ceduto e si erano ritrovati a far parte della folla dei catastrofisti. “Come va?”, chiedevo di tanto in tanto a qualcuno. “Male, male! Va tutto male!”, era l’inevitabile risposta che mi giungeva. Quando, però, si trattava di entrare nei particolari, si finiva per scoprire che, infine, così male non stava andando, intanto perché, a differenza di altri che ci avevano accompagnato per un lungo tratto, noi eravamo ancora lì a poterci lamentare e a ricordare le figure e le vicende degli assenti. “Da quando mi stancai di cercare, cominciai a trovare”, mi ripetevo mentalmente come un mantra, e dovevo in effetti riconoscere che era vero. La catastrofe, nella maggior parte dei casi, nasceva proprio dalla furia della ricerca di un qualcosa che non si riusciva a trovare, pur investendo tempo e denaro, soprattutto denaro, in quella impresa. Denaro speso in serate trascorse a stordirsi con musica e alcool, sperando di riuscire ad osservare la realtà sotto un altro nuovo aspetto, oppure in lunghi ed estenuanti viaggi, per cercare di tenersi lontano da quella realtà che continuava a provocare in ciascuno un così pesante turbamento. Ogni volta che ci si riprendeva dallo stordimento o si rimetteva piede sul suolo natio, però, ritornava quella sensazione dolorosa di scoraggiamento, che continuava a far vedere un presente sconfortante e un futuro ancora più nero.
Passati i primi dieci minuti, in cui era ancora vivo e presente il disorientamento euforico, causato dal temporaneo cambiamento di stato o di luogo, ognuno riprendeva a lamentarsi della propria vita e di quel mondo che lo circondava. L’eco di quei “Male, male, va tutto male!” tornava a risuonare nell’aria come il lamento di una generazione moribonda e ormai senza più via di scampo. Che fare, a questo punto? Continuare lungo la stessa strada, sempre più soli e sempre più stanchi? O cominciare a pensare a qualche forma di cambiamento? Le litanie e i cori dei catastrofisti giungevano alle orecchie da ogni direzione, fino al punto da contagiare gli amici più stretti e persino i familiari. Quando, però, si trattava di scendere nei dettagli, specificando cos’era che andasse “Male, male, tutto male”, nessuno riusciva ad essere particolarmente preciso. Si trattava per lo più di sensazioni, forse anche del fatto che, con l’avanzare dell’età, certamente molti compagni di strada avevano cominciato a mancare, altri iniziavano a cedere, ma per il resto non c’era poi così tanto da lamentarsi. Alla fine, ci si era soltanto uniti al coro dei più, perché il ruolo del catastrofista è meno faticoso da sostenere. Al possibilista, invece, è sempre richiesto di indicare direzioni da prendere, mete da raggiungere, sapendo già egli stesso che raggiungerle sarà possibile, ma non sempre certo. A quel punto, quando la meta agognata e profetizzata non apparirà all’orizzonte, tornerà a levarsi il coro dei catastrofisti e quel “Male, male, va tutto male!” finirà per diventare l’enorme buco nero che inghiottirà al suo interno anche l’ultimo dei possibilisti.


© Sergio Tardetti 2025

Foto di Pete Linforth da Pixabay



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IL PIACERE DI (FARSI) LEGGERE

di Sergio Tardetti

Di fronte a un libro un lettore non è mai solo con se stesso. C’è sempre un compagno invisibile che lo affianca, qualcuno con cui stabilire un dialogo, ancorché muto, qualcuno a cui chiedere conferma o smentita del poco che ha intuito della vita fino a quel momento. È lì, davanti a lui, che gli parla con una lingua a volte conosciuta, più spesso nuova, a volte si lascia interrogare, altre volte interroga, finché il monologo iniziale che nasce dalla voce del narratore diventa una conversazione. Ed è proprio così che nascono e fioriscono le amicizie e gli amori, continuano a durare nel tempo fino a dare frutti maturi ogni volta che il lettore riesce ad anticipare il pensiero dell’autore. E non parlo, naturalmente, di un pensiero banale o scontato, ma di qualcosa di originale, scaturito dalla mente di chi scrive e passato a quella di chi legge, perché lo faccia suo e lo usi al meglio. È un po’ quello che accade con gli amici di sempre, ogni volta sappiamo a cosa stanno pensando, tradiscono i loro pensieri attraverso piccoli indizi dai quali è facile ricostruire il tutto per chi ha una conoscenza profonda dell’altro. Così avviene tra lettore e scrittore, quella che un autore del passato chiamava “corrispondenza d’amorosi sensi”, un sentimento che può sorgere tra il lettore e l’autore presente a questo tempo, ma anche tra il lettore e chi di questo tempo ormai non fa più parte. L’autore, a qualunque epoca appartenga, coltiva il piacere di farsi leggere come si coltiva un fiore raro e prezioso che si vuole continuare a far fiorire anche in epoche future.
C’è un momento preciso in cui il lettore diventa protagonista di questa storia, quello in cui decide in merito alla scelta dell’autore e del suo libro. Spesso è amore a prima vista, piace il titolo, accattivante e sorprendente quanto basta per ammaliare, un titolo che dà da pensare o che fa pregustare future evasioni da una routine quotidiana senza sorprese né scossoni, una vita piatta, insomma, una linea continua come l’ EEG di un defunto. Lo stesso può accadere per la copertina, una grafica bene impostata capace di sollecitare l’attenzione dello sguardo aiuta ad essere scelti dal lettore curioso, che ama farsi affascinare da apparizioni improvvise, lampi nel buio che rompono la piatta uniformità di un panorama spesso fin troppo deludente. Ed è così che nascono gli innamoramenti, le folgorazioni sulla via di Damasco, le conversioni nei confronti di temi dei quali fino a quel momento non si era nemmeno voluto sentire parlare. Per il lettore il “non mi piace” è soltanto un’impuntatura temporanea, un’antipatia nata per qualche fortuito accidente – una giornata storta, un affare andato male, un amore non corrisposto – ma che è destinata a dissolversi nel tempo. Sarà sufficiente che le circostanze sfavorevoli cambino di segno – una giornata felice, un affare andato in porto, un sorriso apparso sul volto dell’amata – per cambiare parere anche in merito a certe letture fino a quel momento non particolarmente gradite. La lettura è e resta un piacere che non può che crescere nel tempo.


© Sergio Tardetti 2025

La Foto è di felix_w da Pixabay

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